Library:Prison Notebooks In Original Italian/Notebook 21
More languages
More actions
Written in 1934
QUADERNO 21
PROBLEMI DELLA CULTURA NAZIONALE ITALIANA.
I. LETTERATURA POPOLARE
Q21 §1 Nesso di problemi. Polemiche sorte nel periodo di formazione
della nazione italiana e della lotta per l’unità politica e territoriale
e che hanno continuato e continuano ad ossessionare almeno una parte
degli intellettuali italiani. Alcuni di tali problemi (come quello della
lingua) molto antichi. Risalgono ai primi tempi della formazione di una
unità culturale italiana. Nati per il confronto tra le condizioni
generali dell’Italia e quelle di altri paesi, specialmente della Francia
o per il riflesso di condizioni peculiari italiane come il fatto che la
penisola fu la sede dell’Impero Romano e divenne la sede del maggiore
centro della religione cristiana. L’insieme di questi problemi è il
riflesso della faticosa elaborazione di una nazione italiana di tipo
moderno, contrastata da condizioni di equilibrio di forze interne e
internazionali.
Non è mai esistita una coscienza, tra le classi intellettuali e dirigenti, che esista un nesso tra questi problemi, nesso di coordinazione e di subordinazione. Nessuno ha mai presentato questi problemi come un insieme collegato e coerente, ma ognuno di essi si è ripresentato periodicamente a seconda di interessi polemici immediati, non sempre chiaramente espressi, senza volontà di approfondimento; la trattazione ne è stata perciò fatta in forma astrattamente culturale, intellettualistica, senza prospettiva storica esatta e pertanto senza che se ne prospettasse una soluzione politico‑sociale concreta e coerente. Quando si dice che non è mai esistita una coscienza dell’unità organica di tali problemi occorre intendersi: forse è vero che non si è avuto il coraggio di impostare esaurientemente la quistione, perché da una tale impostazione rigorosamente critica e consequenziaria si temeva derivassero immediatamente pericoli vitali per la vita nazionale unitaria; questa timidezza di molti intellettuali italiani deve essere a sua volta spiegata, ed è caratteristica della nostra vita nazionale. D’altronde pare inconfutabile che nessuno di tali problemi può essere risolto isolatamente (in quanto essi sono ancora attuali e vitali). Pertanto una trattazione critica e spassionata di tutte queste quistioni che ancora ossessionano gli intellettuali e anzi vengono oggi presentate come in via di organica soluzione (unità della lingua, rapporto tra arte e vita, quistione del romanzo e del romanzo popolare, quistione di una riforma intellettuale e morale cioè di una rivoluzione popolare che abbia la stessa funzione della Riforma protestante nei paesi germanici e della Rivoluzione francese, quistione della «popolarità» del Risorgimento che sarebbe stata raggiunta con la guerra del 1915‑18 e coi rivolgimenti successivi, onde l’impiego inflazionistico dei termini di rivoluzione e rivoluzionario) può dare la traccia più utile per ricostruire i caratteri fondamentali della vita culturale italiana, e delle esigenze che da essi sono indicate e proposte per la soluzione.
Ecco il «catalogo» delle più significative quistioni da esaminate ed analizzare: 1) «Perché la letteratura italiana non è popolare in Italia?» (per usare l’espressione di Ruggero Bonghi); 2) esiste un teatro italiano? polemica impostata da Ferdinando Martini e che va collegata con l’altra sulla maggiore o minore vitalità del teatro dialettale e di quello in lingua; 3) quistione della lingua nazionale, così come fu impostata da Alessandro Manzoni; 4) se sia esistito un romanticismo italiano; 5) è necessario provocare in Italia una riforma religiosa come quella protestante? cioè l’assenza di lotte religiose vaste e profonde determinata dall’essere stata in Italia la sede del papato quando fermentarono le innovazioni politiche che sono alla base degli Stati moderni fu origine di progresso o di regresso?; 6) l’Umanesimo e il Rinascimento sono stati progressivi o regressivi?; 7) impopolarità del Risorgimento ossia indifferenza popolare nel periodo delle lotte per l’indipendenza e l’unità nazionale; 8) apoliticismo del popolo italiano che viene espresso con le frasi di «ribellismo», di «sovversivismo», di «antistatalismo» primitivo ed elementare; 9) non esistenza di una letteratura popolare in senso stretto (romanzi d’appendice, d’avventure, scientifici, polizieschi ecc.) e «popolarità» persistente di questo tipo di romanzo tradotto da lingue straniere, specialmente dal francese; non esistenza di una letteratura per l’infanzia. In Italia il romanzo popolare di produzione nazionale è quello anticlericale oppure le biografie di briganti. Si ha però un primato italiano nel melodramma, che in un certo senso è il romanzo popolare musicato.
Una delle ragioni per cui tali problemi non sono stati trattati esplicitamente e criticamente è da trovarsi nel pregiudizio rettorico (d’origine letteraria) che la nazione italiana sia sempre esistita da Roma antica ad oggi e su alcuni altri idoli e borie intellettuali che se furono «utili» politicamente nel periodo della lotta nazionale, come motivo per entusiasmare e concentrare le forze, sono inette criticamente e, in ultima istanza, diventano un elemento di debolezza, perché non permettono di apprezzare giustamente lo sforzo compiuto dalle generazioni che realmente lottarono per costituire l’Italia moderna e perché inducono a una sorta di fatalismo e di aspettazione passiva di un avvenire che sarebbe predeterminato completamente dal passato. Altre volte questi problemi sono mal posti per l’influsso di concetti estetici di origine crociana, specialmente quelli concernenti il così detto «moralismo» nell’arte, il «contenuto» estrinseco all’arte, la storia della cultura da non confondersi con la storia dell’arte ecc. Non si riesce a intendere concretamente che l’arte è sempre legata a una determinata cultura o civiltà, e che lottando per riformare la cultura si giunge a modificare il «contenuto» dell’arte, si lavora a creare una nuova arte, non dall’esterno (pretendendo un’arte didascalica, a tesi, moralistica), ma dall’intimo, perché si modifica tutto l’uomo in quanto si modificano i suoi sentimenti, le sue concezioni e i rapporti di cui l’uomo è l’espressione necessaria.
Connessione del «futurismo» col fatto che alcune di tali quistioni sono state mal poste e non risolute, specialmente il futurismo nella forma più intelligente datagli dai gruppi fiorentini di «Lacerba» e della «Voce», col loro «romanticismo» o Sturm und Drang popolaresco. Ultima manifestazione «Strapaese». Ma sia il futurismo di Marinetti, sia quello di Papini, sia Strapaese hanno urtato, oltre il resto, in questo ostacolo: l’assenza di carattere e di fermezza dei loro inscenatori e la tendenza carnevalesca e pagliaccesca dei piccoli borghesi intellettuali, aridi e scettici.
Anche la letteratura regionale è stata essenzialmente folcloristica e pittoresca: il popolo «regionale» era visto «paternalisticamente», dall’esterno, con spirito disincantato, cosmopolitico, da turisti in cerca di sensazioni forti e originali per la loro crudezza. Agli scrittori italiani ha proprio nuociuto l’«apoliticismo» intimo, verniciato di rettorica nazionale verbosa. Da questo punto di vista sono stati più simpatici Enrico Corradini e il Pascoli, col loro nazionalismo confessato e militante, in quanto cercarono risolvere il dualismo letterario tradizionale tra popolo e nazione, sebbene siano caduti in altre forme di rettorica e di oratoria (Nel ms le rimanenti righe di questa pagina e le pagine 7, 8, 9 e 10 sono rimaste bianche.).
Q21 §2 Nel «Marzocco» del 13 settembre 1931, Aldo Sorani (che si è occupato spesso, in diverse riviste e giornali, della letteratura popolare) ha pubblicato un articolo: Romanzieri popolari contemporanei in cui commenta la serie di bozzetti sugli «Illustri Ignoti» pubblicati dallo Charensol nelle «Nouvelles Littéraires» (di cui è nota più avanti). «Si tratta di scrittori popolarissimi di romanzi d’avventure e d’appendice, sconosciuti o quasi al pubblico letterario, ma idoleggiati e seguiti ciecamente da quel più grosso pubblico di lettori che decreta le tirature mastodontiche e di letteratura non s’intende affatto, ma vuol essere interessato e appassionato da intrecci sensazionali di vicende criminali od amorose. Per il popolo sono essi i veri scrittori e il popolo sente per loro un’ammirazione ed una gratitudine che questi romanzieri tengon deste somministrando ad editori e lettori una mole di lavoro così continua ed imponente da parere incredibile e insostenibile da forze, non dico intellettuali, ma fisiche». Il Sorani osserva che questi scrittori «si sono asserviti ad un compito stremante e adempiono ad un servizio pubblico reale se infinite schiere di lettori e di lettrici non possono farne a meno e gli editori conseguono dalla loro inesauribile attività lauti guadagni». Il Sorani impiega l’espressione di «servizio pubblico reale» ma ne dà una definizione meschina, e che non corrisponde a quella di cui si parla in queste . Il Sorani nota che questi scrittori, come appare dagli articoli dello Charensol, «hanno reso più severi i loro costumi e più morigerata in genere la loro vita, dal tempo ormai remoto in cui Ponson du Terrail o Xavier de Montépin esigevano una notorietà mondana e facevano di tutto per accaparrarsela …, pretendendo che, alla fine, essi non si distinguevano dai loro più accademici confratelli che per una diversità di stile. Essi scrivevano come si parla, mentre gli altri scrivevano come non si parla!» (Tuttavia anche gli «illustri ignoti» fanno parte, in Francia, delle associazioni di letterati, tal quale il Montépin. Ricordare anche l’astio di Balzac contro Sue per i successi mondani e finanziari di questo).
Scrive ancora il Sorani: «Un lato non trascurabile della persistenza di questa letteratura popolare … è offerto dalla passione del pubblico. Specialmente il grosso pubblico francese, quel pubblico che taluno crede il più smaliziato, critico e blasé del mondo, è rimasto fedele al romanzo d’avventure e d’appendice. Il giornalismo francese d’informazione e di grande tiratura è quello che non ha ancora saputo o potuto rinunziare al romanzo d’appendice. Proletariato e borghesia sono ancora in grandi masse così ingenui (!) da aver bisogno degli interminabili racconti emozionanti e sentimentali, raccapriccianti o larmoyants per nutrimento quotidiano della loro curiosità e della loro sentimentalità, hanno ancora bisogno di parteggiare tra gli eroi della delinquenza e quelli della giustizia e della vendetta».
«A differenza del pubblico francese, quello inglese o americano s’è riversato sul romanzo di avventure storiche (e i francesi no?!) o su quello di avventure poliziesche ecc. (luoghi comuni sui caratteri nazionali)».
«Quanto all’Italia credo che ci si potrebbe domandare perché la letteratura popolare non sia popolare in Italia. (Non è detto con esattezza; non ci sono in Italia scrittori, ma i lettori sono una caterva). Dopo il Mastriani e l’Invernizio mi pare che siano venuti a mancare tra noi i romanzieri capaci di conquistare la folla facendo inorridire e lacrimare un pubblico di lettori ingenui, fedeli e insaziabili. Perché questo genere di romanzieri non ha continuato ad allignare tra noi? La nostra letteratura è stata anche nei suoi bassifondi troppo accademica o letterata? I nostri editori non hanno saputo coltivare una pianta ritenuta troppo spregevole? I nostri scrittori non hanno fantasia capace di animare le appendici e le dispense? O noi, anche in questo campo, ci siamo contentati e ci contentiamo di importare quanto producono gli altri mercati? Certo non abbondiamo come la Francia di “illustri sconosciuti” e una qualche ragione per questa deficienza ci deve essere e varrebbe forse la pena di ricercarla».
Q21 §3 Gli «umili». Questa espressione – «gli umili» – è caratteristica per comprendere l’atteggiamento tradizionale degli intellettuali italiani verso il popolo e quindi il significato della «letteratura per gli umili». Non si tratta del rapporto contenuto nell’espressione dostoievschiana di «umiliati e offesi». In Dostojevschij c’è potente il sentimento nazionale‑popolare, cioè la coscienza di una missione degli intellettuali verso il popolo, che magari è «oggettivamente» costituito di «umili» ma deve essere liberato da questa «umiltà», trasformato, rigenerato. Nell’intellettuale italiano l’espressione di «umili» indica un rapporto di protezione paterna e padreternale, il sentimento «sufficiente» di una propria indiscussa superiorità, il rapporto come tra due razze, una ritenuta superiore e l’altra inferiore, il rapporto come tra adulto e bambino nella vecchia pedagogia o peggio ancora un rapporto da «società protettrice degli animali», o da esercito della salute anglosassone verso i cannibali della Papuasia.
Q21 §4 Il pubblico e la letteratura italiana. In un articolo pubblicato dal «Lavoro» e riportato in estratti dalla «Fiera Letteraria» del 28 ottobre 1928, Leo Ferrero scrive: «Per una ragione o per l’altra si può dire che gli scrittori italiani non abbiano più pubblico. … Un pubblico infatti vuol dire un insieme di persone, non soltanto che compra dei libri, ma soprattutto che ammira degli uomini. Una letteratura non può fiorire che in un clima di ammirazione e l’ammirazione non è, come si potrebbe credere, il compenso, ma lo stimolo del lavoro. … Il pubblico che ammira, che ammira davvero, di cuore, con gioia, il pubblico che ha la felicità di ammirare (niente è più deleterio dell’ammirazione convenzionale) è il più grande animatore di una letteratura. Da molti segni si capisce ahimè che il pubblico sta abbandonando gli scrittori italiani».
L’«ammirazione» del Ferrero non è altro che una metafora e un «nome collettivo» per indicare il complesso sistema di rapporti, la forma di contatto tra una nazione e i suoi scrittori. Oggi questo contatto manca, cioè la letteratura non è nazionale perché non è popolare. Paradosso del tempo attuale. Inoltre non c’è una gerarchia nel mondo letterario, cioè manca una personalità eminente che eserciti una egemonia culturale. Quistione del perché e del come una letteratura sia popolare. La «bellezza» non basta: ci vuole un determinato contenuto intellettuale e morale che sia l’espressione elaborata e compiuta delle aspirazioni più profonde di un determinato pubblico, cioè della nazione‑popolo in una certa fase del suo sviluppo storico. La letteratura deve essere nello stesso tempo elemento attuale di civiltà e opera d’arte, altrimenti alla letteratura d’arte viene preferita la letteratura d’appendice che, a modo suo, è un elemento attuale di cultura, di una cultura degradata quanto si vuole ma sentita vivamente.
Q21 §5 Concetto di «nazionale‑popolare». In una nota della «Critica Fascista» del 1° agosto 1930 si lamenta che due grandi quotidiani, uno di Roma e l’altro di Napoli, abbiano iniziato la pubblicazione in appendice di questi romanzi: Il conte di Montecristo e Giuseppe Balsamo di A. Dumas, e il Calvario di una madre di Paolo Fontenay. Scrive la «Critica»: «L’ottocento francese è stato senza dubbio un periodo aureo per il romanzo d’appendice, ma debbono avere un ben scarso concetto dei propri lettori quei giornali che ristampano romanzi di un secolo fa, come se il gusto, l’interesse, l’esperienza letteraria non fossero per niente mutate da allora ad ora. Non solo, ma … perché non tener conto che esiste, malgrado le opinioni contrarie, un romanzo moderno italiano? E pensare che questa gente è pronta a spargere lacrime d’inchiostro sulla infelice sorte delle patrie lettere». La «Critica» confonde diversi ordini di problemi: quello della non diffusione tra il popolo della così detta letteratura artistica e quello della non esistenza in Italia di una letteratura «popolare», per cui i giornali sono «costretti» a rifornirsi all’estero (certo nulla impedisce teoricamente che possa esistere una letteratura popolare artistica – l’esempio più evidente è la fortuna «popolare» dei grandi romanzieri russi – anche oggi; ma non esiste, di fatto, né una popolarità della letteratura artistica, né una produzione paesana di letteratura «popolare» perché manca una identità di concezione del mondo tra «scrittori» e «popolo», cioè i sentimenti popolari non sono vissuti come propri dagli scrittori, né gli scrittori hanno una funzione «educatrice nazionale», cioè non si sono posti e non si pongono il problema di elaborare i sentimenti popolari dopo averli rivissuti e fatti propri); la «Critica» non si pone neanche questi problemi e non sa trarre le conclusioni «realistiche» dal fatto che se i romanzi di cento anni fa piacciono, significa che il gusto e l’ideologia del popolo sono proprio quelli di cento anni fa. I giornali sono organismi politico‑finanziari e non si propongono di diffondere le belle lettere «nelle proprie colonne», se queste belle lettere fanno aumentare la resa. Il romanzo d’appendice è un mezzo per diffondersi tra le classi popolari (ricordare l’esempio del «Lavoro» di Genova sotto la direzione di Giovanni Ansaldo, che ristampò tutta la letteratura francese d’appendice, nello stesso tempo in cui cercava di dare ad altre parti del quotidiano il tono della più raffinata cultura), ciò che significa successo politico e successo finanziario. Perciò il giornale cerca quel romanzo, quel tipo di romanzo che piace «certamente» al popolo, che assicurerà una clientela «continuativa» e permanente. L’uomo del popolo compra un solo giornale, quando lo compra: la scelta del giornale non è neanche personale, ma spesso di gruppo famigliare: le donne pesano molto nella scelta e insistono per il «bel romanzo interessante» (ciò non significa che anche gli uomini non leggano il romanzo, ma certo le donne si interessano specialmente al romanzo e alla cronaca dei fatti diversi). Da ciò derivò sempre il fatto che i giornali puramente politici o d’opinione non hanno mai potuto avere una grande diffusione (eccetto periodi di intensa lotta politica): essi erano comprati dai giovani, uomini e donne, senza preoccupazioni famigliari troppo grandi e che si interessavano fortemente alla fortuna delle loro opinioni politiche e da un numero mediocre di famiglie fortemente compatte come idee. In generale i lettori di giornali non sono dell’opinione del giornale che acquistano, o ne sono scarsamente influenzati: perciò è da studiare, dal punto di vista della tecnica giornalistica, il caso del «Secolo» e del «Lavoro» che pubblicavano fino a tre romanzi d’appendice per conquistare una tiratura alta e permanente (non si pensa che per molti lettori il «romanzo d’appendice» è come la «letteratura» di classe per le persone colte: conoscere il «romanzo» che pubblicava la «Stampa» era una specie di «dovere mondano» di portineria, di cortile e di ballatoio in comune; ogni puntata dava luogo a «conversazioni» in cui brillava l’intuizione psicologica, la capacità logica d’intuizione dei «più distinti» ecc.; si può affermare che i lettori di romanzo d’appendice s’interessano e si appassionano ai loro autori con molta maggiore sincerità e più vivo interesse umano di quanto nei salotti così detti colti non s’interessassero ai romanzi di D’Annunzio o non s’interessino alle opere di Pirandello).
Ma il problema più interessante è questo: perché i giornali italiani del 1930, se vogliono diffondersi (o mantenersi) devono pubblicare i romanzi d’appendice di un secolo fa (o quelli moderni dello stesso tipo)? E perché non esiste in Italia una letteratura «nazionale» del genere, nonostante che essa debba essere redditizia? È da osservare il fatto che in molte lingue, «nazionale» e «popolare» sono sinonimi o quasi (così in russo, così in tedesco in cui «volkisch» ha un significato ancora più intimo, di razza, così nelle lingue slave in genere; in francese «nazionale» ha un significato in cui il termine «popolare» è già più elaborato politicamente, perché legato al concetto di «sovranità», sovranità nazionale e sovranità popolare hanno uguale valore o l’hanno avuto). In Italia il termine «nazionale» ha un significato molto ristretto ideologicamente e in ogni caso non coincide con «popolare», perché in Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè dalla «nazione» e sono invece legati a una tradizione di casta, che non è mai stata rotta da un forte movimento politico popolare o nazionale dal basso: la tradizione è «libresca» e astratta e l’intellettuale tipico moderno si sente più legato ad Annibal Caro o Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano. Il termine corrente «nazionale» è in Italia legato a questa tradizione intellettuale e libresca, quindi la facilità sciocca e in fondo pericolosa di chiamare «antinazionale» chiunque non abbia questa concezione archeologica e tarmata degli interessi del paese.
Sono da vedere gli articoli di Umberto Fracchia nell’«Italia Letteraria» del luglio 1930 e la Lettera a Umberto Fracchia sulla critica di Ugo Ojetti nel «Pègaso» dell’agosto 1930. I lamenti del Fracchia sono molto simili a quelli della «Critica Fascista». La letteratura «nazionale» così detta «artistica», non è popolare in Italia. Di chi la colpa? Del pubblico che non legge? Della critica che non sa presentare ed esaltare al pubblico i «valori» letterari? Dei giornali che invece di pubblicare in appendice «il romanzo moderno italiano» pubblicano il vecchio Conte di Montecristo? Ma perché il pubblico non legge in Italia mentre legge negli altri paesi? Ed è poi vero che in Italia non si legga? Non sarebbe più esatto porsi il problema: perché il pubblico italiano legge la letteratura straniera, popolare e non popolare, e non legge invece quella italiana? Lo stesso Fracchia non ha pubblicato degli ultimatum agli editori che pubblicano (e quindi devono vendere, relativamente) opere straniere, minacciando provvedimenti governativi? E un tentativo di intervento governativo non c’è stato, almeno in parte, per opera dell’on. Michele Bianchi, sottosegretario agli interni?
Cosa significa il fatto che il popolo italiano legge di preferenza gli scrittori stranieri? Significa che esso subisce l’egemonia intellettuale e morale degli intellettuali stranieri, che esso si sente legato più agli intellettuali stranieri che a quelli «paesani», cioè che non esiste nel paese un blocco nazionale intellettuale e morale, né gerarchico e tanto meno egualitario. Gli intellettuali non escono dal popolo, anche se accidentalmente qualcuno di essi è d’origine popolana, non si sentono legati ad esso (a parte la retorica), non ne conoscono e non ne sentono i bisogni, le aspirazioni, i sentimenti diffusi, ma, nei confronti del popolo, sono qualcosa di staccato, di campato in aria, una casta, cioè, e non un’articolazione, con funzioni organiche, del popolo stesso. La quistione deve essere estesa a tutta la cultura nazionale‑popolare e non ristretta alla sola letteratura narrativa: le stesse cose si devono dire del teatro, della letteratura scientifica in generale (scienze della natura, storia ecc.). Perché non sorgono in Italia degli scrittori come il Flammarion? perché non è nata una letteratura di divulgazione scientifica come in Francia e negli altri paesi? Questi libri stranieri, tradotti, sono letti e ricercati e conoscono spesso grandi successi. Tutto ciò significa che tutta la «classe colta», con la sua attività intellettuale, è staccata dal popolo‑nazione, non perché il popolo‑nazione non abbia dimostrato e non dimostri di interessarsi a questa attività in tutti i suoi gradi, dai più infimi (romanzacci d’appendice) ai più elevati, tanto vero che ricerca i libri stranieri in proposito, ma perché l’elemento intellettuale indigeno è più straniero degli stranieri di fronte al popolo‑nazione. La quistione non è nata oggi: essa si è posta fin dalla fondazione dello Stato italiano, e la sua esistenza anteriore è un documento per spiegare il ritardo della formazione politico‑nazionale unitaria della penisola. Il libro di Ruggero Bonghi sulla impopolarità della let
teratura italiana. Anche la quistione della lingua posta dal Manzoni riflette questo problema, il problema della unità intellettuale e morale della nazione e dello Stato, ricercato nell’unità della lingua. Ma l’unità della lingua è uno dei modi esterni e non esclusivamente necessario dell’unità nazionale: in ogni caso è un effetto e non una causa. Scritti di F. Martini sul teatro: sul teatro esiste e continua a svilupparsi tutta una letteratura.
In Italia è sempre mancata e continua a mancare una letteratura nazionale‑popolare, narrativa e d’altro genere. (Nella poesia sono mancati i tipi come Béranger e in genere il tipo dello chansonnier francese). Tuttavia sono esistiti scrittori, popolari individualmente e che hanno avuto grande fortuna: il Guerrazzi ha avuto fortuna e i suoi libri continuano ad essere pubblicati e diffusi: Carolina Invernizio è stata letta e forse continua ad esserlo, nonostante sia di un livello più basso dei Ponson e dei Montépin. F. Mastriani è stato letto ecc. (G. Papini ha scritto un articolo sulla Invernizio nel «Resto del Carlino», durante la guerra, verso il 1916: vedere se l’articolo è stato raccolto
in volume. Il Papini scrisse qualcosa d’interessante su questa onesta gallina della letteratura popolare, appunto notando come essa si facesse leggere dal popolino. Forse, nella bibliografia del Papini pubblicata nel saggio del Palmieri – o in altra – si potrà trovare la data di questo articolo e altre indicazioni).
In assenza di una sua letteratura «moderna», alcuni strati del popolo minuto soddisfano in vari modi le esigenze intellettuali e artistiche che pur esistono, sia pure in forma elementare ed incondita: diffusione del romanzo cavalleresco medioevale – Reali di Francia, Guerino detto il Meschino ecc. – specialmente nell’Italia meridionale e nelle montagne; I Maggi in Toscana (gli argomenti rappresentati dai Maggi sono tratti dai libri, novelle e specialmente da leggende divenute popolari, come la Pia dei Tolomei; esistono varie pubblicazioni sui Maggi e sul loro repertorio).
I laici hanno fallito al loro compito storico di educatori ed elaboratori della intellettualità e della coscienza morale del popolo‑nazione, non hanno saputo dare una soddisfazione alle esigenze intellettuali del popolo: proprio per non aver rappresentato una cultura laica, per non aver saputo elaborare un moderno «umanesimo» capace di diffondersi fino agli strati più rozzi e incolti, come era necessario dal punto di vista nazionale, per essersi tenuti legati a un mondo antiquato, meschino, astratto, troppo individualistico o di casta. La letteratura popolare francese, che è la più diffusa in Italia, rappresenta invece, in maggiore o minor grado, in un modo che può essere più o meno simpatico, questo moderno umanesimo, questo laicismo a suo modo moderno: lo rappresentarono il Guerrazzi, il Mastriani e gli altri pochi scrittori paesani popolari. Ma se i laici hanno fallito, i cattolici non hanno avuto miglior successo. Non bisogna lasciarsi illudere dalla discreta diffusione che hanno certi libri cattolici: essa è dovuta alla vasta e potente organizzazione della chiesa, non ad una intima forza di espansività: i libri vengono regalati nelle cerimonie numerosissime e vengono letti per castigo, per imposizione o per disperazione. Colpisce il fatto che nel campo della letteratura avventurosa i cattolici non abbiano saputo esprimere che meschinerie: eppure essi hanno una sorgente di prim’ordine nei viaggi e nella vita movimentata e spesso arrischiata dei missionari. Tuttavia anche nel periodo di maggior diffusione del romanzo geografico d’avventure, la letteratura cattolica in proposito è stata meschina e per nulla comparabile a quella laica francese, inglese e tedesca: le vicende del cardinal Massaja in Abissinia sono il libro più notevole, per il resto c’è stata l’invasione dei libri di Ugo Mioni (già padre gesuita), inferiori a ogni esigenza. Anche nella letteratura popolare scientifica i cattolici hanno ben poco, nonostante i loro grandi astronomi come il padre Secchi (gesuita) e che l’astronomia sia la scienza che più interessa il popolo. Questa letteratura cattolica trasuda di apologetica gesuitica come il becco di muschio e stucca per la sua meschinità gretta. L’insufficienza degli intellettuali cattolici e la poca fortuna della loro letteratura sono uno degli indizii più espressivi della intima rottura che esiste tra la religione e il popolo: questo si trova in uno stato miserrimo di indifferentismo e di assenza di una vivace vita spirituale: la religione è rimasta allo stato di superstizione, ma non è stata sostituita da una nuova moralità laica e umanistica per l’impotenza degli intellettuali laici (la religione non è stata né sostituita né intimamente trasformata e nazionalizzata come in altri paesi, come in America lo stessogesuitismo: l’Italia popolare è ancora nelle condizioni create immediatamente dalla Controriforma: la religione, tutt’al più, si è combinata col folclore pagano ed è rimasta in questo stadio).
Q21 §6 Diversi tipi di romanzo popolare. Esiste una certa varietà di tipi di romanzo popolare ed è da notare che, seppure tutti i tipi simultaneamente godano di una qualche diffusione e fortuna, tuttavia prevale uno di essi e di gran lunga. Da questo prevalere si può identificare un cambiamento dei gusti fondamentali, così come dalla simultaneità della fortuna dei diversi tipi si può ricavare la prova che esistono nel popolo diversi strati culturali, diverse «masse di sentimenti» prevalenti nell’uno o nell’altro strato, diversi «modelli di eroi» popolari. Fissare un catalogo di questi tipi e stabilire storicamente la loro relativa maggiore o minore fortuna ha pertanto una importanza ai fini del presente saggio: 1) Tipo Victor Hugo ‑ Eugenio Sue (I Miserabili, I Misteri di Parigi): a carattere spiccatamente ideologico‑politico, di tendenza democratica legata alle ideologie quarantottesche; 2) Tipo sentimentale, non politico in senso stretto, ma in cui si esprime ciò che si potrebbe definire una «democrazia sentimentale» (Richebourg - Decourcelle ecc.); 3) Tipo che si presenta come di puro intrigo, ma ha un contenuto ideologico conservatore‑reazionario (Montépin); 4) Il romanzo storico di A. Dumas e di Ponson du Terrail, che oltre al carattere storico, ha un carattere ideologico‑politico, ma meno spiccato: Ponson du Terrail tuttavia è conservatore‑reazionario e l’esaltazione degli aristocratici e dei loro servi fedeli ha un carattere ben diverso dalle rappresentazioni storiche di A. Dumas, che tuttavia non ha una tendenza democratico‑politica spiccata, ma è piuttosto pervaso da sentimenti democratici generici e «passivi» e spesso si avvicina al tipo «sentimentale»; 5) Il
romanzo poliziesco nel suo doppio aspetto (Lecocq, Rocambole, Sherlock Holmes, Arsenio Lupin); 6) Il romanzo tenebroso (fantasmi, castelli misteriosi ecc: Anna Radcliffe ecc.); 7) Il romanzo scientifico d’avventure, geografico, che può essere tendenzioso o semplicemente d’intrigo (J. Verne ‑ Boussenard).
Ognuno di questi tipi ha poi diversi aspetti nazionali (in America il romanzo d’avventure è l’epopea dei pionieri ecc.). Si può osservare come nella produzione d’insieme di ogni paese sia implicito un sentimento nazionalistico, non espresso retoricamente, ma abilmente insinuato nel racconto. Nel Verne e nei francesi il sentimento antinglese, legato alla perdita delle colonie e al bruciore delle sconfitte marittime è vivissimo: nel romanzo geografico d’avventure i francesi non si scontrano coi tedeschi, ma con gli inglesi. Ma il sentimento antinglese è vivo anche nel romanzo storico e persino in quello sentimentale (per es. George Sand). (Reazione per la guerra dei cento anni e l’assassinio di Giovanna D’Arco e per la fine di Napoleone).
In Italia nessuno di questi tipi ha avuto scrittori (numerosi) di qualche rilievo (non rilievo letterario, ma valore «commerciale», di invenzione, di costruzione ingegnosa di intrighi, macchinosi sì ma elaborati con una certa razionalità). Neanche il romanzo poliziesco, che ha avuto tanta fortuna internazionale (e finanziaria per gli autori e gli editori) ha avuto scrittori in Italia; eppure molti romanzi, specialmente storici, hanno preso per argomento l’Italia e le vicende storiche delle sue città, regioni, istituzioni, uomini. Così la storia veneziana, con le sue organizzazioni politiche, giudiziarie, poliziesche, ha dato e continua a dare argomento ai romanzieri popolari di tutti i paesi, eccetto l’Italia. Una certa fortuna ha avuto in Italia la letteratura popolare sulla vita dei briganti, ma la produzione è di valore bassissimo.
L’ultimo e più recente tipo di libro popolare è la vita romanzata, che in ogni modo rappresenta un tentativo inconsapevole di soddisfare le esigenze culturali di alcuni strati popolari più smaliziati culturalmente, che non si accontentano della storia tipo Dumas. Anche questa letteratura non ha in Italia molti rappresentanti (Mazzucchelli, Cesare Giardini ecc.): non solo gli scrittori italiani non sono paragonabili per numero, fecondità, e doti di piacevolezza letteraria ai francesi, ai tedeschi, agli inglesi, ma ciò che è più significativo essi scelgono i loro argomenti fuori d’Italia (Mazzucchelli e Giardini in Francia, Eucardio Momigliano in Inghilterra), per adattarsi al gusto popolare italiano che si è formato sui romanzi storici specialmente francesi. Il letterato italiano non scriverebbe una biografia romanzata di Masaniello, di Michele di Lando, di Cola di Rienzo senza credersi in dovere di inzepparla di stucchevoli «pezze d’appoggio» retoriche, perché non si creda… non si pensi… ecc. ecc. È vero che la fortuna delle vite romanzate ha indotto molti editori a iniziare la pubblicazione di collane biografiche, ma si tratta di libri che stanno alla vita romanzata come la Monaca di Monza sta al Conte di Montecristo; si tratta del solito schema biografico, spesso filologicamente corretto, che può trovare al massimo qualche migliaio di lettori, ma non diventare popolare.
È da notare che alcuni dei tipi di romanzo popolare su elencati hanno una corrispondenza nel teatro e oggi nel cinematografo. Nel teatro la fortuna considerevole di D. Niccodemi è certo dovuta a ciò: che egli ha saputo drammatizzare spunti e motivi eminentemente legati all’ideologia popolare; così in Scampolo, nell’Aigrette, nella Volata ecc. Anche in G. Forzano esiste qualcosa del genere, ma sul modello di Ponson du Terrail, con tendenze conservatrici. Il lavoro teatrale che in Italia ha avuto il maggior successo popolare è La Morte Civile del Giacometti, di carattere italiano: non ha avuto imitatori di pregio (sempre in senso non letterario). In questo reparto teatrale si può notare come tutta una serie di drammaturghi, di grande valore letterario, possono piacere moltissimo anche al pubblico popolare: Casa di Bambola di Ibsen è molto gradita al popolo delle città, in quanto i sentimenti rappresentati e la tendenza morale dell’autore trovano una profonda risonanza nella psicologia popolare. E cosa dovrebbe essere poi il così detto teatro d’idee se non questo, la rappresentazione di passioni legate ai costumi con soluzioni drammatiche che rappresentino una catarsi «progressiva», che rappresentino il dramma della parte più progredita intellettualmente e moralmente di una società e che esprime lo sviluppo storico immanente negli stessi costumi esistenti? Queste passioni e questo dramma però devono essere rappresentati e non svolti come una tesi, un discorso di propaganda, cioè l’autore deve vivere nel mondo reale, con tutte le sue esigenze contraddittorie e non esprimere sentimenti assorbiti solo dai libri.
Q21 §7 Romanzo e teatro popolare. Il dramma popolare viene chiamato, con un significato dispregiativo, dramma o drammone da arena, forse perché esistono in alcune città dei teatri all’aperto chiamati Arene (l’Arena del Sole a Bologna). È da ricordare ciò che scrisse Edoardo Boutet sugli spettacoli classici (Eschilo, Sofocle) che la Compagnia Stabile di Roma diretta appunto dal Boutet dava all’Arena del Sole di Bologna il lunedì – giorno delle lavandaie – e sul grande successo che tali rappresentazioni avevano. (Questi ricordi di vita teatrale del Boutet furono stampati per la prima volta nella rivista «Il Viandante» pubblicata a Milano da T. Monicelli negli anni 1908‑9). È anche da rilevare il successo che nelle masse popolari hanno sempre avuto alcuni drammi dello Shakespeare, ciò che appunto dimostra come si possa essere grandi artisti e nello stesso tempo «popolari».
Nel «Marzocco» del 17 novembre 1929 è pubblicata una nota di Gaio (Adolfo Orvieto), molto significativa: «Danton», il melodramma e il «romanzo nella vita». La nota dice: «Una compagnia drammatica di recente “formazione”, che ha messo insieme un repertorio di grandi spettacoli popolari – dal Conte di Montecristo alle Due orfanelle – con la speranza legittima di richiamare un po’ di gente a teatro, ha visto i suoi voti esauditi – a Firenze – con un novissimo dramma d’autore ungherese e di soggetto franco-rivoluzionario: Danton». Il dramma è di De Pekar ed è «pura favola patetica con particolari fantastici di estrema libertà» (per es. Robespierre e Saint‑Just assistono al processo di Danton e altercano con lui, ecc.). «Ma è favola, tagliata alla brava, che si vale dei vecchi metodi infallibili del teatro popolare, senza pericolose deviazioni modernistiche. Tutto è elementare, limitato, di taglio netto. Le tinte fortissime e i clamori si alternano alle opportune smorzature e il pubblico respira e consente. Mostra di appassionarsi e si diverte. Che sia questa la strada migliore per riportarlo al teatro di prosa?» La conclusione dell’Orvieto è significativa. Così nel 1929 per aver pubblico a teatro bisogna rappresentare il Conte di Montecristo e le Due Orfanelle e nel 1930 per far leggere i giornali bisogna pubblicare in appendice il Conte di Montecristo e Giuseppe Balsamo.
Q21 §8 Rilievi statistici. Quanti romanzi di autore italiano hanno pubblicato i periodici popolari più diffusi, come il «Romanzo Mensile», la «Domenica del Corriere», la «Tribuna Illustrata», il «Mattino Illustrato»? La «Domenica del Corriere» forse nessuno in tutta la sua vita (circa 36 anni) su circa un centinaio di romanzi pubblicati. La «Tribuna Illustrata» qualcuno (negli ultimi tempi una serie di romanzi polizieschi del principe Valerio Pignatelli); ma occorre notare che la «Tribuna» è enormemente meno diffusa della «Domenica», non è bene organizzata redazionalmente ed ha un tipo di romanzo meno scelto.
Sarebbe interessante vedere la nazionalità degli autori e il tipo dei romanzi d’avventura pubblicati. Il «Romanzo Mensile» e la «Domenica» pubblicano molti romanzi inglesi (quelli francesi tuttavia devono prevalere) e di tipo poliziesco (hanno pubblicato Sherlock Holmes e Arsenio Lupin) ma anche tedeschi, ungheresi (la baronessa Orczy è molto diffusa e i suoi romanzi sulla Rivoluzione francese hanno avuto molte ristampe anche nel «Romanzo Mensile» che pure deve avere una grande diffusione) e persino australiani (di Guido Boothby che ha avuto diverse edizioni): prevale certamente il romanzo poliziesco o affine, imbevuto di una concezione conservatrice e retriva o basato sul puro intrigo. Sarebbe interessante sapere chi, nella redazione del «Corriere della Sera», era incaricato di scegliere questi romanzi e quali direttive gli erano state impartite, dato che nel «Corriere» tutto era organizzato sapientemente. Il «Mattino Illustrato», sebbene esca a Napoli, pubblica romanzi del tipo «Domenica», ma si lascia guidare da quistioni finanziarie e spesso da velleità letterarie (così credo abbia pubblicato Conrad, Stevenson, London): lo stesso è da dire a proposito dell’«Illustrazione del Popolo» torinese. Relativamente, e forse anche in modo assoluto, l’amministrazione del «Corriere» è il centro di maggior diffusione dei romanzi popolari: ne pubblica almeno 15 all’anno con tirature altissime. Deve venir poi la Casa Sonzogno, che deve avere anche una pubblicazione periodica. Un confronto nel tempo dell’attività editoriale della Casa Sonzogno darebbe un quadro abbastanza approssimativo delle variazioni avvenute nel gusto del pubblico popolare; la ricerca è difficile, perché la Sonzogno non stampa l’anno di pubblicazione e non numera spesso le ristampe, ma un esame critico dei cataloghi darebbe qualche risultato. Già un confronto tra i cataloghi di 50 anni fa (quando il «Secolo» era in auge) e quelli odierni sarebbe interessante: tutto il romanzo lacrimoso‑sentimentale deve essere caduto nel dimenticatoio, eccetto qualche «capolavoro» del genere che deve ancora resistere (come la Capinera del Mulino, del Richebourg): d’altronde ciò non vuol dire che tali libri non siano letti da certi strati della popolazione di provincia, dove «si gusta» ancora dagli «spregiudicati» Paul De Kock e si discute animatamente sulla filosofia dei Miserabili. Così sarebbe interessante seguire la pubblicazione dei romanzi a dispense, fino a quelli di speculazione, che costano decine e decine di lire e sono legati a premi.
Un certo numero di romanzi popolari hanno pubblicato Edoardo Perino e più recentemente il Nerbini, tutti a sfondo anticlericale e legati alla tradizione guerrazziana. (È inutile ricordare il Salani, editore popolare per eccellenza). Occorrerebbe compilare una lista degli editori popolari.
Q21 §9 Ugo Mioni. La collezione «Tolle et lege» della Casa editrice «Pia Società S. Paolo», Alba‑Roma, su 111 numeri contenuti in una lista del 1928, aveva 65 romanzi di Ugo Mioni e non sono certo tutti quelli pubblicati dal prolifico monsignore, che d’altronde non ha scritto solo romanzi d’avventura, ma anche di apologetica, di sociologia e anche un grosso trattato di «Missionologia». Case editrici cattoliche per pubblicazioni popolari: esiste anche una pubblicazione periodica di romanzi. Male stampati e in traduzioni scorrette.
Q21 §10 Verne e il romanzo geografico‑scientifico. Nei libri del Verne non c’è mai nulla di completamente impossibile: le «possibilità» di cui dispongono gli eroi del Verne sono superiori a quelle realmente esistenti nel tempo, ma non troppo superiori e specialmente non «fuori» della linea di sviluppo delle conquiste scientifiche realizzate; l’immaginazione non è del tutto «arbitraria» e perciò possiede la facoltà di eccitare la fantasia del lettore già conquistato dall’ideologia dello sviluppo fatale del progresso scientifico nel dominio del controllo delle forze naturali. Diverso è il caso di Wells e di Poe, in cui appunto domina in gran parte l’«arbitrario», anche se il punto di partenza può essere logico e innestato in una realtà scientifica concreta: nel Verne c’è l’alleanza dell’intelletto umano e delle forze materiali, in Wells e in Poe l’intelletto umano predomina e perciò Verne è stato più popolare, perché più comprensibile. Nello stesso tempo però questo equilibrio nelle costruzioni romanzesche del Verne è diventato un limite, nel tempo, alla sua popolarità (a parte il valore artistico scarso): la scienza ha superato Verne e i suoi libri non sono più «eccitanti psichici».
Qualche cosa di simile si può dire delle avventure poliziesche, per es. di Conan Doyle; per il tempo erano eccitanti, oggi quasi nulla e per varie ragioni: perché il mondo delle lotte poliziesche è oggi più noto, mentre Conan Doyle in gran parte lo rivelava, almeno a un gran numero di pacifici lettori. Ma specialmente perché in Sherlock Holmes c’è un equilibrio razionale (troppo) tra l’intelligenza e la scienza. Oggi interessa di più l’apporto individuale dell’eroe, la tecnica «psichica» in sé, e quindi Poe e Chesterton sono più interessanti ecc.
Nel «Marzocco» del 19 febbraio 1928, Adolfo Faggi (Impressioni da Giulio Verne) scrive che il carattere antinglese di molti romanzi del Verne è da riportare a quel periodo di rivalità fra la Francia e l’Inghilterra che culminò nell’episodio di Fashoda. L’affermazione è errata e anacronistica: l’antibritannicismo era (e forse è ancora) un elemento fondamentale della psicologia popolare francese; l’antitedeschismo è relativamente recente ed era meno radicato dell’antibritannicismo, non esisteva prima della Rivoluzione francese e si è incancrenito dopo il 70, dopo la sconfitta e la dolorosa impressione che la Francia non era la più forte nazione militare e politica dell’Europa occidentale, perché la Germania, da sola, non in coalizione, aveva vinto la Francia. L’antinglesismo risale alla formazione della Francia moderna, come Stato unitario e moderno, cioè alla guerra dei cento anni e ai riflessi dell’immaginazione popolare della epopea di Giovanna D’Arco; è stato rinforzato modernamente dalle guerre per l’egemonia sul continente (e nel mondo) culminate nella Rivoluzione francese e in Napoleone: l’episodio di Fashoda, con tutta la sua gravità, non può essere paragonato a questa imponente tradizione che è testimoniata da tutta la letteratura francese popolare.
Q21 §11 Emilio De Marchi. Perché il De Marchi, nonostante che in parecchi suoi libri ci siano molti elementi di popolarità, non è stato e non è molto letto? Rileggerlo e analizzare questi elementi, specialmente in Giacomo l’idealista. (Sul De Marchi e il romanzo d’appendice ha scritto un saggio Arturo Pompeati nella «Cultura», non soddisfacente).
Q21 §12 Sul romanzo poliziesco. Il romanzo poliziesco è nato ai margini della letteratura sulle «Cause Celebri». A questa, d’altronde, è collegato anche il romanzo del tipo Conte di Montecristo; non si tratta anche qui di «cause celebri» romanzate, colorite con l’ideologia popolare intorno all’amministrazione della giustizia, specialmente se ad essa si intreccia la passione politica? Rodin dell’Ebreo Errante non è un tipo di organizzatore di «intrighi scellerati» che non si ferma dinanzi a qualsiasi delitto ed assassinio e invece il principe Rodolfo non è, al contrario, l’«amico del popolo» che sventa altri intrighi e delitti? Il passaggio da tale tipo di romanzo a quelli di pura avventura è segnato da un processo di schematizzazione del puro intrigo, depurato da ogni elemento di ideologia democratica e piccolo borghese: non più la lotta tra il popolo buono, semplice e generoso e le forze oscure della tirannide (gesuiti, polizia segreta legata alla ragion di Stato o all’ambizione di singoli principi ecc.) ma solo la lotta tra la delinquenza professionale o specializzata e le forze dell’ordine legale, private o pubbliche, sulla base della legge scritta. La collezione delle «Cause Celebri», nella celebre collezione francese, ha avuto il corrispettivo negli altri paesi; fu tradotta in italiano, la collezione francese, almeno in parte, per i processi di fama europea, come quello Fualdès, per l’assassinio del corriere di Lione ecc.
L’attività «giudiziaria» ha sempre interessato e continua a interessare: l’atteggiamento del sentimento pubblico verso l’apparato della giustizia (sempre screditato e quindi fortuna del poliziotto privato o dilettante) e verso il delinquente è mutato spesso o almeno si è colorito in vario modo. Il grande delinquente è stato spesso rappresentato superiore all’apparato giudiziario, addirittura come il rappresentante della «vera» giustizia: influsso del romanticismo,
I Masnadieri di Schiller, racconti di Hoffmann, Anna Radcliffe, il Vautrin di Balzac.
Il tipo di Javert dei Miserabili è interessante dal punto di vista della psicologia popolare: Javert ha torto dal punto di vista della «vera giustizia», ma Hugo lo rappresenta in modo simpatico, come «uomo di carattere», ligio al dovere «astratto» ecc.; da Javert nasce forse una tradizione secondo cui anche il poliziotto può essere «rispettabile». Rocambole di Ponson du Terrail. Gaboriau continua la riabilitazione del poliziotto col «signor Lecoq» che apre la strada a Sherlock Holmes.
Non è vero che gli Inglesi nel romanzo «giudiziario» rappresentano la «difesa della legge», mentre i Francesi rappresentano l’esaltazione del delinquente. Si tratta di un passaggio «culturale» dovuto al fatto che questa letteratura si diffonde anche in certi strati colti. Ricordare che il Sue, molto letto dai democratici delle classi medie, ha escogitato tutto un sistema di repressione della delinquenza professionale.
In questa letteratura poliziesca si sono sempre avute due correnti: una meccanica – d’intrigo – l’altra artistica: Chesterton oggi è il maggiore rappresentante dell’aspetto «artistico» come lo fu un tempo Poe: Balzac con Vautrin, si occupa del delinquente, ma non è «tecnicamente» scrittore di romanzi polizieschi.
Q21 §13 Romanzi polizieschi. 1) È da vedere il libro di Henry Jagot: Vidocq, ed. Berger‑Levrault, Parigi, 1930. Vidocq ha dato lo spunto al Vautrin di Balzac e ad Alessandro Dumas (lo si ritrova anche un po’ nel Jean Valjean dell’Hugo e specialmente in Rocambole). Vidocq fu condannato a otto anni come falso monetario, per una sua imprudenza, 20 evasioni ecc. Nel 1812 entrò a far parte della polizia di Napoleone e per 15 anni comandò una squadra di agenti creata apposta per lui: divenne famoso per gli arresti sensazionali. Congedato da Luigi Filippo, fondò un’agenzia privata di detectives, ma con scarso successo: poteva operare solo nelle file della polizia statale. Morto nel 1857. Ha lasciato le sue Memorie che non sono state scritte da lui solo e in cui sono contenute molte esagerazioni e vanterie.
2) È da vedere l’articolo di Aldo Sorani Conan Doyle e la fortuna del romanzo poliziesco, nel «Pègaso» dell’agosto 1930, notevole per l’analisi di questo genere di letteratura e per le diverse specificazioni che ha avuto finora. Nel parlare del Chesterton e della serie di novelle del padre Brown il Sorani non tiene conto di due elementi culturali che paiono invece essenziali: a) non accenna all’atmosfera caricaturale che si manifesta specialmente nel volume L’innocenza di padre Brown e che anzi è l’elemento artistico che innalza la novella poliziesca del Chesterton, quando, non sempre, l’espressione è riuscita perfetta; b) non accenna al fatto che le novelle del padre Brown sono «apologetiche» del cattolicismo e del clero romano, educato a conoscere tutte le pieghe dell’animo umano dall’esercizio della confessione e della funzione di guida spirituale e di intermediario tra l’uomo e la divinità, contro lo «scientismo» e la psicologia positivistica del protestante Conan Doyle. Il Sorani, nel suo articolo, riferisce sui diversi tentativi, specialmente anglosassoni, e di maggior significato letterario, per perfezionare tecnicamente il romanzo poliziesco. L’archetipo è Sherlock Holmes, nelle sue due fondamentali caratteristiche: di scienziato e di psicologo: si cerca di perfezionare l’una o l’altra caratteristica o ambedue insieme. Il Chesterton ha appunto insistito sull’elemento psicologico, nel gioco delle induzioni e deduzioni col padre Brown, ma pare abbia ancora esagerato nella sua tendenza col tipo del poeta‑poliziotto Gabriel Gale.
Il Sorani schizza un quadro della inaudita fortuna del romanzo poliziesco in tutti gli ordini della società e cerca di identificarne l’origine psicologica: sarebbe una manifestazione di rivolta contro la meccanicità e la standardizzazione della vita moderna, un modo di evadere dal tritume quotidiano. Ma questa spiegazione si può applicare a tutte le forme della letteratura, popolare o d’arte: dal poema cavalleresco (Don Chisciotte non cerca di evadere anch’egli, anche praticamente, dal tritume e dalla standardizzazione della vita quotidiana di un villaggio spagnolo?) al romanzo d’appendice di vario genere. Tutta la letteratura e la poesia sarebbe dunque uno stupefacente contro la banalità quotidiana? In ogni modo l’articolo del Sorani è indispensabile per una futura ricerca più organica su questo genere di letteratura popolare.
Il problema: perché è diffusa la letteratura poliziesca? è un aspetto particolare del problema più generale: perché è diffusa la letteratura non‑artistica? Per ragioni pratiche e culturali (politiche e morali), indubbiamente: e questa risposta generica è la più precisa, nei suoi limiti approssimativi. Ma anche la letteratura artistica non si diffonde anch’essa per ragioni pratiche e politico‑morali e solo mediatamente per ragioni di gusto artistico, di ricerca e godimento della bellezza? In realtà si legge un libro per impulsi pratici (e occorre ricercare perché certi impulsi si generalizzino più di altri) e si rilegge per ragioni artistiche. L’emozione estetica non è quasi maidi prima lettura. Ciò si verifica ancor di più nel teatro, in cui l’emozione estetica è una «percentuale» minima dell’interesse dello spettatore, perché nella scena giocano altri elementi, molti dei quali non sono neppure d’ordine intellettuale, ma di ordine meramente fisiologico, come il «sex‑appeal», ecc. In altri casi l’emozione estetica nel teatro non è originata dall’opera letteraria, ma dall’interpretazione degli attori e del regista: in questi casi occorre però che il testo letterario del dramma che dà il pretesto all’interpretazione non sia «difficile» e ricercato psicologicamente, ma invece «elementare e popolare» nel senso che le passioni rappresentate siano le più profondamente «umane» e di immediata esperienza (vendetta, onore, amore materno, ecc.) e quindi l’analisi si complica anche in questi casi. I grandi attori tradizionali venivano acclamati nella Morte civile, nelle Due orfanelle, nella Gerla di papà Martin, ecc., più che nelle complicate macchine psicologiche: nel primo caso l’applauso era senza riserve, nel secondo era più freddo, destinato a scindere l’attore amato dal pubblico, dal lavoro rappresentato, ecc.
Una giustificazione simile a quella del Sorani della fortuna dei romanzi popolari si trova in un articolo di Filippo Burzio sui Tre Moschettieri di Alessandro Dumas (pubblicato nella «Stampa» del 22 ottobre 1930 e riportato in estratti dall’«Italia Letteraria» del 9 novembre). Il Burzio considera i Tre Moschettieri una felicissima personificazione, come il Don Chisciotte e l’Orlando Furioso, del mito dell’avventura, «cioè di qualcosa di essenziale alla natura umana, che sembra gravemente e progressivamente straniarsi dalla vita moderna. Quanto più l’esistenza si fa razionale (o razionalizzata, piuttosto, per coercizione, che se è razionale per i gruppi dominanti, non è razionale per quelli dominati, e che è connessa con l’attività economico‑pratica, per cui la coercizione si esercita, sia pure indirettamente, anche sui ceti “intellettuali”?) e organizzata, la disciplina sociale ferrea, il compito assegnato all’individuo preciso e prevedibile (ma non prevedibile per i dirigenti come appare dalle crisi e dalle catastrofi storiche), tanto più il margine dell’avventura si riduce, come la libera selva di tutti fra i muretti soffocanti della proprietà privata… Il taylorismo è una bella cosa e l’uomo è un animale adattabile, però forse ci sono dei limiti alla sua meccanizzazione. Se a me chiedessero le ragioni profonde dell’inquietudine occidentale, risponderci senza esitare: la decadenza della fede (!) e la mortificazione dell’avventura». «Vincerà il taylorismo o vinceranno i Moschettieri? Questo è un altro discorso e la risposta, che trent’anni fa sembrava certa, sarà meglio tenerla in sospeso. Se l’attuale civiltà non precipita, assisteremo forse a interessanti miscugli dei due».
La quistione è questa: che il Burzio non tiene conto del fatto che c’è sempre stata una gran parte di umanità la cui attività è sempre stata taylorizzata e ferreamente disciplinata e che essa ha cercato di evadere dai limiti angusti dell’organizzazione esistente che la schiacciava, con la fantasia e col sogno. La più grande avventura, la più grande «utopia» che l’umanità ha creato collettivamente, la religione, non è un modo di evadere dal «mondo terreno»? E non è in questo senso che Balzac parla del lotto come di oppio della miseria, frase ripresa poi da altri? (Cfr nel quaderno 1° degli Argomenti di cultura). Ma il più notevole è che accanto a Don Chisciotte esiste Sancho Panza, che non vuole «avventure», ma certezza di vita e che il gran numero degli uomini è tormentato proprio dall’ossessione della non «prevedibilità del domani», dalla precarietà della propria vita quotidiana, cioè da un eccesso di «avventure» probabili. Nel mondo moderno la quistione si colorisce diversamente che nel passato per ciò che la razionalizzazione coercitiva dell’esistenza colpisce sempre più le classi medie e intellettuali,
in una misura inaudita; ma anche per esse si tratta non di decadenza dell’avventura, ma di troppa avventurosità della vita quotidiana, cioè di troppa precarietà nell’esistenza, unita alla persuasione che contro tale precarietà non c’è modo individuale di arginamento: quindi si aspira all’avventura «bella» e interessante, perché dovuta alla propria iniziativa libera, contro l’avventura «brutta» e rivoltante, perché dovuta alle condizioni imposte da altri e non proposte.
La giustificazione del Sorani e del Burzio vale anche a spiegare il tifo sportivo, cioè spiega troppo e quindi nulla. Il fenomeno è vecchio almeno come la religione, ed è poliedrico, non unilaterale: ha anche un aspetto positivo, cioè il desiderio di «educarsi» conoscendo un modo di vita che si ritiene superiore al proprio, il desiderio di innalzare la propria personalità proponendosi modelli ideali (cfr lo spunto sull’origine popolaresca del superuomo negli Argomenti di cultura), il desiderio di conoscere più mondo e più uomini di quanto sia possibile in certe condizioni di vita, lo snobismo ecc. ecc. Lo spunto della «letteratura popolare come oppio del popolo» è annotato in una nota sull’altro romanzo di Dumas: Il Conte di Montecristo.
Q21 §14 Derivazioni culturali del romanzo d’appendice. È da vedere il fascicolo della «Cultura» dedicato a Dostojevskij nel 1931. Vladimiro Pozner in un articolo sostiene giustamente che i romanzi di Dostojevskij sono derivati culturalmente dai romanzi d’appendice tipo E. Sue ecc.
Questa derivazione è utile tener presente per lo svolgimento di questa rubrica sulla letteratura popolare, in quanto mostra come certe correnti culturali (motivi e interessi morali, sensibilità, ideologie ecc.) possono avere una doppia espressione: quella meramente meccanica di intrigo sensazionale (Sue ecc.) e quella «lirica» (Balzac, Dostojevskij e in parte V. Hugo). I contemporanei non sempre si accorgono della deteriorità di una parte di queste manifestazioni letterarie, come è avvenuto in parte per il Sue, che fu letto da tutti i gruppi sociali e «commuoveva» anche le persone di «cultura», mentre poi decadde a «scrittore letto solo dal popolo» (la «prima lettura» dà puramente, o quasi, sensazioni «culturali» o di contenuto e il «popolo» è lettore di prima lettura, acritico, che si commuove per la simpatia verso l’ideologia generale di cui il libro è espressione spesso artificiosa e voluta).
Per questo stesso argomento è da vedere: 1) Mario Praz: La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, in 16°, pp. x‑505, Milano‑Roma, ed. La Cultura, L. 40 (vedere la recensione di L. F. Benedetto nel «Leonardo» del marzo 1931: da essa appare che il Praz non ha fatto con esattezza la distinzione tra i vari gradi di cultura, onde alcune obbiezioni del Benedetto, che d’altronde non pare colga egli stesso il nesso storico della quistione storico‑letteraria); 2) Servais Étienne: Le genre romanesque en France depuis l’apparition de la «Nouvelle Héloïse» jusqu’aux approches de la Révolution, ed. Armand Colin; 3) Reginald W. Hartland: Le Roman terrifiant ou «Roman noir» de Walpole à Anne Radcliffe, et son influence sur la littérature française jusqu’en 1860, ed. Champion e dello stesso autore (presso lo stesso editore) Walter Scott et le «Roman frénétique» (l’affermazione del Pozner che il romanzo di Dostojevskij sia «romanzo d’avventura» è probabilmente derivata da un saggio di Jacques Rivière sul «romanzo d’avventure», forse pubblicato nella «N. R. F.», che significherebbe «una vasta rappresentazione di azioni che sono insieme drammatiche e psicologiche» così come l’hanno concepito Balzac, Dostojevskij, Dickens e George Elliot);
4) un saggio di André Moufflet su Le style du roman feuilleton nel «Mercure de France» del 1° febbraio 1931 (Nel ms le pagine del Quaderno successive a p. 37 sono rimaste bianche, salvo una breve annotazione a p. 155.).
Q21 §15 Bibliografia. N. Atkinson, Eugène Sue et le roman‑feuilleton, in 8°, pp. 226, Parigi, Nizet et Bastard, Frs. 40.