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Library:Prison Notebooks In Original Italian/Notebook 19

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Written in 1935

 QUADERNO 19


Q19 §1 Una doppia serie di ricerche. Una sull’Età del Risorgimento e una seconda sulla precedente storia che ha avuto luogo nella penisola italiana, in quanto ha creato elementi culturali che hanno avuto una ripercussione nell’Età del Risorgimento (ripercussione positiva e negativa) e continuano a operare (sia pure come dati ideologici di propaganda) anche nella vita nazionale italiana così come è stata formata dal Risorgimento. Questa seconda serie dovrebbe essere una raccolta di saggi su quelle epoche della storia europea e mondiale che hanno avuto un riflesso nella penisola. Per esempio:

1) I diversi significati che ha avuto la parola «Italia» nei diversi tempi, prendendo lo spunto dal noto saggio del prof. Carlo Cipolla (che dovrebbe essere completato e aggiornato).

2) Il periodo di storia romana che segna il passaggio dalla Repubblica all’Impero, in quanto crea la cornice generale di alcune tendenze ideologiche della futura nazione italiana. Non pare sia compreso che proprio Cesare ed Augusto in realtà modificano radicalmente la posizione relativa di Roma e della penisola nell’equilibrio del mondo classico, togliendo all’Italia l’egemonia «territoriale» e trasferendo la funzione egemonica a una classe «imperiale» cioè supernazionale. Se è vero che Cesare continua e conclude il movimento democratico dei Gracchi, di Mario, di Catilina, è anche vero che Cesare vince in quanto il problema, che per i Gracchi, per Mario, per Catilina si poneva come problema da risolversi nella penisola, a Roma, per Cesare si pone nella cornice di tutto l’impero, di cui la penisola è una parte e Roma la capitale «burocratica»; e ciò anche solo fino a un certo punto. Questo nesso storico è della massima importanza per la storia della penisola e di Roma, poiché è l’inizio del processo di «snazionalizzazione» di Roma e della penisola e del suo diventare un «terreno cosmopolitico». L’aristocrazia romana, che aveva, nei modi e coi mezzi adeguati ai tempi, unificato la penisola e creato una base di sviluppo nazionale, è soverchiata dalle forze imperiali e dai problemi che essa stessa ha suscitato: il nodo storico‑politico viene sciolto da Cesare con la spada e si inizia un’epoca nuova, in cui l’Oriente ha un peso talmente grande che finisce per soverchiare l’Occidente e portare a una frattura tra le due parti dell’Impero.

3) Medio Evo o Età dei Comuni, in cui si costituiscono molecolarmente i nuovi gruppi sociali cittadini, senza che il processo raggiunga la fase più alta di maturazione come in Francia, in Ispagna ecc.

4) Età del mercantilismo e delle monarchie assolute che appunto in Italia ha manifestazioni di scarsa portata nazionale perché la penisola è sotto l’influsso straniero, mentre nelle grandi nazioni europee i nuovi gruppi sociali cittadini, inserendosi potentemente nella struttura statale a tendenza unitaria, rinvigoriscono la struttura stessa e l’unitarismo, introducono un nuovo equilibrio nelle forze sociali e si creano le condizioni di uno sviluppo rapidamente progressivo.

Questi saggi devono essere concepiti per un pubblico determinato, col fine di distruggere concezioni antiquate, scolastiche, retoriche, assorbite passivamente per le idee diffuse in un dato ambiente di cultura popolaresca, per suscitare quindi un interesse scientifico per le quistioni trattate, che perciò saranno presentate come viventi e operanti anche nel presente, come forze in movimento, sempre attuali. Le pp. 5‑10 del Quaderno non sono state utilizzate.

Q19 §2 L’Età del Risorgimento di Adolfo Omodeo,(ed. Principato, Messina). Questo libro di Adolfo Omodeo pare sia fallito nel suo complesso. Esso è il rifacimento d un manuale scolastico e del manuale conserva molti caratteri. I fatti (gli eventi) sono semplicemente descritti come pure enunciazioni da catalogo, senza nessi di necessità storica. Lo stile del libro è sciatto, spesso irritante; i giudizi sono tendenziosi, talvolta pare che l’Omodeo abbia una quistione personale con certi protagonisti della storia (per esempio coi giacobini francesi). Per ciò che si riferisce alla penisola italiana, pare che l’intenzione dell’Omodeo sarebbe dovuta essere quella di mostrare che il Risorgimento è fatto essenzialmente italiano, le cui origini devono trovarsi in Italia e non solo o prevalentemente negli sviluppi europei della Rivoluzione francese e dell’invasione napoleonica. Ma questa intenzione non è attuata in altro modo che nell’iniziare la narrazione dal 1740 invece che dal 1789 o dal 1796 o dal 1815.

Il periodo delle monarchie illuminate non è in Italia un fatto autoctono e non è «originale» italiano il movimento di pensiero connesso (Giannone e i regalisti). La monarchia illuminata pare possa dirsi la più importante derivazione politica dell’età del mercantilismo, che annunzia i tempi nuovi, la civiltà moderna nazionale; ma in Italia c’è stata un’età del mercantilismo come fenomeno nazionale? Il mercantilismo avrebbe, se organicamente sviluppato, rese ancora più profonde e forse definitive, le divisioni in Stati regionali; lo stato informe e disorganico in cui le diverse parti d’Italia vennero a trovarsi dal punto di vista economico, la non formazione di forti interessi costituiti intorno a un forte sistema mercantilistico‑statale, permisero o resero più facile l’unificazione dell’età del Risorgimento.

Pare poi che nella conversione del suo lavoro da manuale scolastico a libro di cultura generale col titolo di Età del Risorgimento, l’Omodeo avrebbe dovuto mutarne tutta l’economia (la struttura), riducendo la parte europea e dilatando la parte italiana. Dal punto di vista europeo, l’età è quella della Rivoluzione francese e non del Risorgimento italiano, del liberalismo come concezione generale della vita e come nuova forma di civiltà statale e di cultura, e non solo dell’aspetto «nazionale» del liberalismo. È certo possibile parlare di un’età del Risorgimento, ma allora occorre rstringere la prospettiva e mettere a fuoco l’Italia e non l’Europa, svolgendo della storia europea e mondiale solo quei nessi che modificano la struttura generale dei rapporti di forza internazionali che si opponevano alla formazione di un grande Stato unitario nella penisola, mortificando ogni iniziativa in questo senso e soffocandola in sul nascere e svolgendo la trattazione di quelle correnti che invece dal mondo internazionale influivano in Italia, incoraggiandone le forze autonome e locali della stessa natura e rendendole più valide. Esiste cioè un’Età del Risorgimento nella storia svoltasi nella penisola italiana, non esiste nella storia dell’Europa come tale: in questa corrisponde l’Età della Rivoluzione Francese e del liberalismo (come è stata trattata dal Croce, in modo manchevole, perché nel quadro del Croce manca la premessa, la rivoluzione in Francia e le guerre successive: le derivazioni storiche sono presentate come fatti a sé, autonomi, che hanno in sé le proprie ragioni di essere e non come parte di uno stesso nesso storico, di cui la Rivoluzione francese e le guerre non possono non essere elemento essenziale e necessario).

Cosa significa o può significare il fatto che l’Omodeo inizia la sua narrazione dalla pace di Aquisgrana, che pone termine alla guerra per la successione di Spagna? L’Omodeo non «ragiona», non «giustifica» questo suo criterio metodico, non mostra che esso sia l’espressione di ciò che un determinato nesso storico europeo è nello stesso tempo nesso storico italiano, da inserire necessariamente nello sviluppo della vita nazionale italiana. Ciò invece può e deve essere «dichiarato». La personalità nazionale (come la personalità individuale) è una mera astrazione se considerata fuori dal nesso internazionale (o sociale). La personalità nazionale esprime un «distinto» del complesso internazionale, pertanto è legata ai rapporti internazionali. C’è un periodo di dominio straniero in Italia, per un certo tempo dominio diretto, posteriormente di carattere egemonico (o misto, di dominio diretto e di egemonia). La caduta della penisola sotto la dominazione straniera nel Cinquecento aveva già provocato una reazione: quella di indirizzo nazionale‑democratico del Machiavelli che esprimeva nello stesso tempo il rimpianto per la perduta indipendenza in una determinata forma (quella dell’equilibrio interno fra gli Stati italiani sotto l’egemonia della Firenze di Lorenzo il Magnifico) e la volontà iniziale di lottare per riacquistarla in una forma storicamente superiore, come principato assoluto sul tipo della Spagna e della Francia. Nel Settecento l’equilibrio europeo, Austria‑Francia, entra in una fase nuova per rispetto all’Italia: c’è un indebolimento reciproco delle due grandi potenze e sorge una terza grande potenza, la Prussia. Pertanto le origini del moto del Risorgimento, cioè del processo di formazione delle condizioni e dei rapporti internazionali che permetteranno all’Italia di riunirsi in nazione e alle forze interne nazionali di svilupparsi ed espandersi, non sono da ricercare in questo o quell’evento concreto registrato sotto una o altra data, ma appunto nello stesso processo storico per cui l’insieme del sistema europeo si trasforma. Questo processo intanto non è indipendente dagli eventi interni della penisola e dalle forze che in essa hanno la sede. Un elemento importante e talvolta decisivo dei sistemi europei era sempre stato il Papato. Nel corso del Settecento l’indebolimento della posizione del Papato come potenza europea è addirittura catastrofico. Colla Controriforma il Papato aveva modificato essenzialmente la struttura della sua potenza: si era alienato le masse popolari, si era fatto fautore di guerre sterminatrici, si era confuso con le classi dominanti in modo irrimediabile. Aveva così perduto la capacità di influire sia direttamente sia indirettamente sui governi attraverso la pressione delle masse popolari fanatiche e fanatizzate: è degno di nota che proprio mentre il Bellarmino elaborava la sua teoria del dominio indiretto della Chiesa, la Chiesa, con la sua concreta attività, distruggeva le condizioni di ogni suo dominio, anche indiretto, staccandosi dalle masse popolari. La politica regalista delle monarchie illuminate è la manifestazione di questo esautoramento della Chiesa come potenza europea e quindi italiana, e inizia anch’essa il Risorgimento, se è vero, come è vero, che il Risorgimento era possibile solo in funzione di un indebolimento del Papato sia come potenza europea che come potenza italiana, cioè come possibile forza che riorganizzasse gli Stati della penisola sotto la sua egemonia. Ma tutti questi sono elementi condizionanti; una dimostrazione, storicamente valida, che già nel Settecento si fossero costituite in Italia delle forze che tendessero concretamente a fare della penisola un organismo politico unitario e indipendente non è stata ancora fatta.

Q19 §3 Le origini del Risorgimento. Le ricerche sulle origini del moto nazionale del Risorgimento sono quasi sempre viziate dalla tendenziosità politica immediata, non solo da parte degli scrittori italiani, ma anche da parte di quelli stranieri, specialmente francesi (o sotto l’influsso della cultura francese). C’è una «dottrina» francese sulle origini del Risorgimento, secondo la quale la nazione italiana deve la sua fortuna alla Francia, specialmente ai due Napoleoni e questa dottrina ha anche il suo aspetto polemico‑negativo: i nazionalisti monarchici (Bainville) muovono ai due Napoleoni (e alle tendenze democratiche in genere suscitate dalla Rivoluzione) il rimprovero di aver indebolito la posizione relativa della Francia in Europa con la loro politica «nazionalitaria», cioè di essere stati contro la tradizione e gli interessi della nazione francese, rappresentati dalla monarchia e dai partiti di destra (clericali) sempre antitaliani e che consisterebbero nell’avere per vicini conglomerati di staterelli, come erano la Germania e l’Italia nel Settecento.

In Italia le quistioni «tendenziali e tendenziose» poste a questo proposito sono: 1) la tesi democratica francofila, secondo cui il moto è dovuto alla Rivoluzione francese e ne è una derivazione diretta, che ha determinato la tesi opposta; 2) la Rivoluzione francese col suo intervento nella penisola ha interrotto il movimento «veramente» nazionale, tesi che ha un doppio aspetto: a) quello gesuitico (per i quali i sanfedisti erano il solo elemento «nazionale» rispettabile e legittimo), e b) quello moderato che si riferisce piuttosto ai principi riformatori, alle monarchie illuminate. Qualcuno poi aggiunge: c) il movimento riformatore era stato interrotto per il panico suscitato dagli avvenimenti di Francia, quindi l’intervento degli eserciti francesi in Italia non interruppe il movimento indigeno, ma anzi ne rese possibile la ripresa e il compimento.

Molti di questi elementi sono svolti in quella letteratura a cui si accenna sotto la rubrica «Interpretazioni del Risorgimento Italiano», letteratura che se ha un significato nella storia della cultura politica, non ne ha che scarso in quello della storiografia.

In un articolo, assai notevole, di Gioacchino Volpe, Una scuola per la storia dell’Italia moderna (nel «Corriere della Sera» del 9 gennaio 1932) è scritto: «Tutti lo sanno: per capire il “Risorgimento” non basta spingersi al 1815 e neppure al 1796, l’anno in cui Napoleone irruppe nella Penisola e vi suscitò la tempesta. Il “Risorgimento”, come ripresa di vita italiana, come formazione di una nuova borghesia, come consapevolezza crescente di problemi non solo municipali e regionali ma nazionali, come sensibilità a certe esigenze ideali, bisogna cercarlo parecchio prima della Rivoluzione: è anche esso sintomo, uno dei sintomi, di una Rivoluzione in marcia, non solo francese, ma, in certo senso, mondiale. Tutti egualmente sanno che la storia del Risorgimento non si studia solo coi documenti italiani, e come fatto solamente italiano, ma nel quadro della vita europea; trattisi di correnti di cultura, di trasformazioni economiche, di situazioni internazionali nuove, che sollecitano gli italiani a nuovi pensieri, a nuove attività, a nuovo assetto politico».

In queste parole del Volpe è riassunto ciò che avrebbe voluto essere il fine dell’Omodeo nel suo libro, ma che nell’Omodeo rimane sconnesso ed esteriore. Si ha l’impressione che sia per il titolo, sia per l’impostazione cronologica, il libro dell’Omodeo abbia solo voluto rendere un omaggio «polemico» alla tendenziosità storica e non alla storia, per ragioni di «concorrenza» opportunistica poco chiare e in ogni modo poco pregevoli.

Nel Settecento, mutate le condizioni relative della penisola nel quadro dei rapporti europei, sia per ciò che riguarda la pressione egemonica delle grandi potenze che non potevano permettere il sorgere di uno Stato italiano unitario, sia per ciò che riguarda la posizione di potenza politica (in Italia) e culturale (in Europa) del Papato (e tanto meno le grandi potenze europee potevano permettere uno Stato unificato italiano sotto la supremazia del Papa, cioè permettere che la funzione culturale della Chiesa e la sua diplomazia, già abbastanza ingombranti e limitatrici del potere statale nei paesi cattolici, si rafforzassero appoggiandosi a un grande Stato territoriale e a un esercito corrispondente) muta anche l’importanza e il significato della tradizione letterario-rettorica esaltante il passato romano, la gloria dei Comuni e del Rinascimento, la funzione universale del Papato italiano. Questa atmosfera culturale italiana era rimasta fin’allora indistinta e generica; essa giovava specialmente al Papato, formava il terreno ideologico della potenza papale nel mondo, l’elemento discriminativo per la scelta e l’educazione del personale ecclesiastico e laico‑ecclesiastico, di cui il Papato aveva bisogno per la sua organizzazione pratico‑amministrativa, per centralizzare l’organismo chiesastico e il suo influsso, per tutto l’insieme dell’attività politica, filosofica, giuridica, pubblicistica, culturale che costituiva la macchina per l’esercizio del potere indiretto, dopo che, nel periodo precedente la Riforma, era servita all’esercizio del potere diretto o di quelle funzioni di potere diretto che potevano concretamente attuarsi nel sistema di rapporti di forza interni di ogni singolo paese cattolico. Nel Settecento si inizia un processo di distinzione in questa corrente tradizionale: una parte sempre più coscientemente (per programma esplicito) si connette con l’istituto del Papato come espressione di una funzione intellettuale (etico‑politica, di egemonia intellettuale e civile) dell’Italia nel mondo e finirà con l’esprimere il Primato giobertiano (e il neoguelfismo, attraverso una serie di movimenti più o meno equivoci, come il sanfedismo e il primo periodo del lamennesismo, che sono esaminati nella rubrica dell’«Azione cattolica» e le sue origini) e successivamente con il concretarsi in forma organica, sotto la direzione immediata dello stesso Vaticano, del movimento di Azione Cattolica, in cui la funzione dell’Italia come nazione è ridotta al minimo (all’opposto di quella parte del personale centrale vaticano che è italiano, ma non può mettere in prima linea, come una volta, il suo essere italiano); e si sviluppa una parte «laica», anzi in opposizione al papato, che cerca rivendicare una funzione di primato italiano e di missione italiana nel mondo indipendentemente dal Papato. Questa seconda parte, che non può mai riferirsi a un organismo ancora così potente come la Chiesa romana e manca pertanto di un punto unico di centralizzazione, non ha la stessa compattezza, omogeneità, disciplina dell’altra, ha varie linee spezzate di sviluppo e si può dire confluisca nel mazzinianismo.

Ciò che è importante storicamente è che nel Settecento questa tradizione cominci a disgregarsi per meglio concretarsi, e a muoversi con una intima dialettica: significa che tale tradizione letterario‑retorica sta diventando un fermento politico, il suscitatore e l’organizzatore del terreno ideologico in cui le forze politiche effettive riusciranno a determinare lo schieramento, sia pure tumultuario, delle più grandi masse popolari necessarie per raggiungere certi fini, riusciranno a mettere in iscacco e lo stesso Vaticano e le altre forze di reazione esistenti nella penisola accanto al Papato. Che il movimento liberale sia riuscito a suscitare la forza cattolico‑liberale e a ottenere che lo stesso Pio IX si ponesse, sia pure per poco, nel terreno del liberalismo (quanto fu sufficiente per disgregare l’apparato politico‑ideologico del cattolicismo e togliergli la fiducia in se stesso) fu il capolavoro politico del Risorgimento e uno dei punti più importanti di risoluzione dei vecchi nodi che avevano impedito fino allora di pensare concretamente alla possibilità di uno Stato unitario italiano.

(Se questi elementi della trasformazione della tradizione culturale italiana si pongono come elemento necessario nello studio delle origini del Risorgimento, e il disfacimento di tale tradizione è concepito come fatto positivo, come condizione necessaria per il sorgere e lo svilupparsi dell’elemento attivo liberale‑nazionale, allora acquistano un certo significato, non trascurabile, movimenti come quello «giansenistico», che altrimenti apparirebbero come mere curiosità da eruditi. Si tratterebbe insomma di uno studio dei «corpi catalitici» nel campo storico‑politico italiano, elementi catalitici che non lasciano traccia di sé ma hanno avuto una insostituibile e necessaria funzione strumentale nella creazione del nuovo organismo storico).

Alberto Pingaud, autore di un libro su Bonaparte, président de la République Italienne e che sta preparando un altro libro su Le premier Royaume d’Italie (che è già stato pubblicato quasi tutto sparsamente in diversi periodici), è tra quelli che «collocano nel 1814 il punto di partenza e in Lombardia il focolare del movimento politico che ebbe termine nel 1870 con la presa di Roma». Baldo Peroni, che nella Nuova Antologia del 16 agosto 1932 passa in rassegna questi scritti ancora sparsi del Pingaud, osserva: «Il nostro Risorgimento – inteso come risveglio politico – comincia quando l’amor di patria cessa di essere una vaga aspirazione sentimentale o un motivo letterario e diventa pensiero consapevole, passione che tende a tradursi in realtà mediante un’azione che si svolge con continuità e non s’arresta dinanzi ai più duri sacrifizi. Ora, siffatta trasformazione è già avvenuta nell’ultimo decennio del Settecento e non soltanto in Lombardia, ma anche a Napoli, in Piemonte, in quasi tutte le regioni d’Italia. I “patrioti” che tra l’89 e il 96 sono mandati in esilio o salgono il patibolo, hanno cospirato, oltre che per istaurare la repubblica, anche per dare all’Italia indipendenza e unità; e negli anni successivi è l’amore dell’indipendenza che ispira e anima l’attività di tutta la classe politica italiana, sia che collabori coi francesi e sia che tenti dei moti insurrezionali allorché appare evidente che Napoleone non vuole concedere la libertà solennemente promessa».

Il Peroni, in ogni modo, non ritiene che il moto italiano sia da ricercarsi prima del 1789, cioè afferma una dipendenza del Risorgimento dalla Rivoluzione francese, tesi che non è accettata dalla storiografia nazionalistica. Tuttavia appare vero quanto il Peroni afferma, se si considera il fatto specifico e di importanza decisiva, del primo aggruppamento di elementi politici che si svilupperà fino a formare l’insieme dei partiti che saranno i protagonisti del Risorgimento. Se nel corso del Settecento cominciano ad apparire e a consolidarsi le condizioni obbiettive, internazionali e nazionali, che fanno dell’unificazione nazionale un compito storicamente concreto (cioè non solo possibile, ma necessario), è certo che solo dopo l’89 questo compito diventa consapevole in gruppi di cittadini disposti alla lotta e al sacrificio. La Rivoluzione francese, cioè, è uno degli eventi europei che maggiormente operano per approfondire un movimento già iniziato nelle «cose», rafforzando le condizioni positive (oggettive e soggettive) del movimento stesso e funzionando come elemento di aggregazione e centralizzazione delle forze umane disperse in tutta la penisola e che altrimenti avrebbero tardato di più a «incentrarsi» e comprendersi tra loro.

Su questo stesso argomento è da vedere l’articolo di Gioacchino Volpe: Storici del Risorgimento a Congresso nell’«Educazione Fascista» del luglio 1932. Il Volpe informa sul Ventesimo Congresso della Società Nazionale per la Storia del Risorgimento, tenuto a Roma nel maggio‑giugno 1932. La storia del Risorgimento fu prima concepita prevalentemente come «storia del patriottismo italiano». Poi essa cominciò ad approfondirsi, «ad essere vista come vita italiana del XIX secolo e quasi dissolta nel quadro di quella vita, presa tutta in un processo di trasformazione, coordinazione, unificazione, ideali e vita pratica, coltura e politica, interessi privati e pubblici». Dal secolo XIX si risalì al secolo XVIII e si videro nessi prima nascosti, ecc. Il secolo XVIII «fu visto dall’angolo visuale del Risorgimento, anzi come Risorgimento anch’esso: con la sua borghesia ormai nazionale; con il suo liberalismo che investe la vita economica e la vita religiosa e poi quella politica e che non è tanto un “principio” quanto una esigenza di produttori; con quelle prime concrete aspirazioni ad “una qualche forma di unità” (Genovesi), per la insufficienza dei singoli Stati, ormai riconosciuta, a fronteggiare, con la loro ristretta economia, la invadente economia di paesi tanto più vasti e forti. Nello stesso secolo si delineava anche una nuova situazione internazIonale. Entravano cioè nel pieno giuoco forze politiche europee interessate ad un assetto più indipendente e coerente e meno staticamente equilibrato della penisola italiana. Insomma, una «realtà nuova italiana ed europea, che dà significato e valore anche al nazionalismo dei letterati, riemerso dopo il cosmopolitismo dell’età precedente».

Il Volpe non accenna specificatamente al rapporto nazionale e internazionale rappresentato dalla Chiesa, che anch’essa subisce nel secolo XVIII una radicale trasformazione lo scioglimento della Compagnia di Gesù in cui culmina il rafforzarsi dello Stato laico contro l’ingerenza ecclesiastica ecc. Si può dire che oggi, per la storiografia del Risorgimento, dato il nuovo influsso esercitato dopo il Concordato, il Vaticano è diventato una delle maggiori, se non la maggiore, forze di remora scientifica e di «maltusianismo» metodico. Precedentemente, accanto a questa forza, che è stata sempre molto rilevante, esercitavano una funzione restrittiva dell’orizzonte storico la monarchia e la paura del separatismo. Molti lavori storici non furono pubblicati per questa ragione (per esempio, qualche libro di storia della Sardegna del barone Manno, l’episodio Bollea durante la guerra ecc.). I pubblicisti repubblicani si erano specializzati nella storia «libellistica», sfruttando ogni opera storica che ricostruisse scientificamente gli avvenimenti del Risorgimento: ne conseguì una limitazione delle ricerche, un prolungarsi della storiografia apologetica, la impossibilità di sfruttare gli Archivi ecc.; insomma, tutta la meschinità della storiografia del Risorgimento quando la si paragoni a quella della Rivoluzione francese. Oggi le preoccupazioni monarchiche e separatiste si sono andate assottigliando, ma sono cresciute quelle vaticanesche e clericali. Una gran parte degli attacchi alla Storia dell’Europa del Croce hanno avuto evidentemente questa origine: così si spiega anche l’interruzione dell’opera di Francesco Salata Per la storia diplomatica della Questione Romana il cui primo volume è del 1929 ed è rimasto senza seguito.

Nel Ventesimo Congresso della Società Nazionale per la Storia del Risorgimento sono stati trattati argomenti che interessano in sommo grado questa rubrica. Lo studio di Pietro Silva: Il problema italiano nella diplomazia europea del XVIII secolo è così riassunto dal Volpe (nell’articolo citato): «Il XVIII secolo vuol dire influenza di grandi potenze in Italia ma anche loro contrasti; e perciò, progressiva diminuzione del dominio diretto straniero e sviluppo di due forti organismi statali a nord e a sud. Col trattato di Aranjuez tra Francia e Spagna, 1752, e subito dopo, col ravvicinamento Austria‑Spagna, si inizia una stasi di quarant’anni per i due regni, pur con molti sforzi di rompere il cerchio austro‑francese, tentando approcci con Prussia, Inghilterra, Russia. Ma il quarantennio segna anche lo sviluppo di quelle forze autonome che, con la Rivoluzione e con la rottura del sistema austro‑francese, scenderanno in campo per un soluzione in senso nazionale ed unitario de problema italiano. Ed ecco le riforme ed i principi riformatori, oggetto, gli ultimi tempi, di molti studi, per il regno di Napoli e di Sicilia, per la Toscana, Parma e Piacenza, Lombardia».

Carlo Morandi (Le riforme settecentesche nei risultati della recente storiografia) ha studiato la posizione delle riforme italiane nel quadro del riformismo europeo, e il rapporto tra riforme e Risorgimento.

Per il rapporto tra Rivoluzione francese e Risorgimento il Volpe scrive: «È innegabile che la Rivoluzione, vuoi come ideologie, vuoi come passioni, vuoi come forza armata, vuoi come Napoleone, immette elementi nuovi nel flusso in movimento della vita italiana. Non meno innegabile che l’Italia del Risorgimento, organismo vivo, assimilando l’assimilabile di quel che veniva dal di fuori e che, in quanto idee, era anche rielaborazione altrui di ciò che già si era elaborato in Italia, reagisce, insieme, ad esso, lo elimina e lo integra, in ogni modo lo supera. Essa ha tradizioni proprie, mentalità propria, problemi propri, soluzioni proprie: che son poi la vera e profonda radice, la vera caratteristica del Risorgimento, costituiscono la sua sostanziale continuità con l’età precedente, lo rendono capace alla sua volta di esercitare anche esso una sua azione su altri paesi; nel modo come tali azioni si possono, non miracolisticamente ma storicamente, esercitare, entro il cerchio di popoli vicini e affini».

Queste osservazioni del Volpe non sono sempre esatte: come si può parlare di «tradizioni, mentalità, problemi, soluzioni» propri dell’Italia? O almeno, cosa ciò significa concretamente? Le tradizioni, le mentalità i problemi, le soluzioni erano molteplici, contraddittori, di natura spesso solo individuale e arbitraria e non erano allora mai visti unitariamente. Le forze tendenti all’unità erano scarsissime, disperse, senza nesso tra loro e senza capacità di suscitare legami reciproci e ciò non solo nel secolo XVIII, ma si può dire fino al 1848. Le forze contrastanti a quelle unitarie (o meglio tendenzialmente unitarie) erano invece potentissime, coalizzate, e, specialmente come Chiesa, assorbivano la maggior parte delle capacità ed energie individuali che avrebbero potuto costituire un nuovo personale dirigente nazionale, dando loro invece un indirizzo e un’educazione cosmopolitico‑clericale. I fattori internazionali e specialmente la Rivoluzione francese, stremando queste forze reazionarie e logorandole, potenziano per contraccolpo le forze nazionali in se stesse scarse e insufficienti. È questo il contributo più importante della Rivoluzione francese, molto difficile da valutare e definire, ma che si intuisce di peso decisivo nel dare l’avviata al moto del Risorgimento.

Tra le altre memorie presentate al Congresso è da notare quella di Giacomo Lumbroso su La reazione popolare contro i francesi alla fine del 1700. Il Lumbroso sostiene che «le masse popolari, specialmente contadinesche, reagiscono non perché sobillate dai nobili e neppur per amor di quieto vivere (difatti, impugnarono le armi!) ma, in parte almeno, per un oscuro e confuso amor patrio o attaccamento alla loro terra, alle loro istituzioni, alla loro indipendenza (!?): donde il frequente appello al sentimento nazionale degli Italiani, che fanno i “reazionari” già nel 1799», ma la quistione è mal posta così e piena di equivoci. Intanto non si parla della «sobillazione» dei preti molto più efficace di quella dei nobili (che non erano così contrari alle nuove idee come appare dalla Repubblica partenopea); e poi cosa significa la parentesi ironica del Volpe secondo il quale pare non si possa parlare di amore del quieto vivere quando si impugnano le armi? La contraddizione è solo verbale: «quieto vivere» è inteso in senso politico di misoneismo e conservatorismo e non esclude per nulla la difesa armata delle proprie posizioni sociali. Inoltre la quistione dell’atteggiamento delle masse popolari non può essere impostata indipendentemente da quella delle classi dirigenti, perché le masse popolari possono insorgere per ragioni immediate e contingenti contro «stranieri» invasori in quanto nessuno ha loro insegnato a conoscere e seguire un indirizzo politico diverso da quello localistico e ristretto. Le reazioni spontanee (in quanto lo sono) delle masse popolari possono solo servire a indicare la «forza» di direzione delle classi alte; in Italia i liberali‑borghesi trascurarono sempre le masse popolari. Il Volpe avrebbe dovuto a questo punto prendere posizione a proposito di quella letteratura sul Risorgimento equivoca e unilaterale, di cui il Lumbroso ha dato lo specimen più caratteristico: chi è «patriota» o «nazionale» nel senso del Lumbroso, l’ammiraglio Caracciolo impiccato dagli Inglesi o il contadino che insorge contro i francesi? Domenico Cirillo o Fra Diavolo? E perché la politica filoinglese e il denaro inglese devono essere più nazionali delle idee politiche francesi?

Q19 §4 Bibliografia. Sullo sviluppo autonomo di una nuova vita civile e statale in Italia prima del Risorgimento sta preparando un lavoro Raffaele Ciasca; ne è stata pubblicata l’introduzione: Raffaele Ciasca, Germogli di vita nuova nel 700 italiano (negli «Annali della Facoltà di Filosofia e Lettere della R. Università di Cagliari, 1930‑31, estratto di pp. 21, in 8°). Il Ciasca studia le «trasformazioni che nel corso del secolo XVIII e specialmente nella seconda metà di esso si va compiendo nella vita di quasi tutte le regioni d’Italia, e che non si limita a riforme frammentarie imposte da principi illuminati e poco sentite dalla popolazione, ma investe tutta la costituzione statale, tutta la struttura economica del paese, tutti i rapporti fra le classi e si manifesta nelle correnti predominanti nel pensiero politico, sociale ed economico» («Nuova Rivista Storica» del 1931, p. 577). Le riforme amministrative e finanziarie, la politica ecclesiastica, la storia del pensiero erano già state studiate; il Ciasca porta un contributo nuovo per lo studio della vita economica del tempo.

Francesco Lemmi, Le origini del Risorgimento Italiano, Milano, Hoepli. Dello stesso Lemmi, La Bibliografia del Risorgimento Italiano, Società Anonima Romana. Carlo Merandi, Idee e formazioni politiche in Lombardia dal 1748 al 1814, Torino, Bocca. Massimo Lelj, Il Risorgimento dello spirito italiano (1725‑1861), Milano, L’Esame, Edizioni di storia moderna, 1928.

Al XII Congresso internazionale di Scienze Storiche che si doveva tenere a Varsavia dal 21 al 28 agosto 1933, dovevano essere presentate le seguenti relazioni sul Risorgimento: 1°) G. Volpe, I rapporti politici diplomatici tra le grandi potenze europee e l’Italia durante il Risorgimento; 2°) A. C. Jemolo, L’Italia religiosa del secolo XVIII; 3°) Pietro Silva, Forze e iniziative nazionali ed influenze straniere nell’opera dell’assolutismo illuminato in Italia.

Q19 §5 Interpretazioni del Risorgimento. Esiste una notevole quantità di interpretazioni, le più disparate, del Risorgimento. La stessa quantità di esse è un segno caratteristico della letteratura storico‑politica italiana e della situazione degli studi sul Risorgimento. Perché un evento o un processo di avvenimenti storici possa dar luogo a un tal genere di letteratura occorre pensare: che esso sia poco chiaro e giustificato nel suo sviluppo per la insufficienza delle forze «intime» che pare lo abbiano prodotto, per la scarsità degli elementi oggettivi «nazionali» ai quali fare riferimento, per la inconsistenza e gelatinosità dell’organismo studiato (e infatti spesso si è sentito accennare al «miracolo» del Risorgimento). Né può giustificare una simile letteratura la scarsezza dei documenti (difficoltà di ricerche negli Archivi, ecc.), poiché, in tal caso, l’intero corso dello svolgimento potrebbe essere documento di se stesso: anzi è appunto evidente che la debolezza organica di un complesso «vertebrato» in questo corso di svolgimento è la origine di questo sfrenarsi del «soggettivismo» arbitrario, spesso bizzarro e strampalato. In generale si può dire che il significato dell’insieme di queste interpretazioni è di carattere politico immediato e ideologico e non storico. Anche la loro portata nazionale è scarsa, sia per la troppa tendenziosità, sia per l’assenza di ogni apporto costruttivo, sia per il carattere troppo astratto, spesso bizzarro e romanzato. Si può notare che tale letteratura fiorisce nei momenti più caratteristici di crisi politico- sociale, quando il distacco tra governanti e governati si fa più grave e pare annunziare eventi catastrofici per la vita nazionale; il panico si diffonde tra certi gruppi intellettuali più sensibili e si moltiplicano i conati per determinare una riorganizzazione delle forze politiche esistenti, per suscitare nuove correnti ideologiche nei logori e poco consistenti organismi di partito o per esalare i sospiri e gemiti di disperazione e di nero pessimismo. Una classificazione razionale di questa letteratura sarebbe necessaria e piena di significato. Per ora si può fissare provvisoriamente qualche punto di riferimento: 1) un gruppo di interpretazioni in senso stretto, come può essere quella contenuta nella Lotta politica in Italia e negli altri scritti di polemica politico‑culturale di Alfredo Oriani, che ne ha determinato tutta una serie attraverso gli scritti di Mario Missiroli; come quelle di Piero Gobetti e di Guido Dorso; 2) un gruppo di carattere più sostanziale e serio, con pretese di serietà e rigore storiografico, come quelle del Croce, del Solmi, del Salvatorelli; 3) le interpretazioni di Curzio Malaparte (sull’Italia Barbara, sulla lotta contro la Riforma protestante ecc.), di Carlo Curcio (L’eredità del Risorgimento, Firenze, La Nuova Italia, 1931, pp. 114, L. 12) ecc.

Occorre ricordare gli scritti di E. Montefredini (cfr il saggio del Croce in proposito nella Letteratura della nuova Italia) fra le «bizzarrie» e quelli di Aldo Ferrari (in volumi e volumetti e in articoli della «Nuova Rivista Storica») come bizzarrie e romanzo nel tempo stesso; così il volumetto di Vincenzo Cardarelli, Parole all’Italia (ed. Vallecchi, 1931).

Un altro gruppo importante è rappresentato da libri come quello di Gaetano Mosca, Teorica dei governi e governo parlamentare, pubblicato la prima volta nel 1883 e ristampato nel 1925 (Milano, Soc. An. Istituto Editoriale Scientifico, in 8°, pp. 301, L. 25); come il libro di Pasquale Turiello, Governo e governati; di Leone Carpi, L’Italia vivente; di Luigi Zini, Dei criteri e dei modi di governo; di Giorgio Arcoleo, Governo di Gabinetto; di Marco Minghetti, I partiti politici e la loro influenza nella giustizia e nell’amministrazione; libri di stranieri, come quello del Laveleye, Lettere d’Italia; del von Loher, La nuova Italia e anche del Brachet, L’Italie qu’on voit et l’Italie qu’on ne voit pas; oltre ad articoli della «Nuova Antologia» e della «Rassegna Settimanale» (del Sonnino), di Pasquale Villari, di R. Bonghi, di G. Palma ecc., fino all’articolo famoso del Sonnino nella «Nuova Antologia», Torniamo allo Statuto!.

Questa letteratura è una conseguenza della caduta della Destra storica, dell’avvento al potere della così detta Sinistra e delle innovazioni «di fatto» introdotte nel regime costituzionale per avviarlo a una forma di regime parlamentare. In gran parte sono lamentele, recriminazioni, giudizi pessimistici e catastrofici sulla situazione nazionale e a tale fenomeno accenna il Croce nei primi capitoli della sua Storia d’Italia dal 1871 al 1915; a questa manifestazione si contrappone la letteratura degli epigoni del Partito d’Azione (tipico il libro postumo dell’abate Luigi Anelli, stampato recentemente, con e commenti, da Arcangelo Ghisleri) sia in volumi che in opuscoli e in articoli di rivista, compresi i più recenti pubblicisti del partito repubblicano.

Si può notare questo nesso tra le varie epoche di fioritura di tale letteratura pseudo‑storica e pseudo‑critica: 1) letteratura dovuta ad elementi conservatori, furiosi per la caduta della Destra e della Consorteria (cioè per la diminuita importanza nella vita statale di certi gruppi di grandi proprietari terrieri e dell’aristocrazia, ché di una sostituzione di classe non si può parlare), fegatosa, biliosa, acrimoniosa, senza elementi costruttivi, senza riferimenti storici a una tradizione qualsiasi, perché nel passato non esiste nessun punto di riferimento reazionario che possa essere proposto per una restaurazione con un certo pudore e qualche dignità: nel passato ci sono i vecchi regimi regionali e le influenze del Papa e dell’Austria. L’«accusa» fatta al regime parlamentare di non essere «nazionale» ma copiato da esemplari stranieri rimane una vuota recriminazione senza costrutto, che nasconde solo il panico per un anche piccolo intervento delle masse popolari nella vita dello Stato; il riferimento a una «tradizione» italiana di governo è necessariamente vago e astratto perché una tale tradizione non ha prospettive storicamente apprezzabili: in tutto il passato non è mai esistita una unità territoriale‑statale italiana, la prospettiva dell’egemonia papale (propria del Medio Evo fino al periodo del dominio straniero) è già stata travolta col neoguelfismo ecc. (Questa prospettiva, infine, sarà trovata nell’epoca romana, con oscillazioni, secondo i partiti, tra la Roma repubblicana e la Roma cesarea, ma il fatto avrà un nuovo significato e sarà caratteristico di nuovi indirizzi impressi alle ideologie popolari).

Questa letteratura reazionaria precede quella del gruppo Oriani‑Missiroli, che ha un significato più popolare‑nazionale e quest’ultima precede quella del gruppo Gobetti‑Dorso, che ha ancora un altro significato più attuale. In ogni modo, anche queste due nuove tendenze mantengono un carattere astratto e letterario. Uno dei punti più interessanti trattati da esse è il problema della mancanza di una Riforma religiosa in Italia come quella protestante, problema che è posto in modo meccanico ed esteriore e ripete uno dei motivi che guidano il Masaryk nei suoi studi di storia russa.

L’insieme di questa letteratura ha importanza «documentaria» per i tempi in cui è apparsa. I libri dei «destri» dipingono la corruzione politica e morale nel periodo della Sinistra al potere, ma le pubblicazioni degli epigoni del Partito d’Azione non presentano come migliore il periodo di governo della Destra. Risulta che non c’è stato nessun cambiamento essenziale nel passaggio dalla Destra alla Sinistra: il marasma in cui si trova il paese non è dovuto al regime parlamentare (che rende solo pubblico e notorio ciò che prima rimaneva nascosto o dava luogo a pubblicazioni clandestine libellistiche) ma alla debolezza e inconsistenza organica della classe dirigente e alla grande miseria e arretratezza del paese. Politicamente la situazione è assurda: a destra stanno i clericali, il partito del Sillabo che nega in tronco tutta la civiltà moderna e boicotta lo Stato legale, non solo impedendo che si costituisca un vasto partito conservatore ma mantenendo il paese sotto l’impressione della precarietà e insicurezza del nuovo Stato unitario; nel centro stanno tutte le gamme liberali, dai moderati ai repubblicani, sui quali operano tutti i ricordi degli odii del tempo delle lotte e che si dilaniano implacabilmente; a sinistra il paese misero, arretrato, analfabeta esprime in forma sporadica, discontinua, isterica, una serie di tendenze sovversive‑anarcoidi, senza consistenza e indirizzo politico concreto, che mantengono uno stato febbrile senza avvenire costruttivo. Non esistono «partiti economici» ma gruppi di ideologi déclassés di tutte le classi, galli che annunziano un sole che mai vuole spuntare.

I libri del gruppo Mosca‑Turiello cominciarono a essere rimessi in voga negli anni precedenti la guerra (si può vedere nella «Voce» il richiamo continuo al Turiello) e il libro giovanile del Mosca fu ristampato nel 1925 con qualche nota dell’autore per ricordare che si tratta di idee del 1883 e che l’autore nel ’25 non è più d’accordo con lo scrittore ventiquattrenne del 1883. La ristampa del libro del Mosca è uno dei tanti episodi dell’incoscienza e del dilettantismo politico dei liberali nel primo e secondo dopoguerra. Del resto il libro è rozzo, incondito, scritto affrettatamente da un giovane che vuole «distinguersi» nel suo tempo con un atteggiamento estremista e con parole grosse e spesso triviali in senso reazionario. I concetti politici del Mosca sono vaghi e ondeggianti, la sua preparazione filosofica è nulla (e tale è rimasta in tutta la carriera letteraria del Mosca), i suoi principii di tecnica politica sono anch’essi vaghi e astratti e hanno carattere piuttosto giuridico. Il concetto di «classe politica», la cui affermazione diventerà il centro di tutti gli scritti di scienza politica del Mosca, è di una labilità estrema e non è ragionato né giustificato teoricamente. Tuttavia il libro del Mosca è utile come documento. L’autore vuole essere spregiudicato per programma, non avere peli sulla lingua e così finisce per mettere in vista molti aspetti della vita italiana del tempo che altrimenti non avrebbero trovato documentazione. Sulla burocrazia civile e militare, sulla polizia ecc., il Mosca offre dei quadri talvolta di maniera, ma con una sostanza di verità (per esempio, sui sottufficiali dell’esercito, sui delegati di pubblica sicurezza ecc.). Le sue osservazioni sono specialmente valevoli per la Sicilia, per l’esperienza diretta del Mosca di quell’ambiente. Nel 1925 il Mosca aveva mutato punto di vista e prospettive, il suo materiale era sorpassato, tuttavia egli ristampò il libro per vanità letteraria, pensando di immunizzarlo con qualche rella palinodica.

Sulla situazione politica italiana proprio nel 1883 e sull’atteggiamento dei clericali si può trovare qualche spunto interessante nel libro del Maresciallo Lyautey, Lettres de Jeunesse (Parigi, Grasset, 1931). Secondo il Lyautey molti italiani, tra i più devoti al Vaticano, non credevano nell’avvenire del regno; ne prevedevano la decomposizione, da cui sarebbe nata un’Alta Italia con Firenze capitale, un’Italia Meridionale con capitale Napoli, e Roma in mezzo, con sbocco al mare. Sull’esercito italiano d’allora, che in Francia era poco apprezzato, il Lyautey riferisce il giudizio del conte di Chambord: «Ne vous y trompez pas. Tout ce que j’en sais, me la (l’armée italiana) fait juger très sérieuse, très digne d’attention. Sous leurs façons un peu théâtrales et leurs plumets, les officiers y sont fort instruits, fort appliqués. C’est d’ailleurs l’opinion de mon neveu de Parme qui n’est pas payé pour les aimer».

Tutto il lavorio di interpretazione del passato italiano e la serie di costruzioni ideologiche e di romanzi storici che ne sono derivati è prevalentemente legato alla «pretesa» di trovare una unità nazionale, almeno di fatto, in tutto il periodo da Roma ad oggi (e spesso anche prima di Roma, come nel caso dei «Pelasgi» del Gioberti e in altri più recenti). Come è nata questa pretesa, come si è mantenuta e perché persiste tuttora? È un segno di forza o di debolezza? È il riflesso di formazioni sociali nuove, sicure di sé e che cercano e si creano titoli di nobiltà nel passato, oppure è invece il riflesso di una torbida «volontà di credere», un elemento di fanatismo (e di fanatizzazione) ideologico, che deve appunto «risanare» le debolezze di struttura e impedire un temuto tracollo? Quest’ultima pare la giusta interpretazione, unita al fatto della eccessiva importanza (relativamente alle formazioni economiche) degli intellettuali, cioè dei piccoli borghesi in confronto delle classi economiche arretrate e politicamente incapaci. Realmente l’unità nazionale è sentita come aleatoria, perché forze «selvagge», non conosciute con precisione, elementarmente distruttive, si agitano continuamente alla sua base. La dittatura di ferro degli intellettuali e di alcuni gruppi urbani con la proprietà terriera mantiene la sua compattezza solo sovraeccitando i suoi elementi militanti con questo mito di fatalità storica, più forte di ogni manchevolezza e di ogni inettitudine politica e militare. È su questo terreno che all’adesione organica delle masse popolari‑nazionali allo Stato si sostituisce una selezione di «volontari» della «nazione» concepita astrattamente. Nessuno ha pensato che appunto il problema posto dal Machiavelli col proclamare la necessità di sostituire milizie nazionali ai mercenari avventizi e infidi, non è risolto finché anche il «volontarismo» non sarà superato dal fatto «popolare‑nazionale» di massa, poiché il volontarismo è soluzione intermedia, equivoca, altrettanto pericolosa che il mercenarismo.

Il modo di rappresentare gli avvenimenti storici nelle interpretazioni ideologiche della formazione italiana si potrebbe chiamare «storia feticistica»: per essa infatti diventano protagonisti della storia «personaggi» astratti e mitologici. Nella Lotta politica dell’Oriani si ha il più popolare di questi schemi mitologici, quello che ha partorito una più lunga serie di figli degeneri. Vi troviamo la Federazione, l’Unità, la Rivoluzione, l’Italia ecc. Nell’Oriani è chiara una delle cause di questo modo di concepire la storia per figure mitologiche. Il canone critico che tutto lo sviluppo storico è documento di se stesso, che il presente illumina e giustifica il passato, viene meccanicizzato ed esteriorizzato e ridotto a una legge deterministica di rettilineità e di «unilinearità» (anche perché l’orizzonte storico viene ristretto ai confini geografici nazionali e l’evento avulso dal complesso della storia universale, dal sistema dei rapporti internazionali cui invece è necessariamente saldato). Il problema di ricercare le origini storiche di un evento concreto e circostanziato, la formazione dello Stato moderno italiano nel secolo XIX, viene trasformato in quello di vedere questo Stato, come Unità o come Nazione o genericamente come Italia, in tutta la storia precedente così come il pollo deve esistere nell’uovo fecondato.

Per la trattazione di questo argomento, sono da vedere le osservazioni critiche di Antonio Labriola negli Scritti vari (pp. 487‑90, pp. 317-442 passim, e nel primo dei suoi Saggi a pp. 50‑52). Su questo punto è anche da vedere il Croce nella Storia della Storiografia, II, pp. 227‑28 della Ia edizione e in tutta questa opera lo studio dell’origine «sentimentale e pratica» e la «critica impossibilità» di una «storia generale d’Italia». Altre osservazioni connesse a queste sono quelle di Antonio Labriola a proposito di una storia generale del Cristianesimo, che al Labriola sembrava inconsistente come tutte le costruzioni storiche che assumono a soggetto «enti» inesistenti (cfr III Saggio, p. 113).

Una reazione concreta nel senso indicato dal Labriola si può studiare negli scritti storici (e anche politici) del Salvemini, il quale non vuol sapere di «guelfi» e «ghibellini», uno partito della nobiltà e dell’Impero e l’altro del popolo e del Papato, perché egli dice di conoscerli solo come «partiti locali», combattenti per ragioni affatto locali, che non coincidevano con quelle del Papato e dell’Impero. Nella prefazione al suo volume sulla Rivoluzione francese si può vedere teorizzato questo atteggiamento del Salvemini con tutte le esagerazioni antistoriche che porta con sé (il volume sulla Rivoluzione francese è criticabile anche da altri punti di vista: che la Rivoluzione possa dirsi compiuta con la battaglia di Valmy è affermazione non sostenibile): «L’innumerevole varietà degli eventi rivoluzionari» si suole attribuire in blocco a un ente «Rivoluzione», invece di «assegnare ciascun fatto all’individuo o ai gruppi di individui reali, che ne furono autori». Ma se la storia si riducesse solo a questa ricerca, sarebbe ben misera cosa e diventerebbe, tra l’altro, incomprensibile. Sarà da vedere come il Salvemini concretamente risolve le incongruenze che risultano dalla sua impostazione troppo unilaterale del problema metodologico, tenendo conto di questa cautela critica: se non si conoscesse da altre opere la storia qui raccontata, e avessimo solo questo libro, ci sarebbe comprensibile la serie degli eventi descritta? Cioè si tratta di una storia «integrale» o di una storia «polemica» e polemicamente complementare che si propone solo (od ottiene senza proporselo, necessariamente) di aggiungere qualche pennellata a un quadro già abbozzato da altri? Questa cautela dovrebbe sempre essere presente in ogni critica, poiché infatti spesso si ha da fare con opere che da «sole» non sarebbero soddisfacenti, ma che possono essere molto utili nel quadro generale di una determinata cultura, come «integrative e complementari» di altri lavori o ricerche.

Scrive Adolfo Omodeo nella «Critica» del 20 luglio 1932, p. 280: «Ai patrioti offriva la tesi che allora aveva rimessa in circolazione il Salvemini: della storia del Risorgimento come piccola storia, non sufficientemente irrorata di sangue; dell’unità, dono più di una propizia fortuna che meritato acquisto degli italiani; del Risorgimento, opera di minoranze contro l’apatia della maggioranza. Questa tesi generataNel testo dell’Omodeo: «germinata». dall’incapacità del materialismo storico di apprezzare in sé la grandezza morale, senza la statistica empirica delle bigonce di sangue versato e il computo degli interessi (aveva una speciosità facile ed era destinata a correre fra tutte le riviste e i giornali e a far denigrare dagli ignoranti l’opera dura del Mazzini e del Cavour), questa tesi serviva di base al Marconi per un’argomentazione moralistica di stile vociano». (L’Omodeo scrive di Piero Marconi, morto nella guerra, e della sua pubblicazione Io udii il comandamento, Firenze, senza data).

Ma l’Omodeo stesso, nel suo libro L’Età del Risorgimento non è riuscito a dare una interpretazione e una ricostruzione che non sia estrinseca e di parata. Che il Risorgimento sia stato l’apporto italiano al grande movimento europeo del secolo XIX non significa senz’altro che l’egemonia del movimento fosse in Italia, e non significa neanche che anche dalla «maggioranza della minoranza» attiva il movimento stesso non sia stato seguito con riluttanza e obtorto collo. La grandezza individuale del Cavour e del Mazzini spicca ancor più grande nella prospettiva storica come la palma nel deserto. Le osservazioni critiche dell’Omodeo alla concezione del Risorgimento come «piccola storia» sono malevole e triviali, né egli riesce a comprendere come tale concezione sia stata l’unico tentativo un po’ serio di «nazionalizzare» le masse popolari, cioè di creare un movimento democratico con radici italiane e con esigenze italiane (è strano che il Salvatorelli, accennando in una nota della «Cultura» alla Storia d’Europa del Croce e all’Età del Risorgimento dell’Omodeo, trovi questa l’espressione di un indirizzo democratico e la storia crociana di un indirizzo più strettamente liberale conservatore).

Del resto si può osservare: se la storia del passato non si può non scrivere con gli interessi e per gli interessi attuali, la formula critica che bisogna fare la storia di ciò che il Risorgimento è stato concretamente (se non significa un richiamo al rispetto e alla completezza della documentazione) non è insufficiente e troppo ristretta? Spiegare come il Risorgimento si è fatto concretamente, quali sono le fasi del processo storico necessario che hanno culminato in quel determinato evento può essere solo un nuovo modo di ripresentare la così detta «obbiettività» esterna e meccanica. Si tratta spesso di una rivendicazione «politica» di chi è soddisfatto e nel processo al passato vede giustamente un processo al presente, una critica al presente e un programma per l’avvenire. E gruppo Croce‑Omodeo e C. sta santificando untuosamente (l’untuosità è specialmente dell’Omodeo) il periodo liberale e lo stesso libro dell’Omodeo Momenti di guerra ha questo significato: mostrare come il periodo giolittiano, tanto «diffamato», covasse nel suo intimo un «insuperabile» tesoro di idealismo e di eroismo.

Del resto queste discussioni, in quanto sono puramente di metodologia empirica, sono inconcludenti. E se scrivere storia significa fare storia del presente, è grande libro di storia quello che nel presente aiuta le forze in isviluppo a di venire più consapevoli di se stesse e quindi più concretamente attive e fattive.

Il difetto massimo di tutte queste interpretazioni ideologiche del Risorgimento consiste in ciò che esse sono state meramente ideologiche, cioè che non si rivolgevano a suscitare forze politiche attuali. Lavori di letterati, di dilettanti, costruzioni acrobatiche di uomini che volevano fare sfoggio di talento se non d’intelligenza; oppure rivolte a piccole cricche intellettuali senza avvenire, oppure scritte per giustificare forze reazionarie in agguato, imprestando loro intenzioni che non avevano e fini immaginari, e, pertanto, piccoli servizi da lacché intellettuali (il tipo più compiuto di questi lacché è Mario Missiroli) e da mercenari della scienza.

Queste interpretazioni ideologiche della formazione nazionale e statale italiana sono anche da studiare da un altro punto di vista: il loro succedersi «acritico», per spinte individuali di persone più o meno «geniali», è un documento della primitività dei vecchi partiti politici, dell’empirismo immediato di ogni azione costruttiva (compresa quella dello Stato), dell’assenza nella vita italiana di ogni movimento «vertebrato» che abbia in sé possibilità di sviluppo permanente e continuo. La mancanza di prospettiva storica nei programmi di partito, prospettiva costruita «scientificamente» cioè con serietà scrupolosa, per basare su tutto il passato i fini da raggiungere nell’avvenire e da proporre al popolo come una necessità cui collaborare consapevolmente, ha permesso appunto il fiorire di tanti romanzi ideologici, che sono in realtà la premessa (il manifesto) di movimenti politici che sono astrattamente supposti necessari, ma per suscitare i quali non si fa poi niente di pratico.

È questo un modo di procedere molto utile per facilitare le «operazioni» di quelle che sono spesso chiamate le «forze occulte» o «irresponsabili» che hanno per portavoce i «giornali indipendenti»: esse hanno bisogno ogni tanto di creare movimenti occasionali di opinione pubblica, da mantenere accesi fino al raggiungimento di determinati scopi e da lasciar poi illanguidire e morire. Sono manifestazioni come «le compagnie di ventura», vere e proprie compagnie di ventura ideologiche, pronte a servire i gruppi plutocratici o d’altra natura, spesso appunto fingendo di lottare contro la plutocrazia ecc. Organizzatore tipico di tali «compagnie» è stato Pippo Naldi, discepolo anch’egli di Oriani e regista di Mario Missiroli e delle sue improvvisazioni giornalistiche.

Sarebbe utile compilare una bibliografia completa di Mario Missiroli. Alcuni dei suoi libri: La Monarchia socialista (del 1913), Polemica liberale, Opinioni, Il colpo di Stato (del 1925), Una battaglia perduta, Italia d’oggi (del 1932), La repubblica degli accattoni (su Molinella), Amore e Faine, Date a Cesare… (1929). Un libro sul Papa, del 1917 ecc.

I motivi principali posti in circolazione dal Missiroli sono: 1°) che il Risorgimento è stato una conquista regia e non un movimento popolare; 2°) che il Risorgimento non ha risolto il problema dei rapporti tra Stato e Chiesa, motivo che è legato al primo, poiché «un popolo che non aveva sentito la libertà religiosa non poteva sentire la libertà politica. L’ideale dell’indipendenza e della libertà diventò patrimonio e programma di una minoranza eroica, che concepì l’unità contro l’acquiescenza delle moltitudini popolari». La mancanza della Riforma protestante in Italia spiegherebbe in ultima analisi tutto il Risorgimento e la storia moderna nazionale. Il Missiroli applica all’Italia il criterio ermeneutico applicato dal Masaryk alla storia russa (sebbene il Missiroli abbia detto di accettare la critica di Antonio Labriola contro il Masaryk storico). Come il Masaryk, Missiroli (nonostante le sue relazioni con G. Sorel) non comprende che la «riforma» intellettuale e morale (cioè «religiosa») di portata popolare nel mondo moderno c’è stata in due tempi: nel primo tempo con la diffusione dei principi della Rivoluzione francese, nel secondo tempo con la diffusione di una serie di concetti ricavati dalla filosofia della prassi e spesso contaminati con la filosofia dell’illuminismo e poi dell’evoluzionismo scientifista. Che una tale «riforma» sia stata diffusa in forme grossolane e sotto forma di opuscoletti non è istanza valevole contro il suo significato storico: non è da credere che le masse popolari influenzate dal calvinismo assorbissero concetti relativamente più elaborati e raffinati di quelli offerti da questa letteratura di opuscoli: si presenta invece la quistione dei dirigenti di tale riforma, della loro inconsistenza e assenza di carattere forte ed energico.

Né il Missiroli tenta di analizzare il perché la minoranza che ha guidato il moto del Risorgimento non sia «andata al popolo», né «ideologicamente» assumendo in proprio il programma democratico che pure giungeva al popolo attraverso le traduzioni dal francese, né «economicamente» con la riforma agraria. Ciò che «poteva» avvenire, poiché il contadiname era quasi tutto il popolo d’allora e la riforma agraria era un’esigenza fortemente sentita, mentre la Riforma protestante coincise appunto con una guerra di contadini in Germania e con conflitti tra nobili e borghesi in Francia ecc. (non bisogna dimenticare che sulla riforma agraria speculò invece l’Austria per aizzare i contadini contro i patrioti latifondisti e che i liberali conservatori, con le scuole di mutuo insegnamento e con istituzioni di mutuo soccorso o di piccolo credito su pegni popolari, cercarono solo di acquistarsi la simpatia degli artigiani e degli scarsi nuclei operai di città: l’Associazione generale degli operai di Torino ebbe tra i fondatori il Cavour). «L’unità non aveva potuto attuarsi col Papato, di sua natura universale ed organicamente ostile a tutte le libertà moderne; ma non era neppure riuscita a trionfare del Papato, contrapponendo all’idea cattolica un’idea altrettanto universale che rispondesse ugualmente alla coscienza individuale e alla coscienza del mondo rinnovato dalla Riforma e dalla Rivoluzione». Affermazioni astratte e in gran parte prive di senso.

Quale idea universale contrappose al cattolicismo la Rivoluzione francese? Perché dunque in Francia il moto fu popolare e in Italia no? La famosa minoranza italiana, «eroica» per definizione (in questi scrittori l’espressione «eroico» ha un significato puramente «estetico» o retorico e si applica a don Tazzoli come ai nobili milanesi che strisciarono dinanzi all’imperatore d’Austria, tanto che fu anche scritto un libro sul Risorgimento come di rivoluzione «senza eroi» con senso altrettanto letterario e cartaceo), che condusse il moto unitario, in realtà si interessava di interessi economici più che di formule ideali e combatté più per impedire che il popolo intervenisse nella lotta e la facesse diventare sociale (nel senso di una riforma agraria) che non contro i nemici dell’unità. Il Missiroli scrive che il nuovo fattore apparso nella storia italiana dopo l’unità, il socialismo, è stato la forma più potente assunta dalla reazione antiunitaria e antiliberale (ciò che è una sciocchezza, e non coincide con altri giudizi dello stesso Missiroli, secondo i quali il socialismo avrebbe immesso nello Stato le forze popolari prima assenti e indifferenti). Come il Missiroli stesso scrive: «Il socialismo non solo non ringagliardì la passione politica (!?), ma aiutò potentemente ad estinguerla; fu il partito dei poveri e delle plebi affamate: le quistioni economiche dovevano prendere rapidamente il sopravvento, i principi politici cedere il campo (!?) agli interessi materiali»; veniva creata una «remora, lanciando le masse alle conquiste economiche ed evitando tutte le quistioni istituzionali». Il socialismo, cioè, fece l’errore (alla rovescia) della famosa minoranza: questa parlava solo di idee astratte e di istituzioni politiche, quello trascurò la politica per la mera economia. È vero che altrove il Missiroli, proprio per ciò, loda i capi riformisti ecc.; questi motivi sono di origine orianesca e repubblicana, assunti superficialmente e senza senso di responsabilità.

Il Missiroli è, in realtà, solo quello che si chiama uno scrittore brillante; si ha l’impressione fondata che egli si infischi delle sue idee, dell’Italia e di tutto: lo interessa solo il gioco momentaneo di alcuni concetti astratti e lo interessa di cadere sempre in piedi con una nuova coccarda in petto. (Missiroli il misirizzi).

Il moto politico che condusse all’unificazione nazionale e alla formazione dello Stato italiano deve necessariamente sboccare nel nazionalismo e nell’imperialismo militaristico? Si può sostenere che questo sbocco è anacronistico e antistorico (cioè artificioso e di non lungo respiro); esso è realmente contro tutte le tradizioni italiane, romane prima, cattoliche poi. Le tradizioni sono cosmopolitiche. Che il moto politico dovesse reagire contro le tradizioni e dar luogo a un nazionalismo da intellettuali può essere spiegato, ma non si tratta di una reazione organico‑popolare. D’altronde, anche nel Risorgimento, Mazzini‑Gioberti cercano di innestare il moto nazionale nella tradizione cosmopolitica, di creare il mito di una missione dell’Italia rinata in una nuova Cosmopoli europea e mondiale, ma si tratta di un mito verbale e retorico, fondato sul passato e non sulle condizioni del presente, già formate o in processo di sviluppo (tali miti sono sempre stati un fermento di tutta la storia italiana, anche la più recente, da Q. Sella a Enrico Corradini, a D’Annunzio). Poiché un evento si è prodotto nel passato non significa che debba riprodursi nel presente e nell’avvenire; le condizioni di una espansione militare nel presente e nell’avvenire non esistono e non pare siano in processo di formazione. L’espansione moderna è di ordine finanziario‑capitalistico.

Nel presente italiano l’elemento «uomo» o è l’«uomo‑capitale» o è l’«uomo‑lavoro». L’espansione italiana può essere solo dell’uomo‑lavoro e l’intellettuale che rappresenta l’uomo-lavoro non è quello tradizionale, gonfio di retorica e di ricordi cartacei del passato. Il cosmopolitismo tradizionale italiano dovrebbe diventare un cosmopolitismo di tipo moderno, cioè tale da assicurare le condizioni migliori di sviluppo all’uomo‑lavoro italiano, in qualsiasi parte del mondo egli si trovi. Non il cittadino del mondo in quanto civis romanus o in quanto cattolico, ma in quanto produttore di civiltà. Perciò si può sostenere che la tradizione italiana si continua dialetticamente nel popolo lavoratore e nei suoi intellettuali, non nel cittadino tradizionale e nell’intellettuale tradizionale.

Il popolo italiano è quel popolo che «nazionalmente» è più interessato a una moderna forma di cosmopolitismo. Non solo l’operaio, ma il contadino e specialmente il contadino meridionale. Collaborare a ricostruire il mondo economicamente in modo unitario è nella tradizione del popolo italiano e della storia italiana, non per dominarlo egemonicamente e appropriarsi il frutto del lavoro altrui, ma per esistere e svilupparsi appunto come popolo italiano: si può dimostrare che Cesare è all’origine di questa tradizione. Il nazionalismo di marca francese è una escrescenza anacronistica nella storia italiana, propria di gente che ha la testa volta all’indietro come i dannati danteschi. La «missione» del popolo italiano è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma più moderna e avanzata. Sia pure nazione proletaria, come voleva il Pascoli; proletaria come nazione perché è stata l’esercito di riserva dei capitalismi stranieri, perché ha dato maestranze a tutto il mondo insieme ai popoli slavi. Appunto perciò deve inserirsi nel fronte moderno di lotta per riorganizzare il mondo anche non italiano, che ha contribuito a creare col suo lavoro, ecc.

Q19 §6 La quistione italiana. Sono da vedere i discorsi tenuti dal Ministro degli Esteri Dino Grandi al Parlamento nel 1932 e le discussioni che da quei discorsi derivarono nella stampa italiana e internazionale. L’on. Grandi impostò la quistione italiana come quistione mondiale, da risolversi necessariamente insieme alle altre che costituiscono l’espressione politica della crisi generale del dopoguerra, intensificatasi nel 1929 in modo quasi catastrofico, e cioè: il problema francese della sicurezza, il problema tedesco della parità di diritti, il problema di un nuovo assetto degli Stati danubiani e balcanici. L’impostazione dell’on. Grandi è un abile tentativo di costringere ogni possibile Congresso mondiale chiamato a risolvere questi problemi (e ogni tentativo della normale attività diplomatica) ad occuparsi della «questione italiana» come elemento fondamentale della ricostruzione e pacificazione europea e mondiale. In che consiste la questione italiana secondo questa impostazione? Consiste in ciò che l’incremento demografico è in contrasto con la relativa povertà del paese, e cioè nell’esistenza di un superpopolamento. Occorrerebbe pertanto che all’Italia fosse data la possibilità di espandersi, sia economicamente, sia demograficamente ecc. Ma non pare che la quistione così impostata sia di facile soluzione e non possa dar luogo ad obbiezioni fondamentali. Se è vero che i rapporti generali internazionali, così come si vengono sempre più irrigidendo dopo il 1929, sono molto sfavorevoli all’Italia (specialmente il nazionalismo economico ed il «razzismo» che impediscono la libera circolazione non solo delle merci e dei capitali ma soprattutto del lavoro umano), può anche essere domandato se a suscitare e irrigidire tali nuovi rapporti non abbia contribuito e contribuisca tuttora la stessa politica italiana. La ricerca principale pare debba essere in questo senso: il basso saggio individuale di reddito nazionale è dovuto alla povertà «naturale» del paese oppure a condizioni storico‑sociali create e mantenute da un determinato indirizzo politico che fanno dell’economia nazionale una botte delle Danaidi? Lo Stato, cioè, non costa troppo caro, intendendo per Stato, come è necessario, non solo l’amministrazione dei servizi statali, ma anche l’insieme delle classi che lo compongono in senso stretto e lo dominano? Pertanto è possibile pensare che senza un mutamento di questi rapporti interni, la situazione possa mutare in meglio anche se internazionalmente i rapporti migliorassero? Può anche essere osservato che la proiezione nel campo internazionale della questione può essere un alibi politico di fronte alle masse del paese.

Che il reddito nazionale sia basso, può concedersi, ma non viene poi esso distrutto (divorato) dalla troppa popolazione passiva, rendendo impossibile ogni capitalizzazione progressiva, sia pure con ritmo rallentato? Dunque la quistione demografica deve essere a sua volta analizzata, e occorre stabilire se la composizione demografica sia «sana» anche per un regime capitalistico e di proprietà. La povertà relativa «naturale» dei singoli paesi nella civiltà moderna (e in tempi normali) ha una importanza anch’essa relativa; tutt’al più impedirà certi profitti marginali di «posizione» geografica. La ricchezza nazionale è condizionata dalla divisione internazionale del lavoro e dall’aver saputo scegliere, tra le possibilità che questa divisione offre, la più razionale e redditizia per ogni paese dato. Si tratta dunque essenzialmente di «capacità direttiva» della classe economica dominante, del suo spirito d’iniziativa e di organizzazione. Se queste qualità mancano, e l’azienda economica è fondata essenzialmente sullo sfruttamento di rapina delle classi lavoratrici e produttrici, nessun accordo internazionale può sanare la situazione.

Non si ha esempio, nella storia moderna, di colonie di «popolamento»; esse non sono mai esistite. L’emigrazione e la colonizzazione seguono il flusso dei capitali investiti nei vari paesi e non viceversa. La crisi attuale che si manifesta specialmente come caduta dei prezzi delle materie prime e dei cereali mostra che il problema appunto non è di ricchezza «naturale» per i vari paesi del mondo, ma di organizzazione sociale e di trasformazione delle materie prime per certi fini e non per altri. Che si tratti di organizzazione e di indirizzo politico‑economico appare anche dal fatto che ogni paese a civiltà moderna ha avuto «emigrazione» in certe fasi del suo sviluppo economico, ma tale emigrazione è cessata e spesso è stata riassorbita.

Che non si vogliano (o non si possa) mutare i rapporti intemi (e neppure rettificarli razionalmente) appare dalla politica del debito pubblico, che aumenta continuamente il peso della passività «demografica», proprio quando la parte attiva della popolazione è ristretta dalla disoccupazione e dalla crisi. Diminuisce il reddito nazionale, aumentano i parassiti, il risparmio si restringe ed è disinvestito dal processo produttivo e viene riversato nel debito pubblico, cioè fatto causa di nuovo parassitismo assoluto e relativo.

Q19 §7 Sulla struttura economica nazionale. Nella«Riforma Sociale» del maggio giugno 1932 è stata pubblicata una recensione del libro di Rodolfo Morandi (Storia della grande industria in Italia, ed. Laterza, Bari, 1931) recensione che contiene alcuni spunti metodici di un certo interesse (la recensione è anonima, ma l’autore potrebbe essere identificato nel prof. De Viti De Marco).

Si obbietta prima di tutto al Morandi di non tener conto di ciò che è costata l’industria italiana: «All’economista non basta che gli vengano mostrate fabbriche che danno lavoro a migliaia di operai, bonifiche che creano terre coltivabili ed altri simili fatti di cui il pubblico generalmente si contenta nei suoi giudizi su un paese, su un’epoca. L’economista sa bene che lo stesso risultato può rappresentare un miglioramento o un peggioramento di una certa situazione economica, a seconda che sia ottenuto con un complesso di sacrifici minori o maggiori».

È giusto il criterio generale che occorra esaminare il costo dell’introduzione di una certa industria nel paese, chi ne ha fatto le spese, chi ne ha ricavato vantaggi e se i sacrifizi fatti non potevano esserlo in altra direzione più utilmente, ma tutto questo esame deve esser fatto con una prospettiva non immediata, ma di larga portata. D’altronde il solo criterio dell’utilità economica non è sufficiente per esaminare il passaggio da una forma di organizzazione economica ad un’altra; occorre tener conto anche del criterio politico, cioè se il passaggio sia stato obbiettivamente necessario e corrispondente a un interesse generale certo, anche se a scadenza lunga. Che l’unificazione della penisola dovesse costare sacrifizi a una parte della popolazione per le necessità inderogabili di un grande Stato moderno è da ammettere; però occorre esaminare se tali sacrifizi sono stati distribuiti equamente e in che misura potevano essere risparmiati e se sono stati applicati in una direzione giusta. Che l’introduzione e lo sviluppo del capitalismo in Italia non sia avvenuto da un punto di vista nazionale, ma da angusti punti di vista regionali e di ristretti gruppi e che abbia in gran parte fallito ai suoi compiti, determinando un’emigrazione morbosa, mai riassorbita e di cui mai è cessata la necessità, e rovinando economicamente intere regioni, è certissimo. L’emigrazione infatti deve essere considerata come un fenomeno di disoccupazione assoluta da una parte, e dall’altra come manifestazione del fatto che il regime economico interno non assicurava uno standard di vita che si avvicinasse a quello internazionale tanto da non far preferire i rischi e i sacrifizi connessi con l’abbandono del proprio paese a lavoratori già occupati).

Il Morandi non riesce a valutare il significato del protezionismo nello sviluppo della grande industria italiana. Così il Morandi rimprovera assurdamente alla borghesia «il proposito deliberato e funestissimo di non aver tentato l’avventura salutare del sud dove malamente la produzione agricola può ripagare i grandi sforzi che all’uomo richiede». Il Morandi non si domanda se la miseria del Sud non fosse determinata dalla legislazione protezionistica che ha consentito lo sviluppo industriale del Nord e come poteva esistere un mercato interno da sfruttare coi dazi e altri privilegi, se il sistema protettivo si fosse esteso a tutta la penisola, trasformando l’economia rurale del Sud in economia industriale (tuttavia si può pensare a un tale regime protezionistico panitaliano, come un sistema per assicurare determinati redditi a certi gruppi sociali, cioè come un «regime salariale»; e si può vedere qualcosa del genere nella protezione cerealicola, connessa alla protezione industriale, che funziona solo a favore dei grandi proprietari e dell’industria molitoria ecc.). Si rimprovera al Morandi l’eccessiva severità con cui giudica e condanna uomini e cose del passato, poiché basta fare un confronto tra le condizioni prima e dopo l’indipendenza per vedere che qualcosa si è pur fatta.

Pare dubbio che si possa fare una storia della grande industria astraendo dai principali fattori (sviluppo demografico, politica finanziaria e doganale, ferrovie ecc.) che hanno contribuito a determinare le caratteristiche economiche del periodo considerato (critica molto giusta; una gran parte dell’attività della Destra storica da Cavour al 1876 fu dedicata infatti a creare le condizioni tecniche generali in cui una grande industria fosse possibile e un grande capitalismo potesse diffondersi e prosperare; solo con l’avvento della Sinistra e specialmente con Crispi si ha la «fabbricazione dei fabbricanti» attraverso il protezionismo e i privilegi d’ogni genere. La politica finanziaria della Destra rivolta al pareggio rende possibile la politica «produttivistica» successiva). «Così, ad esempio, non si riesce a capire come mai vi fosse tanta abbondanza di mano d’opera in Lombardia nei primi decenni dopo l’unificazione, e quindi il livello dei salari rimanesse tanto basso, se si rappresenta il capitalismo come una piovra che allunga i suoi tentacoli per far sempre nuove prede nelle campagne, invece di tener conto della trasformazione che contemporaneamente avviene nei contratti agrari ed in genere nell’economia rurale. Ed è facile concludere semplicisticamente sulla caparbietà e sulla ristrettezza di mente delle classi padronali osservando la resistenza che esse fanno ad ogni richiesta di miglioramento delle condizioni delle classi operaie, se non si tiene anche presente quello che è stato l’incremento della popolazione rispetto alla formazione di nuovi capitali». (La quistione però non è così semplice. Il saggio del risparmio o di capitalizzazione era basso perché i capitalisti avevano voluto mantenere tutta l’eredità di parassitismo del periodo precedente, affinché non venisse meno la forza politica della loro classe e dei loro alleati).

Critica della definizione di «grande industria» data dal Morandi, il quale, non si sa perché, ha escluso dal suo studio molte delle più importanti attività industriali (trasporti, industrie alimentari ecc.). Eccessiva simpatia del Morandi per i colossali organismi industriali, considerati troppo spesso, senz’altro, come forme superiori di attività economica, malgrado siano ricordati i crolli disastrosi dell’Ilva, dell’Ansaldo, della Banca di Sconto, della Snia Viscosa, dell’Italgas. «Un altro punto di dissenso, il quale merita di essere rilevato, perché nasce da un errore molto diffuso, è quello in cui l’A. considera che un paese debba necessariamente rimaner soffocato dalla concorrenza degli altri paesi se inizia dopo di essi la propria organizzazione industriale. Questa inferiorità economica, a cui sarebbe condannata anche l’Italia, non sembra affatto dimostrata, perché le condizioni del mercato, della tecnica, degli ordinamenti politici, sono in continuo movimento e quindi le mète da raggiungere e le strade da percorrere si spostano tanto spesso e subitamente che possono trovarsi in vantaggio individui e popoli che erano rimasti più indietro o quasi non s’erano mossi. Se ciò non fosse si spiegherebbe male come continuamente possono sorgere e prosperare nuove industrie accanto alle più vecchie nello stesso paese e come abbia potuto realizzarsi l’enorme sviluppo industriale del Giappone alla fine del secolo scorso». (A questo proposito sarebbe da ricercare se molte industrie italiane, invece di nascere sulla base della tecnica più progredita nel paese più progredito, come sarebbe stato razionale, non siano nate con le macchine fruste di altri paesi, acquistate a buon prezzo sì, ma ormai superate, e se questo fatto non si presentasse «più utile» per gli industriali che speculavano sul basso prezzo della mano d’opera e sui privilegi governativi più che su una produzione tecnicamente perfezionata).

Nel fare l’analisi della relazione della Banca Commerciale italiana all’assemblea sociale per l’esercizio 1931, Attilio Cabiati (nella Riforma Sociale luglio‑agosto 1932, p. 464) scrive: «Risalta da queste considerazioni il vizio fondamentale che ha sempre afflitto la vita economica italiana: la creazione e il mantenimento di una impalcatura industriale troppo superiore sia alla rapidità di formazione di risparmio nel paese, che alla capacità di assorbimento dei consumatori interni; vivente quindi per una parte cospicua solo per la forza del protezionismo e di aiuti statali di svariate forme. Ma il patrio protezionismo che in taluni casi raggiunge e supera il cento per cento del valore internazionale del prodotto, rincarando la vita rallentava a sua volta la formazione del risparmio, che per di più veniva conteso all’industria dallo Stato stesso, spesso stretto dai suoi bisogni, sproporzionati alla nostra impalcatura. La guerra, allargando oltre misura tale impalcatura, costrinse le nostre banche, come scrive la relazione precitata, “ad una politica di tesoreria coraggiosa e pertinace”, la quale consisté nel prendere a prestito “a rotazione” all’estero, per prestare a più lunga scadenza all’interno. “Una tale politica di tesoreria aveva però – dice la relazione – il suo limite naturale nella necessità per le banche di conservare ad ogni costo congrue riserve di investimenti liquidi o di facile realizzo”. Quando scoppiò la crisi mondiale, gli “investimenti liquidi” non si potevano realizzare se non ad uno sconto formidabile: il risparmio estero arrestò il suo flusso: le industrie nazionali non poterono ripagare. Sicché, exceptis excipiendis, il sistema bancario italiano si trovò in una situazione per più aspetti identica a quella del mercato finanziario inglese nella metà del 1931… (l’errore) antico consisteva nell’aver voluto dare vita ad un organismo industriale sproporzionato alle nostre forze, creato con lo scopo di renderci “indipendenti dall’estero”: senza riflettere che, a mano a mano che non “dipendevamo” dall’estero per i prodotti, si rimaneva sempre più dipendenti per il capitale».

Si pone il problema se in un altro stato di cose si potrà allargare la base industriale del paese senza ricorrere all’estero per i capitali. L’esempio di altri paesi (per esempio il Giappone) mostra che ciò è possibile: ogni forma di società ha una sua legge di accumulazione del risparmio ed è da ritenere che anche in Italia si può ottenere una più rapida accumulazione. L’Italia è il paese, che, nelle condizioni create dal Risorgimento e dal suo modo di svolgimento, ha il maggior peso di popolazione parassitaria, che vive cioè senza intervenire per nulla nella vita produttiva, è il paese di maggior quantità di piccola e media borghesia rurale e urbana che consuma una frazione grande del reddito nazionale per risparmiarne una frazione insufficiente alle necessità nazionali.

Q19 §8 Le sètte nel Risorgimento. Cfr Pellegrino Nicolli, La Carboneria in Italia, Vicenza, Edizioni Cristofari, 1931. Il Nicolli cerca di distinguere nella Carboneria le diverse correnti, che spesso la componevano, e di dare un quadro delle diverse sètte che pullularono in Italia nella prima parte del secolo XIX. Da una recensione del libro del Nicolli pubblicata nel «Marzocco» del 25 ottobre 1931 si estrae questo brano: «È un groviglio di nomi strani, di emblemi, di riti, di cui si ignorano il più delle volte le origini; un confuso mescolarsi di propositi disparati, che variano non soltanto da società a società, ma nella stessa società, la quale, secondo i tempi e le circostanze, muta metodi e programmi. Dal vago sentimento nazionale si arriva alle aberrazioni del comunismo e, per converso, si hanno sètte che, ispirandosi agli stessi sistemi dei rivoluzionari, assumono la difesa del trono e dell’altare. Sembra che rivoluzione e reazione abbiano bisogno di battersi in un campo chiuso, dove non penetra occhio profano, tramando congiure al lume di fiaccole fumose e maneggiando pugnali. Un filo che ci guidi in mezzo a questo labirinto non c’è ed è vano chiederlo al Nicolli, che pure ha fatto del suo meglio per trovarlo. Si tenga anche soltanto presente la Carboneria, che è in un certo modo il gran fiume nel quale convogliano tutte le altre società segrete». Il Nicolli si è proposto di «raccogliere sinteticamente quanto da valenti storici è stato finora scritto» sulle società segrete nel Risorgimento.

Si può osservare: 1°) che la molteplicità delle sètte, dei programmi e dei metodi, oltre all’essere dovuta al carattere clandestino del movimento settario, è certamente dovuta anche alla primitività del movimento stesso, cioè all’assenza di tradizioni forti e radicate, e quindi all’assenza di un organismo «centrale» saldo e con indirizzo fermo; 2°) la molteplicità può sembrare più «morbosa» di quanto fosse realmente per la soverchia pedanteria erudita del ricercatore: realmente, in ogni tempo, esistono movimenti «settari» bizzarri e curiosi, ai quali non si bada neanche, in maggior misura di quanto non si supponga comunemente.

Q19 §9 Correnti popolari nel Risorgimento. Carlo Bini (cfr Le più belle pagine di Carlo Bini, raccolte da Dino Provenzal). Giovanni Rabizzani, in uno studio su Lorenzo Sterne in Italia (forse nella collezione «L’Italia negli scrittori stranieri» dell’editore Rocco Carabba) ricorda il Bini e rileva un notevole contrasto tra i due: lo Sterne più incline alle analisi sentimentali e meno scettico, il Bini più attento ai problemi sociali, tanto che il Rabizzani lo chiama addirittura socialista. In ogni caso è da notare che Livorno fu delle pochissime città che nel 1848‑49 vide un profondo movimento popolare, un intervento di masse plebee che ebbe vasta ripercussione in tutta la Toscana e che mosse a spavento i gruppi moderati e conservatori (ricordare le Memorie di G. Giusti). Il Bini è da vedere perciò, accanto al Montanelli, nel quadro del 1849 toscano.

Q19 §10 Gli scritti del padre Carlo Maria Curci. Gli scritti del padre Curci, dopo la sua conversione al cattolicismo liberale, sono utili per ricostruire la situazione italiana intorno al 1880. La conversione del Curci, celebre e battagliero gesuita della «Civiltà Cattolica», rappresenta, dopo il 1870, uno dei maggiori colpi ricevuti dalla politica vaticana di boicottaggio del nuovo Stato unitario e l’inizio di quel processo molecolare che trasformerà il mondo cattolico fino alla fondazione del Partito Popolare. Alcuni scritti del padre Curci dopo la conversione: Il moderno dissidio tra la Chiesa e l’Italia, considerato per occasione di un fatto particolare, IIa ediz. migliorata ed accresciuta, in 8°, pp. XII-276, 1878, L. 4,50; La nuova Italia e i vecchi zelanti. Studi utili ancora all’ordinamento dei partiti parlamentari, in 8°, pp. VIII‑256, 1881, L. 5,25; Il Vaticano Regio, tarlo superstite della Chiesa Cattolica. Studi dedicati al giovane clero ed al laicato credente, in 8°, pp. VIII‑336, 1883, L. 4,50; Lo scandalo del Vaticano Regio, duce la Provvidenza, buono a qualche cosa, in 8°, pp. XVI‑136, 1884, L. 2,25. (Questi volumi sono ancora in vendita presso l’Utet di Torino, secondo il catalogo del 1928).

Q19 §11 Caratteri popolareschi del Risorgimento. Volontari e intervento popolare. Nel numero del 24 maggio di «Gioventù Fascista» (riportato dal «Corriere della Sera» del 21 maggio 1932) è pubblicato questo messaggio dell’on. Balbo: «Le creazioni originali della storia e della civiltà italiana, dal giorno in cui risorse dal letargo secolare ad oggi, sono dovute al volontariato della giovinezza. La santa canaglia di Garibaldi, l’eroico interventismo del ’15, le Camicie Nere della Rivoluzione Fascista hanno dato unità e potenza all’Italia, hanno fatto, di un popolo disperso, una nazione. Alle generazioni che oggi si affacciano alla vita sotto il segno del Littorio, il compito di dare al secolo nuovo il nome di Roma». L’affermazione che l’Italia moderna è stata caratterizzata dal volontariato è giusta (si può aggiungere l’arditismo di guerra), ma occorre notare che il volontariato, pur nel suo pregio storico, che non può essere diminuito, è stato un surrogato dell’intervento popolare, e in questo senso è una soluzione di compromesso con la passività delle masse nazionali. Volontariato‑passività, vanno insieme più di quanto si creda. La soluzione col volontariato è una soluzione d’autorità, dall’alto, legittimata formalmente dal consenso, come suol dirsi, dei «migliori». Ma per costruire storia duratura non bastano i «migliori», occorrono le più vaste e numerose energie nazionali‑popolari.

Q19 §12 La posizione geopolitica dell’Italia. La possibilità dei blocchi. Nella sesta seduta della Conferenza di Washington (23 dicembre 1921) il delegato inglese Balfour disse, parlando dell’Italia: «L’Italia non è un’isola, ma può considerarsi come un’isola. Mi ricordo dell’estrema difficoltà che abbiamo avuto a rifornirla anche con il minimo di carbone necessario per mantenere la sua attività, i suoi arsenali e le sue officine, durante la guerra. Dubito che essa possa nutrirsi e approvvigionarsi, o continuare ad essere una effettiva unità di combattimento, se fosse realmente sottomessa ad un blocco e se il suo commercio marittimo fosse arrestato. L’Italia ha cinque vicini nel Mediterraneo. Spero e credo che la pace, pace eterna, possa regnare negli antichi focolari della civiltà. Ma noi facciamo un esame freddo e calcolatore come quello di un membro qualsiasi dello Stato Maggiore Generale. Questi, considerando il problema senza alcun pregiudizio politico e soltanto come una questione di strategia, direbbe all’Italia: voi avete cinque vicini, ciascuno dei quali può, se vuole, stabilire un blocco delle vostre coste senza impiegare una sola nave di superficie. Non sarebbe necessario che sbarcasse truppe e desse battaglia. Voi perireste senza essere conquistati». (Balfour parlava specialmente sotto l’impressione della guerra sottomarina e prima dei grandi progressi realizzati dall’aviazione di bombardamento, che non pare possa permettere un blocco immune da rappresaglie; tuttavia per alcuni aspetti la sua analisi è abbastanza giusta).

Q19 §13 Pubblicazione ed esame dei libri e delle memorie degli antiliberali e antifrancesi nel periodo della Rivoluzione francese e di Napoleone e reazionari nel periodo del Risorgimento. Sono necessari, in quanto anche le forze avverse al moto liberale italiano furono una parte e un aspetto non trascurabile della realtà, ma in essi occorre tener presenti alcuni criteri metodici: 1°) alcune ristampe, come quella del Memorandum del Solaro della Margarita e forse anche i volumi curati dal Lovera di Castiglione e dal gesuita Ilario Rinieri o hanno uno scopo attuale, di rafforzare certe tendenze reazionarie nell’interpretazione del Risorgimento (rappresentate dai gesuiti della «Civiltà Cattolica») o sono presentati come testi per l’azione attuale (il Papa di De Maistre e lo stesso Memorandum del Solaro ecc.). 2°) Le descrizioni degli interventi francesi nelle varie regioni italiane sotto il Direttorio e successivamente, sono dovute molto spesso solo ai reazionari: i «giacobini» si arruolavano e quindi avevano altro da fare che scrivere memorie: i quadri pertanto sono sempre tendenziosi e sarebbe molto ingenuo ricostruire la verità su tale letteratura. Fra queste pubblicazioni cfr Ranuccio Ranieri, L’invasione francese degli Abruzzi nel 1798‑99 e una memoria del tempo inedita di Giovanni Battista Simone, Pescara, Edizioni dell’«Adriatico», 1931. Dalla narrazione del Simone, antigiacobino e legittimista, appare che in Chieti città la forza giacobina era di una certa efficienza, ma nella campagna (salvo eccezioni dovute a rivalità municipali e al desiderio di aver l’occasione di fare delle vendette) prevalevano le forze reazionarie nella lotta contro Chieti. Pare che più della memoria del Simone, enfatica e verbosa, sia interessante l’esposizione del Ranieri che ricostruisce la situazione dell’Abruzzo in quel periodo di storia.

Q19 §14 Carlo Felice. È da leggere la biografia scrittane da Francesco Lemmi per la «Collana storica sabauda» dell’Ed. Paravia. Alcuni punti rilevanti della biografia del Lemmi. l’avversione di Carlo Felice contro il ramo dei Carignano: in alcune lettere scritte da Carlo Felice al fratello Vittorio Emanuele nel 1804 si leggono contro i genitori di Carlo Alberto parole «roventi», dettate da non si sa quale risentimento e che giungono fino a scongiurare come una vergogna quella non desiderata successione; Carlo Felice e i moti del 1821. Nota il Lemmi che Carlo Felice non fece mai una politica italiana ma mirò solo ad estendere i suoi possessi

Q19 §15 La Rivoluzione del 1831. Nell’«Archiginnasio» (4‑6, anno XXVI, 1932) Albano Sorbelli pubblica e commenta il testo del Piano politico costitutivo della Rivoluzione del 1831 scritto da Ciro Menotti. Il documento era già stato pubblicato da Enrico Ruffini nel 1909 (?) nell’«Archivio Emiliano del Risorgimento Nazionale», fasc. 10 e 11. Anche il volume di Arrigo Solmi sui fatti del 31 si basa su questo piano. Ora si è potuto, con un reagente, far rivivere lo scritto del Menotti e fotografarlo per l’«Archiginnasio».

Q19 §16 Prospero Merimée e il ’48 italiano. Nella «Revue des deux mondes» (fasc. del 15 maggio 1932) è pubblicato un manipolo di lettere di Prospero Merimée alla contessa De Boigne (autrice di Memorie famose). Sul ’48 in Italia: «i Piemontesi non si preoccupano affatto del nostro aiuto e noi impediamo gli Italiani di aiutarli col promettere il rinforzo. del nostro invincibile esercito: un viaggiatore che viene di Lombardia racconta che il paese, come in pieno Medio Evo, è diviso in tante piccole repubbliche quanti sono i borghi e i villaggi, ostili l’uno all’altro nell’attesa di prendere le armi». Il Merimée era fautore dell’unità italiana.

(Racconta aneddoti piccanti sulla situazione francese: per esempio, i contadini, votando per Luigi Napoleone, credevano di votare per Napoleone I. Inutilmente si cercava di spiegar loro che la salma dell’Imperatore è sepolta agli Invalidi).

Che la speranza di un possibile aiuto dell’esercito francese abbia nel ’48 influito a restringere il movimento di volontari, ecc. è possibile, tuttavia non spiega il fatto che i volontari presentatisi furono male impiegati e male trattati, non spiega l’inerzia militare dello stesso Piemonte e l’assenza di una chiara direzione politico‑militare, nel senso spiegato nelle successive; non spiega neanche il motto dell’«Italia farà da sé».

Q19 §17 Martino Beltrani Scalia: Giornali di Palermo nel 1848‑1849, con brevi accenni a quelli delle altre principali città d’Italia nel medesimo periodo, a cura del figlio Vito Beltrani, Palermo, Sandron, 1931. Si tratta di una esposizione condensata in poche linee del contenuto dei singoli periodici pubblicati a Palermo nel 1848 e 1849 e anche dell’anno precedente, nonché di numerosi giornali del continente (di Napoli, di Roma, della Toscana, del Piemonte e della Svizzera, cioè dell’«Italia del Popolo» di Mazzini), esposizione fatta generalmente giorno per giorno. Per i giornali non siciliani si dà importanza a ciò che riguarda la Sicilia. Nel 1847 i giornali palermitani erano appena sei; nel ’48‑49 il Beltrani Scalia ne annovera centoquarantuno e non è da escludere che gliene sia sfuggito qualcuno. Dai sunti del B. S. appare l’assenza dei partiti permanenti: si tratta per lo più di opinioni personali, spesso contraddittorie nello stesso foglio. Pare che il saggio del B. S. dimostri che aveva ragione il La Farina quando nella Storia documentata della rivoluzione siciliana scrisse che «la stampa periodica, salvo scarse e onorevoli eccezioni, non rispose mai all’altezza del suo ministero: fu scandalo, non forza».

Q19 §18 Il 1849 a Firenze. Nella «Rassegna Nazionale» (riportato dal «Marzocco» del 21 febbraio 1932) Aldo Romano pubblica una lettera di Ruggero Bonghi e una di Cirillo Monzani scritte a Silvio Spaventa nel 1849 da Firenze, durante il periodo della dittatura Guerrazzi‑Montanelli, lettere che sono interessanti per giudicare quale fosse l’atteggiamento dei moderati verso la fase democratica del moto rivoluzionario del ’48‑49. Colpisce il fatto come questi due moderati si mostrino estranei agli avvenimenti, spettatori solo incuriositi ma malevoli e non attori interessati. Ecco un brano del Bonghi, scritto quindici giorni dopo la fuga del Granduca e di stile brescianesco: «La fazione repubblicana intende a rizzare dovunque quell’albero con così poco concorso rizzato a Firenze, insino dalla sera che si seppe il proclama di De Laugier e mediante l’opera di alcuni livornesi fatti venire a bella posta. Questo rizzamento ha poco o nessun contrasto nelle città principali o più popolose; ma ne ha molto nelle più piccole e moltissimo nelle campagne. Ier sera si voleva rizzare fuori Porta Romana; furon grida di evviva; poi contrasto di chi voleva e di chi non voleva; poi colpi di coltello e fucilate; infine un grande sconquasso. I contadini dei dintorni, credendo che fosse una baldoria che si facesse per il ritorno del granduca, o che fossero già istigati e preparati alla reazione, o comechessia, cominciarono anch’essi a fare gli evviva a Leopoldo II, a tirar fucilate, a cavar bandiere, ad agitar fazzoletti, a sparar mortaletti e cose simili». Più sintomatico ancora è lo scritto del Monzani, che dà uno scampolo di quella che doveva essere la propaganda disfattista dei moderati: «La cecità e, quel che è peggio, la mala fede, l’astuzia, il raggiro, mi paiono giunti al colmo. Si parla molto di patria, di libertà, ma pochi hanno in cuore la patria e saprebbero fare estremi sacrifizi ed esporre le vite a salvamento di essa. Questi santissimi nomi sono purtroppo profanati, ed i più se ne servono come pala (!) ad ottenere o potenza o ricchezza. Forse mi ingannerò, ma l’aspettarsi salvezza da costoro mi parrebbe il medesimo che aspettarla dal turco. Io non sono avvezzo ad illudermi, né a correr dietro ai fantasmi, ché troppo gli italiani si sono lasciati prendere al laccio dalle chimere e dalle utopie di certi apostoli, i quali ormai sono troppo dannosi alla nostra disgraziata patria».

Le due lettere furono sequestrate allo Spaventa al momento dell’arresto. I Borboni erano troppo angusti di mente per servirsene contro i liberali, facendole pubblicare e commentare dai loro pennaioli (odiavano troppo i pennaioli per averne al proprio servizio), si limitarono a passarle agli atti del processo Spaventa. (Tutta la spiritosaggine del Bonghi è concentrata in quel continuo ripetere «rizzare» e «rizzamento» alla napoletana).

Q19 §19 Momenti di vita intensamente collettiva e unitaria nello sviluppo nazionale del popolo italiano. Esaminare nello svolgimento della vita nazionale dal 1800 in poi tutti i momenti in cui al popolo italiano si è posto da risolvere un compito almeno potenzialmente comune, in cui avrebbero potuto verificarsi perciò un’azione o un moto di carattere collettivo (in profondità e in estensione) e unitario. Questi momenti, nelle diverse fasi storiche, possono essere stati di diversa natura e di diversa importanza nazionale‑popolare. Ciò che importa nella ricerca è il carattere potenziale (e quindi la misura in cui la potenzialità si è tradotta in atto) di collettività e di unitarietà, cioè la diffusione territoriale (la regione risponde a questa esigenza, se non addirittura la provincia) e la intensità di massa (cioè la maggiore o minore moltitudine di partecipanti, la maggiore o minore ripercussione positiva e anche attivamente negativa che il moto ha avuto nei diversi strati della popolazione).

Questi momenti possono aver avuto carattere e natura diversi: guerre, rivoluzioni, plebisciti, elezioni generali di particolare significato. Guerre: 1848‑49, 1859, 1860, 1866, 1870, guerre d’Africa (Eritrea e Libia), guerra mondiale.

Rivoluzioni: 1820‑21, 1831, 1848‑49, 1860, fasci siciliani, 1898, 1904, 1914, 1919‑20, 1924‑25. Plebisciti per la formazione del Regno: 1859‑60, 1866, 1870. Elezioni generale con diversa estensione di suffragio. Elezioni tipiche: quella che porta la Sinistra al potere nel 1876, quella dopo l’allargamento del suffragio dopo il 1880, quella dopo il 1898. L’elezione del 1913 è la prima con caratteri popolari spiccati per la larghissima partecipazione dei contadini; quella del 1919 è la più importante di tutte per il carattere proporzionale e provinciale del voto che obbliga i partiti a raggrupparsi e perché in tutto il territorio, per la prima volta, si presentano gli stessi partiti con gli stessi (all’ingrosso) programmi. In misura molto maggiore e più organica che nel 1913 (quando il collegio uninominale restringeva le possibilità e falsificava le posizioni politiche di massa per l’artificiosa delimitazione dei collegi) nel 1919 in tutto il territorio, in uno stesso giorno, tutta la parte più attiva del popolo italiano si pone le stesse quistioni e cerca di risolverle nella sua coscienza storico‑politica. Il significato delle elezioni del 1919 è dato dal complesso di elementi «unificatori», positivi e negativi, che vi confluiscono: la guerra era stata un elemento unificatore di primo ordine in quanto aveva dato la coscienza alle grandi masse dell’importanza che ha anche per il destino di ogni singolo individuo la costruzione dell’apparato governativo, oltre all’aver posto una serie di problemi concreti, generali e particolari, che riflettevano l’unità popolare‑nazionale. Si può affermare che le elezioni del 1919 ebbero per il popolo un carattere di Costituente (questo carattere lo ebbero anche le elezioni del 1913, come può ricordare chiunque abbia assistito alle elezioni nei centri regionali dove maggiore era stata la trasformazione del corpo elettorale e come fu dimostrato dall’alta percentuale di partecipazione al voto: era diffusa la convinzione mistica che tutto sarebbe cambiato dopo il voto, di una vera e propria palingenesi sociale: così almeno in Sardegna) sebbene non l’abbiano avuto per «nessun» partito del tempo: in questa contraddizione e distacco tra il popolo e i partiti è consistito il dramma storico del 1919, che fu capito immediatamente solo da alcuni gruppi dirigenti più accorti e intelligenti (e che avevano più da temere per il loro avvenire). È da notare che proprio il partito tradizionale della costituente in Italia, il repubblicano, dimostrò il minimo di sensibilità storica e di capacità politica e si lasciò imporre il programma e l’indirizzo (cioè una difesa astratta e retrospettiva dell’intervento in guerra) dai gruppi dirigenti di destra. Il popolo, a suo modo, guardava all’avvenire (anche nella quistione dell’intervento in guerra) e in ciò è il carattere implicito di costituente che il popolo diede alle elezioni del 1919; i partiti guardavano al passato (solo al passato) concretamente e all’avvenire «astrattamente», «genericamente», come «abbiate fiducia nel vostro partito» e non come concezione storico‑politica costruttiva. Tra le altre differenze tra il 1913 e il 1919 occorre ricordare la partecipazione attiva dei cattolici, con uomini proprii, con un proprio partito, con un proprio programma. Anche nel 1913 i cattolici avevano partecipato alle elezioni, ma attraverso il patto Gentiloni, in modo sornione e che falsificava il significato dello schieramento e dell’influsso delle forze politiche tradizionali. Per il 1919 è da ricordare il discorso tenuto da Giolitti di intonazione costituentistica (retrospettiva) e l’atteggiamento dei giolittiani verso i cattolici quale risulta dagli articoli di Luigi Ambrosini nella «Stampa». In realtà i giolittiani furono i vincitori delle elezioni, nel senso che essi impressero il carattere di costituente senza costituente alle elezioni stesse e riuscirono ad attrarre l’attenzione dall’avvenire al passato.

Q19 §20 Risorgimento e quistione orientale. In tutta una serie di scritti (tendenziosi a favore dei moderati) si dà un significato trascendentale alle manifestazioni letterarie del periodo del Risorgimento, in cui la quistione orientale è prospettata in funzione dei problemi italiani: disegni di inorientamento e balcanizzazione dell’Austria per compensarla del Lombardo‑Veneto ceduto pacificamente a profitto della rinascita nazionale italiana, ecc. Non pare che tali disegni siano prova di grande capacità politica, come si pretende: pare piuttosto debbano essere interpretati come espressione di passività politica e di scoramento dinanzi alle difficoltà dell’impresa nazionale, scoramento che si vela di disegni tanto più grandiosi quanto più astratti e vaghi in quanto non dipendeva dalle forze italiane il portarli a compimento. «Balcanizzare» l’Austria significava infatti creare una situazione politico‑diplomatica europea (e implicitamente militare) in forza della quale l’Austria si fosse lasciata «balcanizzare»; significava avere l’egemonia politica e diplomatica dell’Europa, una cosa da nulla! Non si comprende perché l’Austria non potesse, conservando il Lombardo‑Veneto, cioè la supremazia in Italia e una posizione dominante nel Mediterraneo centrale, conquistare anche una maggiore influenza nei Balcani e quindi nel Mediterraneo orientale: questo anzi sarebbe stato l’interesse dell’Inghilterra, che fondava sull’Austria un sistema di equilibrio contro la Francia e contro la Russia. Lo stesso scarso sentimento di iniziativa politica autonoma e la sfiducia nelle proprie forze, – che erano impliciti nel disegno del Balbo – dovevano rendere sorda l’Inghilterra a tali suggerimenti.

Solo un forte Stato italiano che avesse potuto sostituire l’Austria nella sua funzione antifrancese nel Mediterraneo centrale avrebbe potuto muovere l’Inghilterra a simpatie verso l’Italia, come avvenne infatti dopo le annessioni nell’Italia centrale e l’impresa dei Mille contro i Borboni; prima di questi fatti reali, solo un grande partito pieno di decisione e di audacia e sicuro delle proprie mosse perché radicato nelle grandi masse popolari, avrebbe ottenuto forse lo stesso risultato, ma ciò appunto non esisteva e anzi il Balbo coi suoi amici non volevano si formasse. La balcanizzazione dell’Austria dopo la perdita dell’egemonia nella penisola e rimanendo i Borboni a Napoli (secondo il piano neoguelfo) avrebbe avuto conseguenze gravi per la politica inglese nel Mediterraneo. Lo Stato napoletano sarebbe diventato un feudo russo, cioè la Russia avrebbe avuto la possibilità di un’azione militare proprio nel centro del Mediterraneo. (La quistione dei rapporti tra i Borboni di Napoli e lo Zarismo è tutto un aspetto della storia dal 1799 al 1860 da esaminare e approfondire: dal libro del Nitti sul Capitale straniero in Italia, stampato nel 1915 da Laterza, si vede che ancora esistevano nell’Italia Meridionale per circa 150 milioni di obbligazioni statali russe, residuo non trascurabile della connessione che si era venuta formando tra Napoli e la Russia prima del 1860, contro l’Inghilterra).

Non bisogna dimenticare che la Quistione orientale, se aveva il suo nodo strategico nei Balcani e nell’Impero turco, era specialmente la forma politico‑diplomatica della lotta tra Russia e Inghilterra: era cioè la quistione del Mediterraneo, dell’Asia prossima e centrale, dell’India, dell’Impero inglese. Il libro in cui il Balbo sostenne la sua tesi: Le Speranze d’Italia fu pubblicato nel 1844 e la tesi stessa non ebbe altra efficacia se non quella di far conoscere la quistione orientale attirando l’attenzione su di essa e quindi di facilitare (forse) la politica di Cavour a proposito della guerra di Crimea. Non ebbe nessuna efficacia nel ’59 (quando il Piemonte e la Francia pensarono di suscitare nemici all’Austria nei Balcani per illanguidirne le forze militari) perché una tale azione fu circoscritta, di poco respiro e in ogni caso si ridusse a un episodio di organizzazione dell’attività militare franco‑piemontese: lo stesso si dica per il 1866, quando una simile diversione fu pensata dal governo italiano e da Bismark per la guerra contro l’Austria. Cercare, in tempo di guerra, di indebolire il nemico suscitandogli nemici all’interno e su tutto il perimetro dei confini politico‑militari non è elemento di un piano politico per l’Oriente ma fatto di ordinaria amministrazione della condotta bellica. Del resto, dopo il 60 e la formazione di uno Stato italiano di notevole importanza, l’inorientamento dell’Austria aveva un ben diverso significato internazionale e trovava consenzienti tanto l’Inghilterra che la Francia.

Qualche pubblicazione recente si è occupata dei progetti borbonici, rimasti progetti, di espansione in Oriente, per trarne argomento di riabilitazione del governo napoletano; tali progetti saranno stati visti volentieri dalla Russia e impediti dall’Inghilterra, che sulla quistione di Malta fu intrattabile verso Napoli. (Sarà da vedere il volume di Pietro Silva sul Mediterraneo).

Q19 §21 Il «mutuo insegnamento». Per l’importanza che ha avuto nel moto liberale del Risorgimento il principio e la diffusione pratica del «mutuo insegnamento», cfr i due volumi di Arturo Linacher su Enrico Mayer, che fu uno dei maggiori collaboratori dell’«Antologia» e del Vieusseux e uno dei maggiori divulgatori del nuovo metodo pedagogico.

Q19 §22 Correnti popolaresche. Per i movimenti popolari di sinistra del ’48‑49 è da vedere: Nicola Valdimiro Testa, Gli Irpini nei moti politici e nella reazione del 1848‑49, Napoli, R. Contessa e Fratelli, 1932, in 8°, pp. 320, L. 15

Q19 §23 E. De Amicis e G. C. Abba. Significato della Vita Militare del De Amicis. La Vita Militare è da porre accanto ad alcune pubblicazioni di G. C. Abba, nonostante il contrasto intimo e il diverso atteggiamento. G. C. Abba è più «educatore» e più «nazionale‑popolare»: egli è certamente più concretamente democratico del De Amicis perché politicamente più robusto ed eticamente più austero. Il De Amicis, nonostante le apparenze superficiali, è più servile verso i gruppi dirigenti in forme paternalistiche.

Nella Vita Militare è da vedere il capitolo: «L’Esercito Italiano durante il colera del 1867» perché ritrae l’atteggiamento del popolo siciliano verso il governo e gli «italiani» dopo la sommossa del settembre 1866. Guerra del 1866, sommossa di Palermo, colera: tre fatti che non possono essere staccati. Sarà da vedere l’altra letteratura sul colera in tutto il Mezzogiorno nel 1866‑67. Non si può giudicare il livello civile della vita popolare di quel tempo senza trattare questo argomento. (Esistono pubblicazioni ufficiali sui reati contro le autorità – soldati, ufficiali, ecc. – durante il colera?)

Al momento della sommossa era prefetto a Palermo Luigi Torelli, sul quale cfr Antonio Monti, Il conte Luigi Torelli, Milano, R. Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, 1931, in 8°, pp. 513, L. 30. Dopo la repressione il Torelli ebbe la medaglia d’oro al valor civile. Il libro è da vedere anche perché il Torelli ebbe in tutto il Risorgimento una funzione abbastanza significativa.

Q19 §24 Il problema della direzione politica nella formazione e nello sviluppo della nazione e dello Stato moderno in Italia. Tutto il problema della connessione tra le varie correnti politiche del Risorgimento, cioè dei loro rapporti reciproci e dei loro rapporti con i gruppi sociali omogenei o subordinati esistenti nelle varie sezioni (o settori) storiche del territorio nazionale, si riduce a questo dato di fatto fondamentale: i moderati rappresentavano un gruppo sociale relativamente omogeneo, per cui la loro direzione subì oscillazioni relativamente limitate (e in ogni caso secondo una linea di sviluppo organicamente progressivo), mentre il così detto Partito d'Azione non si appoggiava specificamente a nessuna classe storica e le oscillazioni subite dai suoi organi dirigenti in ultima analisi si componevano secondo gli interessi dei moderati: cioè storicamente il Partito d’Azione fu guidato dai moderati: l’affermazione attribuita a Vittorio Emanuele II di «avere in tasca» il Partito d'Azione o qualcosa di simile è praticamente esatta e non solo per i contatti personali del Re con Garibaldi ma perché di fatto il Partito d'Azione fu diretto «indirettamente» da Cavour e dal Re.

Il criterio metodologico su cui occorre fondare il proprio esame è questo: che la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come «dominio» e come «direzione intellettuale e morale». Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a «liquidare» o a sottomettere anche con la forza armata ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche «dirigente». I moderati continuarono a dirigere il Partito d'Azione anche dopo il 1870 e il 1876 e il così detto «trasformismo» non è stato che l’espressione parlamentare di questa azione egemonica intellettuale, morale e politica. Si può anzi dire che tutta la vita statale italiana dal 1848 in poi è caratterizzata dal trasformismo, cioè dall’elaborazione di una sempre più larga classe dirigente nei quadri fissati dai moderati dopo il 1848 e la caduta delle utopie neoguelfe e federalistiche, con l’assorbimento graduale, ma continuo e ottenuto con metodi diversi nella loro efficacia, degli elementi attivi sorti dai gruppi alleati e anche da quelli avversari e che parevano irreconciliabilmente nemici. In questo senso la direzione politica è diventata un aspetto della funzione di dominio, in quanto l’assorbimento delle élites dei gruppi nemici porta alla decapitazione di questi e al loro annichilimento per un periodo spesso molto lungo. Dalla politica dei moderati appare chiaro che ci può e ci deve essere una attività egemonica anche prima dell’andata al potere e che non bisogna contare solo sulla forza materiale che il potere dà per esercitare una direzione efficace: appunto la brillante soluzione di questi problemi ha reso possibile il Risorgimento nelle forme e nei limiti in cui esso si è effettuato, senza «Terrore», come «rivoluzione senza rivoluzione» ossia come «rivoluzione passiva» per impiegare un’espressione del Cuoco in un senso un po’ diverso da quello che il Cuoco vuole dire.

In quali forme e con quali mezzi i moderati riuscirono a stabilire l’apparato (il meccanismo) della loro egemonia intellettuale, morale e politica? In forme e con mezzi che si possono chiamare «liberali», cioè attraverso l’iniziativa individuale, «molecolare», «privata» (cioè non per un programma di partito elaborato e costituito secondo un piano precedentemente all’azione pratica e organizzativa). D’altronde, cioè era «normale», date la struttura e la funzione dei gruppi sociali rappresentati dai moderati dei quali i moderati erano il ceto dirigente, gli intellettuali in senso organico. Per il Partito d’Azione il problema si poneva in modo diverso e diversi sistemi organizzativi avrebbero dovuto essere impiegati. I moderati erano intellettuali «condensati» già naturalmente dall’organicità dei loro rapporti con i gruppi sociali di cui erano l’espressione (per tutta una serie di essi si realizzava l’identità di rappresentato e rappresentante, cioè i moderati erano un’avanguardia reale, organica delle classi alte, perché essi stessi appartenevano economicamente alle classi alte: erano intellettuali e organizzatori politici e insieme capi d’azienda, grandi agricoltori o amministratori di tenute, imprenditori commerciali e industriali, ecc.). Data questa condensazione o concentrazione organica, i moderati esercitavano una potente attrazione, in modo «spontaneo», su tutta la massa d’intellettuali d’ogni grado esistenti nella penisola allo stato «diffuso», «molecolare», per le necessità, sia pure elementarmente soddisfatte, della istruzione e dell’amministrazione. Si rileva qui la consistenza metodologica di un criterio di ricerca storico‑politica: non esiste una classe indipendente di intellettuali, ma ogni gruppo sociale ha un proprio ceto di intellettuali o tende a formarselo; però gli intellettuali della classe storicamente (e realisticamente) progressiva, nelle condizioni date, esercitano un tale potere d’attrazione che finiscono, in ultima analisi, col subordinarsi gli intellettuali degli altri gruppi sociali e quindi col creare un sistema di solidarietà fra tutti gli intellettuali con legami di ordine psicologico (vanità ecc.) e spesso di casta (tecnico‑giuridici, corporativi, ecc.).

Questo fatto si verifica «spontaneamente» nei periodi storici in cui il gruppo sociale dato è realmente progressivo, cioè fa avanzare realmente l’intera società, soddisfacendo non solo alle sue esigenze esistenziali, ma ampliando continuamente i propri quadri per la continua presa di possesso di nuove sfere di attività economico‑produttiva. Appena il gruppo sociale dominante ha esaurito la sua funzione, il blocco ideologico tende a sgretolarsi e allora alla «spontaneità» può sostituirsi la «costrizione» in forme sempre meno larvate e indirette, fino alle misure vere e proprie di polizia e ai colpi di Stato.

Il Partito d'Azione non solo non poteva avere, data la sua natura, un simile potere di attrazione, ma era esso stesso attratto e influenzato, sia per l’atmosfera di intimidazione (panico di un 93 terroristico rinforzato dagli avvenimenti francesi del 48‑49) che lo rendeva esitante ad accogliere nel suo programma determinate rivendicazioni popolari (per esempio la riforma agraria), sia perché alcune delle sue maggior, personalità (Garibaldi) erano, sia pure saltuariamente (oscillazioni), in rapporto personale di subordinazione coi capi dei moderati. Perché il Partito d'Azione fosse diventato una forza autonoma e, in ultima analisi, fosse riuscito per lo meno a imprimere al moto del Risorgimento un carattere più marcatamente popolare e democratico (più in là non poteva forse giungere date le premesse fondamentali del moto stesso), avrebbe dovuto contrapporre all’attività «empirica» dei moderati (che era empirica solo per modo di dire poiché corrispondeva perfettamente al fine) un programma organico di governo che riflettesse le rivendicazioni essenziali delle masse popolari, in primo luogo dei contadini: all’«attrazione spontanea» esercitata dai moderati avrebbe dovuto contrapporre una resistenza e una controffensiva «organizzate» secondo un piano.

Come esempio tipico di attrazione spontanea dei moderati è da ricordare il formarsi e lo sviluppo del movimento «cattolico‑liberale», che tanto impressionò il papato e in parte riuscì a paralizzarne le mosse, demoralizzandolo, in un primo tempo spingendolo troppo a sinistra – con le manifestazioni liberaleggianti di Pio IX – e in un secondo tempo cacciandolo in una posizione più destra di quella che avrebbe potuto occupare e in definitiva determinandone l’isolamento nella penisola e in Europa. Il papato ha dimostrato successivamente di aver appreso la lezione e ha saputo nei tempi più recenti manovrare brillantemente: il modernismo prima e il popolarismo poi sono movimenti simili a quello cattolico‑liberale del Risorgimento, dovuti in gran parte al potere di attrazione spontanea esercitata dallo storicismo moderno degli intellettuali laici delle classi alte da una parte e dall’altra dal movimento pratico della filosofia della prassi. Il papato ha colpito il modernismo come tendenza riformatrice della Chiesa e della religione cattolica, ma ha sviluppato il popolarismo, cioè la base economico sociale del modernismo e oggi con Pio XI fa di esso il fulcro della sua politica mondiale.

Invece il Partito d'Azione mancò addirittura di un programma concreto di governo. Esso, in sostanza, fu sempre, più che altro, un organismo di agitazione e propaganda al servizio dei moderati. I dissidi e i conflitti interni del Partito d’Azione, gli odii tremendi che Mazzini suscitò contro la sua persona e la sua attività da parte dei più gagliardi uomini d’azione (Garibaldi, Felice Orsini, ecc.) furono determinati dalla mancanza di una ferma direzione politica. Le polemiche interne furono in gran parte tanto astratte quanto lo era la predicazione del Mazzini, ma da esse si possono trarre utili indicazioni storiche (valgano per tutti gli scritti del Pisacane, che d’altronde commise errori politici e militari irreparabili, come l’opposizione alla dittatura militare di Garibaldi nella Repubblica Romana). Il Partito d'Azione era imbevuto della tradizione retorica della letteratura italiana: confondeva l’unità culturale esistente nella penisola – limitata però a uno strato molto sottile della popolazione e inquinata dal cosmopolitismo vaticano – con l’unità politica e territoriale delle grandi masse popolari che erano estranee a quella tradizione culturale e se ne infischiavano dato che ne conoscessero l’esistenza stessa. Si può fare un confronto tra i giacobini e il Partito d'Azione. I giacobini lottarono strenuamente per assicurare un legame tra città e campagna e ci riuscirono vittoriosamente. La loro sconfitta come partito determinato fu dovuta al fatto che a un certo punto si urtarono contro le esigenze degli operai parigini, ma essi in realtà furono continuati in altra forma da Napoleone e oggi, molto miseramente, dai radico‑socialisti di Herriot e Daladier.

Nella letteratura politica francese la necessità di collegare la città (Parigi) con la campagna era sempre stata vivamente sentita ed espressa; basta ricordare la collana di romanzi di Eugenio Sue, diffusissimi anche in Italia (il Fogazzaro nel Piccolo mondo antico mostra come Franco Maironi ricevesse clandestinamente dalla Svizzera le dispense dei Misteri del Popolo che furono bruciati per mano del carnefice in alcune città europee, per esempio a Vienna) e che insistono con particolare costanza sulla necessità di occuparsi dei contadini e di legarli a Parigi; e il Sue fu il romanziere popolare della tradizione politica giacobina e un «incunabolo» di Herriot e Daladier per tanti punti di vista (leggenda napoleonica, anticlericalismo e antigesuitismo, riformismo piccolo‑borghese, teorie penitenziarie, ecc.). È vero che il Partito d'Azione fu sempre implicitamente antifrancese per l’ideologia mazziniana (cfr nella «Critica»,anno 1929, pp. 223 sgg., il saggio dell’Omodeo su Primato francese e iniziativa italiana), ma aveva nella storia della penisola la tradizione a cui risalire e ricollegarsi. La storia dei Comuni è ricca di esperienze in proposito: la borghesia nascente cerca alleati nei contadini contro l’Impero e contro il feudalismo locale (è vero che la quistione è resa complessa dalla lotta tra borghesi e nobili per contendersi la mano d’opera a buon mercato: i borghesi hanno bisogno di mano d’opera abbondante ed essa può solo essere data dalle masse rurali, ma i nobili vogliono legati al suolo i contadini: fuga di contadini in città, dove i nobili non possono catturarli. In ogni modo, anche in situazione diversa, appare, nello sviluppo della civiltà comunale, la funzione della città come elemento direttivo, della città che approfondisce i conflitti interni nella campagna e se ne serve come strumento politico‑militare per abbattere il feudalismo). Ma il più classico maestro di arte politica per i gruppi dirigenti italiani, il Machiavelli, aveva anch’egli posto il problema, naturalmente nei termini e con le preoccupazioni del tempo suo; nelle scritture politico‑militari del Machiavelli è vista abbastanza bene la necessità di subordinare organicamente le masse popolari ai ceti dirigenti per creare una milizia nazionale capace di eliminare le compagnie di ventura.

A questa corrente del Machiavelli deve forse essere legato Carlo Pisacane, per il quale il problema di soddisfare le rivendicazioni popolari (dopo averle suscitate con la propaganda) è visto prevalentemente dal punto di vista militare. A proposito del Pisacane occorre analizzare alcune antinomie della sua concezione: il Pisacane, nobile napoletano, era riuscito a impadronirsi di una serie di concetti politico-militari posti in circolazione dalle esperienze guerresche della rivoluzione francese e di Napoleone, trapiantati a Napoli sotto i regni di Giuseppe Buonaparte e di Gioacchino Murat, ma specialmente per l’esperienza viva degli ufficiali napoletani che avevano militato con Napoleone (nella commemorazione di Cadorna fatta da M. Missiroli nella «Nuova Antologia» si insiste sull’importanza che tale esperienza e tradizione militare napoletana, attraverso il Pianell, per esempio, ebbe nella riorganizzazione dell’esercito italiano dopo il 1870); Pisacane comprese che senza una politica democratica non si possono avere eserciti nazionali a coscrizione obbligatoria, ma è inspiegabile la sua avversione contro la strategia di Garibaldi e la sua diffidenza contro Garibaldi; egli ha verso Garibaldi lo stesso atteggiamento sprezzante che avevano verso Napoleone gli Stati Maggiori dell’antico regime.

L’individualità che più occorre studiare per questi problemi del Risorgimento è Giuseppe Ferrari, ma non tanto nelle sue opere così dette maggiori, veri zibaldoni farraginosi e confusi, quanto negli opuscoli d’occasione e nelle lettere. Il Ferrari però era in gran parte fuori della concreta realtà italiana: si era troppo infranciosato. Spesso i suoi giudizi paiono più acuti di ciò che realmente sono, perché egli applicava all’Italia schemi francesi, i quali rappresentavano situazioni ben più avanzate di quelle italiane. Si può dire che il Ferrari si trovava, nei confronti con l’Italia, nella posizione di un «postero» e che il suo fosse in un certo senso un «senno del poi». Il politico invece deve essere un realizzatore effettuale ed attuale; il Ferrari non vedeva che tra la situazione italiana e quella francese mancava un anello intermedio e che proprio questo anello importava saldare per passare a quello successivo. Il Ferrari non seppe «tradurre» il francese in italiano e perciò la sua stessa «acutezza» diventava un elemento di confusione, suscitava nuove sette e scolette ma non incideva nel movimento reale.

Se si approfondisce la quistione appare che, per molti riguardi, la differenza tra molti uomini del Partito d’Azione e i moderati era più di «temperamento» che di carattere organicamente politico. Il termine di «giacobino» ha finito per assumere due significati: uno è quello proprio, storicamente caratterizzato, di un determinato partito della rivoluzione francese, che concepiva lo svolgimento della vita francese in un modo determinato, con un programma determinato, sulla base di forze sociali determinate e che esplicò la sua azione di partito e di governo con un metodo determinato che era caratterizzato da una estrema energia, decisione e risolutezza, dipendente dalla credenza fanatica della bontà e di quel programma e di quel metodo.

Nel linguaggio politico i due aspetti del giacobinismo furono scissi e si chiamò giacobino l’uomo politico energico, risoluto e fanatico, perché fanaticamente persuaso delle virtù taumaturgiche delle sue idee, qualunque esse fossero: in questa definizione prevalsero gli elementi distruttivi derivati dall’odio contro gli avversari e i nemici, più che quelli costruttivi, derivati dall’aver fatto proprie le rivendicazioni delle masse popolari, l’elemento settario, di conventicola, di piccolo gruppo, di sfrenato individualismo, più che l’elemento politico nazionale. Così quando si legge che Crispi fu un giacobino, è in questo significato deteriore che occorre intendere l’affermazione.

Per il suo programma Crispi fu un moderato puro e semplice. La sua «ossessione» giacobina più nobile fu l’unità politico‑territoriale del paese. Questo principio fu sempre la sua bussola d’orientamento, non solo nel periodo del Risorgimento, in senso stretto, ma anche nel periodo successivo, della sua partecipazione al governo. Uomo fortemente passionale, egli odia i moderati come persone: vede nei moderati gli uomini dell’ultima ora, gli eroi della sesta giornata, gente che avrebbe fatto la pace coi vecchi regimi se essi fossero divenuti costituzionali, gente, come i moderati toscani, che si erano aggrappati alla giacca del granduca per non farlo scappare; egli si fidava poco di una unità fatta da non‑unitari. Perciò si lega alla monarchia che egli capisce sarà risolutamente unitaria per ragioni dinastiche e abbraccia il principio dell’egemonia piemontese con una energia e una foga che non avevano gli stessi politici piemontesi. Cavour aveva avvertito di non trattare il Mezzogiorno con gli stati d’assedio: Crispi invece subito stabilisce lo stato d’assedio e i tribunali marziali in Sicilia per il movimento dei Fasci e accusa i dirigenti dei Fasci di tramare con l’Inghilterra per il distacco della Sicilia (pseudo‑trattato di Bisacquino). Si lega strettamente ai latifondisti siciliani, perché il ceto più unitario per paura delle rivendicazioni contadine, nello stesso tempo in cui la sua politica generale tende a rafforzare l’industrialismo settentrionale con la guerra di tariffe contro la Francia e col protezionismo doganale: egli non esita a gettare il Mezzogiorno e le isole in una crisi commerciale paurosa, pur di rafforzare l’industria che poteva dare al paese una indipendenza reale e avrebbe allargato i quadri del gruppo sociale dominante; è la politica di fabbricare il fabbricante.

Il governo della destra dal ’61 al ’76 aveva solo e timidamente creato le condizioni generali esterne per lo sviluppo economico: sistemazione dell’apparato governativo, strade, ferrovie, telegrafi e aveva sanato le finanze oberate dai debiti per le guerre del Risorgimento. La Sinistra aveva cercato di rimediare all’odio suscitato nel popolo dal fiscalismo unilaterale della Destra, ma non era riuscita che ad essere una valvola di sicurezza: aveva continuato la politica della Destra con uomini e frasi di sinistra. Crispi invece dette un reale colpo in avanti alla nuova società italiana, fu il vero uomo della nuova borghesia. La sua figura è caratterizzata tuttavia dalla sproporzione tra i fatti e le parole, tra le repressioni e l’oggetto da reprimere, tra lo strumento e il colpo vibrato; maneggiava una colubrina arrugginita come fosse stato un moderno pezzo d’artiglieria. Anche la politica coloniale di Crispi è legata alla sua ossessione unitaria e in ciò seppe comprendere l’innocenza politica del Mezzogiorno; il contadino meridionale voleva la terra e Crispi che non gliela voleva (e poteva) dare in Italia stessa, che non voleva fare del «giacobinismo economico», prospettò il miraggio delle terre coloniali da sfruttare. L’imperialismo di Crispi fu un imperialismo passionale, oratorio, senza alcuna base economico‑finanziaria. L’Europa capitalistica, ricca di mezzi e giunta al punto in cui il saggio del profitto cominciava a mostrare la tendenza alla caduta, aveva la necessità di ampliare l’area di espansione dei suoi investimenti redditizi: così furono creati dopo il 1890 i grandi imperi coloniali. Ma l’Italia ancora immatura, non solo non aveva capitali da esportare, ma doveva ricorrere al capitale estero per i suoi stessi strettissimi bisogni. Mancava dunque una spinta reale all’imperialismo italiano e ad essa fu sostituita la passionalità popolare dei rurali ciecamente tesi verso la proprietà della terra: si trattò di una necessità di politica interna da risolvere, deviandone la soluzione all’infinito. Perciò la politica di Crispi fu avversata dagli stessi capitalisti (settentrionali) che più volentieri avrebbero visto impiegate in Italia le somme ingenti spese in Africa; ma nel Mezzogiorno Crispi fu popolare per aver creato il «mito» della terra facile.

Crispi ha dato una forte impronta a un vasto gruppo di intellettuali siciliani (specialmente, poiché ha influenzato tutti gli intellettuali italiani, creando le prime cellule di un socialismo nazionale che doveva svilupparsi più tardi impetuosamente), ha creato quel fanatismo unitario che ha determinato una permanente atmosfera di sospetto contro tutto ciò che può arieggiare a separatismo. Ciò però non ha impedito (e si comprende) che nel 1920 i latifondisti siciliani si riunissero a Palermo e pronunziassero un vero ultimatum contro il governo «di Roma», minacciando la separazione, come non ha impedito che parecchi di questi latifondisti abbiano continuato a mantenere la cittadinanza spagnola e abbiano fatto intervenire diplomaticamente il governo di Madrid (caso del duca di Bivona nel 1919) per la tutela dei loro interessi minacciati dall’agitazione dei contadini ex‑combattenti. L’atteggiamento dei vari gruppi sociali del Mezzogiorno dal ’19 al ’26 serve a mettere in luce e in rilievo alcune debolezze dell’indirizzo ossessionatamente unitario di Crispi e a mettere in rilievo alcune correzioni apportatevi da Giolitti (poche in realtà, perché Giolitti si mantenne essenzialmente nel solco di Crispi; al giacobinismo di temperamento del Crispi, Giolitti sostituì la solerzia e la continuità burocratica; mantenne il «miraggio della terra» nella politica coloniale, ma in più sorresse questa politica con una concezione «difensiva» militare e con la premessa che occorre creare le condizioni di libertà d’espansione per il futuro).

L’episodio dell’ultimatum dei latifondisti siciliani nel 1920 non è isolato e di esso potrebbe darsi altra interpretazione, per il precedente delle alte classi lombarde che in qualche occasione avevano minacciato «di far da sé» ricostituendo l’antico ducato di Milano (politica di ricatto momentaneo verso il governo), se non trovasse una interpretazione autentica nelle campagne fatte dal «Mattino» dal 1919 fino alla defenestrazione dei fratelli Scarfoglio, che sarebbe troppo semplicistico ritenere del tutto campate in aria, cioè non legate in qualche modo a correnti d’opinione pubblica e a stati d’animo rimasti sotterranei, latenti, potenziali per l’atmosfera d’intimidazione creata dall’unitarismo ossessionato. Il «Mattino» a due riprese sostenne questa tesi: che il Mezzogiorno è entrato a far parte dello Stato italiano su una base contrattuale, lo Statuto albertino, ma che (implicitamente) continua a conservare una sua personalità reale, di fatto, e ha il diritto di uscire dal nesso statale unitario se la base contrattuale viene, in qualsiasi modo, menomata, se cioè viene mutata la costituzione del ’48. Questa tesi fu svolta nel ’19‑20 contro un mutamento costituzionale in un certo senso, e fu ripresa nel ’24‑25 contro un mutamento in altro senso. Bisogna tener presente l’importanza che aveva il «Mattino» nel Mezzogiorno (era intanto il giornale più diffuso); il «Mattino» fu sempre crispino, espansionista, dando il tono all’ideologia meridionale, creata dalla fame di terra e dalle sofferenze dell’emigrazione, tendente verso ogni vaga forma di colonialismo di popolamento. Del «Mattino» occorre ricordare inoltre: 1°) la violentissima campagna contro il Nord a proposito del tentativo di manomissione da parte dei tessili lombardi di alcune industrie cotoniere meridionali, giunto fino al punto in cui si stava per trasportare le macchine in Lombardia, truccate da ferro vecchio per eludere la legislazione sulle zone industriali, tentativo sventato appunto dal giornale che giunse fino a fare una esaltazione dei Borboni e della loro politica economica (ciò avvenne nel 1923); 2) la commemorazione «accorata» e «nostalgica» di Maria Sofia fatta nel 1925 e che destò scalpore e scandalo.

È certo che per apprezzare questo atteggiamento del «Mattino» occorre tener conto di alcuni elementi di controllo metodico: il carattere avventuroso e la venalità degli Scarfoglio (è da ricordare che Maria Sofia cercò continuamente di intervenire nella politica interna italiana, per spirito di vendetta se non con la speranza di restaurare il regno di Napoli, spendendo anche quattrini come non pare dubbio: nell’«Unità» del 1914 o 15 fu pubblicato un trafiletto contro Errico Malatesta in cui si affermava che gli avvenimenti del giugno 1914 potevano essere stati patrocinati e sussidiati dallo Stato Maggiore austriaco per il tramite di Zita di Borbone, dati i rapporti di «amicizia», pare non interrotta mai, tra il Malatesta e Maria Sofia; nell’opera Uomini e cose della vecchia Italia, B. Croce ritorna su tali rapporti a proposito di un tentativo per far evadere un anarchico che aveva commesso un attentato, seguito da un passo diplomatico del governo italiano presso il governo francese per far cessare queste attività di Maria Sofia; ricordare inoltre gli aneddoti su Maria Sofia raccontati dalla signora B. che nel 1919 frequentò l’ex regina per farle il ritratto; infine Malatesta non rispose mai a queste accuse, come era suo obbligo, a meno non sia vero che egli vi abbia risposto in una lettera a un giornaletto clandestino, stampato in Francia da P. Schicchi e intitolato «Il Picconiere», cosa molto dubbia), il dilettantismo politico e ideologico degli Scarfoglio. Ma occorre insistere sul fatto che il «Mattino» era il giornale più diffuso del Mezzogiorno e che gli Scarfoglio erano dei giornalisti nati, cioè possedevano quell’intuizione rapida e «simpatica» delle correnti passionali popolari più profonde che rende possibile la diffusione della stampa gialla.

Un altro elemento per saggiare la portata reale della politica unitaria ossessionata di Crispi è il complesso di sentimenti creatosi nel Settentrione per riguardo al Mezzogiorno. La «miseria» del Mezzogiorno era «inspiegabile» storicamente per le masse popolari del Nord; esse non capivano che l’unità non era avvenuta su una base di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno nel rapporto territoriale di città‑campagna, cioè che il Nord concretamente era una «piovra» che si arricchiva alle spese del Sud e che il suo incremento economico‑industriale era in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale. Il popolano dell’Alta Italia pensava invece che se il Mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dalle pastoie che allo sviluppo moderno opponeva il regime borbonico, ciò significava che le cause della miseria non erano esterne, da ricercarsi nelle condizioni economico‑politiche obiettive, ma interne, innate nella popolazione meridionale, tanto più che era radicata la persuasione della grande ricchezza naturale del terreno: non rimaneva che una spiegazione, l’incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica. Queste opinioni già diffuse (il lazzaronismo napoletano era una leggenda di vecchia data) furono consolidate e addirittura teorizzate dai sociologhi del positivismo (Niceforo, Sergi, Ferri, Orano, ecc.) assumendo la forza di «verità scientifica» in un tempo di superstizione della scienza. Si ebbe così una polemica Nord‑Sud sulle razze e sulla superiorità e inferiorità del Nord e del Sud (cfr i libri di N. Colajanni in difesa del Mezzogiorno da questo punto di vista, e la collezione della «Rivista popolare»). Intanto rimase nel Nord la credenza che il Mezzogiorno fosse una «palla di piombo» per l’Italia, la persuasione che più grandi progressi la civiltà industriale moderna dell’Alta Italia avrebbe fatto senza questa «palla di piombo», ecc.

Nei principii del secolo si inizia una forte reazione meridionale anche su questo terreno. Nel Congresso Sardo del 1911, tenuto sotto la presidenza del generale Rugiu, si calcola quante centinaia di milioni siano stati estorti alla Sardegna nei primi 50 anni di Stato unitario, a favore del continente. Campagne del Salvemini, culminate nella fondazione dell’«Unità», ma condotte già nella «Voce» (cfr numero unico della «Voce» sulla «Quistione meridionale» ristampato poi in opuscolo): in Sardegna si inizia un movimento autonomistico, sotto la direzione di Umberto Cau, che ebbe anche un giornale quotidiano «Il Paese». In questo inizio di secolo si realizza anche un certo «blocco intellettuale», «panitaliano» con a capo B. Croce e Giustino Fortunato, che cerca di imporre la quistione meridionale come problema nazionale capace di rinnovare la vita politica e parlamentare. In ogni rivista di giovani che abbiano tendenze liberali democratiche e in generale si propongano di svecchiare e sprovincializzare la vita e la cultura nazionale, in tutti i campi, nell’arte, nella letteratura, nella politica, appare non solo l’influsso del Croce e del Fortunato, ma la loro collaborazione; così nella «Voce» e nell’«Unità», ma anche nella «Patria» di Bologna, nell’«Azione Liberale» di Milano, nel movimento giovane liberale guidato da Giovanni Borelli ecc. L’influsso di questo blocco si fa strada nel fissare la linea politica del «Corriere della Sera» di Albertini, e nel dopoguerra, data la nuova situazione, appare nella «Stampa» (attraverso Cosmo, Salvatorelli, e anche Ambrosini) e nel giolittismo, con l’assunzione del Croce nell’ultimo governo Giolitti.

Di questo movimento, certo molto complesso e multilaterale, viene data oggi una interpretazione tendenziosa anche da G. Prezzolini che pure ne fu una tipica incarnazione; ma rimane la prima edizione della Cultura italiana dello stesso Prezzolini (1923) specialmente con le sue omissioni, come documento autentico.

Il movimento si sviluppa fino al suo maximum che è anche il suo punto di dissoluzione: questo punto è da identificare nella particolare presa di posizione di P. Gobetti e nelle sue iniziative culturali: la polemica di Giovanni Ansaldo (e dei suoi collaboratori come «Calcante» ossia Francesco Ciccotti) contro Guido Dorso è il documento più espressivo di tale punto d’approdo e di risoluzione, anche per la comicità che ormai appare evidente negli atteggiamenti gladiatori e di intimidazione dell’unitarismo ossessionato (che l’Ansaldo, nel ’25‑26, credesse di poter far credere a un ritorno dei Borboni a Napoli, sembrerebbe inconcepibile senza la conoscenza di tutti gli antecedenti della quistione e delle vie sotterranee attraverso cui avvenivano le polemiche, per sottinteso e per riferimento enigmistico ai non «iniziati»: tuttavia è notevole che anche in alcuni elementi popolari, che avevano letto Oriani, esisteva allora la paura che a Napoli fosse possibile una restaurazione borbonica e quindi una dissoluzione più estesa del nesso statale unitario).

Da questa serie di osservazioni e di analisi di alcuni elementi della storia italiana dopo l’unità si possono ricavare alcuni criteri per apprezzare la posizione di contrasto tra i moderati e il Partito d'Azione, e per ricercare la diversa «saggezza» politica di questi due partiti e delle diverse correnti che si contesero la direzione politica e ideologica dell’ultimo di essi. È evidente che per contrapporsi efficacemente ai moderati, il Partito d'Azione doveva legarsi alle masse rurali, specialmente meridionali, essere «giacobino» non solo per la «forma» esterna, di temperamento, ma specialmente per il contenuto economico‑sociale: il collegamento delle diverse classi rurali che si realizzava in un blocco reazionario attraverso i diversi ceti intellettuali legittimisti‑clericali poteva essere dissolto per addivenire ad una nuova formazione liberale‑nazionale solo se si faceva forza in due direzioni: sui contadini di base, accettandone le rivendicazioni elementari e facendo di esse parte integrante del nuovo programma di governo, e sugli intellettuali degli strati medi e inferiori, concentrandoli e insistendo sui motivi che più li potevano interessare (e già la prospettiva della formazione di un nuovo apparato di governo, con le possibilità di impiego che offre, era un elemento formidabile di attrazione su di essi, se la prospettiva si fosse presentata come concreta perché poggiata sulle aspirazioni dei rurali). Il rapporto tra queste due azioni era dialettico e reciproco: l’esperienza di molti paesi, e prima di tutto della Francia nel periodo della grande rivoluzione, ha dimostrato che se i contadini si muovono per impulsi «spontanei», gli intellettuali cominciano a oscillare e, reciprocamente, se un gruppo di intellettuali si pone sulla nuova base di una politica filocontadina concreta, esso finisce col trascinare con sé frazioni di massa sempre più importanti. Si può dire però che, data la dispersione e l’isolamento della popolazione rurale e la difficoltà quindi di concentrarla in solide organizzazioni, conviene iniziare il movimento dai gruppi intellettuali; in generale però è il rapporto dialettico tra le due azioni che occorre tener presente. Si può anche dire che partiti contadini nel senso stretto della parola è quasi impossibile crearne: il partito contadino si realizza in generale solo come forte corrente di opinioni, non già in forme schematiche d’inquadramento burocratico; tuttavia l’esistenza anche solo di uno scheletro organizzativo è di utilità immensa, sia per una certa selezione di uomini, sia per controllare i gruppi intellettuali e impedire che gli interessi di casta li trasportino impercettibilmente in altro terreno.

Questi criteri devono essere tenuti presenti nello studio della personalità di Giuseppe Ferrari che fu lo «specialista» inascoltato di quistioni agrarie nel Partito d'Azione. Nel Ferrari occorre anche studiare bene l’atteggiamento verso il bracciantato agricolo, cioè i contadini senza terra e viventi alla giornata, sui quali egli fonda una parte cospicua delle sue ideologie, per le quali egli è ancora ricercato e letto da determinate correnti (opere del Ferrari ristampate dal Monanni con prefazioni di Luigi Fabbri). Occorre riconoscere che il problema del bracciantato è difficilissimo e anche oggi di ardua soluzione. In generale occorre tener presenti questi criteri: i braccianti sono ancora oggi, nella maggior parte, ed erano quindi tanto più nel periodo del Risorgimento, dei semplici contadini senza terra, non degli operai di una industria agricola sviluppata con capitale concentrato e con la divisione del lavoro; nel periodo del Risorgimento era più diffuso, in modo rilevante, il tipo dell’obbligato in confronto a quello dell’avventizio. La loro psicologia perciò è, con le dovute eccezioni, la stessa del colono e del piccolo proprietario (è da ricordare la polemica tra i senatori Tanari e Bassini nel «Resto del Carlino» e nella «Perseveranza» avvenuta verso la fine del 1917 o ai primi del ’18 a proposito della realizzazione della formula la «terra ai contadini» lanciata in quel torno di tempo: il Tanari era pro, il Bassini contro e il Bassini si fondava sulla sua esperienza di grande industriale agricolo, di proprietario di aziende agricole in cui la divisione del lavoro era già talmente progredita da rendere indivisibile la terra per la sparizione del contadino‑artigiano e l’emergere dell’operaio moderno). La quistione si poneva in forma acuta non tanto nel Mezzogiorno dove il carattere artigianesco del lavoro agricolo era troppo evidente, ma nella valle padana dove esso è più velato. Anche in tempi recenti però l’esistenza di un problema acuto dei bracciantato nella valle padana era dovuta in parte a cause «extraeconomiche»: 1) sovrapopolazione che non trovava uno sbocco nell’emigrazione come nel Sud ed era mantenuta artificialmente con la politica dei lavori pubblici; 2) politica dei proprietari che non volevano consolidare in un’unica classe di braccianti e di mezzadri la popolazione lavoratrice, alternando alla mezzadria la conduzione ad economia servendosi di questo alternare per determinare una migliore selezione di mezzadri privilegiati che fossero i loro alleati (in ogni Congresso di agrari della regione padana si discuteva sempre se conveniva meglio la mezzadria o la conduzione diretta ed era chiaro che la scelta veniva fatta per motivi di ordine politico‑sociale). Durante il Risorgimento il problema del bracciantato padano appariva sotto la forma di un fenomeno pauroso di pauperismo. Così è visto dall’economista Tullio Martollo nella sua Storia dell’Internazionale, scritta nel 1871‑72, lavoro che occorre tener presente perché riflette le posizioni politiche e le preoccupazioni sociali del periodo precedente.

La posizione del Ferrari è indebolita poi dal suo «federalismo» che, specialmente in lui, vivente in Francia, appariva ancora più come un riflesso degli interessi nazionali e statali francesi. È da ricordare il Proudhon e i suoi libelli contro l’unità italiana combattuta dal confessato punto di vista degli interessi statali francesi e della democrazia. In realtà le principali correnti della politica francese erano aspramente contrarie all’unità italiana. Ancora oggi i monarchici (Bainville e C.) «rimproverano» retrospettivamente ai due Napoleoni di aver creato il mito nazionalitario e di aver contribuito a farlo realizzare in Germania e in Italia, abbassando così la statura relativa della Francia che «dovrebbe» essere circondata da un pulviscolo di staterelli tipo Svizzera per essere «sicura».

Ora è proprio sulla parola d’ordine di «indipendenza e unità», senza tener conto del concreto contenuto politico di tali formule generiche, che i moderati dopo il 48 formarono il blocco nazionale sotto la loro egemonia, influenzando i due capi supremi del Partito d'Azione, Mazzini e Garibaldi, in diversa forma e misura. Come i moderati fossero riusciti nel loro intento di deviare l’attenzione dal nocciolo alla buccia dimostra, tra le tante altre, questa espressione del Guerrazzi in una lettera a uno studente siciliano (pubblicata nell’«Archivio Storico Siciliano» da Eugenio de Carlo – Carteggio di F. D. Guerrazzi col notaio Francesco Paolo Sardofontana di Riella, riassunto nel «Marzocco» del 29 novembre 1929): «Sia che vuolsi – o dispotismo, o repubblica o che altro – non cerchiamo di dividerci; con questo cardine, caschi il mondo, ritroveremo la via». Del resto tutta l’operosità di Mazzini è stata concretamente riassunta nella continua e permanente predicazione dell’unità.

A proposito del giacobinismo e del Partito d'Azione un elemento da porre in primo piano è questo: che i giacobini conquistarono con la lotta senza quartiere la loro funzione di partito dirigente; essi in realtà si «imposero» alla borghesia francese, conducendola in una posizione molto più avanzata di quella che i nuclei borghesi primitivamente più forti avrebbero voluto «spontaneamente» occupare e anche molto più avanzata di quella che le premesse storiche dovevano consentire, e per ciò i colpi di ritorno e la funzione di Napoleone I. Questo tratto, caratteristico del giacobinismo (ma prima anche di Cromwell e delle «teste rotonde») e quindi di tutta la grande rivoluzione, del forzare la situazione (apparentemente) e del creare fatti compiuti irreparabili, cacciando avanti i borghesi a calci nel sedere, da parte di un gruppo di uomini estremamente energici e risoluti, può essere così «schematizzata»: il terzo stato era il meno omogeneo degli stati; aveva una élite intellettuale molto disparata e un gruppo economicamente molto avanzato ma politicamente moderato. Lo sviluppo degli avvenimenti segue un processo dei più interessanti. I rappresentanti del terzo stato inizialmente pongono solo le quistioni che interessano i componenti fisici attuali del gruppo sociale, i loro interessi «corporativi» immediati (corporativi, nel senso tradizionale, di immediati ed egoistici in senso gretto di una determinata categoria): i precursori della rivoluzione sono infatti dei riformatori moderati, che fanno la voce grossa ma in realtà domandano ben poco. A mano a mano si viene selezionando una nuova élite che non si interessa unicamente di riforme «corporative» ma tende a concepire la borghesia come il gruppo egemone di tutte le forze popolari e questa selezione avviene per l’azione di due fattori: la resistenza delle vecchie forze sociali e la minaccia internazionale. Le vecchie forze non vogliono cedere nulla e se cedono qualche cosa lo fanno con la volontà di guadagnare tempo e preparare una controffensiva. Il terzo stato sarebbe caduto in questi «tranelli» successivi senza l’azione energica dei giacobini, che si oppongono ad ogni sosta «intermedia» del processo rivoluzionario e mandano alla ghigliottina non solo gli elementi della vecchia società dura a morire, ma anche i rivoluzionari di ieri, oggi diventati reazionari. I giacobini pertanto furono il solo partito della rivoluzione in atto, in quanto non solo essi rappresentavano i bisogni e le aspirazioni immediate delle persone fisiche attuali che costituivano la borghesia francese, ma rappresentavano il movimento rivoluzionario nel suo insieme, come sviluppo storico integrale, perché rappresentavano i bisogni anche futuri e, di nuovo, non solo di quelle determinate persone fisiche, ma di tutti i gruppi nazionali che dovevano essere assimilati al gruppo fondamentale esistente.

Occorre insistere, contro una corrente tendenziosa e in fondo antistorica, che i giacobini furono dei realisti alla Machiavelli e non degli astrattisti. Essi erano persuasi dell’assoluta verità delle formule sull’uguaglianza, la fraternità, la libertà e, ciò che importa di più, di tale verità erano persuase le grandi masse popolari che i giacobini suscitavano e portavano alla lotta. Il linguaggio dei giacobini, la loro ideologia, i loro metodi d’azione, riflettevano perfettamente le esigenze dell’epoca, anche se «oggi», in una diversa situazione e dopo più di un secolo di elaborazione culturale, possono parere «astrattisti» e «frenetici». Naturalmente le riflettevano secondo la tradizione culturale francese e di ciò è una prova l’analisi che del linguaggio giacobino si ha nella Sacra Famiglia e l’ammissione di Hegel che pone come paralleli e reciprocamente traducibili il linguaggio giuridico‑politico dei giacobini e i concetti della filosofia classica tedesca, alla quale invece oggi si riconosce il massimo di concretezza e che ha originato lo storicismo moderno.

La prima esigenza era quella di annientare le forze avversarie o almeno ridurle all’impotenza per rendere impossibile una controrivoluzione; la seconda esigenza era quella di allargare i quadri della borghesia come tale e di porla a capo di tutte le forze nazionali, identificando gli interessi e le esigenze comuni a tutte le forze nazionali e mettere in moto queste forze e condurle alla lotta ottenendo due risultati: a) di opporre un bersaglio più largo ai colpi degli avversari, cioè di creare un rapporto politico‑militare favorevole alla rivoluzione; b) di togliere agli avversari ogni zona di passività in cui fosse possibile arruolare eserciti vandeani. Senza la politica agraria dei giacobini Parigi avrebbe avuto la Vandea già alle sue porte. La resistenza della Vandea propriamente detta è legata alla quistione nazionale inasprita nelle popolazioni brettoni, e in generale allogene, dalla formula della «repubblica una e indivisibile» e dalla politica di accentramento burocratico-militare, alle quali i giacobini non potevano rinunziare senza suicidarsi. I girondini cercarono di far leva sul federalismo per schiacciare Parigi giacobina, ma le truppe provinciali condotte a Parigi passarono ai rivoluzionari. Eccetto alcune zone periferiche, dove la distinzione nazionale (e linguistica) era grandissima, la quistione agraria ebbe il sopravvento su le aspirazioni all’autonomia locale: la Francia rurale accettò l’egemonia di Parigi, cioè comprese che per distruggere definitivamente il vecchio regime doveva far blocco con gli elementi più avanzati del terzo stato, e non con i moderati girondini. Se è vero che i giacobini «forzarono» la mano, è anche vero che ciò avvenne sempre nel senso dello sviluppo storico reale, perché non solo essi organizzarono un governo borghese, cioè fecero della borghesia la classe dominante, ma fecero di più, crearono lo Stato borghese, fecero della borghesia la classe nazionale dirigente, egemone, cioè dettero allo Stato nuovo una base permanente, crearono la compatta nazione moderna francese.

Che, nonostante tutto, i giacobini siano sempre rimasti sul terreno della borghesia, è dimostrato dagli avvenimenti che segnarono la loro fine come partito di formazione troppo determinata e irrigidita e la morte di Robespierre: essi non vollero riconoscere agli operai il diritto di coalizione, mantenendo la legge Chapelier, e come conseguenza dovettero promulgare la legge del «maximum». Spezzarono così il blocco urbano di Parigi: le loro forze d’assalto, che si raggruppavano nel comune, si dispersero, deluse, e il Termidoro ebbe il sopravvento. La rivoluzione aveva trovato i limiti più larghi di classe; la politica delle alleanze e della rivoluzione permanente aveva finito col porre quistioni nuove che allora non potevano essere risolte, aveva scatenato forze elementari che solo una dittatura militare sarebbe riuscita a contenere.

Nel Partito d'Azione non si trova niente che rassomigli a questo indirizzo giacobino, a questa inflessibile volontà di diventare il partito dirigente. Certo occorre tener conto delle differenze: in Italia la lotta si presentava come lotta contro i vecchi trattati e l’ordine internazionale vigente e contro una potenza straniera, l’Austria, che li rappresentava e li sosteneva in Italia, occupando una parte della penisola e controllando il resto. Anche in Francia questo problema si presentò, almeno in un certo senso, perché ad un certo punto la lotta interna divenne lotta nazionale combattuta alla frontiera, ma ciò avvenne dopo che tutto il territorio era conquistato alla rivoluzione e i giacobini seppero dalla minaccia esterna trarre elementi per una maggiore energia all’interno: essi compresero bene che per vincere il nemico esterno dovevano schiacciare all’interno i suoi alleati e non esitarono a compiere i massacri di settembre. In Italia questo legame che pur esisteva, esplicito ed implicito, tra l’Austria e una parte almeno degli intellettuali, dei nobili e dei proprietari terrieri, non fu denunziato dal Partito d'Azione o almeno non fu denunziato con la dovuta energia e nel modo praticamente più efficace, non divenne elemento politico attivo. Si trasformò «curiosamente», in una quistione di maggiore o minore dignità patriottica e dette poi luogo a uno strascico di polemiche acrimoniose e sterili fin dopo il 1898 (cfr gli articoli di «Rerum Scriptor» nella «Critica Sociale», dopo la ripresa delle pubblicazioni, e il libro di Romualdo Bonfadini, Cinquanta anni di patriottismo).

È da ricordare a questo proposito la quistione dei «costituti» di Federico Confalonieri: il Bonfadini, nel libro su citato, afferma in una nota di aver visto la raccolta dei «costituti» nell’Archivio di Stato di Milano e accenna a circa 80 fascicoli. Altri hanno sempre negato che la raccolta dei costituti esistesse in Italia e così ne spiegavano la non pubblicazione; in un articolo del senatore Salata, incaricato di far ricerche negli archivi di Vienna sui documenti riguardanti l’Italia, articolo pubblicato nel 1925 (?), si diceva che i costituti erano stati rintracciati e sarebbero stati pubblicati. Ricordare il fatto che in un certo periodo la «Civiltà Cattolica» sfidò i liberali a pubblicarli, affermando che essi, conosciuti, avrebbero, nientemeno, fatto saltare in aria l’unità dello Stato. Nella quistione Confalonieri il fatto più notevole consiste in ciò, che a differenza di altri patriotti graziati dall’Austria, il Confalonieri, che pure era un rimarchevole uomo politico, si ritirò dalla vita attiva e mantenne dopo la sua liberazione, un contegno molto riservato. Tutta la quistione Confalonieri è da riesaminare criticamente, insieme con l’atteggiamento tenuto da lui e dai suoi compagni, con un esame approfondito delle memorie scritte dai singoli, quando le scrissero: per le polemiche che suscitò sono interessanti le memorie del francese Alessandro Andryane che tributa molto rispetto e ammirazione per il Confalonieri, mentre attacca G. Pallavicino per la sua debolezza.

A proposito delle difese fatte anche recentemente dell’atteggiamento tenuto dall’aristocrazia lombarda verso l’Austria, specialmente dopo il tentativo insurrezionale di Milano del febbraio 1853 e durante il viceregno di Massimiliano, è da ricordare che Alessandro Luzio, la cui opera storica è sempre tendenziosa e acrimoniosa contro i democratici, giunge fino a legittimare i fedeli servizi resi all’Austria dal Salvotti: altro che spirito giacobino!. La nota comica in argomento è data da Alfredo Panzini, che, nella Vita di Cavour fa tutta una variazione altrettanto leziosa quanto stomachevole e gesuitica su una «pelle di tigre» esposta da una finestra aristocratica durante una visita a Milano di Francesco Giuseppe!

Da tutti questi punti di vista devono essere considerate le concezioni di Missiroli, Gobetti, Dorso ecc. sul Risorgimento italiano come «conquista regia» .

Se in Italia non si formò un partito giacobino ci sono le sue ragioni da ricercare nel campo economico, cioè nella relativa debolezza della borghesia italiana e nel clima storico diverso dell’Europa dopo il 1815. Il limite trovato dai giacobini, nella loro politica di forzato risveglio delle energie popolari francesi da alleare alla borghesia, con la legge Chapelier e quella sul «maximum», si presentava nel 48 come uno «spettro» già minaccioso, sapientemente utilizzato dall’Austria, dai vecchi governi e anche dal Cavour (oltre che dal papa). La borghesia non poteva (forse) più estende. re la sua egemonia sui vasti strati popolari che invece poté abbracciare in Francia (non poteva per ragioni soggettive, non oggettive), ma l’azione sui contadini era certamente sempre possibile.

Differenze tra la Francia, la Germania e l’Italia nel processo di presa del potere da parte della borghesia (e Inghilterra). In Francia si ha il processo più ricco di sviluppi e di elementi politici attivi e positivi. In Germania il processo si svolge per alcuni aspetti in modi che rassomigliano a quelli italiani, per altri a quelli inglesi. In Germania il movimento del 48 fallisce per la scarsa concentrazione borghese (la parola d’ordine di tipo giacobino fu data dall’estrema sinistra democratica: «rivoluzione in permanenza») e perché la quistione del rinnovamento statale è intrecciata con la quistione nazionale; le guerre del 64, del 66 e del 70 risolvono insieme la quistione nazionale e quella di classe in un tipo intermedio: la borghesia ottiene il governo economico‑industriale, ma le vecchie classi feudali rimangono come ceto governativo dello Stato politico con ampi privilegi corporativi nell’esercito, nell’amministrazione e sulla terra: ma almeno, se queste vecchie classi conservano in Germania tanta importanza e godono di tanti privilegi, esse esercitano una funzione nazionale, diventano gli «intellettuali» della borghesia, con un determinato temperamento dato dall’origine di casta e dalla tradizione. In Inghilterra, dove la rivoluzione borghese si è svolta prima che in Francia, abbiamo un fenomeno simile a quello tedesco di fusione tra il vecchio e il nuovo, nonostante l’estrema energia dei «giacobini» inglesi, cioè le «teste rotonde» di Cromwell; la vecchia aristocrazia rimane come ceto governativo, con certi privilegi, diventa anch’essa il ceto intellettuale della borghesia inglese (del resto l’aristocrazia inglese è a quadri aperti e si rinnova continuamente con elementi provenienti dagli intellettuali e dalla borghesia). In proposito sono da vedere alcune osservazioni contenute nella prefazione alla traduzione inglese di Utopia e Scienza che occorre ricordare per la ricerca sugli intellettuali e le loro funzioni storico‑sociali.

La spiegazione data da Antonio Labriola sulla permanenza al potere in Germania degli Junker e del kaiserismo nonostante il grande sviluppo capitalistico, adombra la giusta spiegazione: il rapporto di classi creato dallo sviluppo industriale col raggiungimento del limite dell’egemonia borghese e il rovesciamento delle posizioni delle classi progressive, ha indotto la borghesia a non lottare a fondo contro il vecchio regime, ma a lasciarne sussistere una parte della facciata dietro cui velare il proprio dominio reale.

Questa differenza di processo nel manifestarsi dello stesso sviluppo storico nei diversi paesi è da legare non solo alle diverse combinazioni dei rapporti interni alla vita delle diverse nazioni, ma anche ai diversi rapporti internazionali (i rapporti internazionali sono di solito sottovalutati in questo ordine di ricerche). Lo spirito giacobino, audace, temerario, è certamente legato all’egemonia esercitata così a lungo dalla Francia in Europa, oltre che all’esistenza di un centro urbano come Parigi e all’accentramento conseguito in Francia per opera della monarchia assoluta. Le guerre di Napoleone, invece, con l’enorme distruzione di uomini, tra i più audaci e intraprendenti, hanno indebolito non solo l’energia politica militante francese, ma anche quella delle altre nazioni, sebbene intellettualmente siano state così feconde per la rinnovazione dell’Europa.

I rapporti internazionali hanno certo avuto una grande importanza nel determinare la linea di sviluppo del Risorgimento italiano, ma essi sono stati esagerati dal partito moderato e da Cavour a scopo di partito. È notevole, a questo proposito, il fatto di Cavour che teme come il fuoco l’iniziativa garibaldina prima della spedizione di Quarto e del passaggio dello Stretto, per le complicazioni internazionali che poteva creare e poi è spinto egli stesso dall’entusiasmo creato dai Mille nell’opinione europea fino a vedere come fattibile una immediata nuova guerra contro l’Austria. Esisteva in Cavour una certa deformazione professionale dei diplomatico, che lo portava a vedere «troppe» difficoltà e lo induceva a esagerazioni «cospirative» e a prodigi, che sono in buona parte funamboleschi, di sottigliezza e di intrigo. In ogni caso il Cavour operò egregiamente come uomo di partito: che poi il suo partito rappresentasse i più profondi e duraturi interessi nazionali, anche solo nel senso della più vasta estensione da dare alla comunità di esigenze della borghesia con la massa popolare, è un’altra quistione.

A proposito della parola d’ordine «giacobina» formulata nel 48‑49 è da studiarne la complicata fortuna. Ripresa, sistematizzata, elaborata, intellettualizzata dal gruppo Parvus‑Bronstein [Trotzky ndc], si manifestò inerte e inefficace nel 1905, e in seguito: era diventata una cosa astratta, da gabinetto scientifico. La corrente che la avversò in questa sua manifestazione letteraria, invece, senza impiegarla «di proposito», la applicò di fatto in una forma aderente alla storia attuale, concreta, vivente, adatta al tempo e al luogo, come scaturiente da tutti i pori della determinata società che occorreva trasformare, come alleanza di due gruppi sociali, con l’egemonia del gruppo urbano.

Nell’un caso si ebbe il temperamento giacobino senza un contenuto politico adeguato; nel secondo, temperamento e contenuto «giacobino» secondo i nuovi rapporti storici, e non secondo un’etichetta letteraria e intellettualistica.

Q19 §25 Antisemitismo nel Risorgimento. Nelle Confessioni e professioni di fede di Letterati, Filosofi, uomini politici, ecc. (in 3 voll., Bocca, Torino, 1921) è pubblicata una scorribanda lirico‑sentimentale di Raffaele Ottolenghi che riferisce alcuni suoi ricordi di «ebreo» piemontese, da cui possono estrarsi alcune notizie sulla condizione degli ebrei nel periodo del primo Risorgimento.

Un ebreo, veterano di Napoleone, ritornò al suo paese con una donna francese: il vescovo, saputo che la donna era cristiana, contro la sua volontà, la fece portar via dai gendarmi. Il vescovo si impadroniva, manu militari, dei fanciulli ebrei che, durante qualche litigio coi genitori, avessero minacciato di farsi cristiani (il Brofferio registra una serie di questi fatti nella sua storia).

Dopo il 1815 gli ebrei furono cacciati dalle Università e quindi dalle professioni liberali.

Nel 1799, durante l’invasione austro‑russa, avvennero dei pogrom; ad Acqui solo l’intervento del vescovo riuscì a salvare il bisavolo dell’Ottolenghi dai fucili della folla. A Siena, durante un pogrom, degli ebrei furono mandati al rogo, senza che il vescovo volesse intervenire a loro favore.

Nel 48 il padre dell’Ottolenghi tornò ad Acqui da Torino, vestito da guardia nazionale: irritazione dei reazionari che sparsero la voce del sacrifizio rituale di un bambino cristiano da parte dell’Ottolenghi; campane a stormo, venuta dei villani dalla campagna per saccheggiare il Ghetto. Il vescovo si rifiutò di intervenire e l’Ottolenghi fu salvato dal sindaco con un simulato arresto fino all’arrivo delle truppe. I reazionari e i clericali volevano fare apparire le innovazioni liberali del 48 come una invenzione degli ebrei. (Bisognerebbe ricostruire la storia del fanciullo Mortara che ebbe tanta clamorosa eco nelle polemiche contro il clericalismo).

Q19 §26 Il rapporto città‑campagna nel Risorgimento e nella struttura nazionale italiana. I rapporti tra popolazione urbana e popolazione rurale non sono di un solo tipo schematico, specialmente in Italia. Occorre pertanto stabilire cosa si intende per «urbano» e per «rurale» nella civiltà moderna e quali combinazioni possono risultare dalla permanenza di forme antiquate e retrive nella composizione generale della popolazione, studiata dal punto di vista del suo maggiore o minore agglomerarsi. Talvolta si paradosso che un tipo rurale sia più progressivo sedicente urbano.

Una città «industriale» è sempre più progressiva della campagna che ne dipende organicamente. Ma in Italia non tutte le città sono «industriali» e ancor più poche sono le città tipicamente industriali. Le «cento» città italiane sono città industriali, l’agglomeramento della popolazione in centri non rurali, che è quasi doppio di quello francese, dimostra che esiste in Italia una industrializzazione doppia che in Francia? In Italia l’urbanesimo non è solo, e neppure «specialmente», un fenomeno di sviluppo capitalistico e della grande industria. Quella che fu per molto tempo la più grande città italiana e continua ad essere delle più grandi, Napoli, non è una città industriale: neppure Roma, l’attuale maggiore città italiana, è industriale. Tuttavia anche in queste città, di un tipo medioevale, esistono forti nuclei di popolazione del tipo urbano moderno; ma qual è la loro posizione relativa? Essi sono sommersi, premuti, schiacciati dall’altra parte, che non è di tipo moderno ed è la grandissima maggioranza. Paradosso delle «città del silenzio».

In questo tipo di città esiste, tra tutti i gruppi sociali, una unità ideologica urbana contro la campagna, unità alla quale non sfuggono neppure i nuclei più moderni per funzione civile, che pur vi esistono: c’è l’odio e il disprezzo contro il «villano», un fronte unico implicito contro le rivendicazioni della campagna, che, se realizzate, renderebbero impossibile l’esistenza di questo tipo di città. Reciprocamente esiste una avversione «generica» ma non perciò meno tenace e appassionata della campagna contro la città, contro tutta la città, tutti i gruppi che la costituiscono. Questo rapporto generale, che in realtà è molto complesso e si manifesta in forme che apparentemente sembrano contraddittorie, ha avuto una importanza primordiale nello svolgersi delle lotte per il Risorgimento, quando esso era ancor più assoluto e operante che non sia oggi. Il primo esempio clamoroso di queste apparenti contraddizioni è da studiare nell’episodio della Repubblica Partenopea del 1799: la città fu schiacciata dalla campagna organizzata nelle orde del cardinale Ruffo, perché la Repubblica, sia nella sua prima fase aristocratica, che nella seconda borghese, trascurò completamente la campagna da una parte, ma dall’altra, prospettando la possibilità di un rivolgimento giacobino per il quale la proprietà terriera, che spendeva la rendita agraria a Napoli, poteva essere spossessata, privando la grande massa popolare dei suoi cespiti di entrata e di vita, lasciò freddi se non avversi i popolani napoletani. Nel Risorgimento inoltre si manifesta già, embrionalmente, il rapporto storico tra Nord e Sud come un rapporto simile a quello di una grande città e una grande campagna: essendo questo rapporto non già quello organico normale di provincia e capitale industriale, ma risultando tra due vasti territori di tradizione civile e culturale molto diversa, si accentuano gli aspetti e gli elementi di un conflitto di nazionalità. Ciò che nel periodo del Risorgimento è specialmente notevole è il fatto che nelle crisi politiche, il Sud ha l’iniziativa dell’azione: 1799 Napoli, 20‑21 Palermo, 47 Messina e la Sicilia, 47‑48 Sicilia e Napoli. Altro fatto notevole è l’aspetto particolare che ogni movimento assume nell’Italia Centrale, come una via di mezzo tra Nord e Sud: il periodo delle iniziative popolari (relative) va dal 1815 al 1849 e culmina in Toscana e negli Stati del Papa (la Romagna e la Lunigiana occorre sempre considerarle come appartenenti al Centro). Queste peculiarità hanno un riscontro anche successivamente: gli avvenimenti del giugno 1914 hanno culminato in alcune regioni del Centro (Romagna e Marche); la crisi che si inizia nel 1893 in Sicilia e si ripercuote nel Mezzogiorno e in Lunigiana, culmina a Milano nel 1898; nel 1919 si hanno le invasioni di terre nel Mezzogiorno e in Sicilia, nel 1920 l’occupazione delle fabbriche nel Settentrione. Questo relativo sincronismo e simultaneità mostra l’esistenza già dopo il 1815 di una struttura economico‑politica relativamente omogenea, da una parte, e dall’altra mostra come nei periodi di crisi sia la parte più debole e periferica a reagire per la prima.

La relazione di città e campagna tra Nord e Sud può anche essere studiata nelle diverse concezioni culturali e atteggiamenti mentali. Come è stato accennato, B. Croce e G. Fortunato, all’inizio del secolo, sono stati a capo di un movimento culturale, che, in un modo o nell’altro, si contrapponeva al movimento culturale del Nord (idealismo contro positivismo, classicismo o classicità contro futurismo). È da rilevare il fatto che la Sicilia si stacca dal Mezzogiorno anche per il rispetto culturale: se Crispi è l’uomo dell’industrialismo settentrionale, Pirandello nelle linee generali è più vicino al futurismo, Gentile e l’attualismo sono anch’essi più vicini al movimento futurista (inteso in senso largo, come opposizione al classicismo tradizionale, come forma di un romanticismo contemporaneo). Diversa è la struttura e l’origine dei ceti intellettuali: nel Mezzogiorno predomina ancora il tipo del «paglietta», che pone a contatto la massa contadina con quella dei proprietari e con l’apparato statale; nel Nord domina il tipo del «tecnico» d’officina che serve di collegamento tra la massa operaia e gli imprenditori: il collegamento con lo Stato era funzione delle organizzazioni sindacali e dei partiti politici, diretti da un ceto intellettuale completamente nuovo (l’attuale sindacalismo di Stato, con la conseguenza della diffusione sistematica su scala nazionale di questo tipo sociale, in modo più coerente e conseguente che non fosse possibile al vecchio sindacalismo, è fino a un certo punto e in un certo senso uno strumento di unificazione morale e politica).

Questo complesso rapporto città‑campagna può essere studiato nei programmi politici generali che cercavano di affermarsi prima dell’avvento fascista al governo: il programma di Giolitti e dei liberali democratici tendeva a creare nel Nord un blocco «urbano» (di industriali e operai) che fosse la base di un sistema protezionistico e rafforzasse l’economia e l’egemonia settentrionale. Il Mezzogiorno era ridotto a un mercato di vendita semicoloniale, a una fonte di risparmio e di imposte ed era tenuto «disciplinato» con due serie di misure: misure poliziesche di repressione spietata di ogni movimento di massa con gli eccidi periodici di contadini (nella commemorazione di Giolitti, scritta da Spectator – Missiroli – nella «Nuova Antologia» si fa le meraviglie perché Giolitti si sia sempre strenuamente opposto a ogni diffusione del socialismo e del sindacalismo nel Mezzogiorno, mentre la cosa è naturale e ovvia, poiché un protezionismo operaio – riformismo, cooperative, lavori pubblici – è solo possibile se parziale; cioè ogni privilegio presuppone dei sacrificati e spogliati); misure poliziesche‑politiche: favori personali al ceto degli «intellettuali» o paglietta, sotto forma di impieghi nelle pubbliche amministrazioni, di permessi di saccheggio impunito delle amministrazioni locali, di una legislazione ecclesiastica applicata meno rigidamente che altrove, lasciando al clero la disponibilità di patrimoni voli ecc., cioè incorporamento a «titolo personale» degli elementi più attivi meridionali nel personale dirigente statale, con particolari privilegi «giudiziari», burocratici ecc. Così lo strato sociale che avrebbe potuto organizzare l’endemico malcontento meridionale, diventava invece uno strumento della politica settentrionale, un suo accessorio di polizia privata. Il malcontento non riusciva, per mancanza di direzione, ad assumere una forma politica normale e le sue manifestazioni, esprimendosi solo in modo caotico e tumultuario, venivano presentate come «sfera di polizia» giudiziaria. In realtà a questa forma di corruzione aderivano sia pure passivamente e indirettamente uomini come il Croce e il Fortunato per la concezione feticistica dell’«Unità» (cfr episodio Fortunato‑Salvemini a proposito dell’«Unità», raccontato dal Prezzolini nella prima edizione della Cultura italiana).

Non bisogna dimenticare il fattore politico‑morale della campagna di intimidazione che si faceva contro ogni anche obbiettivissima constatazione di motivi di contrasto tra Nord e Sud. È da ricordare la conclusione dell’inchiesta Pais‑Serra sulla Sardegna dopo la crisi commerciale del decennio 90-900 e l’accusa già ricordata, mossa da Crispi ai fasci siciliani di essere venduti agli inglesi. Specialmente tra gli intellettuali siciliani esisteva questa forma di esasperazione unitaria (conseguenza della formidabile pressione contadina sulla terra signorile e della popolarità regionale di Crispi) che si è manifestata anche di recente nell’attacco del Natoli contro il Croce per un accenno innocuo al separatismo siciliano dal Regno di Napoli (cfr risposta del Croce nella «Critica»). Il programma di Giolitti fu «turbato» da due fattori: 1) l’affermarsi degli intransigenti nel partito socialista sotto la direzione di Mussolini e il loro civettare coi meridionalisti (libero scambio, elezioni di Molfetta ecc.), che distruggeva il blocco urbano settentrionale; 2) l’introduzione del suffragio universale che allargò in modo inaudito la base parlamentare del Mezzogiorno e rese difficile la corruzione individuale (troppi da corrompere alla liscia e quindi apparizione dei mazzieri).

Giolitti mutò «partenaire», al blocco urbano sostituì (o meglio contrappose per impedirne il completo sfacelo) il «patto Gentiloni», cioè, in definitiva, un blocco tra l’industria settentrionale e i rurali della campagna «organica e normale» (le forze elettorali cattoliche coincidevano con quelle socialiste geograficamente: erano diffuse cioè nel Nord e nel Centro) con estensione degli effetti anche nel Sud, almeno nella misura immediatamente sufficiente per «rettificare» utilmente le conseguenze dell’allargamento della massa elettorale.

L’altro programma o indirizzo politico generale è quello che si può chiamare del «Corriere della Sera» o di Luigi Albertini e può identificarsi in una alleanza tra una parte degli industriali del Nord (con a capo i tessili, cotonieri, setaioli, esportatori e quindi libero scambisti) col blocco rurale del Mezzogiorno: il «Corriere» sostenne Salvemini contro Giolitti nelle elezioni di Molfetta del 1913 (campagna di Ugo Ojetti), sostenne il ministero Salandra prima e quello Nitti in seguito, cioè i primi due governi formati da statisti meridionali (i siciliani sono da considerarsi a parte: essi hanno sempre avuto una parte leonina in tutti i ministeri dal ’60 in poi, e hanno avuto parecchi presidenti del Consiglio, a differenza del Mezzogiorno, il cui primo leader fu Salandra; questa «invadenza» siciliana è da spiegarsi con la politica di ricatto dei partiti dell’isola, che sottomano hanno sempre mantenuto uno spirito «separatista» a favore dell’Inghilterra: l’accusa di Crispi era, in forma avventata, la manifestazione di una preoccupazione che ossessionava realmente il gruppo dirigente nazionale più responsabile e sensibile).

L’allargamento del suffragio nel 1913 aveva già suscitato i primi accenni di quel fenomeno che avrà la massima espressione nel 19‑20‑21 in conseguenza dell’esperienza politico‑organizzativa acquistata dalle masse contadine in guerra, cioè la rottura relativa del blocco rurale meridionale e il distacco dei contadini, guidati da una parte degli intellettuali (ufficiali in guerra), dai grandi proprietari: si ha Così il sardismo, il partito riformista siciliano (il così detto gruppo parlamentare Bonomi era costituito dal Bonomi e da 22 deputati siciliani) con l’ala estrema separatista rappresentata da «Sicilia Nuova», il gruppo del «Rinnovamento» nel Mezzogiorno costituito da combattenti che tentò costituire partiti regionali d’azione sul tipo sardo (cfr la rivista «Volontà» del Torraca, la trasformazione del «Popolo Romano» ecc.). In questo movimento l’importanza autonoma delle masse contadine è graduata dalla Sardegna al Mezzogiorno alla Sicilia, a seconda della forza organizzata, del prestigio e della pressione ideologica esercitata dai grandi proprietari, che hanno in Sicilia un massimo di organizzazione e di compattezza e hanno invece un’importanza relativamente piccola in Sardegna. Altrettanto graduata è l’indipendenza relativa dei rispettivi ceti intellettuali, naturalmente in senso inverso a quello dei proprietari. (Per intellettuali occorre intendere non solo quei ceti comunemente intesi con questa denominazione, ma in generale tutto lo strato sociale che esercita funzioni organizzative in senso lato, sia nel campo della produzione, sia in quello della cultura, e in quello politico‑amministrativo: corrispondono ai sotto‑ufficiali e ufficiali subalterni nell’esercito e anche in parte agli ufficiali superiori di origine subalterna). Per analizzare la funzione politico‑sociale degli intellettuali occorre ricercare ed esaminare il loro atteggiamento psicologico verso le classi fondamentali che essi mettono a contatto nei diversi campi: hanno un atteggiamento «paternalistico» verso le classi strumentali? o credono di esserne una espressione organica? hanno un atteggiamento «servile» verso le classi dirigenti o si credono essi stessi dirigenti, parte integrante delle classi dirigenti?

Nello sviluppo del Risorgimento, il così detto Partito d’Azione aveva un atteggiamento «paternalistico», perciò non è riuscito che in misura molto limitata a mettere le grandi masse popolari a contatto dello Stato. Il così detto «trasformismo» non è che l’espressione parlamentare dei fatto che il Partito d'Azione viene incorporato molecolarmente dai moderati e le masse popolari vengono decapitate, non assorbite nell’ambito del nuovo Stato.

Dal rapporto città‑campagna deve muovere l’esame delle forze motrici fondamentali della storia italiana e dei punti programmatici da cui occorre studiare e giudicare l’indirizzo del Partito d'Azione nel Risorgimento. Schematicamente si può avere questo quadro: 1) la forza urbana settentrionale; 2) la forza rurale meridionale; 3) la forza rurale settentrionale‑centrale; 4‑5) la forza rurale della Sicilia e della Sardegna.

Restando ferma la funzione di «locomotiva» della prima forza, occorre esaminare le diverse combinazioni «più utili» atte a costruire un «treno» che avanzi il più speditamente nella storia. Intanto la prima forza comincia con l’avere dei problemi proprii, interni, di organizzazione, di articolazione per omogeneità, di direzione politico‑militare (egemonia piemontese, rapporto tra Milano e Torino ecc.); ma rimane fissato che, già «meccanicamente», se tale forza ha raggiunto un certo grado di unità e di combattività, essa esercita una funzione direttiva «indiretta» sulle altre. Nei diversi periodi del Risorgimento appare che il porsi di questa forza in una posizione di intransigenza e di lotta contro il dominio straniero, determina un’esaltazione delle forze progressive meridionali: da ciò il sincronismo relativo, ma non la simultaneità, nei movimenti del 20‑21, del 31, del 48. Nel 59‑60 questo «meccanismo» storico‑politico agisce con tutto il rendimento possibile, poiché il Nord inizia la lotta, il Centro aderisce pacificamente o quasi e nel Sud lo Stato borbonico crolla sotto la spinta dei garibaldini, spinta relativamente debole. Questo avviene perché il Partito d'Azione (Garibaldi) interviene tempestivamente, dopo che i moderati (Cavour) avevano organizzato il Nord e il Centro; non è cioè la stessa direzione politico‑militare (moderati o Partito d'Azione) che organizza la simultaneità relativa, ma la collaborazione (meccanica) delle due direzioni, che si integrano felicemente.

La prima forza doveva quindi porsi il problema di organizzare intorno a sé le forze urbane delle altre sezioni nazionali e specialmente del Sud. Questo problema era il più difficile, irto di contraddizioni e di motivi che scatenavano ondate di passioni (una soluzione burletta di queste contraddizioni fu la così detta rivoluzione parlamentare del 1876). Ma la sua soluzione, appunto per questo, era uno dei punti cruciali dello sviluppo nazionale. Le forze urbane sono socialmente omogenee, quindi devono trovarsi in una posizione di perfetta uguaglianza. Ciò era vero teoricamente, ma storicamente la quistione si poneva diversamente: le forze urbane del Nord erano nettamente alla testa della loro sezione nazionale, mentre per le forze urbane del Sud ciò non si verificava, per lo meno in egual misura. Le forze urbane del Nord dovevano quindi ottenere da quelle del Sud che la loro funzione direttiva si limitasse ad assicurare la direzione del Nord verso il Sud nel rapporto generale di città-campagna, cioè la funzione direttiva delle forze urbane del Sud non poteva essere altro che un momento subordinato della più vasta funzione direttiva del Nord. La contraddizione più stridente nasceva da questo ordine di fatti: la forza urbana del Sud non poteva essere considerata come qualcosa a sé, indipendente da quella del Nord; porre la quistione così avrebbe significato affermare pregiudizialmente un insanabile dissidio «nazionale», dissidio tanto grave che neanche la soluzione federalistica avrebbe potuto comporre; si sarebbe affermata l’esistenza di nazioni diverse, tra le quali avrebbe potuto realizzarsi solo un’alleanza diplomatico‑militare contro il comune nemico, l’Austria (l’unico elemento di comunità e solidarietà, insomma, sarebbe consistito solo nell’avere un «comune» nemico). In realtà, però, esistevano solo alcuni «aspetti» della quistione nazionale, non «tutti» gli aspetti e neanche quelli più essenziali. L’aspetto più grave era la debole posizione delle forze urbane meridionali in rapporto alle forze rurali, rapporto sfavorevole che si manifestava talvolta in una vera e propria soggezione della città alla campagna. Il collegamento stretto tra forze urbane del Nord e del Sud, dando alle seconde la forza rappresentativa del prestigio delle prime, doveva aiutare quelle a rendersi autonome, ad acquistare coscienza della loro funzione storica dirigente in modo «concreto» e non puramente teorico e astratto, suggerendo le soluzioni da dare ai vasti problemi regionali. Era naturale che si trovassero forti opposizioni nel Sud all’unità: il compito più grave per risolvere la situazione spettava in ogni modo alle forze urbane del Nord che non solo dovevano convincere i loro «fratelli» del Sud, ma dovevano incominciare col convincereIntegrato sulla base del testo A. se stesse di questa complessità di sistema politico: praticamente quindi la quistione si poneva nell’esistenza di un forte centro di direzione politica, al quale necessariamente avrebbero dovuto collaborare forti e popolari individualità meridionali e delle isole. Il problema di creare una unità Nord‑Sud era strettamente legato e in gran parte assorbito nel problema di creare una coesione e una solidarietà tra tutte le forze urbane nazionali. (Il ragionamento svolto più sopra è infatti valido per tutte e tre le sezioni meridionali, Napoletano, Sicilia, Sardegna).

Le forze rurali settentrionali‑centrali ponevano alla loro volta una serie di problemi che la forza urbana del Nord doveva porsi per stabilire un rapporto normale città‑campagna, espellendo le interferenze e gli influssi di origine estranea allo sviluppo del nuovo Stato. In queste forze rurali occorreva distinguere due correnti: quella laica e quella clericale‑austriacante. La forza clericale aveva il suo peso massimo nel Lombardo‑Veneto, oltre che in Toscana e in una parte dello Stato pontificio; quella laica nel Piemonte, con interferenze più o meno vaste nel resto d’Italia, oltre che nelle legazioni, specialmente in Romagna, anche nelle altre sezioni, fino al Mezzogiorno e alle isole. Risolvendo bene questi rapporti immediati, le forze urbane settentrionali avrebbero dato un ritmo a tutte le quistioni simili su scala nazionale.

Su tutta questa serie di problemi complessi il Partito d’Azione fallì completamente: esso si limitò infatti a fare quistione di principio e di programma essenziale quella che era semplicemente quistione del terreno politico su cui tali problemi avrebbero potuto accentrarsi e trovare una soluzione legale: la quistione della Costituente. Non si può dire che abbia fallito il partito moderato, che si proponeva l’espansione organica del Piemonte, voleva soldati per l’esercito piemontese e non insurrezioni o armate garibaldine troppo vaste.

Perché il Partito d'Azione non pose in tutta la sua estensione la quistione agraria? Che non la ponessero i moderati era ovvio: l’impostazione data dai moderati al problema nazionale domandava un blocco di tutte le forze di destra, comprese le classi dei grandi proprietari terrieri, intorno al Piemonte come Stato e come esercito. La minaccia fatta dall’Austria di risolvere la quistione agraria a favore dei contadini, minaccia che ebbe effettuazione in Galizia contro i nobili polacchi a favore dei contadini ruteni, non solo gettò lo scompiglio tra gli interessati in Italia, determinando tutte le oscillazioni dell’aristocrazia (fatti di Milano del febbraio 53 e atto di omaggio delle più illustri famiglie milanesi a Francesco Giuseppe proprio alla vigilia delle forche di Belfiore), ma paralizzò lo stesso Partito d'Azione, che in questo terreno pensava come i moderati e riteneva «nazionali» l’aristocrazia e i proprietari e non i milioni di contadini. Solo dopo il febbraio 53 Mazzini ebbe qualche accenno sostanzialmente democratico (vedi Epistolario di quel periodo), ma non fu capace di una radicalizzazione decisiva del suo programma astratto. È da studiare la condotta politica dei garibaldini in Sicilia nel 1860, condotta politica che era dettata da Crispi: i movimenti di insurrezione dei contadini contro i baroni furono spietatamente schiacciati e fu creata la Guardia nazionale anticontadina; è tipica la spedizione repressiva di Nino Bixio nella regione catanese, dove le insurrezioni furono più violente. Eppure anche nelle relle di G. C. Abba ci sono elementi per dimostrare che la quistione agraria era la molla per far entrare in moto le grandi masse: basta ricordare i discorsi dell’Abba col frate che va incontro ai garibaldini subito dopo lo sbarco di Marsala. In alcune novelle di G. Verga ci sono elementi pittoreschi di queste sommosse contadine che la guardia nazionale soffocò col terrore e con la fucilazione in massa. (Questo aspetto della spedizione dei Mille non è stato mai studiato e analizzato).

La non impostazione della quistione agraria portava alla quasi impossibilità di risolvere la quistione del clericalismo e dell’atteggiamento antiunitario del Papa. Sotto questo riguardo i moderati furono molto più arditi del Partito d'Azione: è vero che essi non distribuirono i beni ecclesiastici fra i contadini, ma se ne servirono per creare un nuovo ceto di grandi e medi proprietari legati alla nuova situazione politica, e non esitarono a manomettere la proprietà terriera, sia pure solo quella delle Congregazioni. Il Partito d'Azione, inoltre, era paralizzato, nella sua azione verso i contadini, dalle velleità mazziniane di una riforma religiosa, che non solo non interessava le grandi masse rurali, ma al contrario le rendeva passibili di una sobillazione contro i nuovi eretici. L’esempio della Rivoluzione francese era lì a dimostrare che i giacobini, che erano riusciti a schiacciare tutti i partiti di destra fino ai girondini sul terreno della quistione agraria e non solo a impedire la coalizione rurale contro Parigi ma a moltiplicare i loro aderenti nelle provincie, furono danneggiati dai tentativi di Robespierre di instaurare una riforma religiosa, che pure aveva, nel processo storico reale, un significato e una concretezza immediati. (Bisognerebbe studiare attentamente la politica agraria reale della Repubblica Romana e il vero carattere della missione repressiva data da Mazzini a Felice Orsini nelle Romagne e nelle Marche: in questo periodo e fino al 70 – anche dopo – col nome di brigantaggio si intendeva quasi sempre il movimento caotico, tumultuario e punteggiato di ferocia, dei contadini per impadronirsi della terra).

Q19 §27 I moderati e gli intellettuali. Perché i moderati dovevano avere il sopravvento nella massa degli intellettuali. Gioberti e Mazzini. Gioberti offriva agli intellettuali una filosofia che appariva come originale e nel tempo stesso nazionale, tale da porre l’Italia almeno allo stesso livello delle nazioni più progredite e dare una nuova dignità al pensiero italiano. Mazzini invece offriva solo delle affermazioni nebulose e degli accenni filosofici che a molti intellettuali, specialmente napoletani, dovevano apparire come vuote chiacchiere (l’abate Galiani aveva insegnato a sfottere quel modo di pensare e di ragionare).

Quistione della scuola: attività dei moderati per introdurre il principio pedagogico dell’insegnamento reciproco (Confalonieri, Capponi ecc.); movimento di Ferrante Aporti e degli asili, legato al problema del pauperismo. Nei moderati si affermava il solo movimento pedagogico concreto opposto alla scuola «gesuitica»; ciò non poteva non avere efficacia sia tra i laici, ai quali dava nella scuola una propria personalità, sia nel clero liberaleggiante e antigesuitico (ostilità accanita contro Ferrante Aporti, ecc.; il ricovero e l’educazione dell’infanzia abbandonata era un monopolio clericale e queste iniziative spezzavano il monopolio). Le attività scolastiche di carattere liberale o liberaleggiante hanno un gran significato per afferrare il meccanismo dell’egemonia dei moderati sugli intellettuali. L’attività scolastica, in tutti i suoi gradi, ha un’importanza enorme anche economica, per gli intellettuali di tutti i gradi: l’aveva allora anche maggiore di oggi, data la ristrettezza dei quadri sociali e le scarse strade aperte all’iniziativa dei piccoli borghesi (oggi: giornalismo, movimento dei partiti, industria, apparato statale estesissimo ecc. hanno allargato in modo inaudito le possibilità di impiego).

L’egemonia di un centro direttivo sugli intellettuali si afferma attraverso due linee principali: 1) una concezione generale della vita, una filosofia (Gioberti), che offra agli aderenti una «dignità» intellettuale che dia un principio di distinzione e un elemento di lotta contro le vecchie ideologie dominanti coercitivamente; 2) Un programma scolastico, un principio educativo e pedagogico originale che interessi e dia un’attività propria, nel loro campo tecnico, a quella frazione degli intellettuali che è la più omogenea e la più numerosa (gli insegnanti, dal maestro elementare ai professori di Università).

I Congressi degli scienziati che furono organizzati ripetutamente nel periodo del primo Risorgimento ebbero una doppia efficacia: 1) riunire gli intellettuali del grado più elevato, concentrandoli e moltiplicando il loro influsso; 2) ottenere una più rapida concentrazione e un più deciso orientamento negli intellettuali dei gradi inferiori, che sono portati normalmente a seguire gli Universitari e i grandi scienziati per spirito di casta.

Lo studio delle Riviste enciclopediche e specializzate dà un altro aspetto dell’egemonia dei moderati. Un partito come quello dei moderati offriva alla massa degli intellettuali tutte le soddisfazioni per le esigenze generali che possono essere offerte da un governo (da un partito al governo), attraverso i servizi statali. (Per questa funzione di partito italiano di governo servì ottimamente dopo il 48‑49 lo Stato piemontese che accolse gli intellettuali esuli e mostrò in modello ciò che avrebbe fatto un futuro Stato unificato).

Q19 §28 Direzione politico‑militare del moto nazionale italiano. Nell’esame della direzione politica e militare impressa al moto nazionale prima e dopo il 48 occorre fare alcune preventive osservazioni di metodo e di nomenclatura. Per direzione militare non deve intendersi solo la direzione militare in senso stretto, tecnico, cioè con riferimento alla strategia e alla tattica dell’esercito piemontese, o delle truppe garibaldine o delle varie milizie improvvisate nelle insurrezioni locali (cinque giornate di Milano, difesa di Venezia, difesa della Repubblica Romana, insurrezione di Palermo nel 48 ecc.); deve intendersi invece in senso molto più largo e più aderente alla direzione politica vera e propria. Il problema essenziale che si imponeva dal punto di vista militare era quello di espellere dalla penisola una potenza straniera, l’Austria, che disponeva di uno dei più grandi eserciti dell’Europa d’allora e che aveva inoltre non pochi e deboli aderenti nella penisola stessa, persino nel Piemonte. Pertanto il problema militare era questo: come riuscire a mobilitare una forza insurrezionale che fosse in grado di espellere dalla penisola l’esercito austriaco non solo, ma anche di impedire che esso potesse ritornare con una controffensiva, dato che l’espulsione violenta avrebbe messo in pericolo la compagine dell’Impero e quindi ne avrebbe galvanizzato tutte le forze di coesione per una rivincita. Le soluzioni che del problema furono presentate astrattamente erano parecchie, tutte contraddittorie e inefficienti. «L’Italia farà da sé» fu la parola d’ordine piemontese del 48, ma volle dire la sconfitta disastrosa. La politica incerta, ambigua, timida e nello stesso tempo avventata dei partiti di destra piemontesi fu la cagione principale della sconfitta: essi furono di una astuzia meschina, essi furono la causa del ritirarsi degli eserciti degli altri Stati italiani, napoletani e romani, per aver troppo presto mostrato di volere l’espansione piemontese e non una confederazione italiana; essi non favorirono, ma osteggiarono, il movimento dei volontari; essi, insomma, volevano che solo armati vittoriosi fossero i generali piemontesi, inetti al comando di una guerra tanto difficile. L’assenza di una politica popolare fu disastrosa: i contadini lombardi e veneti arruolati dall’Austria furono uno degli strumenti più efficaci per soffocare la rivoluzione di Vienna e quindi anche italiana; per i contadini il moto del Lombardo-Veneto era una cosa di signori e di studenti come il moto viennese. Mentre i partiti nazionali italiani avrebbero dovuto, con la loro politica, determinare o aiutare il disgregamento dell’Impero austriaco, con la loro inerzia ottennero che i reggimenti italiani fossero uno dei migliori puntelli della reazione austriaca. Nella lotta tra il Piemonte e l’Austria il fine strategico non poteva essere quello di distruggere l’esercito austriaco e occupare il territorio del nemico, che sarebbe stato fine irraggiungibile e utopistico, ma poteva essere quello di disgregare la compagine interna austriaca e aiutare i liberali ad andare al potere stabilmente per mutare la struttura politica dell’impero in federalistica o almeno per crearvi uno stato prolungato di lotte interne che desse respiro alle forze nazionali italiane e permettesse loro di concentrarsi politicamente e militarmente (lo stesso errore fu commesso da Sonnino nella guerra mondiale e ciò contro le insistenze del Cadorna: Sonnino non voleva la distruzione dell’impero absburgico e si rifiutò a ogni politica di nazionalità; anche dopo Caporetto, una politica nazionalitaria fu fatta obtorto collo e malthusianamente e perciò non dette i più rapidi risultati che avrebbe potuto dare). Dopo aver iniziato la guerra col motto «l’Italia farà da sé», dopo la sconfitta, quando tutta l’impresa era compromessa, si cercò di avere l’aiuto francese, proprio quando, anche per effetto del rinvigorimento austriaco, al governo in Francia erano andati i reazionari, nemici di uno Stato italiano unitario e forte e anche di una espansione piemontese: la Francia non volle dare al Piemonte neanche un generale provetto e si ricorse al polacco Chrzanowsky.

La direzione militare era una quistione più vasta della direzione dell’esercito e della determinazione del piano strategico che l’esercito doveva eseguire; essa comprendeva in più la mobilitazione politico‑insurrezionale di forze popolari che fossero insorte alle spalle del nemico e ne avessero intralciato i movimenti e i servizi logistici, la creazione di masse ausiliarie e di riserva da cui trarre nuovi reggimenti e che dessero all’esercito «tecnico» l’atmosfera di entusiasmo e di ardore. La politica popolare non fu fatta neanche dopo il 49; anzi sugli avvenimenti del 49 si cavillò stoltamente per intimidire le tendenze democratiche: la politica nazionale di destra si impegnò nel secondo periodo del Risorgimento nella ricerca dell’aiuto della Francia bonapartista e con l’alleanza francese si equilibrò la forza austriaca. La politica della destra nel 48 ritardò l’unificazione della penisola di alcuni decenni.

Le incertezze nella direzione politico‑militare, le continue oscillazioni tra dispotismo e costituzionalismo ebbero i loro contraccolpi disastrosi anche nell’esercito piemontese. Si può affermare che quanto più un esercito è numeroso, in senso assoluto, come massa reclutata, o in senso relativo, come proporzioni di uomini reclutati sulla popolazione totale, tanto più aumenta l’importanza della direzione politica su quella meramente tecnico‑militare. La combattività dell’esercito piemontese era altissima all’inizio della campagna del 48: i destri credettero che tale combattività fosse espressione di un puro spirito militare e dinastico astratto, e cominciarono a intrigare per restringere le libertà popolari e smorzare le aspettative in un avvenire democratico. Il «morale» dell’esercito decadde. La polemica sulla fatal Novara è tutta qui. A Novara l’esercito non volle combattere, perciò fu sconfitto. I destri accusarono i democratici di aver portato la politica nell’esercito e d’averlo disgregato: accusa inetta, perché il costituzionalismo appunto «nazionalizzava» l’esercito, ne faceva un elemento della politica generale e con ciò lo rafforzava militarmente. Tanto più inetta l’accusa, in quanto l’esercito si accorge di un mutamento di direzione politica, senza bisogno di «disgregatori», da una molteplicità di piccoli cambiamenti, ognuno dei quali può parere insignificante e trascurabile, ma che nell’insieme formano una nuova atmosfera asfissiante. Responsabili della disgregazione sono pertanto quelli che hanno mutato la direzione politica, senza prevederne le conseguenze militari, hanno cioè sostituito una cattiva politica a quella precedente che era buona, perché conforme al fine. L’esercito è anche uno «strumento» per un fine determinato, ma esso è costituito di uomini pensanti e non di automi che si possono impiegare nei limiti della loro coesione meccanica e fisica. Se si può e si deve, anche in questo caso, parlare di opportuno e di conforme al fine, occorre però includere anche la distinzione: secondo la natura dello strumento dato. Se si batte un chiodo con una mazza di legno con lo stesso vigore con cui si batterebbe con un martello d’acciaio, il chiodo penetra nella mazza invece che nella parete. La direzione politica giusta è necessaria anche con un esercito di mercenari professionisti (anche nelle compagnie di ventura c’era un minimo di direzione politica, oltre a quella tecnico‑militare); tanto più è necessaria con un esercito nazionale di leva. La quistione diventa ancora più complessa e difficile nelle guerre di posizione, fatte da masse enormi che solo con grandi riserve di forze morali possono resistere al grande logorio muscolare, nervoso, psichico: solo un’abilissima direzione politica, che sappia tener conto delle aspirazioni e dei sentimenti più profondi delle masse umane, ne impedisce la disgregazione e lo sfacelo.

La direzione militare deve essere sempre subordinata alla direzione politica, ossia il piano strategico deve essere l’espressione militare di una determinata politica generale. Naturalmente può darsi che in una condizione data, gli uomini politici siano inetti, mentre nell’esercito ci siano dei capi che alla capacità militare congiungano la capacità politica: è il caso di Cesare e di Napoleone. Ma in Napoleone si è visto come il mutamento di politica, coordinato alla presunzione di avere uno strumento militare astrattamente militare, abbia portato alla sua rovina: anche nei casi in cui la direzione politica e quella militare si trovano unite nella stessa persona, è il momento politico che deve prevalere su quello militare. I commentari di Cesare sono un classico esempio di esposizione di una sapiente combinazione di arte politica e arte militare: i soldati vedevano in Cesare non solo un grande capo militare, ma specialmente il loro capo politico, il capo della democrazia. È da ricordare come Bismarck, sulle traccie del Clausewitz, sosteneva la supremazia del momento politico su quello militare, mentre Guglielmo II, come riferisce Ludwig, annotò rabbiosamente un giornale in cui l’opinione del Bismarck era riportata: così i tedeschi vinsero brillantemente quasi tutte le battaglie, ma perdettero la guerra.

Esiste una certa tendenza a sopravalutare l’apporto delle classi popolari al Risorgimento, insistendo specialmente sul fenomeno del volontariato. Le cose più serie e ponderate in proposito sono state scritte da Ettore Rota nella «Nuova Rivista Storica» del 1928‑29. A parte l’osservazione fatta in altra nota sul significato da dare ai volontari, è da rilevare che gli scritti stessi del Rota mostrano come i volontari fossero mal visti e sabotati dalle autorità piemontesi, ciò che appunto conferma la cattiva direzione politico‑militare. Il governo piemontese poteva arruolare obbligatoriamente soldati nel suo territorio statale, in rapporto alla popolazione, come l’Austria poteva fare nel suo e in rapporto a una popolazione enormemente più grande: una guerra a fondo, in questi termini, sarebbe sempre stata disastrosa per il Piemonte dopo un certo tempo. Posto il principio che «l’Italia fa da sé» bisognava o accettare subito la Confederazione con gli altri Stati italiani o proporsi l’unità politica territoriale su una tale base radicalmente popolare che le masse fossero state indotte a insorgere contro gli altri governi, e avessero costituito eserciti volontari che fossero accorsi accanto ai piemontesi. Ma appunto qui stava la quistione: le tendenze di destra piemontesi o non volevano ausiliari, pensando di poter vincere gli austriaci con le sole forze regolari piemontesi (e non si capisce come potessero avere una tale presunzione) o avrebbero voluto essere aiutati a titolo gratuito (e anche qui non si capisce come politici serii potessero pretendere un tale assurdo): nella realtà non si può pretendere entusiasmo, spirito di sacrifizio, ecc. senza una contropartita neppure dai propri sudditi di uno Stato; tanto meno si può pretenderla da cittadini estranei allo Stato su un programma generico e astratto e per una fiducia cieca in un governo lontano. Questo è stato il dramma del 48‑49, ma non è certo giusto deprezzare per ciò il popolo italiano; la responsabilità del disastro è da attribuire sia ai moderati, sia al Partito d'Azione, cioè, in ultima analisi, alla immaturità e alla scarsissima efficienza delle classi dirigenti.

Le osservazioni fatte sulla deficienza di direzione politico‑militare nel Risorgimento potrebbero essere ribattute con un argomento molto triviale e frusto: «quegli uomini non furono demagoghi, non fecero della demagogia». Un’altra trivialità molto diffusa per parare il giudizio negativo sulla capacità direttiva dei capi del moto nazionale è quella di ripetere in vari modi e forme che il moto nazionale si poté operare per merito delle sole classi colte. Dove sia il merito è difficile capire. Merito di una classe colta, perché sua funzione storica, è quello di dirigere le masse popolari e svilupparne gli elementi progressivi; se la classe colta non è stata capace di adempiere alla sua funzione, non deve parlarsi di merito, ma di demerito, cioè di immaturità e debolezza intima. Così occorre intendersi sulla parola e sul concetto di demagogia. Quegli uomini effettivamente non seppero guidare il popolo, non seppero destarne l’entusiasmo e la passione, se si intende demagogia nel suo significato primordiale. Raggiunsero essi almeno il fine che si proponevano? Essi dicevano di proporsi la creazione dello Stato moderno in Italia e produssero un qualcosa di bastardo, si proponevano di suscitare una classe dirigente diffusa ed energica e non ci riuscirono, di inserire il popolo nel quadro statale e non ci riuscirono. La meschina vita politica dal 70 al 900, il ribellismo elementare ed endemico delle classi popolari, l’esistenza gretta e stentata di un ceto dirigente scettico e poltrone sono la conseguenza di quella deficienza: e ne sono conseguenza la posizione internazionale del nuovo Stato, privo di effettiva autonomia perché minato all’interno dal Papato e dalla passività malevola delle grandi masse.

In realtà poi i destri del Risorgimento furono dei grandi demagoghi: essi fecero del popolo‑nazione uno strumento, un oggetto, degradandolo e in ciò consiste la massima e più spregevole demagogia, proprio nel senso che il termine ha assunto in bocca ai partiti di destra in polemica con quei di sinistra, sebbene siano i partiti di destra ad avere sempre esercitato la peggiore demagogia e ad aver fatto spesso appello alla feccia popolare (come Napoleone III in Francia),

Q19 §29 Il nesso 1848‑49. Novara. Nel febbraio 1849 Silvio Spaventa visitò a Pisa il D’Azeglio e del colloquio fa ricordo in uno scritto politico composto nel 1856, mentre era all’ergastolo: «Un uomo di Stato piemontese dei più illustri diceva a me un mese innanzi: noi non possiamo vincere, ma combatteremo di nuovo: la nostra sconfitta sarà la sconfitta di quel partito che oggi ci risospinge alla guerra; e tra una sconfitta e una guerra civile noi scegliamo la prima: essa ci darà la pace interna e la libertà e l’indipendenza del Piemonte, che non può darci l’altra. Le previsioni di quel saggio (!) uomo si avverarono. La battaglia di Novara fu perduta per la causa dell’indipendenza e guadagnata per la libertà del Piemonte. E Carlo Alberto fece, secondo me, il sacrifizio della sua corona più a questa che a quella» (cfr Silvio Spaventa, Dal 1848 al 1861. Lettere, scritti, documenti, pubblicati da B. Croce, 2a ed., Laterza, p. 58 nota). È da domandare se si avverarono le «previsioni», o se fu preparata la sconfitta da uomini tanto saggi quanto il D’Azeglio.

In un articolo pubblicato nel «Corriere della Sera» del 14 maggio 1934 (Onoranze americane a Filippo Caronti), Antonio Monti riporta dalle Memorie del Caronti (inedite e possedute dal Museo del Risorgimento di Milano) questi due episodi: il Caronti, dopo aver vinto gli austriaci a Como nel 1848, formò una compagnia di volontari e andò a Torino per avere le armi. Il ministro Balbo gli dette questa risposta che il Monti dice «stupefacente»: «È inutile ormai l’armarsi, giacché un esercito regolare e forte debellerà il nemico. Volete forse servirvi delle armi fra voi onde le discordie fra Comaschi e Milanesi risorgano a danno del buon esito della causa italiana?» (Non è inutile ricordare che poco prima della guerra del 48 il Piemonte si era sguarnito di armi per inviarle in Isvizzera ai cattolici reazionari insorti dei Sonderbund). Sulla «preparazione» della sconfitta di Novara il Caronti narra che mentre si preparava febbrilmente una ripresa della lotta armata a Corno e si organizzavano volontari, giunse la notizia dell’armistizio concluso dopo Novara dal generale Chrzanowsky (il Monti scrive Czarnowsky). Il Caronti affrontò il generale che disse: «Nous avons conclu un armistice honorable. – Comment, honorable? – Oui, très honorable avec une armée qui ne se bat pas». Il colloquio è confermato da Gabriele Camozzi.

Ma non importano le parole del generale polacco, che era una festuca presa nella tormenta, ma l’indirizzo dato alla politica militare dal governo piemontese, che preferiva la sconfitta a una insurrezione generale italiana.

Q19 §30 A proposito della minaccia continua che il governo austriaco faceva ai nobili del Lombardo‑Veneto di promulgare una legislazione agraria favorevole ai contadini (minaccia non vana perché già attuata in Galizia contro l’aristocrazia polacca), sono interessanti alcuni spunti di storia della Polonia contenuti in un articolo della «Pologne littéraire» riassunto dal «Marzocco» del 1° dicembre 1929. Il giornale polacco, ricercando le cause storiche dello spirito militare dei polacchi, per cui si trovano volontari polacchi in tutte le guerre e le guerriglie, in tutte le insurrezioni e in tutte le rivoluzioni del secolo scorso, risale a questo fatto: il 13 luglio 1792 «una nazione che contava 9 milioni di abitanti, che aveva 70 000 soldati sotto le armi, fu conquistata senza essere stata vinta». Il 3 maggio 1791 era stata proclamata una costituzione il cui spirito largamente democratico poteva divenire un pericolo per i vicini, il re di Prussia, l’imperatore d’Austria, e lo zar di Russia e che aveva parecchi punti di contatto con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino votata dalla Costituente francese nell’agosto 1789. La Polonia fu conquistata colla piena connivenza dei nobili polacchi, i quali, più previdenti dei loro confratelli di Francia, non avevano atteso l’applicazione della carta costituzionale per provocare l’intervento straniero. Costoro preferirono vendere la nazione al nemico piuttosto che cedere la benché minima parte delle terre ai contadini. Preferirono cadere in servitù essi medesimi, anziché concedere la libertà al popolo. Secondo l’autore dell’articolo, Z. St. Klingsland, i 70 000 soldati presero la via dell’esilio e si diressero verso la Francia, ciò che è per lo meno esagerato. Il nocciolo degli avvenimenti polacchi è tuttavia altamente istruttivo e spiega molta parte degli avvenimenti fino al 1859 anche in Italia.

È da rilevare il fatto che una pubblicazione polacca scritta in francese per la propaganda all’estero (così almeno pare) spieghi la spartizione della Polonia del 1792 specialmente col tradimento dei nobili piuttosto che con la debolezza militare polacca, nonostante che la nobiltà abbia ancora in Polonia una funzione molto rilevante e Pilsudsky si sia ben guardato anche lui dal procedere a una radicale riforma agraria. Strano «punto d’onore» nazionale. Darwin nel Viaggio intorno al mondo di un naturalista racconta un episodio simile per la Spagna: i suoi interlocutori sostenevano che una sconfitta della flotta alleata franco‑spagnola era stata dovuta alla slealtà degli spagnoli, i quali se avessero combattuto davvero, non avrebbero potuto essere stati vinti. Meglio sleali e traditori che «senza spirito militare invincibile».

Q19 §31 Italia reale e Italia legale. La formula escogitata dai clericali dopo il 70 per indicare il disagio politico nazionale risultante dalla contraddizione tra la minoranza dei patriotti decisi e attivi e la maggioranza avversa (clericali e legittimisti‑passivi e indifferenti). A Torino si pubblicò fino a qualche anno prima della guerra un quotidiano (poi settimanale) diretto da un avv. Scala e intitolato «L’Italia reale» organo del più nero clericalismo. Come sorse la formula, da chi fu escogitata e quale giustificazione teorico‑politico‑morale ne fu data? Occorre fare una ricerca nella «Civiltà Cattolica» e nei primi numeri della stessa «Italia reale» di Torino, che negli ultimi tempi si ridusse ad essere un insulso libello di sagrestia. La formula è felice dal punto di vista «demagogico» perché esisteva di fatto ed era fortemente sentito un netto distacco tra lo Stato (legalità formale) e la società civile (realtà di fatto), ma la società civile era tutta e solamente nel «clericalismo»? Intanto la società civile era qualcosa di informe e di caotico e tale rimase per molti decenni; fu possibile pertanto allo Stato di dominarla, superando volta a volta i conflitti che si manifestavano in forma sporadica, localistica, senza nesso e simultaneità nazionale. Il clericalismo non era quindi neanche esso l’espressione della società civile, perché non riuscì a darle un’organizzazione nazionale ed efficiente, nonostante esso fosse un’organizzazione forte e formalmente compatta: non era politicamente omogenea ed aveva paura delle stesse masse che in un certo senso controllava. La formula politica del «non expedit» fu appunto l’espressione di tale paura ed incertezza: il boicottaggio parlamentare, che pareva un atteggiamento aspramente intransigente, in realtà era l’espressione dell’opportunismo più piatto. L’esperienza politica francese aveva dimostrato che il suffragio universale e il plebiscito a base larghissima, in date circostanze, poteva essere un meccanismo favorevolissimo alle tendenze reazionarie e clericali (cfr a questo proposito le ingenue osservazioni di Jacques Bainville nella sua Storia di Francia, quando rimprovera al legittimismo di non aver avuto fiducia nel suffragio universale come invece aveva fatto Napoleone III); ma il clericalismo italiano sapeva di non essere l’espressione reale della società civile e che un possibile successo sarebbe stato effimero e avrebbe determinato l’attacco frontale da parte delle energie nazionali nuove, evitato felicemente nel 1870. Esperienza del suffragio allargato nel 1882 e reazione crispino‑massonica. Tuttavia l’atteggiamento clericale di mantenere «statico» il dissidio tra Stato e società civile era obbiettivamente sovversivo e ogni nuova organizzazione espressa dalle forze che intanto maturavano nella società, poteva servirsene come terreno di manovra per abbattere il regime costituzionale monarchico: perciò la reazione del 98 abbatté insieme e socialismo e clericalismo, giudicandoli giustamente ugualmente «sovversivi» e obbiettivamente alleati. Da questo momento comincia pertanto una nuova politica vaticanesca, con l’abbandono di fatto del «non expedit» anche nel campo parlamentare (il Comune era tradizionalmente considerato società civile e non Stato) e ciò permette l’introduzione del suffragio universale, il patto Gentiloni e finalmente la fondazione nel 1919 del Partito Popolare. La quistione dell’esistenza di un’Italia reale e un’Italia legale si ripresenta in altra forma, negli avvenimenti del 24‑26, fino alla soppressione di tutti i partiti politici, con l’affermazione dell’essersi ormai raggiunta l’identità tra il reale e il legale perché la società civile in tutte le sue forme era inquadrata da una sola organizzazione politica di partito e statale.

Q19 §32 Piero Pieri, Il Regno di Napoli dal luglio 1799 al marzo 1806, Napoli, Ricciardi, 1928, pp. 330, L. 25,00 (utile per comprendere meglio la Repubblica Partenopea attraverso la politica dei Borboni nel breve periodo della restaurazione).

Q19 §33 Giovanni Maioli, Il fondatore della Società Nazionale, Soc. Naz. per la Storia del Risorgimento, Roma, 1928 (contiene 22 lettere di Giorgio Pallavicino e di Felice Foresti sul periodo 1856‑58, quando il Pallavicino, presidente della Società Nazionale di cui era segretario G. La Farina lavorava a creare il blocco liberale di destra e del centro su due caposaldi: «opinione italiana», «esercito sardo». Un detto del Pallavicino: «il rivoluzionario italiano, uomo fortissimo sul campo dell’azione, è troppo spesso un fanciullo in quello del pensiero»).

È da rilevare che nell’attuale storiografia del Risorgimento, che è tendenziosissima a modo suo, si dà come «acuto realismo politico» tutto ciò che coincide col programma piemontese dei moderati: è un giudizio del senno di poi abbastanza ingenuo e poco acuto: corrisponde alla concezione dei «Gesta dei per Allobrogos» riverniciata e spolverata di qualche concetto moderno.

Q19 §34 Giuseppe Solitro, Due famigerati gazzettieri dell’Austria (Luigi Mazzoldi, Pietro Perego), Padova, Draghi, 1927, L. 15. (Nella recensione pubblicata dalla «Fiera Letteraria» del 16 dicembre 1928, Guido Zadei scrive di possedere materiale inedito e non sfruttato sul Mazzoldi e su una curiosa polemica in cui Filippo Ugoni accusa il Mazzoldi di propaganda comunista, che vorrà poi dire di propaganda per la riforma agraria in senso austriacante).

Q19 §35 Gioberti e il cattolicismo liberale. Nella prefazione alle Letture del Risorgimento il Carducci scrive: «Staccatosi dalla Giovane Italia nel 1834 tornò a quello che il Santarosa voleva e chiamava cospirazione letteraria ed egli la fece con certa sua filosofia battagliera, che molto alta portava la tradizione italiana, finché uscì nell’agone col Primato e predicando la lega dei principi riformatori, capo il pontefice, attrasse le anime timorose e gli ingegni timorosi, attrasse e rapì il giovane clero, che alla sua volta traevasi dietro il popolo credente anche della campagna». In altro punto il Carducci scrive: «… l’abate italiano riformista e mezzo giacobino col Parini, soprannuotato col Cesarotti e col Barbieri alla rivoluzione, che s’era fatto col Di Breme banditore di romanticismo e soffiatore nel carbonarismo del 21, che aveva intinto col Gioberti nelle cospirazioni e bandito il Primato d’Italia e il Rinnovamento, che aveva col Rosmini additato le piaghe della Chiesa, che aveva coll’Andreoli e col Tazzoli salito il patibolo…».

Q19 §36 Augusto Sandonà. Dopo l’armistizio il Sandonà ha fatto ricerca negli Archivi viennesi per raccogliere la documentazione ufficiale austriaca su una serie di avvenimenti del Risorgimento italiano. Prima della guerra il Sandonà aveva pubblicato, tra l’altro: Contributo alla storia dei processi del 21 e dello Spielberg, Torino, Bocca, 1911; L’idea unitaria ed i partiti politici alla vigilia del 1848, in «Rivista d’Italia» del giugno 1914; Il Regno lombardo‑veneto. La costituzione e l’amministrazione, Milano, Cogliati, 1912.

Q19 §37 Confidenti e agenti provocatori dell’Austria. I confidenti che operavano all’estero e che dipendevano dalla Cancelleria di Stato di Vienna, non dovevano fare gli agenti provocatori: ciò risulta dalle precise istruzioni del principe di Metternich che in un dispaccio segreto dell’8 febbraio 1844 indirizzato al conte Appony, ambasciatore d’Austria a Parigi, così si esprimeva in merito al servizio che prestava nella capitale francese il famigerato Attilio Partesotti: «Il grande fine che il Governo imperiale si propone non è di trovare dei colpevoli né di provocare delle imprese criminali… Partesotti deve di conseguenza considerarsi come un osservatore attento e fedele ed evitare con cura di essere agente provocatore». (Documenti della Staatskanzlei di Vienna).

Il brano è riportato da Augusto Sandonà nello studio: Il preludio delle cinque giornate di Milano ‑ Nuovi documenti, pubblicato nella «Rivista d’Italia» del 15 gennaio 1927 e sgg., con riferimento all’accusa lanciata dal dott. Carlo Casati (Nuove Rivelazioni sui fatti di Milano del 1847‑48, Milano, Hoepli, 1885) e dall’«Archivio triennale delle cose d’Italia» (vol. I, Capolago, Tip. Elvetica, 1850) contro il barone Carlo Torresani, direttore generale della polizia di Milano dal 1822 al 1848 di aver organizzato un servizio di agenti provocatori che inscenassero i tumulti.

È da osservare però, che nonostante le disposizioni del Metternich, gli agenti provocatori potevano operare lo stesso o per necessità delle polizie locali o anche per necessità personale dei medesimi «osservatori».

Q19 §38 Il nesso 1848‑49. La lega doganale, promossa da Cesare Balbo e stretta a Torino il 3 novembre 1847 dai tre rappresentanti del Piemonte, della Toscana e dello Stato pontificio, doveva preludere alla costituzione della Confederazione politica che poi fu disdetta dallo stesso Balbo: facendo abortire anche la lega doganale. La Confederazione era desiderata dagli Stati minori italiani; i reazionari piemontesi (fra cui il Balbo) credendo ormai assicurata l’espansione territoriale del Piemonte, non volevano pregiudicarla con legami che l’avrebbero ostacolata (il Balbo nelle Speranze d’Italia aveva sostenuto che la Confederazione era impossibile finché una parte d’Italia fosse stata in mano agli stranieri!?) e disdissero la Confederazione dicendo che le leghe si stringono prima o dopo le guerre (!?): la Confederazione fu respinta nel 48, nei primi mesi (confrontare).

Gioberti, con altri, vedevano nella Confederazione politica e doganale, stretta anche durante la guerra, la necessaria premessa per rendere possibile l’attuazione del motto «l’Italia farà da sé». Questa politica infida nei rapporti della Confederazione, con le altre direttive altrettanto fallaci a proposito dei volontari e della Costituente, mostra che il moto del 48 fallì per gli intrighi furbescamente meschini dei destri, che furono i moderati del periodo successivo. Essi non seppero dare un indirizzo, né politico né militare, al moto nazionale.

Q19 §39 La costituzione spagnola del 1812. Perché fu tanto popolare? Bisognerebbe confrontarla con le costituzioni elargite nel 1848. La ragione della popolarità della costituzione spagnola non pare debba ricercarsi nella sua forma ultraliberale, o nella pigrizia intellettuale dei rivoluzionari liberali italiani o in altre quistioni secondarie, ma nel fatto essenziale che la situazione spagnola era «esemplare» per l’Europa assolutista e i liberali spagnoli seppero trovare la soluzione giuridico‑costituzionale più appropriata e più generalizzata di problemi che non erano solo spagnoli, ma italiani, specialmente del Mezzogiorno.

Q19 §40 La Sicilia. Luigi Natoli: Rivendicazioni (attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848‑1860), Treviso, Cattedra italiana di pubblicità, 1927, L. 14. «Il Natoli vuole reagire contro quella tendenza di studi e di studiosi che ancor oggi o per scarsa padronanza delle testimonianze o per residui di antiche prevenzioni politiche, mira a svalutare il contributo della Sicilia alla storia unitaria del Risorgimento. L’autore polemizza specialmente con B. Croce, il quale considera la rivoluzione siciliana del 1848 come un “moto separatista” dannoso alla causa italiana, ecc.». Ciò che è interessante, in questa letteratura siciliana, giornalistica o libresca, è il tono fortemente polemico e irritato (unitarismo ossessionato). La quistione invece dovrebbe essere molto semplice, dal punto di vista storico: il separatismo o c’è stato o non c’è stato o è stato solo tendenziale in una misura da determinarsi secondo un metodo storicamente obbiettivo, astraendo da ogni valutazione attuale di polemica di partito, di corrente o di ideologia; la ricostruzione delle difficoltà incontrate in Sicilia dal moto unitario potrebbero non essere maggiori o diverse da quelle incontrate in altre regioni, a cominciare dal Piemonte. Se in Sicilia il separatismo ci fosse stato, ciò non dovrebbe essere storicamente considerato né riprovevole, né immorale, né antipatriottico, ma solo considerato come un nesso storico da giustificare storicamente e che in ogni modo dovrebbe servire ad esaltare di più l’energia politica degli unitari che ne trionfarono.

Il fatto che la polemica continui accanita ed aspra significa dunque che sono in gioco «interessi attuali» e non interessi storici, significa in fondo che queste pubblicazioni tipo Natoli dimostrano esse stesse proprio ciò che vorrebbero negare, cioè il fatto che lo strato sociale unitario in Sicilia è molto sottile e che esso padroneggia a stento forze latenti «demoniache» che potrebbero anche essere separatiste se questa soluzione, in determinate occasioni, si presentasse come utile per certi interessi. Il Natoli non parla del moto del 67 e tanto meno di certe manifestazioni del dopoguerra, che hanno pure un valore di sintomo per rivelare l’esistenza di correnti sotterranee, che mostrano un certo distacco tra le masse popolari e lo Stato unitario, su cui speculavano certi gruppi dirigenti.

Pare che il Natoli sostenga che l’accusa di separatismo giochi sull’equivoco, sfruttando il programma federalista che in un primo tempo parve a taluni uomini insigni dell’isola e alle sue rappresentanze la soluzione più rispondente alle tradizioni politiche locali, ecc. In ogni modo il fatto che il programma federalista abbia avuto più forti sostenitori in Sicilia che altrove e sia durato più a lungo ha il suo significato.

Q19 §41 Interpretazioni del Risorgimento. Cfr Massimo Lelj: Il Risorgimento dello spirito italiano (1725-1861), «L’Esame», Edizioni di Storia moderna, Milano, 1928, L. 15.

Q19 §42 Federico Confalonieri. Per capire l’impressione «penosa» che produceva tra gli esuli italiani l’atteggiamento di inerzia del Confalonieri durante la sua dimora all’estero, dopo la liberazione dallo Spielberg, occorre tener presente un brano della lettera scritta dal Mazzini a Filippo Ugoni il 15 novembre 1838, pubblicata da Ugo Da Corno nella Nuova Antologia del 16 giugno 1928 (Lettera inedita di Giuseppe Mazzini): «Mi sorprende che Confalonieri rientri. Quando tu mi parli della guerra che susciterebbe nel mio cuore il pensiero di mia madre, di mio padre, della sorella che mi rimane, dici il vero; ma Confalonieri da che affetto prepotente è egli richiamato in Italia? dopo la morte di Teresa sua moglie? Non capisco la vita se non consacrata al dovere, o all’amore che è anch’esso un dovere. Intendo, senza approvare o disapprovare, l’individuo che rinunzia alla lotta pel vero e pel bene a fronte della felicità o infelicità di persone care e sacre; non intendo chi vi rinunzia per vivere, come si dice, quieto; otto o dieci anni di vita d’individualismo, di sensazioni che passano e non producono cosa alcuna per altri, conchiusi dalla morte, mi paiono cosa spregevole per chi non ha credenza di vita futura, più che spregevole rea forse per chi ne ha. Confalonieri, solo, in età già inoltrata, senza forti doveri che lo leghino a una famiglia di esseri amati, dovrebbe, secondo me, aver tutto a noia fuorché la idea di contribuire all’emancipazione del suo paese e alla crociata contro l’Austria».

Il Da Corno nella sua introduzione alla lettera scrive: «E per questo è pure nella nostra lettera un accorato pensiero per Federico Confalonieri. Egli era passato da Londra, un anno prima, diretto in Francia: Mazzini aveva saputo che era mesto e silenzioso, ma i patimenti, secondo lui, non dovevano mutare il fondo dell’anima. Lo seguiva con trepidazione, perché voleva che fosse sempre un’alta diritta figura, un esempio. Pensava che se egli stesso fosse uscito dallo Spielberg, trovandosi un deserto d’intorno, non avrebbe ad altro inteso che al modo di ritentare qualche cosa a pro’ dell’antica idea e finirvi. Non voleva che supplicasse, che volesse e ottenesse il ritorno chi aveva sofferto quindici anni senza avvilirsi, senza indizi di cangiamento. Voleva che fosse sempre un nuovo Farinata degli Uberti, come lo raffigurò Gabriele Rosa, affettuoso e costante esaltatore, sino all’ultimo, del suo compagno di prigionia».

Il Da Corno è completamente fuori strada e le parole del Mazzini, altro che accorate, sono aspre e dure. L’agiografia impedisce al Da Corno di rilevare il tono giusto delle parole del Mazzini. Altri accenni al Confalonieri nell’epistolario mazziniano e nelle lettere degli altri esuli: il giudizio reale bisogna cercarlo appunto in queste lettere private, perché si comprende che gli esuli non abbiano voluto pubblicamente gettare ombre sulla figura del Confalonieri. Una ricerca indispensabile è da farsi nelle relazioni degli informatori austriaci al governo di Vienna dai paesi dove il Confalonieri dimorò dopo la liberazione e nelle istruzioni che questi informatori ricevevano da Metternich.

Q19 §43 La morte di Vittorio Emanuele II. In una lettera di Guido Baccelli a Paulo Fambri, del 12 agosto (forse 1880, poiché manca l’anno e il 1880 è un’ipotesi del Guidi) pubblicata da Angelo Flavio Guidi (L’archivio inedito di Paulo Fambri nella Nuova Antologia del 16 giugno 1928) è scritto: «Il cuore di tutta Italia sanguina ancora al ricordo della morte del glorioso Vittorio Emanuele: quella immensa sciagura però poteva essere cento volte più grande se non si fossero guadagnate coll’aspirazione dell’ossigeno parecchie ore di vita». (Seguono puntini, dell’editore Guidi a quanto pare, perché completano tutta la linea, non sono cioè i soliti puntini di sospensione). Cosa significa?

Q19 §44 Federico Confalonieri. Il Confalonieri prima di essere tradotto allo Spielberg e dopo la liberazione, prima di essere tradotto nel carcere di Gradisca, per essere poi deportato, andò a Vienna. Vedere se anche in questo secondo soggiorno a Vienna, che si disse fatto per ragioni di salute, ebbe colloqui con uomini politici austriaci. I dati esterni sulla vita del Confalonieri si possono trovare nelle pubblicazioni del D’Ancona.

Come curiosità sarà da vedere il dramma di Rino Alessi, Il conte Aquila. Ma perché l’Alessi ha creduto di chiamare il Confalonieri il conte «Aquila»?

Q19 §45 La Repubblica Partenopea e le classi rivoluzionarie nel Risorgimento. Nell’edizione Laterza delle «Memorie storiche del regno di Napoli dal 1790 al 1815» di Francesco Pignatelli Principe di Strongoli (Nino Cortese, Memorie di un generale della Repubblica e dell’Impero, 2 voll. In 8°, di pp. 136-CCCCXXV, 312, L. 509, il Cortese pubblica un saggio «Stato e ideali politici nell’Italia meridionale nel Settecento e l’esperienza di una rivoluzione», in cui si pone il problema: come mai, nel Mezzogiorno d’Italia, la nobiltà apparisca dalla parte dei rivoluzionari e sia poi ferocemente perseguitata dalla reazione, mentre in Francia nobiltà e monarchia sono unite davanti al pericolo rivoluzionario. Il Cortese risale ai tempi di Carlo di Borbone per trovare il punto di contatto tra la concezione degli innovatori aristocratici e quella dei borghesi: per i primi la libertà e le necessarie riforme devono essere garantite soprattutto da un parlamento aristocratico, mentre sono disposti ad accettare la collaborazione dei migliori della borghesia; per questa il controllo deve essere esercitato e la garanzia della libertà affidata all’aristocrazia dell’intelligenza, del sapere, della capacità, ecc., da qualsiasi parte venga. Per ambedue lo Stato deve essere governato dal re, circondato, illuminato e controllato da un’aristocrazia. Nel 1799, dopo la fuga del re, si ha prima il tentativo di una repubblica aristocratica da parte dei nobili e poi quello degli innovatori borghesi nella successiva repubblica napoletana.

Pare che gli eventi napoletani non possano essere contrapposti a quelli francesi; anche in Francia ci fu un tentativo di alleanza tra monarchia, nobili e alta borghesia dopo un inizio di rottura tra nobili e monarchia. In Francia però la rivoluzione ebbe la forza motrice anche nelle classi popolari che le impedirono di fermarsi ai primi stadi, ciò che mancò invece nell’Italia meridionale e successivamente in tutto il Risorgimento. Occorre inoltre tener presente che il movimento napoletano avvenne dopo quello francese, quando la monarchia era sotto l’incubo del terrore francese e vedeva un nemico in chiunque parteggiasse per le idee innovatrici, fosse nobile o borghese. Il libro del Cortese è da vedere.

Q19 §46 Il popolo nel Risorgimento. 1) Vedere il volume di Niccolò Rodolico: Il popolo agli inizi del Risorgimento, Firenze, Le Monnier, in 8°, pp. 312. 2) Nello statuto della Società segreta Esperia fondata dai fratelli Bandiera si legge: «Non si facciano, se non con sommo riguardo, affiliazioni tra la plebe, perché dessa quasi sempre per natura è imprudente e per bisogno corrotta. È da rivolgersi a preferenza ai ricchi, ai forti e ai dotti, negligendo i poveri, i deboli, gli ignoranti» (da verificare).

Occorre raccogliere tutte le osservazioni che nel primo periodo del Risorgimento (prima del 48) si riferiscono a questo argomento e vedere l’origine di questa differenza. Una causa è da ricercare nei processi che seguirono il tentativo di rivolta militare del 21 in Piemonte e altrove: differenza di atteggiamento tra soldati e ufficiali; i soldati o tradirono spesso o si mostrarono molto deboli dinanzi ai giudizi nell’istruzione dei processi.

Atteggiamento di Mazzini prima e dopo l’insurrezione del febbraio 1853 a Milano; dopo il 1853 sono da vedere le sue istruzioni a Crispi per la fondazione di sezioni del Partito d’Azione in Portogallo, nelle quali si raccomanda di mettere un operaio in ogni Comitato di tre.

Q19 §47 L’Italia e il carciofo. L’immagine dell’Italia come di un carciofo, le cui foglie si mangiano ad una ad una, viene attribuita a parecchi principi italiani, non solo della casa Savoia. L’ultima attribuzione è quella a Vittorio Emanuele II (e ciò non sarebbe contrario al suo carattere, come mostra l’aneddoto di Quintino Sella, riportato da Ferdinando Martini; cfr altra nota). Secondo Amerigo Scarlatti (nell’«Italia che scrive» del febbraio 1928), l’immagine sarebbe dovuta a Vittorio Amedeo II, come risulta dal Voyage d’Italie del Misson, stampato all’Aja nel 1703.

Q19 §48 Piero Pieri, Il regno di Napoli dal luglio T799 al marzo 1806, Napoli, Ricciardi, 1928, pp. 314, L. 25. Studia la politica borbonica dopo la prima restaurazione e le cause del suo crollo nel 1806, avvenuto pur non essendoci all’interno nessuna forza contraria attiva e quando l’esercito francese era ancora lontano. Studia il difficile regime delle classi nel Mezzogiorno e il nascere del pensiero liberale che sostituisce il vecchio giacobinismo del 1799. (Ma si può chiamare «giacobinismo» l’indirizzo politico dei rivoluzionari napoletani del 1799?) Pare si tratti di un libro molto interessante.

Per comprendere l’orientamento delle classi e il loro sviluppo nel Mezzogiorno deve essere molto interessante anche il libro di A. Zago: L’istruzione pubblica e privata nel Napoletano (1767‑186o), Città di Castello, «Il Solco», 1927, pp. 228, L. 15. (Lo squilibrio tra l’attività scolastica statale e quella privata si è avuto dopo il 1821: le scuole private fioriscono, mentre l’attività statale decade: si costituisce così uno strato di intellettuali nettamente separato dalle masse popolari e in opposizione allo Stato, relativamente forte nella disgregazione politica generale, a stento unificata esteriormente dalla repressione di polizia. Questo argomento merita di essere approfondito).

Q19 §49 Il nodo storico 1848‑49. Ricostruire ed analizzare minutamente il succedersi dei governi e delle combinazioni di partiti (costituzionali e assolutisti) nel Piemonte dall’inizio del nuovo regime fino al proclama di Moncalieri, da Solaro della Margarita a Massimo d’Azeglio. Funzione del Gioberti e del Rattazzi e loro effettivo potere sulla macchina statale che era rimasta immutata o quasi dal tempo dell’assolutismo.

Significato del così detto connubio Cavour‑Rattazzi: fu il primo passo della disgregazione democratica? ma fino a qual punto il Rattazzi poteva dirsi un liberale‑democratico?

Q19 §50 Criteri introduttivi. La storia come «biografia» nazionale. Questo modo di scrivere la storia comincia col nascere del sentimento nazionale ed è uno strumento politico per coordinare e rinsaldare nelle grandi masse gli elementi che appunto costituiscono il sentimento nazionale. 1) Si presuppone che ciò che si desidera, sia sempre esistito e non possa affermarsi e manifestarsi apertamente per l’intervento di forze esterne o perché le virtù intime erano «addormentate; 2) ha dato luogo alla storia popolare oleografica: l’Italia è veramente pensata come qualcosa di astratto e concreto (troppo concreto) nello stesso tempo, come la bella matrona delle oleografie popolari, che influiscono più che non si creda nella psicologia di certi strati del popolo, positivamente e negativamente (ma sempre in modo irrazionale), come la madre di cui gli italiani sono i «figli». Con un passaggio che sembra brusco e irrazionale, ma ha indubbiamente efficacia, la biografia della «madre» si trasforma nella biografia collettiva dei «figli buoni», contrapposti ai figli degeneri, deviati ecc. Si capisce che un tal modo di scrivere e declamare la storia è nato per ragioni pratiche, di propaganda: ma perché si continua ancora in tale tradizione? Oggi questa presentazione della storia d’Italia è doppiamente antistorica: 1) perché è in contraddizione con la realtà; 2) perché impedisce di valutare adeguatamente lo sforzo compiuto dagli uomini del Risorgimento, sminuendone la figura e l’originalità, sforzo che non fu solo verso i nemici esterni, ma specialmente contro le forze interne conservatrici che si opponevano all’unificazione.

Per comprendere le ragioni «pedagogiche» di questa forma di storia, anche in questo caso può servire il paragone con la situazione francese nello stesso tempo in cui si attuò il Risorgimento, Napoleone si chiamò imperatore dei Francesi e non della Francia, e così Luigi Filippo, re dei Francesi. La denominazione ha un carattere nazionale‑popolare profondo, e significa un taglio netto con l’epoca dello Stato patrimoniale, una maggiore importanza data agli uomini invece che al territorio. «Marianna» perciò in Francia può essere canzonata anche dai più accesi patriotti, mentre in Italia mettere in caricatura la figura stilizzata dell’Italia significherebbe senz’altro essere antipatriotti come lo furono i sanfedisti e i gesuiti prima e dopo il 1870.

Q19 §51 Il nodo storico 1848‑49. Cfr Carlo Pagani, Dopo Custoza e Volta nel 1848 (nella Nuova Antologia del 1° marzo 1929). Riporta alcuni documenti inediti tratti dall’archivio Casati di Milano, non essenziali, ma significativi per vedere la crisi politica di quel momento, crisi politica che fu uno degli elementi principali della disfatta militare: mancanza di un indirizzo unitario politico ben stabilito e risoluto, esitazioni, azione irresponsabile delle cricche reazionarie, nessuna cura per i bisogni dell’esercito come massa umana ecc.

L’Inghilterra era contraria all’intervento militare della Francia a favore del Piemonte: Palmerston dichiarò che l’intervento francese avrebbe scatenato una guerra europea perché l’Inghilterra non l’avrebbe tollerato, mentre solo mollemente appoggiava il Piemonte in via diplomatica per evitare una disfatta rovinosa e mutamenti territoriali troppo favorevoli all’Austria. L’articolo del Pagani è da rivedere in caso di ricostruzione degli avvenimenti del 48‑49 per trovare elementi di concordanza e di sussidio di altri documenti.

Per le vicende del Ministero Casati‑Gioberti (luglio‑agosto 1848) cfr la lettera del Gioberti a Giuseppe Massari pubblicata con proemio dal senatore Matteo Mazziotti nella Nuova Antologia del 16 giugno 1918. Per la missione di Carlo d’Adda in Francia e Inghilterra svolta per incarico del governo provvisorio di Milano cfr Carlo Pagani nel Resoconto del Congresso Storico di Trento nel 1926 (discorso: Il Governo provvisorio di Milano nel 1848 e il Trentino); Carlo Pagani, Uomini e cose in Milano dal marzo all’agosto del 1848, Ed. Cogliati, Milano (con documenti tratti dal Museo storico del Risorgimento di Milano e specialmente dagli archivi Casati, d’Adda, Arese, Giulini‑Crivelli, Restelli).

Q19 §52 I volontari. Sui volontari alcune osservazioni acute si trovano nelle Memorie di Leonetto Cipriani, specialmente per i volontari toscani e per il modo con cui furono trattati dall’esercito piemontese nel 1848. Le Memorie di Cipriani sono da leggere anche per alcune impressioni vive sugli avvenimenti del Risorgimento.

Q19 §53 Luzio e la storiografia tendenziosa e faziosa dei moderati. 1) È da porre in rilievo come il modo di scrivere la storia del Risorgimento di A. Luzio è stato spesso lodato dai gesuiti della «Civiltà Cattolica». Non sempre, ma più spesso di quanto si crede, l’accordo tra il Luzio e i gesuiti è possibile. Cfr nella «Civiltà Cattolica» del 4 agosto 1928 le pp. 216‑17 dell’articolo Processo politico e condanna dell’abate Gioberti nell’anno 1833. Il Luzio deve difendere la politica di Carlo Alberto (nel libro Mazzini carbonaro, p. 498) e non esita a giudicare aspramente l’atteggiamento del Gioberti nel processo per i fatti del 31, d’accordo coi gesuiti. È da rilevare come dagli articoli pubblicati dalla «Civiltà Cattolica» nel 1928 sul processo di Gioberti risulta dai documenti vaticani che il Papa aveva già dato preventivamente, in forma loiolesca, il suo placet alla condanna capitale e all’esecuzione del Gioberti, mentre nel 1821, per esempio, la condanna a morte di un ecclesiastico in Piemonte era stata trasformata nell’ergastolo per l’intervento vaticano.

2) Sulla letteratura «storica» del Luzio riguardante i processi del Risorgimento sono da fare parecchi rilievi di ordine politico‑fazioso, di metodo e di mentalità. Troppo spesso il Luzio (per ciò che riguarda gli arrestati dei partiti democratici) pare che rimproveri gli imputati di non essersi fatti condannare e impiccare. Anche da un punto di vista giuridico o giudiziario, il Luzio imposta le quistioni in modo falso e tendenzioso, ponendosi dal punto di vista del «giudice» e non da quello degli imputati: quindi i suoi tentativi (inetti e stolti) di «riabilitare» i giudici reazionari, come il Salvotti. Anche ammesso che il Salvotti sia da giudicare irreprensibile sia personalmente, sia come funzionario austriaco, ciò non muta che i processi da lui imbastiti fossero contrari alla nuova coscienza giuridica rappresentata dai patrioti rivoluzionari e apparissero loro mostruosi. La condizione dell’imputato era difficilissima e delicatissima: anche una piccola ammissione poteva avere conseguenze catastrofiche non solo per l’imputato singolo, ma per tutta una serie di persone, come si vide nel caso del Pallavicino. Alla «giustizia» stataria, che è una forma di guerra, non importa nulla della verità e della giustizia obbiettiva: importa solo distruggere il nemico, ma in modo che appaia che il nemico merita di essere distrutto e ammetta egli stesso di meritarselo. Un esame degli scritti «storico‑giudiziari» del Luzio potrebbe dar luogo a tutta una serie di osservazioni di metodo storico interessanti psicologicamente e fondamentali scientificamente (è da confrontare l’articolo di Mariano d’Amelio Il successo e il diritto nel «Corriere della Sera» del 3 settembre 1934).

3) Questo modo di fare la storia del Risorgimento alla Luzio ha mostrato il suo carattere fazioso specialmente nella seconda metà del secolo scorso (e più determinatamente dopo il 1876, cioè dopo l’avvento della sinistra al potere): esso è stato addirittura un tratto caratteristico della lotta politica tra cattolici‑moderati (o moderati che desideravano riconciliarsi coi cattolici e trovare il terreno per la formazione di un gran partito di destra che attraverso il clericalismo avesse una base larga nelle masse rurali) e i democratici, che per ragioni analoghe, volevano distruggere il clericalismo. Un episodio tipico è stato l’attacco sferrato contro Luigi Castellazzo per il suo presunto atteggiamento nel processo di Mantova che portò alle impiccagioni di Belfiore di don Tazzoli, di Carlo Poma, di Tito Speri, di Montanari e del Frattini. La campagna era puramente faziosa, perché le accuse fatte al Castellazzo non furono fatte ad altri che nei processi notoriamente si comportavano certo peggio di quanto si affermava per il Castellazzo e non persuasivamente, perché uomini come il Carducci si mantennero solidali con l’attaccato; ma il Castellazzo era repubblicano, massone (capo della Massoneria?) e aveva persino manifestato simpatia per la Comune. Il Castellazzo si comportò peggio di Giorgio Pallavicino al processo Confalonieri? (cfr attacchi del Luzio contro l’Andryane per la sua ostilità al Pallavicino). È vero che il processo di Mantova si concluse con esecuzioni capitali, mentre ciò non avvenne per il Confalonieri e compagni, ma a parte che ciò non deve modificare il giudizio sulle azioni dei singoli individui, si può dire che le esecuzioni di Belfiore siano dovute al presunto comportamento del Castellazzo e non furono invece la fulminea risposta all’insurrezione milanese del 3 febbraio 1853? E non contribuì a rafforzare la volontà spietata di Francesco Giuseppe l’atteggiamento vile dei nobili milanesi che strisciarono ai piedi dell’imperatore proprio alla vigilia dell’esecuzione? (cfr le date). È da vedere come il Luzio si comporta verso questa serie complessa di avvenimenti. I moderati cercarono di attenuare la responsabilità dei nobili milanesi in forma veramente sconcia (cfr i Cinquanta anni di patriottismo di R. Bonfadini). Vedere come il Luzio si atteggia nella quistione dei Costituti Confalonieri e in quella del comportamento del Confalonieri dopo la sua liberazione. Sulla quistione del Castellazzo cfr Luzio: I Martiri di Belfiore nelle diverse edizioni (la 4a è del 1924); I processi politici di Milano e di Mantova restituiti dall’Austria, Milano, Cogliati, 1919 (questo libretto dovrebbe parlare dei Costituti Confalonieri che il senatore Salata scriveva di aver «scoperto» negli archivi viennesi); La Massoneria e il Risorgimento Italiano, 2 voll., Bocca (pare che questo lavoro sia giunto alla 4a edizione in pochissimo tempo, ciò che sarebbe meraviglioso); cfr ancora P. L. Rambaldi, Luci ed ombre nei processi di Mantova, nell’«Archivio Storico Italiano», V‑XLIII pp. 257‑331 e Giuseppe Fatini, Le elezioni di Grosseto e la Massoneria, in Nuova Antologia del 16 dicembre 1928 (parla dell’elezione a deputato del Castellazzo nel settembre 1883 e della campagna che si scatenò: il Carducci sostenne il Castellazzo e scrisse contro l’«accanimento fariseo moderato»).

4) Cosa si proponevano e in parte si propongono ancora (ma in questo campo da alcuni anni molte cose sono cambiate) gli storici e i pubblicisti moderati con questo loro indefesso, accortissimo e molto bene organizzato (pare talvolta che ci sia stato un centro direttivo per questa attività, una specie di massoneria moderata, tanto è grande lo spirito di sistema) lavoro di propaganda? «Dimostrare» che l’unificazione della penisola è stata opera precipua dei moderati alleati alla dinastia e legittimare storicamente il monopolio del potere. Occorre ricordare che ai moderati appartenevano le maggiori personalità della cultura, mentre la sinistra non brillava (salvo poche eccezioni) per troppa serietà intellettuale, specialmente nel campo degli studi storici e della pubblicistica di medio grado. L’attività polemica dei moderati, attraverso la sua «dimostrazione» addomesticata riusciva a disgregare ideologicamente la democrazia, assorbendone molti elementi individuali e specialmente influendo sull’educazione delle generazioni giovani, formandole con le loro concezioni, con le loro parole d’ordine, coi loro programmi. Inoltre: 1) i moderati, nella loro propaganda, erano senza scrupoli, mentre gli uomini del Partito d'Azione erano pieni di «generosità» patriottica, nazionale ecc. e rispettavano tutti quelli che per il Risorgimento avevano realmente sofferto, anche se in qualche momento erano stati deboli; 2) il regime degli archivi pubblici era favorevole ai moderati, ai quali era permesso individualmente fare ricerche di documenti contro i loro avversari politici e mutilare o tacere dei documenti che sarebbero stati sfavorevoli ai loro; solo da pochi anni è stato possibile pubblicare epistolari completi, per esempio di moderati toscani, che ancora nel 59 si aggrappavano alle falde del granduca per non farlo scappare ecc. I moderati non riconoscono sistematicamente una forza collettiva agente e operante nel Risorgimento all’infuori della dinastia e dei moderati: del Partito d'Azione riconoscono la benemerenza di personalità singole che vengono esaltate tendenziosamente per catturarle; altre sono diffamate, ottenendo in ogni caso di spezzare il vincolo collettivo. In realtà il Partito d’Azione non seppe contrapporre nulla di efficace a questa propaganda, che attraverso la scuola, divenne insegnamento ufficiale: lamentazioni o sfoghi così puerilmente settari e partigiani che non potevano convincere i giovani colti e lasciavano indifferenti i popolani, cioè erano senza efficacia sulle nuove generazioni: così il Partito d'Azione fu disgregato e la democrazia borghese non seppe mai crearsi una base popolare. La sua propaganda non doveva basarsi sul passato, sulle polemiche del passato, che interessano sempre poco le grandi masse e sono utili solo, entro certi limiti, a costituire e rafforzare i quadri dirigenti, ma sul presente e sull’avvenire, cioè su programmi costruttivi in opposizione (o integrativi) dei programmi ufficiali. La polemica del passato era specialmente difficile e pericolosa per il Partito d’Azione, perché esso era stato vinto, e il vincitore, per il solo fatto di essere tale, ha dei grandi vantaggi nella lotta ideologica. Non è senza significato che nessuno abbia mai pensato a scrivere una storia del Partito d'Azione, nonostante l’indubbia importanza che esso ebbe nello svolgersi degli eventi: basta pensare ai tentativi democratici del 48‑49 in Toscana, nel Veneto, a Roma, e all’impresa dei Mille.

In un certo periodo tutte le forze della democrazia si allearono e la Massoneria divenne il perno di tale alleanza: è questo un periodo ben determinato nella storia della Massoneria, divenuta una delle forze più efficienti dello Stato nella società civile, per arginare le pretese e i pericoli del clericalismo, e questo periodo finì con lo svilupparsi delle forze operaie. La Massoneria divenne il bersaglio dei moderati che evidentemente speravano di conquistare così almeno una parte delle forze cattoliche specialmente giovanili; m, in realtà i moderati valorizzarono le forze cattoliche controllate dal Vaticano e così la formazione dello Stato moderno e di una coscienza laica nazionale (in definitiva il sentimento patriottico) ne subì un fiero contraccolpo come si vide in seguito. (Osservazioni da approfondire).

Q19 §54 Confalonieri. In un articolo di Panfilo (Giulio Caprin) nel «Corriere della Sera» del 26 settembre 1934, si dice: «Teresa, consunta dagli strazi, doveva morire prima che il nuovo Imperatore Ferdinando facesse la grazia che Francesco aveva sempre negata all’aristocratico cospiratore non pentito». Quel «non pentito» non è più possibile dopo ciò che Silvio D’Amico ha pubblicato sulla domanda di grazia fatta dal Confalonieri e conservata nel museo italiano dello Spielberg. L’articolo del Caprin recensisce il libro di Luigi Ceria, Vita di una moglie (Milano, Baldini e Castoldi, L. 12) su Teresa e sulla vita «amorosa» di Federico non molto regolare. Col titolo Confalonieri (romanzo), l’editore Treves ha pubblicato un volume di Riccarda Huch (1934, L. 8).

Q19 §55 Gli avvenimenti del febbraio 1853 a Milano e i moderati. Nell’articolo su Francesco Brioschi («Marzocco» del 6 aprile 1930, capitolo del libro Rievocazioni dell’Ottocento) Luca Beltrami ricorda come il Brioschi fu accusato di aver firmato l’indirizzo di devozione a Francesco Giuseppe nel febbraio 1853 (dopo l’attentato di un calzolaio viennese). Il Beltrami afferma che il Brioschi non firmò (se c’è un Brioschi fra i firmatari, non si tratta dell’illustre matematico, professore dell’Università di Pavia e futuro organizzatore del Politecnico di Milano). Il Beltrami annota: «e non sarebbe nemmeno da definire atto di cortigianeria quello dei funzionari del governo, “invitati” a firmare la protesta contro l’atto insano e incosciente di un calzolaio viennese», dimenticando: 1) che l’indirizzo fu firmato dopo la repressione di Milano e alla vigilia di Belfiore; 2) che i nobili milanesi firmatari non erano «funzionari»; 3) che se il Brioschi, funzionario, non firmò, senza essere perseguitato, significa che non solo i nobili, ma anche i funzionari potevano non firmare. Pertanto nella sua annotazione è implicita la condanna morale di tutti i firmatari.

Q19 §56 L’Italia nel Settecento. L’influenza francese nella politica, nella letteratura, nella filosofia, nell’arte, nei costumi. I Borboni regnano a Napoli e nel ducato di Parma. Sugli influssi francesi a Parma sono da vedere le pubblicazioni minuziose di Henri Bedarida: Parme dans la politique française au XVIII e siècle, Paris, Alcan e altre due precedenti. È da vedere anche: Giuseppe Ortolani, Italie et France au XVIII e siècle, nei Mélanges de littérature et d’histoire publiés par l’Union intellectuelle franco‑italienne, Parigi, Ed. Leroux.

Nella politica francese l’Italia, per la sua posizione geografica, è destinata ad assumere la funzione di elemento di equilibrio dinanzi alla crescente potenza dell’Austria: quindi la Francia da Luigi XIV a Luigi XVI tende ad esercitare in Italia un’azione di predominio, anticipando la politica dei Napoleoni, anticipazione che si palesa nei ripetuti progetti o tentativi di federare gli Stati italiani a servizio della Francia. (Questi elementi della politica francese sono da analizzare attentamente, per fissare il rapporto tra i fattori internazionali e quelli nazionali nello sviluppo del Risorgimento. È da notare come questa impostazione della politica francese sia agli antipodi di quella sostenuta da Jacques Bainville nella critica della politica napoleonica contrapposta a quella della monarchia).

Q19 §57 La Repubblica partenopea. Cfr: Antonio Manes, Un cardinale condottiere. Fabrizio Ruffo e la Repubblica partenopea, Aquila, Vecchioni, 1930. Il Manes cerca di «riabilitare» il cardinale Ruffo (il fatto è da citare nella rubrica «Passato e Presente» in cui si citano altre «riabilitazioni»: quella di Solaro della Margarita, di Fra Diavolo ecc. si accenna al fatto che alcuni insegnanti «polemizzano» con le Memorie del Settembrini e vi trovano troppa «demagogia» contro i Borboni) addossando la responsabilità delle repressioni e degli spergiuri sul Borbone e sul Nelson. Pare che il Manes non sappia orientarsi bene per fissare le divisioni politiche e sociali nel Napoletano; ora parla di taglio netto tra nobiltà e clero da una parte e popolo dall’altra; ora il taglio sparisce e si vedono nobili e clero nelle due parti. A un certo punto dice che il Ruffo «assume un carattere tutt’affatto nazionale, se può essere usata questa parola di colore troppo moderno e contemporaneo» e allora dovrebbe concludere che non erano nazionali i patriotti sterminati dalle bande sanfedistiche. (Sui rapporti tra nobiltà, clero e popolo cfr il libro di N. Rodolico sull’Italia Meridionale e il suo articolo nel «Marzocco», n. 11 del 1926).

Q19 §58 Un’opinione di Stendhal. Cfr P. P. Trompeo, Stendhal fra un Cardinale ed un Nunzio, Nuova Antologia del 1° febbraio 1935. Il Trompeo, dopo aver enumerato alcuni giudizi dello Stendhal molto favorevoli alla causa della libertà italiana e al valore dei patriotti italiani, come Santarosa ecc. (p. 445), estratti da Rome, Naples et Florence e da Promenades dans Rome, conclude: «Ma giudicava che contro un’Austria sicura di sé ogni tentativo d’insurrezione sarebbe fallito, anche per il poco séguito che aveva nel popolo “l’innocence vertueuse et girondine” dei cospiratori, e che d’altra parte un intervento a favore di una Italia ancora immatura per una valida riscossa sarebbe stato per la Francia un rischio troppo forte».