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Library:Prison Notebooks In Original Italian/Notebook 2

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Written in 1929-33

     QUADERNO 2


         MISCELLANEA I

Q2 §1 Vittorio Giglio, Milizie ed eserciti d’Italia, in 8°, 404 pp., illustr., L. 80, C. E. Ceschina (Dall’epoca romana alle milizie comunali, all’esercito piemontese, alla M.V.S.N.). Cercare come mai nel 48 in Piemonte non esistesse nessun capo militare e sia stato necessario ricorrere a un generale polacco. Nel Quattrocento‑Cinquecento e anche dopo, buonissimi capitani (condottieri, ecc.), sviluppo notevole della tattica e strategia, eppure impossibilità di creare esercito nazionale, per il distacco tra il popolo e le classi alte.

Q2 §2 Italo Raulich, Storia del Risorgimentopolitico d’Italia, Zanichelli, cinque volumi, vol. IV, marzo‑novembre 1848, L. 32; vol. V, 1849, L. 36.

Q2 §3 Giorgio Macaulay Trevelyan, Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 48. Con pref. di P. Orsi, Zanichelli, L. 35.

Q2 §4 Dal rapporto letto dall’ing. Giacinto Motta all’Assemblea ordinaria del 27 marzo 1927 della «Edison»: – L’industria della produzione e distribuzione dell’energia elettrica alla fine del 1926 ha preso decisamente la testa nell’attività industriale italiana. Secondo le statistiche della Confederazione Bancaria, il capitale delle anonime esercenti l’industria elettrica ammontava alla fine del 26 a 6260 milioni, mentre quello delle industrie meccaniche, metallurgiche, ed affini, che nella statistica seguono immediatamente, ammontava a 4 757 000 000. Una statistica più completa dell’Unione Nazionale Industrie Elettriche (Uniel), considera i dati di 1785 aziende private e 340 enti pubblici e tenendo conto anche delle obbligazioni propriamente dette, indica l’ammontare degli investimenti al settembre 1926 in 7857 milioni di lire, corrispondenti a circa 2650 milioni lire oro.

Mancano le statistiche dei debiti, però, e solo si può ritenere che mentre nel 23‑24‑25, le società elettriche preferivano gli aumenti di capitale, dallo scorcio del 25 in poi ricorsero ai mutui, specialmente in dollari, per una cifra che si aggira sul miliardo di lire carta; perciò nonostante minore incremento del capitale, si mantenne lo stesso ritmo di accrescimento negli impianti.

Produzione e consumo dell’energia: cifre non attendibili. Statistiche ufficiali per esercizi 23‑24‑25, per il consumo: da 6488 a 7049 e 7355 milioni Kwh; ma doppioni nelle denunce, quindi inferiore circa 25%. Statistica dell’Uniel su dati riferentisi in grandissima parte al 25 e in piccola parte al 26: 6212 milioni Kwh. Il gruppo Edison rappresenta il 30% dell’attività complessiva.

Utili: investimenti ingentissimi, con giro d’affari modesto. Utili annuali minori di 1/5 e 1/6 delle somme che bisogna annualmente investire. Industria sempre affamata di danaro, controindicata per gli Enti pubblici i quali soffrono di penuria di mezzi quanto maggiore ritmo di sviluppo. (Condizioni di monopolio. Ricordare interpellanze di Aldo Finzi).

Q2 §5 Angiolo Gambaro, Riformareligiosanel Carteggio inedito di Raffaello Lambruschini, 2 voll., G. B. Paravia, 1926. Recenti opere di studiosi della preparazione spirituale del Risorgimento: Ruffini, Gentile, Anzilotti, Luzio. Raccogliere bibliografia in proposito. Il Lambruschini legato da relazioni personali con molti protagonisti (liberali moderati) del Risorgimento, esercitando un’influenza che il Gambaro sostiene di prim’ordine, finora quasi ignorata (pour cause!). Il Gambaro mette in rilievo il tormento intimo che l’associazione, nello stesso problema, dei termini politici e religiosi suscitò in quella generazione, in una parte della quale prevalse la visione politica, in altra la religiosa. Lambruschini espressione principale di questo secondo gruppo. Gambaro sostiene che Lambruschini non sansimoniano, non lamennaisiano, non giansenista, ma perfettamente ortodosso; i suoi accusatori spiriti malevoli o incapaci di comprendere. Concezione evangelica della religione, in cui affiora il principio della libertà interiore concorde con l’autorità. Precorse e superò con maggiore audacia ed estensione ideale il blando riformismo del Rosmini e mirò a sanare un quadruplice ordine di piaghe da lui stesso così riassunte (Vol. I Gamb. p. CXCIX): «1) moltiplicare, sminuzzare, materializzare il culto esterno, e trascurare il sentimento; 2) falsare il concetto morale e il concetto delle relazioni nostre con Dio; 3) soggiogare le coscienze, annullare la libertà, per abuso dell’autorità sacerdotale; 4) sostituire alla fede ragionevole una stupida credulità». (Cenni dalla Nuova Antologia del 16 aprile 1927).

(In queste riesumazioni non si tiene abbastanza conto, per valutare l’importanza storica e l’influsso di questi «eroi» del Risorgimento, che la loro opera si esaurì quasi completamente nei carteggi privati e rimase clandestina).

Q2 §6 Articolo «Problemi finanziari» firmato Verax (Tittoni) nella «Nuova Antologia» del 1° giugno 1927. Nella «Nuova Antologia» del 1925 (16 maggio), Tittoni aveva pubblicato un articolo, I problemi finanziari dell’ora, nel quale trattava questi punti: equilibrio del bilancio; economie; perequazione del sistema tributario; mania spendereccia e tassatrice degli enti locali; circolazione monetaria e suoi problemi: deflazione; stabilizzazione; debiti interalleati; regime bancario; ordinamento delle società anonime; difesa del risparmio nazionale.

Equilibrio del bilancio raggiunto; le confusioni, sperequazioni e duplicazioni del sistema tributario eliminate con la riforma De Stefani; i debiti interalleati regolati dal Volpi, il quale ha preso provvedimento per la rapida liquidazione della sezione autonoma del Consorzio valori, per l’unificazione dell’emissione, per il trasferimento delle operazioni di cambio all’Istituto dei cambi sotto il patronato della Banca d’Italia, per la vigilanza in difesa del risparmio nazionale: discorso di Pesaro per la politica monetaria.

Nuovi problemi, attuali: consolidamento del pareggio del bilancio; freno alle crescenti spese; sano impiego delle eccedenze di bilancio; condizioni della tesoreria; necessità di un ammortamento graduale e continuativo del debito pubblico; i prestiti esteri e il miglioramento dei cambi; la difesa della riforma tributaria da iniziate deviazioni; eliminazione di ogni inutile fiscalismo.

L’esercizio 25‑26 chiuso con un avanzo di competenza di 2268 milioni ridotto con due regi decreti a 468 milioni. Ma occorre esaminare l’esercizio 25-26 considerando 1) le maggiori spese sopravvenute durante l’esercizio; 2) quelle deliberate dopo chiuso l’esercizio, ma attribuite a questo; 3) rapporti tra le risultanze del bilancio di competenza ed il conto di cassa; 4) i conti fuori bilancio. Durante l’esercizio 25‑26 furono deliberate maggiori spese, oltre quelle preventivate in bilancio, per 3605 milioni e, chiuso l’esercizio, con due regi decreti (ricordati) furono deliberate 1800 milioni di nuove spese, addebitate all’esercizio stesso mediante iscrizione nel bilancio delle finanze di un capitolo aggiunto. Senza tener conto del movimento dei capitali e delle spese per le PP. e TT. che dal bilancio generale sono state trasferite in quello speciale dell’azienda autonoma, e detratti 247 milioni di economie realizzate durante l’esercizio, si ha, malgrado la diminuzione delle spese residuali della guerra, un aumento di 4158 milioni di spesa sui 17 217 preventivati (aumento del 24%). Ma anche le entrate, preventivate in 17 394 milioni, salirono a 21 043 milioni, e perciò avanzo di 468 milioni.

È necessario un più rigoroso e completo accertamento delle spese, i risultati dell’esercizio devono allontanarsi il meno possibile dalle previsioni, altrimenti il bilancio preventivo diverrebbe inutile, e per una ragione psicologica (!), perché l’annunzio di grandi avanzi incita alle spese. Un insigne economista, R. C. Adams, è giunto a dire che preferisce un bilancio presentato con un lievissimo disavanzo a quello presentato con un eccessivo avanzo poiché il primo incita alle economie, il secondo sospinge alle prodigalità («e a imporre nuove tasse se successivamente l’avanzo è in pericolo sul nuovo piano di spese»; A. G.). Questi avanzi sono fondati su incrementi di entrate che non sono necessariamente continuativi. L’avanzo di un bilancio di competenza può non coincidere con una cassa egualmente florida. «Perciò a situazioni di bilancio eccellenti possono corrispondere situazioni di cassa richiedenti provvedimenti eccezionali come quelli adottati dal Governo Nazionale nello scorso autunno». Politica di economie. Se non riduzione delle spese, desiderabile almeno freno alle nuove spese.

Bilancio italiano non è un conto di fatto, di tipo inglese, che registra incassi e spese effettivamente avvenuti, ma un conto di diritto, di tipo francese, comprendente da una parte le entrate accertate e scadute, da un’altra parte le spese ordinate, liquidate ed impegnate nei modi prescritti dalla legge. Il bilancio di competenza, a quelli che non sanno leggerlo, non dà una chiara visione della situazione finanziaria del paese. L’inconveniente maggiore del bilancio di competenza è nel fatto che nessun esercizio si esaurisce in sé; esso lascia sempre dei residui attivi e passivi, in modo che alla gestione del bilancio proprio dell’esercizio si aggiunge quella dei residui attivi e passivi dei precedenti esercizi che la cassa va a sopportare. Ne deriva pertanto che aumentando le spese di competenza si è normalmente avuto un aumento di residui, specialmente di residui passivi che malamente si contrappongono agli attivi e la maturazione dei quali può depauperare la cassa al di là del prevedibile. I residui passivi mal si contrappongono agli attivi perché questi, dati i nostri congegni di esazione, non possono essere e non sono di un ammontare ragguardevole per la parte effettiva, la sola che costituisce una vera entrata, giacché i residui attivi per movimenti di capitale rappresentano prestiti da contrarsi o da collocarsi. Costituirebbe quindi un grave errore il valutare alla stessa stregua i residui attivi e passivi circa la possibilità di trasformarsi rispettivamente in incassi e pagamenti.

A questo si aggiunge una consuetudine che ormai comincia a trovare larga applicazione: l’art. 154 del regolamento per l’amministrazione del patrimonio e per la contabilità di Stato stabilisce che in nessun caso si possa iscrivere fra i residui degli anni decorsi alcuna somma in entrata o in spesa che non sia stata compresa fra la competenza degli esercizi anteriori; ma purtroppo la parola della legge non vieta che per lo stesso esercizio si cancelli la iscrizione di un capitolo per aumentarne un altro: così è, ad esempio, quando tra i residui passivi si trova iscritta una somma che presumibilmente non sarà spesa e che non traducendosi quindi in un pagamento sarebbe passata in economia, e viceversa si viene ad aumentare un altro capitolo di spesa, sempre dei residui, e, s’intende, dello stesso esercizio, spesa che sarà realmente effettuata e si tradurrà in un pagamento. Così la contabilità è salva, l’ammontare di residui passivi non viene aumentato, ma le condizioni della cassa vengono peggiorate. La gestione dei residui, e in special modo il saldo dei residui, va tenuto in seria considerazione, tanto più che esso è in continuo aumento, ed infatti la differenza passiva dei residui era al 30 giugno 1926 di 10 513 milioni contro 9442 milioni al 30 giugno 1925.

Francia, Belgio, Italia. I tre paesi, dopo aver assicurato l’equilibrio del bilancio, dovettero fronteggiare una crisi di Tesoreria; il deficit, cioè, non era scomparso, ma passando dal bilancio alla tesoreria si era semplicemente spostato. Si è dovuto correre ai ripari procurando di eliminare anzitutto il pericolo del debito fluttuante, divenuto enorme dopo la guerra, poiché le Tesorerie si trasformarono di fatto in Banche di deposito. («Questo è un paragone capzioso: non si trasformarono per nulla in Banche di deposito, ma commisero una truffa in grande stile, perché le somme incassate furono spese come entrate ordinarie di bilancio, senza che i futuri bilanci potessero prevedersi talmente incrementabili da assicurare la restituzione delle somme alla data fissata: si rastrellò il risparmio diffuso, sotto la pressione del pericolo nazionale, per esonerare da aggravi la ricchezza imponibile; fu una decimazione larvata del capitale, ma di quello delle classi medie, per no n decimare apertamente e realmente il capitale delle classi alte dei maggiori detentori di ricchezza: il confronto tra paesi latini e paesi anglosassoni mette più in rilievo questa truffa colossale, che si è risolta in parte con l’inflazione e in parte con colpi di Stato»).

Il primo progetto di stabilizzazione del franco belga del ministro Jansens fallì in gran parte per aver omesso la sistemazione preventiva del debito fluttuante. La Francia provvide al debito fluttuante con la creazione di una cassa autonoma di consolidamento ed ammortamento. A questa cassa furono destinati i proventi di alcune tasse e quelli della gestione dei tabacchi, in tutto 3700 milioni di franchi all’anno. Il pagamento di queste tasse può farsi con titoli di Stato, che vengono annullati: colla diminuzione dei titoli diminuisce l’interesse e la differenza disponibile va ad aumentare il fondo di ammortamento. Per un emendamento al progetto primitivo del governo l’ammortamento fu esteso a tutto il debito pubblico («cioè fu prolungata l’esistenza presumibile della Cassa»). Così in Francia si ottenne non solo di arrestare la ressa dei rimborsi, ma si ottennero nuove sottoscrizioni: il Tesoro fu rinsanguato; coi mezzi ordinari di Tesoreria poté procurarsi 14 miliardi, di cui 9 furono rimborsati alla Banca di Francia e 5 per acquisto di divise estere. Belgio: si procedette ad una conversione semicoattiva. Ai portatori dei buoni fu posta l’alternativa: o consentire il cambio dei buoni con azioni della società nazionale delle ferrovie belghe costituite dallo Stato, o farli stampigliare. I buoni dati in cambio delle azioni ferroviarie, i 3/4, furono distrutti; gli altri furono convertiti in nuovi buoni coll’interesse ridotto dal 7 al 5% e col rimborso subordinato non a scadenza fissa ma alle disponibilità avvenire del bilancio.

Italia: conversione obbligatoria dei buoni del Tesoro in titoli del debito consolidato, con un premio ai portatori che ha aumentato il debito pubblico di circa 3 miliardi. «Non è il caso di discutere teoricamente quest’operazione che in fatto era inevitabile». Un recentissimo comunicato ai giornali, illustrando il conto del Tesoro a fine marzo, segnala l’esistenza di un fondo di cassa, al 31 marzo (1927) di 2311 milioni. La cifra «lascia fredda una parte dell’opinione pubblica, la quale non riesce a vedere come sì floride condizioni di cassa e di bilancio si concilino con la recente necessità di assai drastici provvedimenti, che investirono una parte cospicua della popolazione e toccarono a fondo molte private economie». La cassa del Tesoro può presentare un’apparente floridezza ed una reale penuria. Ciò rilevò già la Commissione di finanza del Senato, il cui relatore, on. Mayer, nella sua relazione sugli stati di previsione del Ministero delle Finanze e del Bilancio dell’entrata pel 1926‑27, constatava che, mentre dai conti mensili del Tesoro risultavano disponibilità cospicue di cassa (al 31 marzo 1926 quasi 4 miliardi) risultava anche l’aumento dei debiti pubblici per oltre 1800 milioni. Ciò avviene perché il fondo di cassa esposto nella accennata cifra di 2311 milioni non rappresenta tutto danaro di cui il Tesoro possa effettivamente disporre come contante. Così nei 2311 milioni è inclusa la somma di 1554 milioni attribuita alle «contabilità speciali» le quali comprendono numerose assegnazioni fatte ad enti come: fondo per il culto, monte pensioni insegnanti elementari, cassa di previdenza degli enti locali, ospedali riuniti di Roma ecc., epperò rappresentano somme erogate dall’Erario o destinate a pagamenti preveduti dall’amministrazione, e quindi vincolate.

Più significativa è la cifra denotante l’ammontare del fondo di cassa presso la Tesoreria provinciale, vale a dire del fondo cui attingonsi i mezzi per la massima parte dei pagamenti nel Regno; certamente sarebbe un errore considerare questo soltanto, perché il Tesoro ha altre disponibilità liquide, presso la Tesoreria centrale, e fra esse dovrebbero avere una certa importanza quelle in divisa presso i suoi corrispondenti esteri, ma il fondo di dotazione rappresenta sempre la condizione fondamentale delle disponibilità di cassa del Tesoro per fronteggiare i suoi bisogni correnti.

Nulla può essere più eloquente della differenza fra il così detto «fondo generale di cassa» del Tesoro e la situazione del «fondo di dotazione» dello Stato per l’esercizio della Tesoreria provinciale presso la Banca d’Italia, cioè del vero e proprio conto corrente del Tesoro presso l’Istituto di Emissione:

Quaderno 2 Tabella 1

Come si vede, al 31 ottobre e al 30 novembre, cioè prima degli incassi ottenuti con l’emissione del Prestito del Littorio, il detto conto corrente si presentava in deficit, per cui la Banca dovette provvedere a pagamenti del Tesoro con propri biglietti. Nel conto dei debiti della Tesoreria richiama l’attenzione l’ammontare di vaglia del Tesoro nel 1925-1926 in 71 349 milioni per rimborsi e 70 498 milioni per incassi. Queste enormi cifre richiederebbero qualche chiarimento affinché il pubblico potesse rendersi ragione delle operazioni che rappresentavano. Ad esso intanto una cosa appare evidente e cioè che la politica di Tesoreria ha preso il sopravvento su quella di bilancio i cui risultati sono subordinati a quelli della prima.

Bisogna dunque provvedere a rinforzare la cassa del Tesoro (la Francia e il Belgio l’hanno già fatto). Come? Non ricorrendo ad antecipazioni da parte della Banca d’Italia che non potrebbe fornirle che mediante restrizioni del credito al commercio o mediante l’inflazione. Non mediante emissioni di Buoni del Tesoro, perché sarebbe impossibile dopo il recente consolidamento. Non mediante nuovo prestito consolidato. Il debito pubblico va diminuito, non aumentato, è poi recente il consolidamento e prestito del Littorio. Bisogna invece rifornire la cassa mediante le eccedenze di bilancio, nelle quali, se non ci saranno gravi perturbazioni dei cambi e se faremo una politica di economie, potremo continuare a contare. («Ma in realtà avanzi reali di bilancio non ce ne sono mai stati, come risulta dall’esposizione precedente, ma solo spostamenti contabili e mascherature di deficit attraverso i residui passivi, il debito pubblico aumentato surretiziamente e il ricorso a partite incontrollabili, senza contare l’assorbimento dei bilanci locali, tutti deficitari in misura spaventevole.

Bisognerebbe fissare con esattezza cos’è l’avanzo di bilancio effettivo, anche dopo aver fissato una quota ragionevole per rafforzare il tesoro e per ammortare il debito pubblico: è quello che, oltre a tutto ciò, permette di diminuire le imposte effettivamente, e di migliorare le condizioni del personale; diminuire specialmente le imposte indirette che pesano di più sulla parte più povera della popolazione, cioè che permettono un più elevato tenore di vita»). Con decreto regio 3 dicembre 1926 fu elevata a 4/5 la quota dell’avanzo di bilancio da destinare ad opere inerenti alla ricostruzione economica e alla difesa militare della nazione già fissato in 3/4 dal R. D. del 5 giugno. Nessuno ha contestato le ragioni impellenti (!) che indussero il governo a prendere questo provvedimento eccezionalissimo, che è contrario alla dottrina finanziaria di tutti gli economisti senza distinzioni di scuole e che non trova riscontro nella pratica finanziaria di nessun altro paese. Non dovrebbe diventare una consuetudine: il Direttore Generale della Banca d’Italia nella relazione all’assemblea degli azionisti del 27 l’ha «denunziata cautamente come una tendenza nuova di far pesare sugli avanzi passati spese riguardanti l’avvenire».

Il relatore della Giunta del Bilancio della Camera dei Deputati, Olivetti, parlando sul disegno di legge per la conversione in legge del R. D. 3 dicembre 1926 fece l’obbiezione che, come ai disavanzi registrati dall’esercizio 1911‑12 a quello 23‑24 si era fatto fronte con mezzi di tesoreria e accensioni di debito, così bisognerebbe devolvere integralmente alla riduzione dei debiti prebellici gli avanzi registrati dal 24‑25 in poi; inoltre l’avanzo potrebbe essere assegnato a dare maggiore elasticità alla Tesoreria. Però date le gravi ragioni contingenti, la Giunta concludeva per l’approvazione, augurandosi un futuro graduale ammortamento del debito pubblico. (A parole tutti sostengono questa necessità ma non se ne fa niente lo stesso). (Il senato fin dal 1920 domandò sempre: prudente riduzione della circolazione, rigorose economie, sosta nell’indebitamento ed inizio del pagamento dei debiti, vigile attenzione alla cassa del Tesoro, alleviamento delle imposte).

Necessità di chiarezza nei conti finanziari. Il denaro deve trovarsi non solo sui conti, ma nelle casse dello Stato. «Occorre studiare a fondo la quistione delle operazioni fuori bilancio le quali costituiscono una minaccia permanente a danno dei risultati attivi del bilancio. Ed invero più che una minaccia noi avemmo il danno effettivo nel periodo dall’agosto al novembre 1926 come lo dimostra il progressivo impoverimento, durante quei mesi, della cassa».

Le operazioni finanziarie sono quelle che si fondano sul credito pubblico ed hanno effetto sul patrimonio dello Stato: l’emissione di un prestito, il rimborso di obbligazioni rientrano propriamente fra queste. Esse dovrebbero far parte delle operazioni di bilancio e direttamente essere contabilizzate fra le spese e le entrate, fra gli incassi e i pagamenti in conto bilancio. Le operazioni di Tesoreria propriamente dette riguardano invece i provvedimenti che servono ai bisogni immediati della cassa e perciò comprenderebbero l’emissione di buoni del Tesoro ordinari. Tra queste operazioni sono anche operazioni fuori bilancio, almeno temporaneamente, mentre non dovrebbero essere tali in una situazione normale. Ora le operazioni fuori bilancio tendono ad eliminare gli effetti della gestione di bilancio assorbendone le eccedenze attive. L’azienda del Portafoglio ha un significato così delicato che delle principali operazioni si redige processo verbale (art. 534 del regolamento di contabilità). Il Contabile del Portafoglio è tenuto a rendere ogni anno il conto giudiziale. La gestione del Contabile del Portafoglio dà luogo a profitti e perdite. Dal l’luglio 1917 al 30 giugno 1925 non fu presentato conto giudiziale e con R. decreto‑legge 7 maggio 1925 fu concesso di potere eseguire un sol conto giudiziale per gli otto esercizi finanziari precedenti riguardanti la guerra. Il Governo deve attenersi alla pratica del conto giudiziale e restringere l’azienda del portafoglio alle sue proprie specifiche funzioni.

Ammortamento del debito pubblico. L’Inghilterra, gli Stati Uniti, l’Olanda da più di un secolo compiono ammortamenti. Hamilton pel primo dimostrò nel 1814 che un vero ammortamento non può farsi che mediante l’eccedenza delle entrate sulle spese e pose il principio che la creazione di un debito deve essere accompagnata dal piano della sua graduale estinzione. Dal 19 al 24 l’Inghilterra diminuì il suo debito di 650 milioni di sterline, cioè l’intiero debito prebellico. Il debito può essere ammortizzato: 1°, con una cassa speciale; 2°, con le eccedenze di bilancio; 3°, con lo stanziamento di una somma fissa. Si danno le cifre degli ammortamenti stanziati in bilancio e degli avanzi di bilancio dal 21 al 26‑27. È notevole e significativo il fatto che se è vero che nel 26‑27 c’è stato un deficit di 36 694 000 sterline, però in quell’esercizio furono stanziate in bilancio per ammortamento 60 000 000 di sterline, cifra superiore e di molto a quelle degli anni precedenti: 25 000 000 nel 21‑22, 24 000 000 nel 22‑23, 40 000 000 nel 23‑24, 45 000 000 nel 24‑25, 50 000 000 nel 25‑26 (con deficit di 14 000 000). C’è una flessione di bilancio che comincia dal 24‑25: nel 26‑27 il deficit di 36 milioni è ottenuto aumentando lo stanziamento fisso per propaganda contro i minatori, cioè si aumenta la quota di bilancio a favore dei capitalisti a danno della classe operaia.

Per la storia della finanza inglese ricordare che alla fine del XVIII secolo fu adottato da Pitt il meccanismo del sinking fund – fondo di ammortamento – di Price, che poi fu dovuto abbandonare. Hamilton. Fino al 1857 l’eccedenza del bilancio fu destinata di preferenza ad alleviare l’imposta. In seguito l’ammortamento regolare del debito fu ripreso e costituì la base fondamentale delle finanze britanniche. Sospeso durante la guerra fu ripreso dopo l’armistizio. Per andamento del bilancio ricordare le cifre dedicate all’ammortamento dal 21 in poi – prese dal Financial Statements. Prima cifra = ammortamenti stanziati in bilancio; seconda cifra = l’avanzo ulteriore impiegato pure all’ammortamento: 21‑22: 25 010 000 e 45 693 000; 22‑23: 24 711 000 e 101 516 000; 23‑24: 40 000 000 e 48 329 000; 24‑25: 45 000 000 e 3 659 000; 25‑26: 50 000 000, deficit 114 milioni 38 000; 26‑27: 60 000 000, deficit 36 694 000. Il calcolo dell’avanzo reale dà queste cifre: 70 703 000; 126 milioni 227 000; 88 329 000; 48 659 000; 35 962 000; 23 milioni 306 000: c’è una flessione di bilancio, ma non un deficit reale.

La Commissione d’inchiesta per lo studio dei debiti pubblici, presieduta da Lord Colwyn, in una sua recente relazione conchiude raccomandando di intensificare l’ammortamento portando il fondo da 75 a 100 milioni di sterline l’anno. Si capisce benissimo il significato politico di questa proposta, data la crisi industriale inglese: si vuole evitare ogni intervento efficace dello Stato, ponendo tutte le larghe possibilità di bilancio nelle mani dei privati, i quali poi, probabilmente, invece di investire nell’industria nazionale in crisi questi enormi capitali, li investiranno all’estero mentre lo Stato potrebbe riorganizzare, con questi fondi, le industrie fondamentali a favore degli operai.

Negli Stati Uniti il sistema di amministrazione è fondato sulla conversione dei debiti consolidati in debiti redimibili con riduzione degli interessi.

In Francia, la Cassa costituzionalmente autonoma e indipendente dal Tesoro, per diffidenza verso il Tesoro, che potrebbe mettere le mani sui fondi di ammortamento se si trovasse all’asciutto.

Nel Belgio il ministro Francqui aumentò il fondo di ammortamento.

Italia. Con R. D. 3 marzo 1926 fu costituita una Cassa per l’ammortamento del debito inglese e americano. Ma non è stata fissata una somma annua fissa ed intangibile, secondo il sistema inglese (senza pregiudizio degli avanzi di bilancio, che dopo aver provveduto alle esigenze della cassa e a temperare certi fiscalismi esagerati, dovrebbero essere destinati all’amministrazione. 500 milioni annui sono già stanziati per la graduale riduzione del debito verso la Banca d’Italia per i biglietti anticipati allo Stato; i 90 milioni di dollari del prestito Morgan passati alla Banca d’Italia hanno diminuito di 2 miliardi e mezzo il debito della circolazione per conto dello Stato: coi 500 milioni stanziati l’intero debito sarà estinto in 8 anni (questo debito fu estinto quando la riserva aurea della Banca d’Italia fu valutata secondo la stabilizzazione della lira col passaggio allo Stato della plusvalenza). Nell’ultimo conto del Tesoro il debito consolidato apparisce al 31 marzo 1927 in circa 44 miliardi e mezzo, cui vanno aggiunti circa 23 miliardi e mezzo provenienti dall’operazione dei Buoni del Tesoro e circa 3 miliardi e mezzo del prestito del Littorio; circa 71 miliardi e mezzo, nei quali la parte relativa al periodo prebellico concorre per circa 10 miliardi; e ciò senza dire né dei debiti redimibili inscritti nel gran Libro del Debito Pubblico per 3784 milioni, dei quali la metà relativi alla guerra, né dei buoni poliennali che formano una massa di 7 miliardi e 1/3; né degli altri debiti, quasi tutti redimibili, gestiti dal Debito Pubblico; né del debito per circolazione bancaria, che è ancora di 4229 Milioni (estinto in seguito come detto sopra). Trascurando i debiti redimibili, pei quali è in regolare corso l’estinzione graduale e lasciando da parte i buoni (!), poliennali, rimane il debito perpetuo.

Benefizi dell’ammortamento del debito: 1°, allevia il bilancio, se pure in misura modesta; 2°, rialza il credito dello Stato; 3°, rende possibile ottenere un nuovo prestito in circostanze gravi e imprevedute; 4°, rende possibili future conversioni; 5°, mette a disposizione della produzione le somme ammortate, creando nuovi cespiti di entrata; 6°, tiene alta la quotazione dei titoli di Stato.

Sir Felix Schuster sostenne innanzi alla Commissione d’inchiesta dei debiti pubblici che anche ed anzi specialmente nei momenti più difficili della pubblica finanza l’ammortamento del debito deve essere mantenuto perché costituisce il miglior modo di salvare il credito dello Stato ed impedisce il crollo dei suoi titoli. Ridurre il debito vuol dire rivalutare il consolidato («perciò l’impostare una volta tanto una somma per ridurre il debito pubblico, cioè la mancanza di stanziamenti fissi e intangibili, si riduce ad essere un vero e proprio agiotaggio: lo Stato compra i suoi titoli non per estinguerli gradatamente ma come operazione di borsa che ne faccia elevare la quotazione, magari per emetterne subito degli altri», A. G.). L’ammortamento deve essere necessariamente lento e moderato per non determinare bruschi spostamenti di capitale.

Prestiti americani. Da prima tali prestiti non erano assecondati. Sistemati i debiti di guerra con l’America e l’Inghilterra, la direttiva del Tesoro è mutata, con questo nuovo elemento essenziale, che il più delle volte l’alea dei cambi per i rimborsi anziché dagli Enti contrattanti il debito viene assunto dallo Stato, il che imprime agli occhi dei prestatori uno speciale carattere a tutta l’operazione. Questa garanzia va giudicata in relazione all’accentramento del controllo dei cambi prima presso il Tesoro, ed ora, molto opportunamente, presso l’Istituto dei cambi. Debiti per industria, opportuni. Debiti ai Comuni pericolosi, perché si spende e non si saprà come restituire. La contrazione di debiti all’estero è sottoposta al consenso del governo.

Imposte. 12 577 milioni d’imposte nell’esercizio 1922-1923. 16 417 milioni nell’esercizio 25‑26 con un aumento in tre anni di 3840 milioni. Inoltre nel 1925 le imposte locali erano previste in 4947 milioni, sicché carico annuale di 22 miliardi, cioè un onere superiore a quelli di tutti gli Stati europei e americani. Stati Uniti, diminuite le imposte in quattro anni, di 2 milioni di dollari. Inghilterra diminuite le imposte. In Italia, almeno non aumento e cessazione di terrore fiscale. Così nei Comuni, che affetti da manìa spendereccia e tassatrice. Mantenere le basi fondamentali della riforma tributaria unificatrice, semplificatrice e perequatrice De Stefani. Già si sono avute deviazioni da questa riforma. La nuova imposta complementare sul reddito aveva il pregio di aver ripudiato il sistema di accertamento indiziario. Ma la nuova imposta sul celibato, che varia secondo il reddito, dà luogo a un nuovo accertamento a base indiziaria, invece di essere basata sul reddito accertato agli effetti della complementare. Così si hanno due accertamenti del reddito che conducono a risultati diversi, e poiché il contrasto non è ammissibile, finisce col prevalere per ambedue la procedura indiziaria. Scopo della imposta complementare sul reddito con partecipazione degli enti locali al provento era di eliminare tutte le forme imperfette e sperequate di tasse locali sul reddito quali la tassa di famiglia e il valore locativo.

Un tentativo per l’istituzione di una strana tassa sul reddito consumato fu sventato (sic) per l’opportuno intervento del Senato. Poiché l’imposta complementare sul reddito doveva eliminare le tasse di famiglia e sul valore locativo quando fossero pagate insieme ad essa, per evitare una doppia tassazione sullo stesso reddito, era giusto che continuassero a pagarle coloro che non erano stati iscritti sui ruoli della complementare perché in questo caso non esisteva duplicato. Invece si lasciò ai Comuni facoltà o di continuare ad applicare la tassa di famiglia a coloro che non erano inscritti ai ruoli della complementare, ovvero applicare la tassa sul valore locativo anche a quelli che pagavano la complementare. Quasi tutti i Comuni hanno scelto quest’ultima e così siamo tornati alla doppia tassazione. Inoltre.

Gli agenti del fisco hanno sostenuto e la Commissione centrale delle imposte dirette ha sanzionato che i vecchi accertamenti della tassa di famiglia, di cui tutti avevano riconosciuto le sperequazioni, possono essere presi a base dell’accertamento per l’mposta della complementare sul reddito. Invece di essere soppressa, cioè, ha preso il sopravvento. Certo la complementare ha dato un gettito inferiore allo sperato, ma perché il gettito delle imposte nuove è sempre nel primo anno inferiore a quello che dovrebbe essere, e perché per tre anni la complementare risente delle volissime riduzioni che sono state accordate a chi ha riscattato la tassa sul patrimonio. Contro il fiscalismo. Nella seduta del Senato del 14 giugno 26 il relatore del bilancio on. Mayer, disse: «Penso che sia necessaria una completa riforma del nostro sistema tributario che data dal 1862, dei nostri sistemi di accertamento, dei nostri antiquati e deficienti regolamenti, in modo da ottenere che i cittadini non debbano considerare il rappresentante dell’Erario come un implacabile nemico». Nella fine dell’articolo si accenna addirittura a Necker, che cercò liberare la Francia dall’«impôt», cioè dalla corvée, dalla taille ecc., modernamente «vessazione fiscale», e si augura al ministro delle Finanze di emulare Necker. (Questo articolo di Tittoni deve essere considerato come l’esposizione dei desiderata della borghesia al governo dopo gli avvenimenti del novembre 1926; il linguaggio è molto cauto e involuto, ma la sostanza è molto forte. La critica risulta specialmente dal paragone tra quanto hanno fatto negli altri paesi e in Italia).

Nel fascicolo seguente della Nuova Antologia del 16 giugno1927, Alberto De Stefani, al quale Tittoni aveva in nota attribuito di preconizzare una politica di maggiori imposte e di più rigoroso regime fiscale, pubblica una lettera in cui si dichiara invece d’accordo col Tittoni e avversario della politica che gli viene attribuita. Dichiara di voler solo la rigida obbedienza alle leggi tributarie, cioè la lotta contro le evasioni fiscali. Tra le altre citazioni che fa per dimostrare l’accordo con Tittoni, è interessante questa dal «Corriere della Sera» del 28 novembre 26: «È naturale, per esempio, che l’aumento delle tariffe doganali, e così pure dei dazi interni, possa annullare la politica monetaria... È desiderabile: ... che non si influisca attraverso la finanza di Stato e la finanza locale, o in altro modo, a fare aumentare i costi di produzione». Per mitigare l’aliquota domanda: 1°, una maggiore universalità (!) nell’applicazione dei tributi (giustizia distributiva); 2°, minore evasione di quella oggi esistente, documentata dai ruoli dei contribuenti, di cui è stata interrotta la pubblicazione; 3°, economie nella spesa. Criterio generale: diminuire la pressione finanziaria nominale proporzionatamente alla rivalutazione monetaria, per non rendere più onerosa la pressione finanziaria reale.

Q2 §7 Articoli di Luzzatti nella Nuova Antologia che potrebbero essere interessanti: La tutela del lavoro nelle fabbriche (febbraio 1876); Il socialismo e le quistioni sociali dinanzi ai Parlamenti d’Europa (gennaio e febbraio 1883); Schulze‑Delitzsch (maggio 1883); I recenti scioperi del Belgio (aprile 1886); Le diverse tendenze sociali degli operai italiani (ottobre 1888); Il Risorgimentodell’internazionale (dicembre 1888); La pace sociale all’Esposizione di Parigi (dicembre 1889 ‑ gennaio 1890); Le classi dirigenti e gli operai in Inghilterra. A proposito della lotta di classe (novembre 1892); La partecipazione degli operai ai profitti dell’azienda industriale (16 maggio 1899); Le riforme sociali (1° novembre 1908); La cooperazione russa (1° luglio 1919); Gli ordinamenti tecnici delle industrie in relazione all’obbligo internazionale delle 8 ore di lavoro (1° marzo 1922).

Nella Nuova Antologia del 16 aprile 1927 è data la lista completa degli articoli pubblicati dal Luzzatti nella rivista: sono molti quelli sulla cooperazione, la previdenza, ecc. Probabilmente esiste qualche libro su questa attività del Luzzatti di cui occorre tener conto in un quadro completo del movimento operaio italiano.

Q2 §8 Un giudizio di Manzoni su Victor Hugo. «Il Manzoni mi diceva che Victor Hugo con quel suo libro sopra Napoleone rassomigliasse a uno che si creda gran suonatore d’organi e si metta a suonare, ma gli manchi chi gli tenga il mantice». R. Bonghi, I fatti miei e i miei pensieri, «Nuova Antologia», 16 aprile 27.

Q2 §9 I filosofi e la Rivoluzione francese. Nello stesso zibaldone il Bonghi scrive di aver letto un articolo di Carlo Louandre nella «Revue des deux mondes» in cui si parla di un giornale (diario) di Barbier allora pubblicato, che riguarda la società francese dal 1718 al 1762. Il Bonghi ne trae la conclusione che la società francese di Luigi XV era peggiore per ogni parte di quella che seguì la rivoluzione. Superstizione religiosa in forme morbose, mentre l’incredulità cresceva nell’ombra. Il Louandre dimostra che i «filosofi» dettero la teoria di una pratica già fatta, non la fecero.

Q2 §10 Un gondoliere veneziano faceva delle grandi sberrettate a un patrizio e dei piccoli saluti alle chiese. Un patrizio gli domandò perché facesse così e il gondoliere: Perché coi santi non si cogliona. (Bonghi, ibidem).

Q2 §11 Manzoni e Rosmini su Napoleone III. «A lui (Manzoni) che questo Luigi Napoleone non sia un miracolo, né altro la crisi presente di Francia che una fermata nella Rivoluzione di Francia. Il Rosmini invece ne fa un braccio della Provvidenza, un inviato di Dio; il che riconosce alla sua moralità e Religione; e spera assai, assai. Io sto col Manzoni». (Bonghi, ibidem).

Q2 §12 La marina mercantile italiana. Estratti dall’articolo La nostra marina transatlantica di L. Fontana Russo, nella «Nuova Antologia» del 16 aprile 1927.

Le perdite complessive della marina mercantile italiana per sottomarini e sequestri durante la guerra salirono a 872 341 tonn. lorde (238 piroscafi per 769 450 tonn. e 395 velieri per 10 891), cioè il 49% dell’intera flotta, mentre le perdite inglesi furono del 41% e le francesi del 46% («ciò nonostante la più tarda entrata in guerra, e la ritardata dichiarazione di guerra alla Germania»; A. G.: come spiegare questa percentuale così alta?) Inoltre altri 9 piroscafi per 57 440 tonn. affondarono per disgraziati accidenti dovuti allo speciale regime imposto alla navigazione (incagli per sfuggire ad attacchi di sommergibili, collisioni nella navigazione in convoglio ecc.) («quanto fu la percentuale di questi casi nelle altre marine», A. G.; la risposta interessa per giudicare nostra organizzazione e capacità dei comandi; inoltre interessante sapere l’età di questi piroscafi, per vedere come era esposta la vita dei nostri marinai). Il danno finanziario (navi e carico) fu di L. 2 202 733 047, così ripartito: naviglio da pesca L. 4 391 706; velieri L. 59 792 591; piroscafi di bandiera nazionale L. 1 595 467 786; piroscafi di bandiera estera noleggiati dall’Italia (216 piroscafi affondati, 2 danneggiati: L. 543 080 964). (Evidentemente questi piroscafi esteri non sono calcolati nel tonnellaggio precedente e anche in questo caso sarebbe interessante sapete se essi furono affondati essendo guidati da personale italiano: inoltre se le altre nazioni subirono perdite dello stesso genere).

Il totale dei carichi perduti fu di 1 271 252 tonn. I rifornimenti italiani durante la guerra furono: 49 mil. di tonn. da Gibilterra e 2 milioni dal Mediterraneo e da Suez. Le perdite subite durante la guerra furono riparate subito. Il naviglio mondiale perduto durante la guerra fu di 12 804 902 tonn. (piroscafi e velieri), cioè il 27 % del tonnellaggio complessivo. Nel 1913 la marina mondiale era di 43 079 000 tonn.; nel 1919 era di 48 milioni, nel 2 1 di 58 841 000, nel 26 di 62 671 000. I cantieri, dal 13 al 19, dopo aver colmato le perdite, accrebbero di 4 milioni il tonnellaggio. Le navi impostate furono continuate dopo l’armistizio: così si spiega che, nel 19, le navi varate raggiunsero i 7 milioni di tonnellate («ciò spiega la crisi dei noli del dopoguerra, in cui coincise un naviglio anormale con una caduta del commercio»).

Italia. Il 31 dicembre 1914 il nostro naviglio (piroscafi superiori a 250 tonn. lorde) era di 644 piroscafi per tonn.

D. W. C. 1 958 838; le perdite al 31 dicembre 1921 furono: piroscafi 354, per tonn. 1 270 348. Della vecchia flotta rimanevano 290 piroscafi, per tonn. 688 496. Fino al 31 dicembre 1921 furono costruiti 122 piroscafi per tonn. D. W. C. 698 979 e comprati all’estero 143 per 845 049, furono ricuperati dalla Regia Marina 60 per 131 725 e incorporati dalla Venezia Giulia 210 per 763 945, cioè l’aumento complessivo fu di 535 per 2 437 698, portando la flotta complessiva a 856 per 3 297 987. Alla fine del 1926 l’Italia aveva costruito inoltre 33 navi per 239 776 tonn. lorde. Le motonavi tendono ad aumentare in confronto dei piroscafi. Le 763 945 tonn. provenienti dalla Venezia Giulia furono il risultato di negoziati al Congresso della Pace con l’Inghilterra, la Francia e la Jugoslavia.

Le perdite della marina di linea (piroscafi per viaggiatori) furono meno gravi che per la flotta da carico e perciò non prontamente riparate. Così, nel dopoguerra si ebbe naviglio da carico eccessivo e di linea manchevole. Disarmo e caduta di noli per quello, richiesta e rialzo di noli per questo. Avvenne così specializzazione delle compagnie: alcune si dedicarono al carico, altre alla linea, alienando la propria flotta di carico e specializzandosi («teoricamente la specializzazione è un progresso, perché porta a minor costo: ma in caso di crisi di uno o altro ramo, la specializzazione porta al fallimento, perché non esiste più il compenso reciproco»; A. G.). Alla flotta di linea si pose un problema fondamentale: navi per emigranti o navi per viaggiatori di classe? Le maggiori compagnie si decisero nel senso di dare maggior peso ai piroscafi di lusso. Crisi dell’emigrazione per restrizioni legislative. Così si ebbe sviluppo di grandi piroscafi di lusso, per i quali non c’è limitazione di spazio e di comfort dati i noli alti.

Tendenza verso il grande tonnellaggio. Per legge economica del rendimento crescente. L’aumento della lunghezza, altezza, larghezza porta ad un aumento più che proporzionale della portata utile, cioè dello spazio dedito al carico. Cresce pure, più che proporzionalmente alla spesa di costruzione e d’esercizio, il rendimento dell’armatore. La velocità invece deve essere moderata, per essere economica (non può oltrepassare per ora i 24 nodi). Altra è la questione per la marina di guerra, i cui scopi sono bellici, non di carattere economico. Le macchine marine capaci di imprimere grandi velocità sono insaziabili divoratrici di combustibile. La velocità segue la legge dei rendimenti decrescenti, all’opposto di quella che regola la portata delle navi. Venti anni fa velocità di 11 nodi, costo orario 295 lire, 13 nodi 370 lire 21 nodi 1800 lire. Al criterio dei viaggi brevi si sostituì quello dei viaggi comodi («oggi la radio, e specialmente l’aeroplano per chi ha veramente fretta, compensano la relativa scarsa velocità delle navi di lusso; con la radio si può sempre mantenersi in comunicazione e non interrompere gli affari; con l’aeroplano si ottengono due effetti: 1°, percorrere in poche ore spazi relativamente brevi – Parigi‑Londra, ecc. – con sicurezza; 2°, i transatlantici trasportano anche aeroplani e giunti a una distanza dal capolinea che dà sicurezza di traversata, permettono ai più frettolosi di abbreviare il viaggio»; A. G.). Alla velocità di 23 nodi si è giunti sia trasformando le macchine motrici, sia adottando nuovo combustibile. La turbina sostituì le macchine alternative: il motore Diesel tende a sostituire la turbina. Il combustibile liquido sostituisce il carbone. Notevole risparmio che permise una nuova velocità economica (23 nodi).

Nuove e vecchie costruzioni. Una nave nuova, che rappresenti un forte progresso, svaluta subito, automaticamente, tutte le precedenti. Il vecchio naviglio deve essere radiato, trasformato se possibile, o adibito ad altri trasporti. Le vecchie navi rendono poco o nulla (anche se in parte ammortizzate), se non sono addirittura passive. Perciò, dati i continui progressi tecnici, gli attuali transatlantici devono atrunortizzare il capitale in poco meno d’un decennio. («Ed ecco perché nel valutare l’efficienza reale delle varie flotte nazionali, oltre al numero delle unità e alla somma complessiva delle tonnellate bisogna badare all’età del naviglio; ciò spiega anche come il rendimento di flotte inferiori per tonnellaggio sia superiore a quello di flotte che statisticamente sono più elevate: oltre al fatto dei maggiori rischi – assicurazioni – e pericoli per le vite umane rappresentati dalle vecchie navi»).

Q2 §13 Eugenio Di Carlo, Un carteggio inedito del P. L. Taparelli D’Azeglio coi fratelli Massimo e Roberto, Anonirna Romana Editoriale, Roma, 1926, L. 16,50.

Libro importante. Prospero Taparelli D’Azeglio, fratello di Massimo e di Roberto, nato a Torino il 24 ottobre 1793, entrò nella Compagnia di Gesù nel 1814 col nome di Luigi. Accanito oppositore del liberalismo, difensore dei diritti della chiesa e del potere cattolico contro il potere laicale nei suoi libri e nella «Civiltà Cattolica». Propugnò il tomismo, quando questa filosofia non godeva molte simpatie tra i gesuiti. Prima giobertiano, avversario dopo il Gesuita moderno; sostenitore della necessità di un avvicinamento e di un accordo tra liberali moderati e cattolicismo, contro il liberalismo che voleva la separazione della Chiesa dallo Stato: per il potere temporale. Il Di Carlo lo difende dall’accusa di austriacantismo e di nemico della libertà. Oltre la prefazione del Di Carlo, 44 lettere dal 21 al 62, in cui trattati i temi del giorno.

(Mi pare che anche in questo libro ci sia la tendenza a riabilitare i nemici del Risorgimento, con la scusa della «cornice dei tempi». Ma qual era questa «cornice», la reazione o il Risorgimento?).

Q2 §14 Amy A. Bernardy, Forme e colori di vita regionale italiana. Piemonte, Vol. I, Zanichelli, Bologna, L. 20. (Fare bibliografie di tutte le collezioni che si occupano della vita regionale e che abbiano un certo valore. Bibliografia legata alla quistione del folklore).

Q2 §15 Gli Albanesi d’Italia. Quando fu occupata Scutari dopo le guerre balcaniche, l’Italia vi mandò un battaglione e in esso fu incorporato un certo numero di soldati albanesi d’Italia. Siccome parlavano l’albanese, solo con la pronunzia un po’ diversa, furono accolti cordialmente. (Da un articolo molto scemo di Vico Mantegazza nella Nuova Antologia del 1° maggio 1927 Sulle vie dell’Oriente).

Q2 §16 Francesco Tommasini, Politica mondiale e politica europea, Nuova Antologia, 1° maggio ‑ 16 maggio 1927.

Egemonia politica dell’Europa prima della guerra mondiale. Il Tommasini dice che la politica mondiale è stata diretta dall’Europa fino alla guerra mondiale, dalla battaglia di Maratona (490 a. C.). (Però fino a poco tempo fa non esisteva il «mondo» e non esisteva una politica mondiale; d’altronde la civiltà cinese e quella indiana hanno pur contato qualcosa). All’inizio del secolo esistevano tre potenze mondiali europee, mondiali per l’estensione dei loro territori, per la loro potenza economica e finanziaria, per la possibilità di imprimere alla loro attività una direzione assolutamente autonoma, di cui tutte le altre potenze, grandi e minori, dovevano subire l’influsso: Inghilterra, Russia, Germania. (Il Tommasini non considera la Francia come potenza mondiale!) Inghilterra: aveva battuto tre grandi potenze coloniali (Spagna, Paesi Bassi, Francia) e asservito la quarta (Portogallo), aveva vinto le guerre napoleoniche ed era stata per un secolo arbitra del mondo intero. Two powers standard. Punti strategici mondiali nelle sue mani (Gibilterra, Malta, Suez, Aden, isole Bahrein, Singapore, Hong‑Kong). Industrie, commercio, finanze. Russia: minacciava India, tendeva a Costantinopoli. Grande esercito. Germania: attività intellettuale, concorrenza industriale all’Inghilterra, grande esercito, flotta minacciosa per il two powers standard.

Formazione della potenza degli Stati Uniti. Indipendenza nel 1783, riconosciuta dall’Inghilterra col trattato di Versailles: comprendevano allora 13 Stati, di cui 10 di originaria colonizzazione britannica e 3 (New‑York, New Jersey e Delaware) ceduti dai Paesi Bassi all’Inghilterra nel 1667, con circa 2 milioni di Km2 ma la parte effettivamente popolata era solo quella sulla costa orientale dell’Atlanti co. Secondo il censimento del 1790, la popolazione non arrivava a 4 milioni, compresi 700 000 schiavi. Su quello stesso territorio nel 1920 esistevano 20 Stati con 71 milioni di abitanti. Allora gli Stati Uniti confinavano a Nord col Canadà, che la Francia aveva ceduto all’Inghilterra nel 1763, dopo la guerra dei 7 anni; ad Ovest con la Luisiana, colonia francese che fu comperata nel 1803 per 15 milioni di dollari (territorio di 1 750 000 Km2) così che tutto il bacino del Mississipì si trovò in suo dominio e il confine cadde sul fiume Sabine colla colonia spagnola del Messico. A Sud colla Florida spagnola che fu acquistata nel 1819.

Il Messico, che allora era il doppio dell’attuale, insorse nel 1810 contro la Spagna e nel 1821 fece riconoscere la sua indipendenza col trattato di Cordova. Da quel momento gli Stati Uniti iniziarono una politica intesa ad accaparrarsi il Messico: l’Inghilterra sosteneva l’imperatore Yturbide, gli Stati Uniti favorirono un movimento repubblicano che trionfò nel 1823. Intervento francese in Spagna. Opposizione dell’Inghilterra e degli Stati Uniti alla politica della Santa Alleanza di aiutare la Spagna a riconquistare le colonie americane. Da ciò è determinato il messaggio del Presidente Monroe al Congresso (2 dicembre 1823) in cui enunciata la teoria famosa. Si domanda di non intervenire contro le ex‑colonie che hanno proclamato la loro indipendenza, che l’hanno mantenuta e che è stata riconosciuta dagli Stati Uniti, i quali non potrebbero rimanere indifferenti spettatori di un simile intervento qualunque forma fosse per assumere.

Nel 1835 il Texas (690 mila Km2) si dichiarò indipendente dal Messico e dopo un decennio si unì agli Stati Uniti. Guerra fra Stati Uniti e Messico. Col trattato di Guadalupa Hidalgo (1848) il Messico dovette cedere il territorio costituente gli attuali Stati della California, dell’Arizona, del Nevada, dell’Utah e del Nuovo Messico (circa 1 700 000 Km2). Gli Stati Uniti arrivarono così sulla costa del Pacifico, che fu occupata poi fino alla frontiera del Canadà, e raggiunsero le dimensioni attuali.

Dal 60 al 65 guerra di secessione: Francia e Inghilterra incoraggiarono il movimento separatista del Sud e Napoleone III cercò di approfittare della crisi per rafforzare il Messico con Massimiliano. Gli Stati Uniti, finita la guerra civile, ricordarono la dottrina di Monroe a Parigi, esigendo il ritiro delle truppe francesi dal Messico. Nel 1867 acquisto dell’Alaska. L’espansione degli Stati Uniti come grande potenza mondiale, comincia alla fine dell’800.

Problemi principali americani: 1°, regolamento dell’emigrazione per assicurare una maggiore omogeneità della popolazione (veramente questo problema si pose dopo la guerra ed è legato, oltre che alla quistione nazionale, anche e specialmente alla rivoluzione industriale); 2°, egemonia sul mar Caraibico e sulle Antille; 3°, dominio sull’America Centrale, specialmente sulle regioni dei canali; 4°, espansione nell’Estremo Oriente.

Guerra mondiale. Imperi centrali bloccati: l’Intesa padrona dei mari: gli S. U. rifornirono l’Intesa, sfruttando tutte le buone occasioni che si offrivano. Il costo colossale della guerra, i profondi turbamenti della produzione europea (la rivoluzione russa), hanno fatto degli Stati Uniti gli arbitri della finanza mondiale. Quindi la loro affermazione politica.

Inghilterra e Stati Uniti dopo la guerra. L’Inghilterra è uscita dalla guerra come trionfatrice. La Germania privata della flotta e delle colonie. La Russia, che poteva ridiventare rivale, ridotta a fattore secondario per almeno qualche decennio (questa opinione è discutibile molto: forse gli inglesi avrebbero preferito come rivale la Russia zarista, anche vittoriosa, all’attuale Russia, che non solo influisce sulla politica imperiale, ma anche sulla politica interna inglese). Ha acquistato circa altri 10 milioni di Km2 di possedimenti con circa 35 milioni di abitanti. Tuttavia l’Inghilterra ha dovuto riconoscere tacitamente la supremazia degli Stati Uniti, e ciò sia per ragioni economiche sia per la trasformazione dell’Impero. La ricchezza degli Stati Uniti che si calcolava in 925 miliardi di franchi oro nel 1912, era salita nel 1922 a 1600 miliardi. La marina mercantile: 7 928 688 tonn. nel 1914, 12 500 000 nel 1919. Le esportazioni: 1913, 15 miliardi franchi oro; nel 1919, 37 miliardi e 1/2, ridiscendendo a circa 24 miliardi nel 1924‑25. Importazioni: 10 miliardi circa nel 1913, 16 nel 191, 19 nel 1924‑25.

La ricchezza della Gran Bretagna nel decennio 1912‑22 è salita solo da 387 a 445 miliardi di franchi oro. Marina mercantile: 1912, 13 850 000 tonn.; 1922, 11 800 000. Esportazioni: 1913, 15 miliardi circa di franchi oro; 1919, 17 miliardi; 1924, 20 miliardi. Importazioni: 1913, 19 miliardi; 1919, 281/2 miliardi circa; 1924, 271/2 miliardi. Debito pubblico: 31 marzo 1915: 1162 milioni di sterline; 1919: 7481 milioni; 1929: 8482 milioni; all’attivo vi erano, dopo la guerra, crediti per prestiti a Potenze alleate, colonie e domìni, nuovi Stati dell’Europa orientale ecc., che nel 1919 ascendevano a 2541 milioni di sterline e nel 1924 a 2162. Ma non erano di sicura riscossione integrale. Per es. il debito italiano era nel 1924 di 553 e nel 1925 di 584 mil. di sterline, ma con l’accordo del 27 gennaio 1926 l’Italia pagherà in 62 anni solo 276 750 000 sterline interessi compresi. Nel 1922 l’Inghilterra invece consolidò il suo debito verso gli Stati Uniti in 4600 milioni di dollari, rimborsabili in 62 anni con interesse del 3 % fino al 1932 e del 3 1/2% in seguito.

Impero inglese. Da Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda è diventato l’«Unione britannica di Nazioni» (British Commonwealth of Nations). Tendenze particolarisfiche. Canadà, Australia e Nuova Zelanda in una posizione intermedia tra Inghilterra e Stati Uniti. Rapporti tra Stati Uniti e Canadà sempre più intimi. Canadà speciale ministro plenipotenziario a Washington. Se urto serio tra Stati Uniti e Inghilterra l’Impero inglese si sgretolerebbe.

Wilson. Politica mondiale di Wilson. Suo contrasto con le forze politiche preponderanti negli Stati Uniti. Fallimento della sua politica mondiale. Warren G. Harding diventa presidente il 4 marzo 1921. Colla sua nota del 4 aprile seguente Harding, a proposito della quistione dell’isola di Yap, precisa che gli Stati Uniti non intendono intervenire nei rapporti fra gli Alleati e la Germania, né chiedere la revisione del trattato di Versailles, ma mantenere tutti i diritti che le derivano dal suo intervento nella guerra. Questi principii furono svolti nel messaggio del 12 aprile e condussero alla conferenza di Washington che durò dal 12 novembre 1921 al 6 febbraio 1922 e si occupò della Cina, dell’equilibrio nei mari dell’Estremo Oriente e della limitazione degli armamenti navali.

Popolazione degli Stati Uniti. Sua composizione nazionale data dall’immigrazione. Politica governativa. Nel 1882 proibito l’accesso agli operai cinesi. Col Giappone furono dapprima usati certi riguardi, ma nel 1907 col così detto Gentlemen’s agreement Root‑Takahira l’immigrazione giapponese, senza essere respinta come tale, fu grandemente ostacolata mediante clausole circa la cultura, le condizioni igieniche e la fortuna degli immigranti. Ma il gran mutamento della politica d’immigrazione è avvenuto dopo la guerra: la legge 19 maggio 1921, rimasta in vigore fino al 1° luglio 1924, stabilì che la quota annua d’immigrazione di ogni singola nazione dovesse limitarsi al 3% dei cittadini americani della rispettiva nazione, secondo il censimento del 1910. (Successive modifiche). L’immigrazione gialla definitivamente esclusa.

Gli Stati Uniti nel Mar Caraibico. Guerra ispano‑americana. Col trattato di pace di Parigi (10 dicembre 1898) la Spagna rinunciò a ogni suo diritto su Cuba e cedette agli Stati Uniti Porto Rico e le altre sue isole minori. L’isola di Cuba, che domina l’entrata del golfo del Messico, doveva essere indipendente e si promulgò una costituzione il 12 febbraio 1901; ma gli Stati Uniti, per riconoscere l’indipendenza e ritirare le truppe, si fecero garantire il diritto d’intervento. Col trattato di reciprocità del 2 luglio 1903 gli Stati Uniti ottennero vantaggi commerciali e l’affitto come base navale della baia di Guantanamo.

Gli Stati Uniti intervennero nel 1914 ad Haiti: il 16 settembre 1915 un accordo dette il diritto agli Stati Uniti di avere a Port‑au‑Prince un loro alto commissario da cui dipende l’amministrazione delle dogane. La repubblica di San Domingo fu posta sotto il controllo finanziario americano nel 1907 e durante la guerra vi furono sbarcate truppe, ritirate nel 1924. Nel 1917 gli Stati Uniti comprarono dalla Danimarca l’arcipelago delle Vergini. Così gli Stati Uniti dominano il golfo di Messico e il Mare Caraibico.

Gli Stati Uniti e l’America Centrale. Canale di Panama e altri possibili canali. La repubblica di Panama si è impegnata col trattato di Washington del 15 dicembre 1926 a dividere le sorti degli Stati Uniti in caso di guerra. Il trattato non ancora ratificato perché incompatibile con lo Statuto della Società delle Nazioni di cui il Panama fa parte, ma la ratifica non necessaria. Quistione del Nicaragua.

La Cina. L’America nel 1899 proclamò la politica dell’integrità territoriale cinese e della porta aperta. Nel 1908, con lo scambio di Root‑Takahira, Stati Uniti e Giappone rinnovarono dichiarazioni solenni sull’integrità e l’indipendenza politica della Cina. Dopo l’accettazione da parte della Cina delle così dette «ventun domande» del Giappone (ultimatum 1915) gli Stati Uniti dichiarano ( del 13 maggio 1915 a Pekino e Tokio) che non riconoscevano gli accordi conclusi. Alla Conferenza di Washington gli Stati Uniti ottennero che le potenze europee e il Giappone rinunziassero a buona parte dei vantaggi speciali e dei privilegi che si erano assicurati. Il Giappone si impegnò a sgombrare il Kiau‑Ceu. Solo in Manciuria il Giappone mantenne la sua posizione. Fin dal 1908 gli Stati Uniti avevano rinunziato alle indennità loro spettanti dopo la rivolta dei boxers e avevano adibito le somme relative a scopi culturali in Cina. Nel 1917 la Cina sospese i pagamenti. Accordi: Giappone e Inghilterra hanno rinunziato come gli Stati Uniti; la Francia si è servita dei fondi per risarcire i danneggiati del fallimento della Banca industriale di Cina: Italia e Belgio hanno consentito a consacrare a scopi culturali circa i 4/5 delle somme ancora dovute.

Estremo Oriente. Possessi degli Stati Uniti: le Filippine e l’isola di Guam (Marianne); le Hawai; l’isola di Tutuila nel gruppo della Samoa. Prima del trattato di Washington la situazione nell’Estremo Oriente era dominata dall’alleanza anglo‑giapponese, conclusa col trattato difensivo di Londra del 30 gennaio 1902, basato sull’indipendenza della Cina e della Corea, con prevalenza di interessi inglesi in Cina e giapponesi in Corea; dopo la disfatta russa, fu sostituito dal trattato del 12 agosto 1905: l’integrità della Cina ribadita e l’eguaglianza economica e commerciale di tutti gli stranieri, i contraenti si garantivano reciprocamente i loro diritti territoriali e i loro interessi speciali nell’Asia Orientale e in India: supremazia giapponese in Corea e diritto dell’Inghilterra di difendere l’India nelle regioni cinesi vicine, cioè il Tibet. Questa alleanza vista di malocchio da Stati Uniti. Attriti durante la guerra. Nella seduta del 10 dicembre 1921 della Conferenza di Washington lord Balfour annunziò la fine dell’alleanza, sostituita col trattato 13 dicembre 1921 con cui la Francia, l’Inghilterra, gli Stati Uniti e il Giappone si impegnano per dieci anni: 1°, a rispettare i loro possedimenti e domìni insulari nel Pacifico e a deferire ad una Conferenza degli Stati stessi le controversie che potessero sorgere fra alcuni di loro circa il Pacifico e i possedimenti e domìni in quistione; 2°, a concertarsi nel caso di attitudine aggressiva di altra potenza. Il trattato si limita ai possedimenti insulari e per ciò che riguarda il Giappone si applica a Karafuto (Sakhalin meridionale) a Formosa e alle Pescadores, ma non alla Corea e a Porto Arthur. Una separata dichiarazione specifica che il trattato si applica anche alle isole sotto mandato nel Pacifico, ma che ciò non implica il consenso ai mandati da parte degli Stati Uniti. La reciproca garanzia dello statu quo ha speciale importanza per le Filippine, poiché impedisce al Giappone di fomentarvi il malcontento degli indigeni.

Nel trattato per la limitazione degli armamenti navali c’è una disposizione importantissima (art. 19) con cui Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Giappone, si impegnano fino al 31 dicembre 1936 di mantenere lo statu quo per ciò che riguarda le fortificazioni e le basi navali nei possedimenti e domìni situati ad oriente del meridiano 110 di Greenwich, che passa per l’isola di Hainan. Il Giappone è sacrificato, perché ha le mani legate anche per i piccoli arcipelaghi vicini alle grandi isole metropolitane. L’Inghilterra può fortificare Singapore e gli Stati Uniti le Hawai, dominando così entrambi gli accessi al Pacifico. Limitazione delle navi di linea. Ottenimento della parità navale tra Stati Uniti e Inghilterra.

Egemonia degli Stati Uniti. Il Tommasini prevede alleanza tra Stati Uniti e Inghilterra e che dall’Asia partirà la riscossa contro di essa per una coalizione che può comprendere la Cina, il Giappone e la Russia col concorso tecnico-industriale della Germania. Egli si basa ancora sulla prima fase del movimento nazionalista cinese.

Q2 §17 Guido Bustico, Gioachino Murat nelle memorie inedite del generale Rossetti, Nuova Antologia, fascicoli del 16 maggio e 1° giugno e 16 giugno 1927.

Il generale Giuseppe Rossetti, piemontese di nascita, francese di elezione, fu prima ufficiale superiore dell’esercito francese e poi dell’esercito napoletano di Murat. Scrisse quattro grossi volumi di ricordi, rimasti inediti, in francese, dal 20 dicembre 1796 al 6 novembre 1836, ricchi di notizie politiche riguardanti l’Italia e la Francia. Il Bustico ne assicura la serenità ed imparzialità e ne estrae notizie sulla «nuova politica» di Murat dopo la battaglia di Lipsia (avvicinamento all’Austria), sulla missione data a un certo G. Grassi nel marzo 1815 di recarsi nell’alta Italia e vedere quali appoggi avrebbe avuto un’iniziativa di Murat per l’indipendenza italiana, e sulla fuga di Murat da Napoli fino alla sua fucilazione.

Q2 §18 Una politica di pace europea, di Argus, «Nuova Antologia», 1° giugno 1927. Parla delle frequenti visite in Inghilterra di uomini politici e letterati tedeschi. Questi intellettuali tedeschi, interrogati, dichiarano che ogni qualvolta riescono a prendere contatto con influenti personalità anglosassoni viene loro posto questo problema: «Qual è l’atteggiamento della Germania di fronte alla Russia?» e soggiungono con disperazione (!): «Ma noi non possiamo prendere parte nelle controversie tra Londra e Mosca!» Al fondo della concezione britannica della politica estera sta la convinzione che il conflitto con la Russia non solo è inevitabile ma è già impegnato, benché sotto forme strane e insolite che lo rendono invisibile agli occhi della grande massa nazionale. Articolo ultra‑anglofilo (nello stesso periodo ricordo un articolo di Manfredi Gravina nel «Corriere della Sera» di una anglofilia così scandalosa da maravigliare: si predicava la subordinazione dichiarata dell’Italia all’Inghilterra): gli Inglesi vogliono la pace, ma hanno dimostrato di saper fare la guerra. Sono sentimentali e altruisti: pensano agli interessi europei; se Chamberlain non ha rotto con la Russia è perché ciò poteva nuocere a altri Stati in condizioni meno favorevoli dell’Inghilterra ecc.

Politica inglese di intesa con la Francia è la base, ma il governo inglese può favorire anche altri Stati: l’Inghilterra vuol essere amica di tutti. Quindi avvicinamento all’Italia e alla Polonia. In Inghilterra un certo numero di persone non favorevoli al regime italiano. Ma la politica inglese lealmente amica e sarà tale anche mutando regime, anche perché la politica italiana è coraggiosa, ecc. ecc.

Q2 §19 Articolo di Roger Labonne nel «Correspondant» del 10 gennaio 1927 su Italia e Asia Minore. L’Italia si interessa per la prima volta nel 1900 dell’Asia Minore invia una serie di missioni che studiano l’Anatolia meridionale, stabilisce ad Adalia un vice‑console, delle scuole, un ospedale, sovvenziona le linee di navigazione che portano la sua bandiera lungo il litorale. S’interessa soprattutto di Smirne, del cui porto fa il centro della sua influenza nel Levante. Gli articoli 8 e 9 del Patto di Londra dicono: «L’Italia riceverà l’intera sovranità del Dodecanneso. In caso di divisione totale o parziale della Turchia, essa otterrà la regione mediterranea che avvicina la provincia di Adalia e che ha già fatto (!) una convenzione coll’Inghilterra». A San Giovanni di Moriana l’Italia precisa nuovamente la sua richiesta (21 aprile 1917).

Venizelos, approfittando della partenza di Orlando e Sonnino da Parigi, spinse gli alleati ad assegnare Smirne alla Grecia. Il 1° gennaio 1926, nel discorso di Milano, Mussolini dice: «Bisogna aver fede nella Rivoluzione, che avrà nel 1926 il suo anno napoleonico». Nel 26 non si produsse nulla di veramente notevole, ma per due volte si fu alla vigilia di avvenimenti serii. Cessione di Mossul all’Irak (cioè agli inglesi). La Turchia cedette davanti all’imminenza di un intervento italiano, dopo di aver invano domandato il concorso militare di Mosca in caso di conflitto sul Meandro e sul Tigri. I giornali londinesi confessano ingenuamente che il successo di Mossul è dovuto alla pressione italiana, ma il governo inglese non si preoccupa troppo dell’Italia. Nel gioco anatolico l’Italia ha perduto nel 1926 le sue due carte migliori: con l’accordo di Mossul e con la caduta di Pangalos.

Q2 §20 Per i rapporti tra il Centro tedesco e il Vaticano e quindi per studiare concretamente la politica tradizionale del Vaticano nei vari paesi e le forme che essa assume è interessantissimo un articolo di André Lavedan nella «Revue Hebdomadaire» riassunto nella «Rivista d’Italia» del 15 marzo 1927. Leone XIII domandava al Centro di votare a favore della legge sul settennato di Bismarck, avendo avuto assicurazioni che ciò avrebbe portato a una soddisfacente modificazione delle leggi politico‑ecclesiastiche. Frankestein e Windthorst non vollero uniformarsi all’invito del Vaticano. Del Centro solo 7 votarono la legge: 83 si astennero.

Q2 §21 L’Etiopia d’oggi (articolo della «Rivista d’Italia» firmato tre stelle). L’Etiopia è il solo Stato indigeno indipendente in un’Africa ormai tutta europea (oltre la Liberia). Menelik è stato il fondatore della moderna unità etiopica: i nazionalisti abissini si richiamano a Menelik, il «grande e buono imperatore». Degli elementi che hanno contribuito ad assicurare l’indipendenza dell’Etiopia due sono evidenti: la struttura geografica del paese e la gelosia fra le potenze. La struttura geografica fa dell’Etiopia un immenso campo trincerato naturale, espugnabile solo con forze smisurate e sacrifizi non proporzionati alle scarse risorse economiche che il paese può offrire all’eventuale conquistatore. Lo Scioa, che ha creato l’unità abissina, è a sua volta una fortezza nel campo trincerato e tutto lo guarda e lo domina. Nell’ultimo trentennio è stato creato un esercito imperiale, distinto dai piccoli eserciti dei ras e ad essi superiore tecnicamente; la creazione dell’esercito nazionale è dovuta a Menelik.

Già prima della morte di Menelik (1913) la Corte, dato lo sfacelo intellettuale del vecchio imperatore, aveva proclamato (14 aprile 1910) imperatore Ligg Jasu, figlio di una figlia di Menelik, e di ras Mikael. Alla morte di Menelik (11 dicembre 1913) le lotte si scatenarono: Zeoditù, altra figlia di Menelik, e ras Tafari, figlio di ras Makonnen, si coalizzarono e riuscirono ad avere un imponente numero di partigiani. Tafari aveva con sé i giovani. Ras Mikael, tutore di Ligg Jasu minorenne, fu incapace di imporsi alle fazioni e di assicurare l’ordine pubblico come risultò in occasione dell’assalto del 17 maggio 1916 alla Legazione d’Italia. La guerra europea salvò l’Abissinia da un intervento straniero e dette la possibilità all’Abissinia di superare la crisi da sé. Zeoditù e Tafari si unirono per detronizzare Ligg Lasu e dividersi il potere, Zeoditù come imperatrice nominale, l’altro quale erede al trono e reggente (27 settembre 1916). Tafari, appoggiato dai capi militari, ha saputo con energia e scaltrezza ridurre all’obbedienza il paese. Ma il condominio con Zeoditù offrì spesso il destro a intrighi di palazzo non sempre innocui. (Alla fine del 26 o principio del 27) sparirono quasi contemporaneamente il ministro della guerra, fitaurari Hapte Gheorghes e il capo della Cheesa, abuna Mattheos.

La morte dell’abuna ha scatenato la quistione della chiesa nazionale. La chiesa etiopica riconosceva la suprema autorità del patriarca copto di Alessandria che nominava all’alto ufficio di abuna un egiziano (Mattheos era egiziano). Il nazionalismo etiopico vuole un abuna abissino. L’abuna ha in Abissima una grandissima importanza (più che l’arcivescovo‑primate delle Gallie in Francia) e il fatto che sia straniero presenta dei pericoli, nonostante che la sua autorità sia corretta e in un certo senso controllata dall’echegheh indigeno dal quale dipendono direttamente i numerosi ordini monastici.

La parte presa da Mattheos nel colpo di Stato del 27 settembre 1912 a favore di Tafari ha mostrato ciò che potrebbe avvenire. (Quando l’articolo veniva pubblicato il patriarca d’Alessandria resisteva ancora alla pretesa abissina: vedere il seguito della quistione). (L’Abissinia ha una capitale religiosa: Aksum). Tafari ha cercato di imprimere un ritmo nuovo alla politica estera abissina. Menelik aveva cercato di limitare la schiavitù e di introdurre l’istruzione obbligatoria, avviando lo Stato verso forme moderne, ma si teneva in un’attitudine di dissidente isolamento. Tafari invece ha cercato di partecipare alla vita europea e si è fatto ammettere nella Lega delle Nazioni, impegnandosi formalmente a estirpare nel più breve termine possibile la schiavitù. E infatti emanò un bando che imponeva la graduale liberazione degli schiavi, ma finora senza risultato. Gli schiavisti molto forti. (D’altronde l’Etiopia ancora feudale).

Convenzione di Londra del 13 dicembre 1906 fra Italia, Francia, Inghilterra, con cui i tre confinanti si impegnarono: a rispettare lo statu quo politico e territoriale dell’Etiopia; a mantenere, in caso di contese o mutamenti interni, la più stretta neutralità, astenendosi da ogni intervento negli affari interni del paese; qualora lo statu quo fosse turbato, a cercare di mantenere l’integrità dell’Etiopia, tutelando in ogni caso i rispettivi interessi: per l’Inghilterra il bacino del Nilo e la regolarizzazione delle acque di quel fiume e dei suoi affluenti; per l’Italia l’hinterland dei suoi possedimenti dell’Eritrea e della Somalia e l’unione territoriale tra essi ad ovest di Addis Abeba; per la Francia l’hinterland di Gibuti e la zona necessaria per la costruzione e il traffico della ferrovia Gibuti ‑ Addis Abeba. Le tre potenze si impegnavano di aiutarsi scambievolmente per la protezione dei loro rispettivi interessi.

L’accordo fu concepito in pieno «giro di valzer» dell’Italia con le potenze occidentali, e cioè in pieno sviluppo di quel vasto programma di intese mediterranee (l’accordo di Londra era stato conchiuso in massima il 6 luglio, tre mesi dopo Algesiras) che fu troncato un paio d’anni dopo sotto il ricatto (!) dello stato maggiore austriaco. Così alla politica di cooperazione succedette una lotta a colpi di spillo: la sola a guadagnarci fu la Francia che poté prolungare la ferrovia fino ad Addis Abeba (la diplomazia sostiene che l’accordo di Londra fu sottoposto preventivamente a Menelik e firmato solo quand’egli ebbe dato il nulla osta ai ministri delle tre potenze accreditati presso di lui, cosicché le stipulazioni dell’accordo sarebbero anche concessioni implicitamente (!) promesse dall’Abissinia qualcosa come la situazione del famoso trattato di Uccialli, ancora peggiorato).

Dopo la guerra europea, durante le trattative per i compensi coloniali fissati dal patto di Londra, l’Italia propose di ravvivare l’accordo del 1906, volendo risolvere il problema del congiungimento ferroviario tra l’Eritrea e la Somalia. Ma Londra e Parigi rifiutarono. La Francia non aveva nulla da chiedere all’Abissinia dopo la ferrovia Gibuti ‑ Addis Abeba; l’Inghilterra credeva di ottenere tutto senza unirsi all’Italia. Ma l’Inghilterra fece poi l’accordo del 1925 (due scambiate tra Mussolini e l’ambasciatore inglese a Roma il 14 e il 20 dicembre 1925). Per esso: l’Italia si impegna ad appoggiare l’Inghilterra nei suoi tentativi per ottenere dall’Etiopia la concessione di lavori di sbarramento al Lago Tana, nella zona che nel 1906 era riservata all’influenza italiana e la concessione di un’autostrada fra il Sudan e il Tana; l’Inghilterra ad appoggiare l’Italia per ottenere la costruzione e l’esercizio di una ferrovia tra l’Eritrea e la Somalia italiana ad ovest di Addis Abeba; l’Inghilterra riconosce all’Italia l’influenza esclusiva (!) nella zona occidentale dell’Etiopia e in tutto il territorio destinato ad essere attraversato dalla ferrovia, con l’impegno da parte dell’Italia di non compiere in quella zona, sulle sorgenti del Nilo Azzurro e del Nilo Bianco e dei loro affluenti, alcuna opera che possa sensibilmente modificare il loro afflusso nel fiume principale. La Francia sollevò gran rumore su questo accordo, presentato come una minaccia dell’indipendenza abissina. La campagna francese ebbe gravi ripercussioni sul nazionalismo etiopico. Ras Tafari ha creato due tipografie per la stampa in lingua amarica: sviluppo di letteratura nazionalista incoraggiato da Tafari: xenofobia. Il Giappone è il modello del nazionalismo abissino.

L’articolo della «Rivista d’Italia» riporta brani di articoli e opuscoli: uno studente che è stato educato in America scrive: «Impariamo fortemente, apprendiamo molto, perché non vengano gli stranieri a governarci! ... Dobbiamo studiare più che possiamo, perché, se non studiamo, la nostra patria è finita». La Francia desta meno sospetti ad Addis Abeba, perché dopo Fascioda, Gibuti ha per essa solo l’importanza di uno scalo sulla via dell’Indocina. Inoltre, la ferrovia Gibuti ‑ Addis Abeba, che serve tutto il traffico esterno dell’Etiopia, dà alla Francia un monopolio che essa vorrebbe conservare: la Francia può quindi fare una politica di apparente disinteressamento. Ma Ras Tafari vuol far progredire l’Etiopia e quindi è favorevole ad altre ferrovie, opere idrauliche ecc.

Esiste ancora tra l’Etiopia e l’Italia una piccola quistione a proposito dei confini tra Etiopia e Somalia. Quando dopo la convenzione di Addis Abeba del 16 maggio 1908 fu definita la frontiera, la missione Citerni eseguì il tracciato sul terreno per quel che riguardava il Benadir. Si lasciò da parte la frontiera del sultanato di Obbia che non presentava urgenza data la speciale situazione di quel protettorato. Ma oggi Obbia è occupata dalle armi italiane e bisognerà fissare il tracciato del confine con l’Etiopia.

Q2 §22 Stefano Jacini, Un conservatore rurale della nuova Italia. Due volumi di complessive 600 pagine con indice dei nomi. Bari, Laterza.

È la biografia di Stefano Jacini senior scritta da suo nipote. Lo Jacini ha utilizzato l’archivio domestico, ricco fra l’altro di un epistolario in molta parte inedito. Chiarisce e completa periodi ed episodi della storia 1850‑1890. Lo Jacini non fu personalità di prima linea, ma ebbe un carattere proprio. Ebbe una parte non trascurabile nell’opera di unificazione economica della nazione (unificazione ferroviaria, valico del Gottardo, inchiesta agraria). Sostenitore di un partito conservatore nazionale (clericale) (lo Jacini agricoltore e filatore di seta). Non prese parte al movimento del 48. («Aveva una cultura internazionale fatta in molti viaggi, ciò che gli diede una visione europea della rivoluzione del 48, visione che lo trattenne dal prendervi parte attiva quando scoppiò in Italia»: così su per giù scrive Filippo Meda). Insomma lo Jacini seguì l’atteggiamento della sua classe che era reazionaria ed austriacante.

Sotto il governo di Massimiliano, collaborò. Si occupò di quistioni tecniche ed economiche. Fautore di Cavour, cioè dell’indipendenza senza rivoluzione. Fu attaccato quando era ministro con Cavour, per il suo passato prima del 59 e difeso dal Cattaneo.

Nel gennaio 1870 uscì il suo libro Sulle condizioni della cosa pubblica in Italia dove appare la tesi di un’Italia reale diversa e dissenziente dall’Italia legale (formula poi usata dai clericali): contro il Parlamento che voleva ridotto alle grandi quistioni della difesa dello Stato, della politica estera, della finanza centrale; decentramento regionale; suffragio universale indiretto col voto agli analfabeti (cioè potere agli agrari).

Nel 1879 pubblica I conservatori e la evoluzione naturale dei partiti politici in Italia. lmmagina l’equilibrio politico così: estrema sinistra, repubblicani; estrema destra, clericali intransigenti (egli pensava a un prossimo abbandono dell’astensionismo); nel mezzo, due partiti di governo, uno decisamente conservatore nazionale, l’altro liberale‑monarchico progressivo.

Contro Crispi e la megalomania politica. (Emanuele Greppi, Gaetano Negri, Giuseppe Colombo accettavano il suo pensiero: moderati lombardi). Lo Jacini offre un esemplare compiuto di una classe, gli agrari settentrionali: la sua attività politica e letteraria è interessante perché da essa hanno tratto spunto e motivi movimenti posteriori (Partito Popolare, ecc.). (Contrario nel 71 al trasferimento della capitale a Roma).

Q2 §23 Eurasiatismo. Il movimento si svolge intorno al giornale Nakanune, che tende alla revisione dell’atteggiamento assunto dagli intellettuali emigrati: è cominciato nel 1921. La prima tesi dell’eurasiatismo è che la Russia è più asiatica che occidentale. La Russia deve mettersi alla testa dell’Asia nella lotta contro il predominio europeo. La seconda tesi è che il bolscevismo è stato un avvenimento decisivo per la storia della Russia: ha «attivato» il popolo russo ed ha giovato all’autorità e all’influenza mondiale della Russia con la nuova ideologia che ha diffuso. Gli Eurasiatici non sono bolscevichi ma sono nemici della democrazia e del parlamentarismo occidentale. Essi si atteggiano spesso a fascisti russi, come amici di uno Stato forte in cui la disciplina, l’autorità, la gerarchia abbiano a dominare sulla massa. Sono partigiani di una dittatura e salutano l’ordine statale vigente nella Russia dei Soviet per quanto essi vagheggino di sosostituire l’ideologia nazionale a quella proletaria. L’ortodossia è per loro l’espressione tipica del carattere popolare russo; essa è il cristianesimo dell’anima eurasiatica.

Q2 §24 Politica mondiale e politica europea. Non sono una stessa cosa. Un duello tra Berlino e Parigi o tra Parigi e Roma non fa del vincitore il padrone del mondo. L’Europa ha perduto la sua importanza e la politica mondiale dipende da Londra, Washington, Mosca, Tokyo più che dal continente.

Q2 §25 Il nazionalismo italiano. Primo congresso del Partito Nazionalista (Associazione Nazionalista) a Firenze nel dicembre 1910, con la presidenza di Scipio Sighele: Gualtiero Castellini, Federzoni, Corradini, Paolo Arcari, Bevione, Bodrero, Gray, Rocco, Del Vecchio. Gruppo ancora indistinto, che cercava di cristallizzare intorno ai problemi della politica estera e dell’emigrazione le correnti meno pacchiane del tradizionale patriottismo (è un’osservazione poco fatta che in Italia, accanto al cosmopolitismo e apatriottismo più superficiale è sempre esistito uno sciovinismo frenetico, che si collegava alle glorie romane e delle repubbliche marinaresche e alle fioriture individuali di artisti, letterati, scienziati di fama mondiale. Lo sciovinismo italiano è caratteristico ed ha dei tipi assolutamente suoi: esso era accompagnato da una xenofobia popolaresca anch’essa caratteristica). Il primo nazionalismo comprendeva molti democratici e liberali e anche massoni. Poi il movimento si andò distinguendo e precisando per opera di un piccolo gruppo di intellettuali che saccheggiarono le ideologie e i modi di ragionare secchi, imperiosi, pieni di mutria e di suffisance di Carlo Maurras: Coppola, Forges Davanzati, Federzoni. (Importazione sindacalista nel nazionalismo). In realtà i nazionalisti erano antirredentisti: la loro posizione fondamentale era antifrancese. Subirono l’irredentismo perché non volevano fosse un monopolio dei repubblicani e dei radicali massoni, cioè un’arma dell’influenza francese in Italia.

Teoricamente la politica estera dei nazionalisti non aveva fini precisi: si poneva come una astratta rivendicazione imperiale contro tutti; in realtà voleva sopprimere la francofilia democratica e rendere popolare la alleanza tedesca.

Q2 §26 I giornali tedeschi. Tre grandi concentrazioni giornalistiche: Ullstein, Mosse, Scherl, le due prime democratiche, la terza di destra (stampa di Hugenberg).

La casa Ullstein stampa: la «Vossische Zeitung», per il pubblico colto, di scarsa tiratura (40 000 copie?) ma di importanza europea, diretta da Giorgio Bernhard (passa per essere troppo francofila); la «Morgenpost», il più diffuso giornale di Berlino e forse della Germania (forse 500 000 copie), per la piccola borghesia e gli operai; la «Berliner Allgemeine Zeitung», che si occupa di quistioni cittadine; la «Berliner Illustrierte» (come «La Domenica del Corriere»), diffusissima: la «Berliner Zeitung am Mittag», sensazionale e che trova ogni giorno 100 000 lettori; l’«Uhu», il «Querschnitt» (la traversale) e «Die Koralle», tipo «Lettura»; e altre pubblicazioni di mode, di commercio, di tecnica, ecc. La UlIstein è legata col «Telegraaf» di Amsterdam, l’«Az Est» di Budapest, la «Neue Freie Presse» (a UlIstein si appoggia per le informazioni da Berlino il «Corriere della Sera»).

La casa editrice Rudolph Mosse pubblica il grande quotidiano democratico «Berliner Tageblatt» (300 000 copie), diretto da Teodoro Wolf con 17 supplementi (Beilagen) e con edizioni speciali per l’estero in tedesco, in francese, in inglese, di importanza europea, costoso e difficile per la piccola gente; «Berliner Morgenzeitung», «Berliner Volkszeitung», in istile popolare, ma delle stesse direttive politiche. Alla casa Mosse si appoggia la «Stampa» di Torino.

Casa editrice Scherl: «Lokal Anzeiger», lettura prediletti, dei bottegai e della piccola borghesia fedele alla vecchia Germania imperiale; il «Tag», per un pubblico più scelto; la «Woche», la «Gartenlaube» (il pergolato).

Giornali da destra a sinistra: «Deutsche Zeitung», ultra nazionalista, ma poco diffusa; «Volkischer Beobachter» di Hitler, poco diffuso (20 000). Poco diffusa è anche la «Neue Preussische Zeitung» (10 000) che continua ad esser chiamata «Kreuzzeitung»: è l’organo classico degli Junker (latifondisti prussiani), ex‑ufficiali nobili, monarchici, e assolutisti, rimasti ricchi e solidi perché poggianti sulla proprietà terriera; ma invece tira 100 000 copie la «Deutsche Tageszeitung» organo del Bund der Landwirte (federazione degli agrari) che va in mano dei minori proprietari e dei fattori e contribuisce a mantenere fedele all’antico regime l’opinione pubblica delle campagne.

Tedesco nazionali: il «Tag» (100 000); «Lokal Anzeiger» (180 000); «Schlesische Zeitung»; «Berliner Börsen Zeitung» (giornale finanziario di destra); «Tägliche Rundschau» (30 000) ma importante perché era ufficioso di Streseman; «Deutsche Allgemeine Zeitung» organo dell’industria pesante, anch’esso tedesco‑popolare. Altri giornali tedesco‑popolari, cioè di destra moderata con adesione condizionata all’attuale regime e diffusi tra gli industriali sono: la «Magdeburgische Zeitung», la «Kölnische Zeitung» (52 000), di fama europea per la sua autorità in politica estera, l’«Hannoverschej Kurier», le «Münchner Neueste Nachrichten» (135 000) e le «Leipziger Neueste Nachrichten» (170 000).

Giornali del centro: la «Germania» (10 000), ma diffusissimi sono i giornali cattolici di provincia come la «Kölnische Volkszeitung».

I giornali democratici sono i meglio fatti: «Vossische Zeitung», «Berliner Tageblatt», «Berliner Börsen Courier», «Frankfurter Zeitung». I socialdemocratici hanno un giornale umoristico: «Lachen links» (risa a sinistra).

Q2 §27 Il «Correspondant» del 25 luglio 1927 (vedi «Rivista d’Italia» del 15 luglio 1927: forse c’è errore nelle date, a meno che la «Rivista d’Italia» non sia uscita molto più tardi della sua datazione) in un articolo, La pression italienne, ha scritto: «Il Duce, lo teniamo da fonte eccellente, avrebbe già voluto due volte la guerra dopo il suo avvento al potere: due volte il maresciallo Badoglio avrebbe rifiutato di prenderne la responsabilità ed avrebbe domandato ed ottenuto di attendere fino al 1935 per essere sicuro». Il discorso sull’anno cruciale è del giugno 1927: il «Correspondant» cercherebbe quindi di dare una spiegazione di questa determinazione avvenire. Il «Correspondant» è rivista molto autorevole conservatrice‑cattolica.

Q2 §28 Articolo di Frank Simonds, Vecchi torbidi nei nuovi Balcani, nella «American Review of Reviews». Il Simonds fa un parallelo tra Mussolini e Stresemann, come uomini politici più attivi di Europa. L’uno e l’altro sacrificano allo spirito di opportunismo (forse vuol dire «del momento», ma anche forse si riferisce alla mancanza di prospettive larghe e lontane e quindi di principii). I trattati di Mussolini come quelli di Stresemann non rappresentano una politica permanente. Sono cose fatte al momento per le condizioni contemporanee. E poiché possono intervenire dei fatti atti a precipitare il conflitto, l’uno e l’altro sono egualmente ansiosi di evitare le ostilità acquistando pei rispettivi paesi e per se stessi il necessario prestigio con vittorie diplomatiche incidentali.

Q2 §29 Quintino Sella. (Articolo di Cesare Spellanzon nella «Rivista d’Italia» del 15 luglio 1927).

Quintino Sella è uno dei pochi borghesi, tecnicamente industriali, che partecipano in prima fila alla formazione dello Stato moderno in Italia. Egli si differenzia in modo volissimo dal rimanente personale politico del suo tempo e della sua generazione, per la cultura specializzata (è un grande ingegnere e anche un uomo di scienza); conosce l’inglese e il tedesco oltre che il francese; ha viaggiato molto all’estero e si è tuffato nella vita di altri paesi per conoscerne le abitudini di lavoro e di vita (non ha cioè viaggiato come turista, visitando alberghi e salotti); ha una vasta cultura umanistica oltre che tecnica; è uomo di forti convinzioni morali, anzi di un certo puritanismo, e cerca di mantenersi indipendente dalla corte, che esercitava una funzione degradante sugli uomini al governo (molti uomini di Stato facevano i ruffiani come il D’Azeglio) fino a porsi apertamente contro il re per la sua vita privata e a domandargli decurtazioni di lista civile (si sa quanto la quistione della lista civile e delle oblazioni occasionali avesse importanza nella scelta degli uomini di governo) e a staccarsi dalla così detta destra che era più una cricca di burocrati, generali, proprietari terrieri che un partito politico (vedere meglio questo problema) per avvicinarsi ad altre correnti più progressive (il Sella partecipò al trasformismo che significava tentativo di creare un forte partito borghese all’infuori delle tradizioni personalistiche e settarie delle formazioni del Risorgimento).

Quintino Sella tassatore spietato: il macinato; perché fu scelta questa tassa? Per la facilità di riscossione o perché tra l’odio popolare e il sabotaggio delle classi proprietarie si aveva più paura di questo?

Poca partecipazione al 48 (egli aveva visto a Parigi la caduta della monarchia di luglio). A Milano si trovò in un’assemblea dove si voleva votare un biasimo a Brescia che piemontesizzava: Sella sostenne Brescia e fu fischiato. Apparteneva alla Destra ma fu ministro la prima volta con Rattazzi, capo del centro sinistro (1862), fu avversario del primo ministero Minghetti (63‑64) e col Lanza combatté il ministero Menabrea (68‑69). Deciso per la conquista di Roma. Il Lamarmora nel 1871 scrisse che il Sella «corre sempre, ora in alto ora in basso, un po’ a destra, un po’ a sinistra; non si sa mai da che parte egli sia e sovente non lo sa nemmeno lui».

Nel 1865 si reca alla Reggia a chiedere al re il sacrificio di 3 milioni annui della lista civile per far fronte alle immediate difficoltà di tesoreria. Come industriale, andato al governo, cessa i rapporti di fornitura allo Stato. Nel Parlamento «osa rivolgersi con chiara allusione al re, del quale deplora certe sregolatezze della vita intima, per ammonirlo che il popolo non fa credito ai suoi governanti se essi non danno esempio costante di moralità». Si oppone all’approvazione del disegno di legge per la Regìa dei tabacchi, presentato da un ministero di Destra perché c’era odor di corruzione e di loschi maneggi in quel grosso affare che il ministero Menabrea si accingeva a convalidare. Sella si oppone risolutamente all’alleanza con la Francia nel 70. Il re intrigava per sostituire Lanza con Cialdini; Sella nel Senato rispose con asprezza all’attacco sferrato da Cialdini. (Nato nel 1827, morto nell’84).

Q2 §30 Italia e Yemen nella nuova politica arabica. Articolo di «tre stelle» nella «Rivista d’Italia» del 15 luglio 1927. Trattato di Sana del 2 settembre 1926 tra Italia e Yemen. Lo Yemen è la parte più fertile dell’Arabia (Arabia felice). È stato sempre autonomo di fatto, sotto una dinastia di imam che discende da el‑Usein, secondo figlio dei califfo Alì e di Fatimah, figlia di Maometto. Solo nel 1872 i turchi stabilirono il loro dominio nello Yemen. Nel 1903 insurrezione, che nel 1904 trovò nel nuovo imam Yahyà ibn‑Mohammed Hamid, di 28 anni, il suo capo.

Vinto nel 1905, Yahyà riprese la lotta nel 1911 aiutato dall’Italia che era in guerra con la Turchia e consolidò la sua indipendenza. Nella guerra europea Yahyà parteggiò per la Turchia per opporsi alla politica inglese imperniata sull’ingrandimento dello sceriffo Husein (proclamatosi re dell’Arabia il 6 novembre 1916) e sull’indipendenza dell’Asir. Dopo la pace, tramontato il programma unitario di Husein che abdicò nel 24 e nel 25 fu relegato a Cipro, rimase la quistione dell’Asir. L’Asir è un emirato creato durante la guerra italo- turca. Nell’Asir si era stabilito il famoso santone marocchino Ahmed ibn‑Idris el‑Hasani el‑Idrisi, il cui discendente Mohammed Alì, noto come lo sceicco Idris durante la guerra libica, appoggiato dall’Italia, sollevò le tribù dell’Asir. Riconosciuto emiro indipendente dagli Inglesi nel 1914, Mohammed collaborò con Husein ed ebbe dagli Inglesi la Tihamah con Hodeidah; fece la concessione a una compagnia inglese di giacimenti petroliferi delle isole Farsan. Stretto tra Husein a Nord e Yahyà a Sud, l’emiro si legò nel 1920 al sultano del Negged (Ibn Saud) cedendogli, per averne la protezione, Abha, Muhail e Beni Shahr, cioè la parte estrema dell’Asir settentrionale e assicurandogli uno sbocco sul mar Rosso. I Wahhabiti occuparono quelle terre e se ne servirono per combattere meglio l’Heggias (Husein). Nel 1926 (8 gennaio) i Wahhabiti vittoriosi proclamarono Ibn Saud re dell’Heggias. I Wahhabiti si mostravano i più capaci di unificare l’Arabia; Yahyà con un proclama del 18 giugno 1923 aveva posto la sua candidatura a califfo e a campione della nazione araba. Riuscì con imprese fortunate ad assicurarsi l’effettivo controllo dei numerosi sultanati e tribù del così detto Hadramaut e a restringere volmente l’hinterland di Aden, senza nascondere le sue mire su Aden stessa. Si gettò poi contro l’emiro dell’Asir (che per lui era un usurpatore) e conquistò tutta la parte meridionale sino a Loheyyah e compresa Hodeidah, venendo a contatto coi Wahhabiti che avevano allargato, a richiesta dell’emiro, la loro occupazione dell’Asir. L’emiro dell’Asir si lasciò spingere dall’ex‑senusso ad atti di ostilità verso l’Italia (l’ex‑senusso era ospite alla Mecca di Ibn Saud dopo la sua espulsione da Damasco – dicembre 1924).

Col trattato italo‑yemenita, a Yahyà è riconosciuto il titolo regio e la piena e assoluta indipendenza. Lo Yemen importerà le sue forniture dall’Italia, ecc. (Ibn Saud fece un trattato con l’Inghilterra il 26 dicembre 1915 ed ebbe il possesso non solo del Negged, ma anche di el‑Hasa, el‑Qatif e Giubeil, in cambio del suo disinteressamento per Koweit, el‑Bahrein e Oman che, come è noto, sono sotto il protettorato inglese. In una discussione ai Comuni del 28 novembre 1922 risultò ufficialmente che Ibn Saud percepiva dal governo inglese regolare stipendio. Coi trattati del 1° e 2 novembre 1925, dopo la conquista dello Heggias, Ibn Saud accettò confini molto infelici con l’Irak e la Transgiordania che Husein non aveva voluto accettare, ciò che dimostrò la sua stretta intesa con l’Inghilterra). Il trattato italo‑yemenita fece rumore: si parlò di una alleanza politica e militare segreta; in ogni modo i Wahhabiti non attaccarono lo Yemen (si parlò di attriti italo‑inglesi ecc.). Rivalità tra Ibn Saud e Yahyà: ambedue aspirano a promuovere e dominare l’unità araba.

Wahhabiti: setta musulmana fondata da Abd‑el‑Wahhab che cercò di allargarsi con le armi; ebbe molte vittorie ma fu ricacciata nel deserto dal famoso Mehemet Alì e da suo figlio Ibrahim pascià. Il sultano Abdallah, catturato, fu giustiziato a Costantinopoli (dicembre 1818) e suo figlio Turki a stento riuscì a mantenere uno staterello nel Negged. I Wahhabiti vogliono tornare alla pura lettera del Corano, sfrondando tutte le superstrutture tradizionali (culto dei santi, ricche decorazioni delle moschee, pompe religiose). Appena conquistata la Mecca hanno abbattuto cupole e minareti, distrutto i mausolei di santoni celebri, fra cui quello di Khadigia, la prima moglie di Maometto, ecc. Ibn Saud emanò ordinanze contro il vino e il fumo, per la soppressione del bacio della «pietra nera» e dell’invocazione a Maometto nella formula della professione di fede e nelle preghiere.

Le iniziative puritane dei Wahhabiti sollevarono proteste nel mondo musulmano; i governi di Persia e dell’Egitto fecero rimostranze. Ibn Saud si moderò. Yahyà cerca di speculare su questa reazione religiosa. Yahyà e la maggioranza degli yemeniti seguono il rito zeidita, cioè sono eretici per la maggioranza sunnita degli arabi. La religione è contro di lui, egli cerca di premere perciò sulla nazionalità e sul fatto della sua discendenza dal profeta che gli fa rivendicare la dignità di califfo. (Nel tallero da lui coniato c’è la scritta: «coniato nella sede del califfato a Sana»). La sua regione, essendo delle più fertili dell’Arabia, e la sua posizione geografica gli danno una certa possibilità economica.

Pare che lo Yemen abbia 170 000 Km2 di superficie, con una popolazione tra 1 e 2 milioni. Sull’altipiano la popolazione è araba pura, bianca, sulla costa è prevalentemente negra. C’è un certo apparato amministrativo, scuole embrionali, esercito con leva obbligatoria. Yahyà è intraprendente e di tendenze moderne sebbene geloso della sua indipendenza. Per l’Italia lo Yemen è la pedina per il mondo arabico.

Q2 §31 Niccolò Machiavelli. La «Rivista d’Italia» del 15 giugno 1927 è interamente dedicata al Machiavelli per il IV centenario della sua morte. Eccone l’indice: 1) Charles Benoist, Le Machiavélisme perpétuel; 2) Filippo Meda, Il machiavellismo; 3) Guido Mazzoni, Il Machiavellidrammaturgo; 4) Michele Scherillo, Le prime esperienze politiche del Macbiavelli; 5) Vittorio Cian, Machiavellie Petrarca; 6) Alfredo Galletti, Niccolò Machiavelliumanista; 7) Francesco Ercole, Il Principe; 8) Antonio Panella, Machiavellistorico; 9) Plinio Carli, Niccolò Machiavelliscrittore; 10) Romolo Caggese, Ciò che è vivo nel pensiero politico di Machiavelli.

L’articolo del Mazzoni è mediocre e prolisso: erudito‑retorico‑divagativo. Mi pare addirittura che, come capita spesso a questo tipo di scrittori, il Mazzoni non abbia ben capito la lettera della commedia e falsifichi il carattere di messer Nicia che non si attendeva un figlio dall’accoppiamento di sua moglie con Callimaco travestito, ma si attendeva solo di avere una moglie resa feconda dalla Mandragola e liberata per l’accoppiamento dalle conseguenze micidiali della pozione. Il genere di scimunitaggine di Messer Nicia è ben circoscritto e rappresentato: egli crede che il non aver figli non dipenda da lui, vecchio, ma dalla moglie giovane ma fredda, e a questa presunta infecondità della moglie vuol mettere riparo non facendola ingravidare da un altro, ma facendosela trasformare da infeconda in feconda. Che si lasci convincere a far accoppiare la moglie con uno che deve morire per liberarla da un presunto male che altrimenti sarebbe causa di allontanamento per lui dalla moglie o di morte per lui, è un elemento comico che si trova in altra forma in novellette popolari dove si vuol dipingere la protervia delle donne che, per dare la sicurezza agli amanti, si fanno possedere addirittura in presenza del marito (questo motivo, in altre forme, c’è anche nel Boccaccio). Nel caso del Machiavelli è la stoltezza del marito che è messa in ridicolo e rappresentata e non la protervia della donna.

L’articolo di Vittorio Cian è anche peggiore di quello del Mazzoni: la rettorica stopposa del Cian prende tutto il campo. Il Machiavelli non deve evidentemente nulla al Petrarca, il cui pensiero politico è embrionale e i cui accenni all’Italia sono puramente letterari. Ma il Cian che vede precursori da per tutto e divinazioni miracolose in ogni frasetta banale distende dieci pagine sull’argomento per non dire che i soliti luoghi comuni dei libri per le scuole medie ed elementari.

Q2 §32 Augur. Collaboratore della Nuova Antologia per quistioni di politica mondiale, specialmente sulla funzione dell’Impero Inglese e sui rapporti tra Inghilterra e Russia. Augur deve essere un fuoruscito russo. La sua collaborazione alla «Nuova Antologia» deve essere indiretta: articoli pubblicati in riviste inglesi e tradotti nella «Nuova Antologia». La sua attività di giornalista ha per scopo di predicare l’isolamento morale della Russia (rottura delle relazioni diplomatiche) e creazione di un fronte unico antirusso come preparazione di una guerra. Legato all’ala destra dei conservatori inglesi nella politica russa, se ne stacca nella politica americana: egli predica stretta unione anglo-americana e insiste perché l’Inghilterra ceda all’America o almeno disarmi le isole che possiede ancora nel mare Caraibico (Bahamas, ecc.). I suoi articoli sono pieni di grande sicumera (derivata forse dalla presunta grande autorità della fonte ispiratrice); egli cerca di trasfondere la certezza che una guerra di sterminio sia inevitabile tra l’Inghilterra e la Russia, guerra in cui la Russia non può che soccombere. I rapporti ufficiali tra i due paesi sono come le ondate superficiali dell’oceano, che vanno e vengono capricciosamente: ma nel profondo c’è la corrente storica potente che porta alla guerra.

Q2 §33 Documenti diplomatici. Un articolo di A. De Bosdari nella «Nuova Antologia» del 1° luglio 1927: I documenti ufficiali britannici sull’origine della guerra (1898-1914).

Il De Bosdari pone la quistione se i documenti tanto tedeschi che inglesi siano effettivamente riprodotti nella loro integrità e senza omissione di nulla che abbia vera importanza per lo svolgimento storico dei fatti. «Per ciò che riguarda le pubblicazioni tedesche, posso, come mio ricordo personale, asserire che essendomi un giorno doluto al Ministero tedesco degli Affari Esteri che fra i documenti pubblicati ne fossero stati inseriti alcuni scioccamente ingiuriosi per l’Italia, specialmente i rapporti dell’Ambasciatore Monts, mi fu risposto che ciò era una circostanza assai dolorosa, ma che quei documenti non si sarebbero potuti sopprimere senza togliere alla pubblicazione il carattere di imparziale documentazione storica». Dopo questo suo ricordo personale, il De Bosdari era pronto a giurare sull’integrità della documentazione tedesca.

Per i documenti inglesi, dopo aver ricordato la buona fede del Governo inglese, di cui non si ha motivo di dubitare, dice che costituiscono una prova abbastanza sicura di autenticità e di completezza, le numerose integrazioni che vi avvengono di documenti che, per motivi politici abbastanza plausibili, erano stati mutilati nei libri blù (ma i libri inglesi sono bianchi, mi pare!) antecedentemente pubblicati. (Veramente altri «motivi politici abbastanza plausibili» possono aver indotto a non pubblicare altri documenti e a non integrarne qualcuno: per es. i documenti dovuti a spionaggio saranno mai pubblicati?)

Il De Bosdari ha una buona osservazione: nota la scarsezza, tanto nei documenti inglesi che in quelli tedeschi, di quei documenti che riguardano le deliberazioni del Governo, le discussioni e le decisioni dei Consigli dei ministri (che non sono «diplomatici» in senso tecnico, ma che sono evidentemente i decisivi). Nota invece la grande abbondanza di telegrammi e rapporti di funzionari diplomatici e consolari, la cui importanza è relativa, perché questi funzionari, nei momenti di crisi, telegrafano a getto continuo (per non essere accusati di negligenza e di distrazione) senza avere il tempo di controllare le proprie notizie e le proprie impressioni. (Questa osservazione nasce da esperienza personale del De Bosdari e può essere una prova di come lavorano i funzionari diplomatici italiani: forse per gli inglesi le cose vanno diversamente).

Q2 §34 Per una politica annonaria razionale e nazionale di Guido Borghesani, nella Nuova Antologia del 1° luglio 1927, è un mediocre articolo, con dati poco sicuri e elaborati primitivamente. Sostiene la tesi generale che in Italia si consuma troppo grano e che perciò oltre alla lotta per avere un miglior raccolto granario dove è tecnicamente più produttiva la semina di questo cereale, si dovrebbe tendere a sostituire il grano con altri cibi. La quistione è però questa, che per es. la Francia, le cui abitudini sono nel mangiare molto simili a quelle dell’Italia, non solo consuma per abitante tanto grano quanto l’Italia, ma consuma molto più di altri cibi fondamentali (zucchero: Francia, kg. 24,5; Italia, kg. 8), (formaggio e burro calcolati in latte: Francia, hl. 3; Italia, hl. 0,8). Il problema del grano in Italia è di miseria, non di soverchio consumo, anche se la tesi generale è giusta, nel senso del grande squilibrio: in Italia il maggior consumo di grano in confronto del granoturco, ecc., è l’unico indice di un certo miglioramento dietetico.

Q2 §35 Francesco Orestano, La Chiesa Cattolica nello Stato Italiano e nel mondo, Nuova Antologia, 16 luglio 1927. Articolo importante nel periodo delle trattative per il Concordato. (Confrontare con polemiche tra «Popolo d’Italia», Gentile, «Osservatore Romano», riprodotte in opuscolo dalla «Civiltà Cattolica»). (La legge delle guarantigie, in quanto avente valore statutario, aveva abrogato l’articolo 1° dello Statuto?).

L’articolo dell’Orestano pare scritto da un gesuita. È favorevole alla concessione di un territorio al Papa e nei limiti del plebiscito del 2 ottobre 1870 (cioè tutta la città Leonina, che mi pare fu appunto esclusa dal plebiscito ufficiale). (L’Orestano scrisse nel 1924 uno studio, Lo Stato e la Chiesa in Italia, Roma, Casa Editrice Optima, e nel 1915 una Quistione Romana ristampata in Verso la nuova Europa, Casa Editrice Optima, 1917).

Q2 §36 Machiavelli. Pasquale Villari, Niccolò Machiavellie i suoi tempi, a cura di Michele Scherillo, Ed. Hoepli, Milano, 1927, voll. 2, L. 60.

È la ristampa della celebre opera del Villari, con in meno i documenti, che nell’edizione Le Monnier occupavano l’intero terzo volume e parte del secondo. Nell’edizione Scherillo questi documenti sono stati elencati, con cenni sommari sul loro contenuto, in modo che facilmente si può andarli a ricercare nell’edizione Le Monnier).

Q2 §37 L’Unione internazionale dei Soccorsi. Iniziativa di origine italiana. Creata nel 1927 in una Conferenza internazionale alla quale furono invitati anche gli Stati che non fanno parte della Società delle Nazioni (Stati Uniti, U.R.S.S., ecc.). L’Unione coordina l’attività delle organizzazioni di soccorso esistenti, aggiungendovi la partecipazione dei governi. Le calamità considerate sono i disastri e i rivolgimenti dovuti a casi di forza maggiore quando colpiscono popolazioni intere, quando superano i calcoli di un’amministrazione anche previdente, quando hanno un carattere eccezionale. L’aiuto non comporta riparazioni né ricostruzione. Stretta neutralità nazionale, politica, religiosa, ecc.

Q2 §38 Gioviano Pontano. Sua attività politica come affine a quella del Machiavelli. (Cfr M. Scherillo, Origini e svolgimento della letteratura italiana, II, dove sono riportati due memoriali del Pontano sulla situazione italiana nel periodo della calata di Carlo VIII; e Gothein, Il Rinascimento nell’Italia Meridionale, tradotto nella Biblioteca storica del Rinascimento, Firenze, 1915). Il Pontano era membro napoletanizzato. (La religione come strumento di governo. Contro il potere temporale del Papa: doversi «li Stati temporali» governare da «re e principi secolari»).

Q2 §39 La Geopolitica. Già prima della guerra Rodolfo Kjellén, sociologo svedese, cercò di costruire su nuove basi una scienza dello Stato o Politica, partendo dallo studio del territorio organizzato politicamente (sviluppo delle scienze geografiche: geografia fisica, geografia antropica, geopolitica) e della massa di uomini viventi in società in quel territorio (geopolitica e demopolitica). I suoi libri, specialmente i due: Lo Stato come forma di vita e Le grandi Potenze attuali (Die Grossmächte der Gegenwart, del 1912, rielaborato dall’autore, divenne Die Grossmächte und die Weltkrise, pubblicato nel 1921; il Kjellén è morto nel 1922) ebbero grande diffusione in Germania dando luogo a una corrente di studi. Esiste una «Zeitschrift für Geopolitik»; e appaiono opere voluminose di geografia politica (una di esse, Weltpolitisches Handbuch, vuol essere un manuale per gli uomini di Stato) e di geografia economica. In Inghilterra e in America e in Francia.

Q2 §40 Il problema scandinavo e baltico, articolo di A. M. (?) nella Nuova Antologia del 1° agosto 1927. Articolo un po’ balzellante e pieno di fumosità pretenziose ma interessante nel complesso anche perché l’argomento è di solito poco trattato. Unità culturale dei popoli scandinavi molto più intima di quella dei popoli di cultura latina. Esiste un movimento per una Lega interscandinava, che dà luogo a riunioni periodiche e solenni, ma la Lega non può divenire realtà concreta di organismo politico: rimangono i vincoli culturali e di razza da cui il movimento nasce e che da esso sono mantenuti e rinforzati. Le ragioni della impossibilità della Lega sono più sostanziali che non quella del pericolo di una egemonia svedese. La Svezia e la Finlandia hanno interessi diversi della Danimarca e Norvegia. Eliminate le flotte tedesca e russa il Baltico è in certo qual modo neutralizzato, ma tale neutralità è controllata dall’Inghilterra. La Lega creerebbe un’altra situazione di cui l’Inghilterra potrebbe non essere soddisfatta, almeno che la Lega stessa fosse una sua creatura. Così si dica per la Germania (e anche per la Russia, anzi più di tutto per la Russia) restituita a grande potenza.

Danimarca nell’anteguerra gravitava nell’orbita inglese. Oggi ancor più. Ha rinunziato a ogni apparato militare (bisogna vedere se ciò non sia avvenuto per suggerimento inglese, che così può entrare nel Baltico senza violare nessun «piccolo Belgio»). In ogni modo la neutralità disarmata della Danimarca pone il Baltico sotto il controllo inglese, quindi diminuisce la posizione della Germania, che tende a esercitare una influenza nel Nord. La Danimarca, col suo disarmo, ha rinunziato alla sua posizione e funzione internazionale. Paese piccolo borghese.

La Svezia è apatica e quietista, senza volontà di potenza.

La Norvegia sotto influsso inglese, in istato di quasi disarmo, ma in ascesa. Piena di vigore la Finlandia, dotata di un forte sistema statale e di governo. La Svezia paese di grande industria e di alta borghesia con rigida differenziazione di classi (tradizione aristocratica‑militare e conservatrice); riduzione di spese militari e navali; sotto influenza tedesca; il suo prestigio decaduto; avrebbe potuto forse annettersi la Finlandia: invece vide assegnare alla Finlandia le isole Aland, la Gibilterra baltica.

La Finlandia ha assorbito dalla Svezia la cultura occidentale. I suoi interessi permanenti e profondi legati alla Germania. Atteggiamento riservato verso la Polonia. La Polonia vorrebbe costituirsi grande protettrice degli Stati baltici e raggrupparli intorno a sé di fronte alla Russia e alla Germania. (Ma Lituania avversa, Finlandia molto riservata e altri Stati baltici diffidenti e sospettosi). La Russia ha finora sventato queste manovre polacche.

Inghilterra, potenza navale contro blocco tedesco‑russo (l’autore prevede una ripresa della potenza tedesca che organizza la Russia sotto il suo controllo e le si unisce territorialmente): in cui la tradizionale supremazia del mare (inglese) sul continente verrebbe a perdere la sua efficienza data la grandezza territoriale del blocco tedesco‑russo. L’Inghilterra in posizione di difesa, perché satura di territori dominati e la sua flotta diminuita come fattore egemonico. Il blocco russo‑tedesco rappresenterebbe la rivolta anti‑inglese. Verrebbe a formarsi una continuità ininterrotta dal Mar Glaciale al Mediterraneo e dal Reno al Pacifico: la Turchia sarebbe il secondo fattore in sottordine; l’adesione della Bulgaria e dell’Ungheria non sarebbe improbabile in caso di conflitto. (Lituania già congiunge Russia e Germania).

La minaccia dell’Inghilterra di forzare gli stretti danesi (a parte la funzione germanica del canale di Kiel) neutralizzata dai possibili campi di mine che la Germania può disporre ai confini meridionali della Danimarca e della Svezia. La influenza francese nel Nord è irrilevante. La Svezia e la Finlandia rifuggono dall’inimicarsi l’Inghilterra, ma tendono sempre più verso la Germania.

Risorgere del germanesimo. La Germania «potenzialmente» è ancora la più forte nazione continentale. L’unità nazionale è rafforzata; la compagine statale è intatta. Essa oggi si destreggia fra Occidente e Oriente in attesa di riprendere la sua libertà politica di fronte all’Inghilterra che tenta invano di separarla dalla Russia, per avere ragione di entrambe.

La Russia: i concetti dell’autore sulla Russia sono molto superficiali e fumosi. «L’amorfismo russo è incapace di organizzare lo Stato e neppure di concepirlo. Tutti i fondatori di Stato russo furono stranieri o d’origine straniera (Rurik, i Romanoff). La potenza organizzatrice non può essere che la Germania, per ragioni storiche e geografiche e politiche. Non conquista militare ma solo subordinazione economica, politica, culturale. Sarebbe antistorico frazionare la Russia e sottoporla ad esperimenti coloniali, come avrebbero voluto certi teorici della politica. Il popolo russo è mistico, ma non religioso, per eccellenza femmineo e dissolvitore», ecc. ecc. (La quistione è molto meno verbalmente complessa: la Russia è troppo contadina e di un’agricoltura primitiva, per potere con «facilità» organizzare uno Stato moderno: la sua industrializzazione è il processo della sua modernizzazione).

Q2 §41 Niccolò Machiavelli. Articolo di Luigi Cavina nella Nuova Antologia del 16 agosto 1927: Il sogno nazionale di Niccolò Machiavelli in Romagna e il governo di Francesco Guicciardini. L’episodio cui l’articolo si riferisce è interessante, ma il Cavina non ne sa trarre tutte le conseguenze necessarie (l’articolo è di carattere descrittivo‑rettorico). Dopo la battaglia di Pavia e la definitiva sconfitta dei Francesi che assicurava l’egemonia spagnola, i signori italiani entrano in uno stato di panico: il Machiavelli, recatosi a Roma per consegnare personalmente a Clemente VII le Istorie fiorentine che aveva ultimato, propone al papa di creare una milizia nazionale e lo convince a fare un esperimento. Il papa manda il Machiavelli in Romagna presso Francesco Guicciardini che era Presidente della Romagna con un breve in data 6 giugno 1525. Il Machiavelli doveva esporre al Guicciardini il suo progetto e il Guicciardini doveva dare il suo parere. (Il breve del papa deve essere tutto interessante: egli espone lo sconvolgimento in cui si trova l’Italia, così grande da indurre a cercare anche rimedi nuovi e inconsueti e concludeva: «Res magna est, ut iudicamus, et salus est in ea cum status ecclesiastici, tum totius Italiae ac prope universae christianitatis reposita»). Perché l’esperienza in Romagna? I Romagnoli buoni soldati: avevano combattuto con valore e fedeltà per i Veneziani all’Agnadello, quantunque da mercenari. C’era poi stato in Romagna il precedente del Valentino che aveva reclutato tra il popolo buoni soldati.

Il Guicciardini fino dal 1512 aveva scritto che il dare le armi ai cittadini «non è cosa aliena da uno vivere di repubblica e popolare, perché quando vi si dà una giustizia buona e ordinate leggi, quelle arme non si adoperano in pernizie, ma in utilità della patria», e aveva anche lodato l’istituzione dell’ordinanza ideata dal Machiavelli (tentativo del Machiavelli di creare a Firenze la milizia cittadina). Ma il Guicciardini non credeva possibile fare il tentativo in Romagna per le fierissime divisioni di parte che vi dominavano (interessanti i giudizi del Guicciardini sulla Romagna): i ghibellini dopo la vittoria di Pavia sono pronti ad ogni novità; anche se non si danno le armi nascerà qualche subbuglio; non si può dare le armi per opporsi agli imperiali proprio ai fautori degli imperiali. Inoltre la difficoltà è accresciuta dal fatto che lo Stato è ecclesiastico, cioè senza direttive a lunga scadenza, e con facili grazie e impunità, alla più lunga ad ogni nuova elezione di papa. In altro Stato le fazioni si potrebbero domare, non nello Stato della chiesa. Poiché Clemente VII nel suo breve aveva detto che al buon risultato dell’impresa occorrevano non solo ordine e diligenza, ma anche l’impegno e l’amore del popolo, il Guicciardini dice che ciò non può essere perché «la Chiesa in effetto non ci ha amici, né quelli che desidererebbero bene vivere, né per diverse ragioni i faziosi e tristi».

Ma la cosa non ebbe altro seguito, perché il papa lasciò cadere il progetto. (Rimane interessante l’episodio, per dimostrare la volontà del Machiavelli, per i giudizi pratici del Guicciardini, e anche del papa). Non si conoscono le ragioni che il Machiavelli deve aver contrapposto alle osservazioni del Guicciardini, perché questi non ne parla nelle sue lettere, e le lettere del Machiavelli a Roma non si conoscono.

Q2 §42 Quintino Sella. A Teodoro Mommsen che domandò con quale idea universale l’Italia andasse a Roma, Quintino Sella rispose: quella della scienza. (Mommsen diceva che a Roma non si può stare senza un’idea universale. Questo motivo è stato ripreso dal Capo del Governo nel suo discorso sul Concordato alla Camera dei deputati. La risposta del Sella è interessante e appropriata: in quel periodo storico la scienza era la nuova «idea universale», la base della nuova cultura che si andava elaborando. Ma Roma non divenne la città della scienza; sarebbe stato necessario un grande programma industriale, ciò che non fu. La parola d’ordine del Sella è tuttavia notevole per descrivere l’uomo). Tuttavia il Sella non era né un ateo né un positivista che volesse sostituire la scienza alla religione. (Vedere i documenti, scritti o riportati da altri, del Sella stesso).

Q2 §43 Il macinato. Nel discorso tenuto da Alberto De Stefani a Biella per commemorare il centenario della nascita del Sella (riportato nella Nuova Antologia del 16 settembre 1927), si accenna al macinato collegandolo al dazio doganale sul grano (si abolì il balzello sulle farine, ma poco dopo il doganiere lasciò il mulino e andò sul confine a riscuotere la gabella sul grano).

La quistione non è posta bene (è un epigramma, non una critica o un giudizio). Il macinato era insopportabile dai piccoli contadini che consumavano il poco grano prodotto da loro stessi; e la tassa sul macinato era causa di svendite per procurarsi il denaro e occasione di pratiche usuraie pesantissime; bisogna collocare la tassa nel suo tempo, con una economia famigliare molto più diffusa di ora: per il mercato producevano i grandi e medi proprietari; il piccolo contadino (piccolo proprietario o colono parziario) produceva per il proprio consumo e non aveva mai numerario; tutte le imposte erano per lui un dramma catastrofico; per il macinato si aggiungeva l’odiosità immediata. Le rivolte contro la tassa sul macinato, le uccisioni e le bastonature agli esattori non erano certo inspirate dalle agitazioni politiche: erano spontanee.

Q2 §44 Su Quintino Sella, cfr nella Nuova Antologia del 16 settembre 1927: P. Boselli, Roma e Quintino Sella; Alberto De Stefani, Quintino Sella (1827‑1884); Bruno Minoletti, Quintino Sella storico, archeologo e paleografo.

Q2 §45 America e Europa. Madison Grant (scienziato e scrittore di grande fama), presidente della Società biologica di New York, ha scritto un libro Una grande stirpe in pericolo in cui «denuncia» il pericolo di un’invasione «fisica e morale» dell’America da parte degli Europei, ma restringe questo pericolo nell’invasione dei «mediterranei», cioè dei popoli che abitano nei paesi mediterranei. Il Madison Grant sostiene che, fin dal tempo di Atene e di Roma, l’aristocrazia greca e romana era composta di uomini venuti dal Nord e soltanto le classi plebee erano composte di mediterranei. Il progresso morale e intellettuale dell umanità fu dunque dovuto ai «nordici», Per il Grant i mediterranei sono una razza inferiore e la loro immigrazione è un pericolo; essa è peggiore di una conquista armata e va trasformando New York e gran parte degli Stati Uniti in una «cloaca gentium». Questo modo di pensare non è individuale: rispecchia una notevole e predominante corrente di opinione pubblica degli Stati Uniti, la quale pensa che l’influsso esercitato dal nuovo ambiente sulle masse degli emigranti è sempre meno importante dell’influsso che le masse degli emigranti esercitano sul nuovo ambiente e che il carattere essenziale della «miscela delle razze» è nelle prime generazioni un difetto di armonia (unità) fisica e morale nei popoli e nelle generazioni seguenti un lento ma fatale ritorno al tipo dei vari progenitori.

Su questa quistione delle «razze» e delle «stirpi» e della loro boria alcuni popoli europei sono serviti secondo la misura della loro stessa pretesa. Se fosse vero che esistono razze biologicamente superiori, il ragionamento del Madison Grant sarebbe abbastanza verosimile. Storicamente, data la separazione di classe‑casta, quanti romani‑ariani sono sopravvissuti alle guerre e alle invasioni? Ricordare la lettera di Sorel al Michels, «Nuovi Studi di Diritto, Economia e Politica», settembre‑ottobre 1929: «Ho ricevuto il vostro articolo su la “sfera storica di Roma”, le cui tesi sono quasi tutte contrarie a ciò che lunghi studi m’hanno mostrato essere la verità più probabile. Non c’è paese meno romano dell’Italia; l’Italia è stata conquistata dai Romani perché essa era altrettanto anarchica quanto i paesi berberi; essa è rimasta anarchica per tutto il Medio Evo, e la sua propria civiltà è morta quando gli Spagnoli le imposero il loro regime amministrativo; i Piemontesi hanno compiuto l’opera nefasta degli Spagnoli. Il solo paese di lingua latina che possa rivendicare l’eredità romana è la Francia, dove la monarchia si è sforzata di mantenere il potere imperiale. Quanto alla facoltà d’assimilazione dei Romani, si tratta di uno scherzo. I Romani hanno distrutto la nazionalità sopprimendo le aristocrazie». Tutte queste quistioni sono assurde se si vuole fare di esse elementi di una scienza e di una sociologia politica. Rimane solo il materiale per qualche osservazione di carattere secondario che spiega qualche fenomeno di secondo piano.

Q2 §46 Istituzioni internazionali. La Camera di Commercio Internazionale. (Un articolo sul IV Congresso della Camera di Commercio Internazionale tenuto a Stoccolma nel giugno‑luglio 1927 è nella Nuova Antologia del 16 settembre 1927).

Q2 §47 Ada Negri. Articolo di Michele Scherillo nella Nuova Antologia del 16 settembre 1927. Su Ada Negri bisognerebbe fare uno studio storico‑critico. Può chiamarsi, in un periodo della sua vita, «poetessa proletaria» o semplicemente «popolare»? Nel campo della cultura mi pare rappresenti l’ala estrema del romanticismo del 48; il popolo diventa sempre più proletariato, ma è visto ancora sotto la specie di popolo, non per i germi di originale ricostruzione che contiene in sé (ma piuttosto per la caduta che rappresenta da «popolo» a «proletariato»?) (In Stella mattutina, Treves, 1921, la Negri ha narrato i casi della sua vita di bambina e adolescente).

Q2 §48 Costituzione dell’Impero Inglese. Articolo nella «Nuova Antologia» del 16 settembre 1927 di «Junius», Le prospettive dell’Impero Britannico dopo l’ultima conferenza imperiale.

Ricerca di equilibrio tra esigenze di autonomia dei Dominions e esigenze di unità imperiale. (Nel Commonwealth l’Inghilterra porta il peso politico della sua potenza industriale e finanziaria, della sua flotta, delle sue colonie o domini della Corona o stabilimenti d’altro nome – India, Gibilterra, Suez, Malta, Singapore, Hong Kong, ecc. –, della sua esperienza politica, ecc. Elementi di disgregazione dopo la guerra sono stati: la potenza degli Stati Uniti, anglosassoni anch’essi e che esercitano un influsso su certi dominions, e i movimenti nazionali e nazionalistici che sono in parte una reazione al movimento operaio – nei paesi a capitalismo sviluppato – e in parte un movimento contro il capitalismo stimolato dal movimento operaio: India, negri, cinesi, ecc. Gli inglesi trovano una soluzione al problema nazionale per i dominions a capitalismo sviluppato, e questo aspetto è molto interessante: ricordare che Iliic sosteneva appunto che non è impossibile che le quistioni nazionali abbiano una soluzione pacifica anche in regime borghese: esempio classico la separazione pacifica della Norvegia dalla Svezia. Ma gli inglesi sono specialmente colpiti dai movimenti nazionali nei paesi coloniali e semicoloniali: India, negri dell’Africa, ecc.).

La difficoltà maggiore dell’equilibrio tra autonomia e unità si presenta naturalmente nella politica estera. Giacché i Dominions non riconoscono più il Governo di Londra come rappresentante della loro volontà nel campo della politica internazionale, si discusse di creare una nuova entità giuridico‑politica destinata ad indicare ed attuare l’unità dell’Impero: si parlò di costituire un organo di politica estera imperiale. Ma esiste una reale unità «internazionale»? I Dominions attraverso l’Impero partecipano alla politica mondiale, sono potenze mondiali; ma la politica estera dell’Inghilterra, europea e mondiale, è talmente complicata che i Dominions sono riluttanti ad essere trascinati in quistioni che non li interessano direttamente; d’altronde attraverso la politica estera l’Inghilterra potrebbe togliere o limitare ai Dominions qualcuno di quei diritti di indipendenza che hanno conquistato. Per l’Inghilterra stessa questo organo di politica imperiale potrebbe essere ragione di difficoltà, specialmente appunto nella politica estera, in cui si esige prontezza e unità di volere, difficili da realizzare in un organo collettivo rappresentante paesi sparsi in tutto il mondo.

Incidente col Canadà a proposito del trattato di Losanna: il Canadà rifiutò di ratificarlo perché non firmato dai propri rappresentanti. Baldwin lasciò cadere la quistione dell’«organo imperiale» e temporeggiò. Il Governo conservatore riconobbe al Canadà e all’Irlanda il diritto di aver propri rappresentanti a Washington (primo passo verso il diritto attivo e passivo di Legazione ai Domini); all’Australia il diritto di avere a Londra oltre all’Alto Commissario (con mansioni specialmente economiche) un funzionario per il diretto collegamento politico; favorì e incoraggiò la formazione di flotte autonome (flotta australiana, canadese, indiana); base navale di Singapore per la difesa del Pacifico; esposizione di Wembley per valorizzare l’economia dei dominions in Europa; Comitato Economico Imperiale per associare i Dominions all’Inghilterra di fronte alle difficoltà commerciali e industriali, e parziale attuazione del principio preferenziale.

Nella politica estera: il Patto di Locarno fu firmato dall’Inghilterra con la dichiarazione di assumere per sé sola gli impegni in esso contemplati. (Prima vari metodi: per il Trattato di Losanna l’Inghilterra firmò a nome di tutto l’Impero, onde incidente col Canadà; nella Conferenza di Londra per le riparazioni tedesche, nel luglio 1924, intervennero i dominions singoli, con apposite delegazioni, ciò che domandò un meccanismo pesante e complicato, non sempre praticamente applicabile; nel Patto di Sicurezza di Ginevra del 1928, l’Inghilterra si riservò di firmare dopo aver consultato i dominions e averne ottenuta la preventiva approvazione).

La Conferenza Imperiale (del novembre 1926) ha voluto dare una definizione precisa dei membri dell’Impero: essi sono «comunità autonome, uguali in diritto, in nessun modo subordinate l’una all’altra nei rispetti dei loro affari interni ed esteri, sebbene unite da un comune dovere di obbedienza alla Corona e liberamente associate quali membri dell’Impero britannico». Uguaglianza di status non significa uguaglianza di funzioni, e viene espressamente dichiarato che la funzione della politica estera, e della difesa militare e navale incombe principalmente alla Gran Bretagna. Ciò non esclude che determinate mansioni di questi due rami dell’attività statale vengano in parte assunte da qualcuno dei Dominions: flotta australiana e indiana (l’India però non è un Dominion); rappresentanza a Washington dell’Irlanda e del Canadà, ecc. Viene infine stabilito il principio generale che nessun obbligo internazionale incombe su uno qualsiasi dei soci dell’Impero se quest’obbligo non è stato volontariamente riconosciuto e assunto.

È stato fissato il rapporto dei Domini con la Corona, che diviene il vero organo supremo imperiale. I Governatori Generali nei Dominions, essendo puri rappresentanti del Re, non possono avere nel riguardo dei Dominions che l’esatta posizione che ha il re nell’Inghilterra: essi perciò non sono rappresentanti od agenti del governo inglese, le cui comunicazioni coi governi dei Dominions avverranno per altro tramite.

La politica estera inglese non può non subire l’influenza dei Dominions.

Q2 §49 Alessandro Mariani. Di questo bellissimo tipo la «Nuova Antologia» del 1° ottobre 1927 pubblica una scelta d’impressioni e di pensieri (Interpretazioni) da una raccolta che avrebbe dovuto essere pubblicata prossimamente. Sono paragrafi molto pretenziosi e confusi, di scarso valore e teorico e artistico, ma talvolta curiosi per la decisa avversione al luogo comune e al pregiudizio banale (sostituiti da altri luoghi comuni e altre trivialità). Nella sezione «Arte politica», la «Nuova Antologia» riporta tre paragrafi sulle «Tre potenze»: 1°, La Chiesa di Roma; 2°, L’Internazionale Rossa; 3°, L’Internazionale ebraica.

La Chiesa cattolica è «la più possente forza conservatrice governante sotto la specie del divino, salvezza ultima ove la decadenza dei valori mette a repentaglio la struttura sociale». L’Internazionale rossa è «deviazione dell’ideologia cristiana», «è attiva dovunque, ma specialmente ove una società economica abbia preso sviluppo secondo il metro dell’Occidente. Sovvertitrice di valori, è forza rivoluzionaria ed espansiva. Nega l’ordine, l’autorità, la gerarchia in quantoché costituiti, ma obbedisce all’ordine proprio, più ferreo ed imperioso dell’antico per necessità di conquista. Nega il divino, disconosce lo Spirito, ma ad esso inconsciamente ed ineluttabilmente obbedisce affermando un’inesausta sete di giustizia pur sotto il fallace miraggio dell’Utopia. Vuol riconoscere soltanto i valori materiali e gli interessi, ma obbedisce inconsapevolmente ai più profondi impulsi spirituali ed agli istinti che hanno le più profonde radici nell’anima umana. È mistica. È assoluta. È spietata. È religione, è dogma. Altrettanto è pieghevole nella trattazione degli affari quanto intransigente nell’ideologia. Relazione di mezzo a fine. È politica». «Come la Chiesa, è sussidiata dai credenti ed alimentata da un servizio d’informazioni mondiale. L’intelligenza di tutte le nazioni è al suo servizio; tutte le risorse degli innumerevoli insoddisfatti che aguzzano l’ingegno verso la possibilità di un loro migliore domani. Come tutte le società umane ha le sue aristocrazie». «Come la Chiesa dice a tutti i popoli la stessa parola, tradotta in tutte le favelle. Il suo potere eversivo è sotterraneo. Mina la costruzione sociale dalle fondamenta. La sua politica manca di tradizione; non di intelligenza, di abilità, di pieghevolezza, sostenute da una ferma determinazione. Trattare con essa o combatterla può essere avvedutezza o errore, a seconda delle contingenze della politica. Non considerarla o rifiutarsi di considerarla è stoltezza».

Q2 §50 Roberto Cantalupo, La Nuova Eritrea, Nuova Antologia, 1° ottobre 1927. (Funzioni dell’Eritrea: 1) economica: intensificare la sua capacità produttiva e commerciale di esportazione e di importazione, cercando di farne un complemento della Madre Patria e di renderla attiva finanziariamente; 2) politica: dare all’Eritrea una posizione e una funzione tali da rendere possibile un maggior contatto con gli stati arabici della riva asiatica del Mar Rosso, nel restaurare i rapporti economici tra Asmara ed il confinante Ovest etiopico, in modo che l’Eritrea diventi il naturale sbocco al mare delle regioni dell’Abissinia settentrionale e naturale porto di transito delle zone centrali e meridionali della Penisola arabica, dopo che Porto Sudan è diventato sbocco di tutto l’Ovest sudanese e entrepôt dell’Arabia settentrionale) .

Dati del Cantalupo ormai invecchiati. Problemi dell’Etiopia: oltre a lotta d’influenza tra Inghilterra, Italia, Francia, potenze confinanti, quali influssi esercitano o possono esercitare ad Addis Abeba gli Stati Uniti e la Russia. Come unico Stato indigeno libero dell’Africa, l’Etiopia può diventare la chiave di tutta la politica mondiale africana, cioè il punto di collisione delle tre potenze mondiali (Inghilterra, Stati Uniti, Russia). L’Etiopia potrebbe mettersi alla testa di un movimento per l’Africa agli Africani.

Sulla situazione sociale etiopica, in cui la chiesa ha grande importanza per struttura feudale, cfr Alberto Pellera, Lo Stato etiopico e la sua Chiesa, pubblicato a cura della Regia Società Geografica (il Pollera è un funzionario coloniale italiano).

Q2 §51 Giovanni Pascoli. Sulle tendenze politiche di Giovanni Pascoli (il Pascoli da giovane fu incarcerato come membro dell’Internazionale), che ebbero pubblicamente il massimo di ripercussione al tempo della guerra libica col discorso La grande proletaria si è mossa e che sono da connettere con le dottrine di Enrico Corradini, in cui il concetto di «proletario» dalle classi è trasportato alle nazioni (quistione della «proprietà nazionale» legata con l’emigrazione; ma si osserva che la povertà di un paese è relativa ed è l’«industria» dell’uomo – classe dirigente – che riesce a dare a una nazione una posizione nel mondo e nella divisione internazionale del lavoro; l’emigrazione è una conseguenza della incapacità della classe dirigente a dar lavoro alla popolazione e non della povertà nazionale: esempio dell’Olanda, della Danimarca, ecc.; quistioni relative si capisce), sono interessanti le Lettere inedite di Giovanni Pascoli a Luigi Mercatelli, pubblicate da G. Zuppone‑Strani nella Nuova Antologia del 16 ottobre 1927. (Il Mercatelli era corrispondente della «Tribuna» dall’Eritrea; rientrò al giornale nel 1896; nel 97 andò in Africa con F. Martini, nel 99 fu direttore della «Tribuna» con Federico Fabbri; nel 1903 fu Console generale allo Zanzibar, nel 1904 governatore del Benadir).

In una lettera scritta da Barga il 30 ottobre 1899 il Pascoli scrive: «Io mi sento socialista, profondamente socialista, ma socialista dell’umanità, non d’una classe. E col mio socialismo, per quanto abbracci tutti i popoli, sento che non contrasta il desiderio e l’aspirazione dell’espansione coloniale. Oh! io avrei voluto che della colonizzazione italiana si fosse messo alla testa il baldo e giovane partito sociale; ma ahimè esso fu reso decrepito dai suoi teorici». (Vedere nell’opera poetica del Pascoli il riflesso di questa sua concezione e nelle Antologie scolastiche).

In una lettera da Messina, dell’8 giugno 1900, si accenna alla sua collaborazione alla «Tribuna»: «Oh! potessi io settimanalmente o bimensilmente pubblicare le mie “Conversazioni coi giovani”! Nel discorso che feci l’altrieri e che ti mando purgato dai molti idioti errori di stampa, è un cenno di ciò che io reputo la mia missione: introdurre il pensiero della patria e della nazione e della razza nel cieco e gelido socialismo di Marx».

In una lettera da Barga del 2 luglio 1900 annunzia una rubrica che vorrebbe scrivere nella «Tribuna», intitolata «Nell’avvenire», di cui presto manderà il proemio: «La rubrica conterrebbe articoli di ogni sorta, diretti a quelli che ora sono tra fanciulli e adolescenti, che contemplerebbero le quistioni presenti alla luce dell’avvenire. Il primo articolo proemiale, dopo una breve dichiarazione mia, di rinunzia formale e solenne alla “vita attiva” – cioè, vuol dire, a diventare deputato – tratterebbe quest’argomento. “I giovani, quelli almeno che sono veramente giovani, hanno in sé qualcosa d’eroico. Quelli, di qualche tempo fa, si sentivano spinti all’eroismo patriottico, quelli d’ora all’eroismo, diciamo, socialistico. Però in fondo al loro cuore è un dissidio profondo. Sentendo la difesa d’Amba Alagi, anche quelli, che avevano fatto dedizione dei loro sentimenti eroici all’idea umanitaria, provarono una scossa.., Ebbene, bisogna conciliare questo dissidio che travaglia (io lo so, io lo sento) il cuore della gioventù, etc., etc.”».

Più oltre scrive: «E non parlerei mica sempre di simili questioni: parlerei d’arte e di letteratura e di scienza e di inorale, cercando sempre di sradicare i pregiudizi e di porre in faccia alla moda l’Ewig e di contro all’oggi, l’ieri e il domani», senza accorgersi dell’intima contraddizione in cui egli stesso si dibatteva, dato che dell’Ewig avesse una concezione giusta.

In una lettera da Barga del 12 agosto 1900 accenna a un suo scritto, Nel carcere di Ginevra, a proposito di Luccheni, che la «Tribuna» non pubblicò e che il Pascoli pubblicò dopo; non ricordo questo scritto.

In una lettera dell’11 dicembre 1900 da Messina, firmata «Giovanni Pascoli socialista‑patriota messo all’indice dai giornali politici, cioè finanzieri d’Italia», parla della sua collaborazione a un giornale locale e pare che abbia iniziato la pubblicazione pensata come rubriche permanenti della «Tribuna», ma che la «Tribuna» non volle pubblicare. (Vedere la bibliografia del Pascoli. La rubrica «Nell’ o Per l’Avvenire», in una lettera del 14 dicembre 1900, è detta essere stata iniziata nella «Tribuna» da Ojetti),

In una lettera senza data, ma che lo Zuppone‑Strani dice scritta da Barga sul finire del 1902 o nella prima metà del 1903 è scritto: «Eppure il poeta ti ama là, ti vede là, ti sogna là, eppure il patriota e l’“umano” (“socialista” non mi conviene più essere chiamato e chiamarmi) si esalta nel saperti investito d’una altissima missione d’utile o onore italico e di civiltà. Ti chiamavo “negriero”, e tu vai a distruggere i negrieri» (il Pascoli chiamava scherzosamente il Mercatelli «ras», «negriero», ecc.). E più oltre: «Perché a rifuggire dal socialismo politico dei nostri giorni aiuta me non solo l’orrore al dispotismo della folla o del numero dei più, ma specialmente la necessità che io riconosco e idoleggio, d’una grande politica coloniale».

Q2 §52 Giovanni Pascoli. La Nuova Antologia del 1° dicembre 1927 pubblica un articolo inedito del Pascoli, mandato nel 1897 alla «Tribuna» e non pubblicato perché al Mercatelli sembrò «troppo ardito per l’indole del giornale» e «troppo compromettente per l’autore». L’articolo era intitolato Allecto («la Erinni dell’odio implacabile e della vendetta interminabile») e prendeva lo spunto da un telegramma del ministro francese Méline ai Lorenesi. Per il Pascoli la Francia e la Russia avrebbero fatto la guerra alla Germania (quindi alla Triplice, quindi all’Italia) «tra poco o tra molto, ma certo». Il Pascoli si rivolge alle madri. C’è un «profeta»: un «dolce e fiero profeta ammantato d’una tunica rossa gira per il mondo, tra i popoli eletti e le genti, predicando un suo vangelo di pace. In suo nome girano e parlano migliaia d’apostoli, dei quali tutti stupiscono e ammirano, perché ognuno li ode parlare nella lingua sua. Essi hanno convertito il cuore stupidamente feroce degli uomini». Questi uomini «dicono ai sinistri trombettieri della distruzione: “No: non vogliamo: non potrete! ”», ma «d’or innanzi ci saranno nella proprietà e in genere nella convivenza sociale alcune modificazioni». Che direbbero le madri? ecc.

«Questo profeta voleva essere il Marxismo. Voleva e certo vorrebbe ancora; ma non può. Non è riuscito. L’atroce guerra che si minaccia, che è il delitto più enorme... non può essere stornata dal Marxismo. Essa con tante vite e tanti tesori e tante idealità travolgerà anche questa scuola, questo sistema, che si mostrò impotente. Per colpa sua? Io non sono mosso da avversione a tale scuola e sistema; ma non posso fare a meno di riconoscere che gli è mancato l’afflato, l’impeto, le lingue di fuoco. Ha voluto essere una scuola e doveva essere una religione. Doveva parlare più d’amore e meno di plus‑valore, più di sacrifizio che di lotta, più d’umanità che di classi. Doveva diffondersi equabilmente da per tutto; doveva aver di mira tutti i popoli, anche quelli più guardati dalle forche e dai princìpi dell’89... Mi spiego».

Secondo il Pascoli «la Germania, e però la Triplice, ha, rispetto alla Francia e alla Russia, un elemento di debolezza: il socialismo». Il Pascoli «teme» che «si sia ottenuto» nel cuore degli operai tedeschi e italiani di «far germinare... l’amore universale al posto dell’atavismo belluino e bellicoso», Italiani e tedeschi sarebbero diventati agnelli, mentre Francesi e Russi sarebbero rimasti leoni e tigri ecc.

«Ma il Marxismo parlerà prima dello squillo. Che dirà? Sentiremo. Saranno, credo, parole degne del gran momento. Serviranno, spero, a rimediare ai danni che involontariamente esso ha recato o è per recare alle nazioni che l’hanno accolto. Faranno, anzi, come da nuovo fermento ideale, che valga a compensare l’impeto bestiale, negli animi nostri. Oh! specialmente l’Italia lo merita! Non è essa la nazione povera, il proletario tra i popoli? Per l’Italia ci dica una parola animosa. Dove non è la traccia ciclopica del lavoro italiano? Quali ferrovie non furono costruite e quali monti non furono forati e quali istmi non furono aperti, nella massima parte, da braccia italiane? E il loro lavoro non arricchì né loro né la loro nazione, poiché era al servizio del capitale straniero. Noi abbiamo esportato ed esportiamo lavoratori; importammo e importiamo capitalisti. Fuori e dentro noi arricchiamo gli altri, rimanendo poveri noi. E quelli, che arricchimmo, ci spregiano e ci chiamano pitocchi. Io non so dar ragione di questo fatto, ma così è. So però che nel fatto non è peccato nostro d’indolenza o d’altro. Come si può chiamare indolente il popolo più faticante e industrioso e parco del mondo? Io dico che è una ingiustizia». Attacca la Francia, «la sorella padrona», e conclude: «o patria grande di lavoratori e di eroi! poiché lo vogliono, poiché anche la tua povertà fa ombra e la tua umiltà fa dispetto, accetta, quando che sia, la sfida, e combatti disperatamente».

Il Pascoli aspirava a diventate il leader del popolo italiano; ma come egli stesso dice in una lettera al Mercatelli, citata in una nota precedente, il carattere «eroico» delle nuove generazioni si rivolge al «socialismo», come quello delle generazioni precedenti si era rivolto alla quistione nazionale: perciò il suo temperamento lo porta a farsi banditore di un socialismo nazionale che gli sembra all’altezza dei tempi. Egli è il creatore del concetto di nazione proletaria, e di altri concetti poi svolti da E. Corradini e dai nazionalisti di origine sindacalista: questo concetto in lui era molto antico. Egli si illudeva che questa sua ideologia sarebbe stata favorita dalle classi dirigenti: ma la «Tribuna», nonostante la stretta amicizia del Pascoli col Mercatelli, non gli dà le sue colonne e la sua autorità. È interessante questo dissidio nello spirito pascoliano: voler essere poeta epico e aedo popolare mentre il suo temperamento era piuttosto «intimista». Di qui anche un dissidio artistico, che si manifesta nello sforzo, nell’anfanamento, nella retorica, nella bruttezza di molti componimenti, in una falsa ingenuità che diventa vera puerilità. Che il Pascoli tenesse molto a questa sua funzione si vede da un brano di lettera al Mercatelli, in cui dice che sarebbe stato lieto di essere incaricato delle scuole all’estero o delle scuole coloniali, più che di fare il professore di lettere all’Università, per avere agio di fare appunto il profeta della missione d’Italia nel mondo. (Del resto qualcosa di simile, pensò di sé stesso il D’Annunzio: vedi il volume Per l’Italia degli Italiani).


Q2 §53 Giovanni Cena. La figura di Cena deve essere studiata sotto due punti di vista: come scrittore e poeta «popolare» (Cfr Ada Negri) e come uomo attivo nel cercare di creare istituzioni per l’educazione dei contadini (scuole dell’Agro Romano e delle Paludi Pontine, fondate con Angelo e Anna Celli). Il Cena nacque a Montanaro Canavese il 12 gennaio 1870, morì a Roma il 7 dicembre 1917. Nel 1900-1901 fu corrispondente della Nuova Antologia a Parigi e a Londra. Nel 1902 redattore‑capo della rivista fino alla morte. Discepolo di Arturo Graf. (Nei Candidati all’Immortalità di Giulio De Frenzi è pubblicata una lettera autobiografica del Cena). Ricordare l’articolo del Cena Che fare? pubblicato dalla «Voce» nel 1912 (mi pare).

Q2 §54 Olii, petrolii e benzine, di Manfredi Gravina nella «Nuova Antologia» del 16 dicembre 1927 (l’articolo continua nella «Nuova Antologia» del 1° gennaio 1928 ed è interessante per avere un accenno generale al problema del petrolio). L’articolo è un riassunto delle recenti pubblicazioni sul problema del petrolio. Estraggo qualche notizia bibliografica e qualche osservazione: Karl Hoffmann, Oelpolitik und angelsächsischer Imperialismus (Ring‑Verlag, Berlino, 1927) che il Gravina dice lavoro magistrale, un compendio eccellente dei grandi problemi petrolieri del mondo ed indispensabile per chi voglia, sulla scorta di dati precisi, approfondirne lo studio (con la riserva che vede troppo «petrolio» in ogni atto internazionale). Il «Federal Oil Conservation Board» formato in America nel 1924 con la missione di studiare ogni mezzo atto a razionalizzare l’eccessivo sfruttamento del patrimonio petrolifero americano ed assicurargli il massimo e il migliore rendimento (lo Hoffmann definisce questo Ufficio «grandioso ente di preparazione industriale alla eventuale guerra del Pacifico»). In questo Board il senatore Hugues, già ministro degli affari Esteri, rappresenta gli interessi diretti di due Società del gruppo Standard (la «Standard» di New York e la «Vacuum Oil»). Lo «Standard Oil Trust» costituito nel 1882 da John D. Rockefeller dovette adattarsi alle leggi contro i trusts. La «Standard» di New Jersey è considerata tuttora come una vera e propria centrale della attività petrolifera della Casa Rockefeller: essa controlla il 20‑25% della produzione mondiale, il 40‑45% delle raffinerie, il 50‑60% delle condutture dai pozzi alle stazioni di avviamento. Accanto alla Standard e società affiliate sono sorte altre imprese, fra cui da ricordare i così detti Big Independents.

La «Standard» è collegata con il Consorzio Harriman (trasporti ferroviari e marittimi, 8 società di navigazione) e col gruppo bancario Kuhn Loeb & Co. di New York, del quale è a capo Otto Kahn. Nel campo inglese i due gruppi più importanti sono la «Shell Royal‑Dutch» e l’«Anglo-Persian Burmah». Direttore generale della «Shell» è l’olandese sir Henry Deterding. La Shell è asservita all’Impero Inglese nonostante i grandi interessi finanziari e politici dell’Olanda. L’«Anglo‑Persian Burmah» può considerarsi governativa britannica e più specialmente dell’Ammiragliato che vi è rappresentato da tre fiduciari. Presidente dell’«Anglo‑Persian» è sir Charles Greenway, coadiuvato da un consulente tecnico, sir John Cadman, che durante la guerra fu a capo del servizio governativo dei petroli. Greenway, Cadman, Deterding e i fratelli Samuel (fondatori della «Shell» inglese poi fusasi colla «Royal‑Dutch») sono considerati di fatto i dirigenti della politica petroliera inglese.

Q2 §55 L’enfiteusi. Il proprietario si chiama direttario, il possessore utilista. Praticamente l’enfiteusi è un affitto che abbia il carattere speciale di essere perpetuo, con la cessione di ogni diritto inerente alla vera proprietà, ma col diritto di fare riacquistare il dominio del fondo, nel caso di mancato pagamento del canone (o censo o livello – prestazioni perpetue). (Teoricamente la figura del proprietario si sdoppia). Il contratto di enfiteusi è più frequente nel meridionale e nel ferrarese: nelle altre regioni è scarsamente applicato. È legato, mi pare, al bracciantato elementare, o meglio al contadino senza terra, che prende in enfiteusi dei piccoli appezzamenti per impiegarvi le giornate in cui non ha lavoro o perché di morta stagione o in rapporto alla monocultura: l’enfiteuta, così, introduce grandi migliorie e dissoda terreni impervi o enormemente sassosi; poiché è disoccupato, non calcola il lavoro presente nella speranza di un utile futuro, data la scarsità dei canoni per le terre quasi sterili. Il lavoro del contadino spesso è tale che il capitale‑lavoro impiegato pagherebbe due o tre volte l’appezzamento. Tuttavia, se per qualsiasi ragione l’utilista non paga il canone, perde tutto.

Dato il carattere di prestazione perpetua, il contratto dovrebbe essere scrupolosamente osservato e lo Stato non dovrebbe intervenire mai. Invece nel 1925 fu accordato ai proprietari l’aumento di un quinto delle corrisposte dei canoni. Nel giugno del 1929 i senatori Garofalo, Libertini, Marcello, Amero d’Aste ebbero la faccia tosta di presentare un progetto di legge in cui si aumentavano ancora i canoni, nonostante la rivalutazione della lira: il progetto non fu preso in considerazione, ma rimane come segno dei tempi, come prova dell’offensiva generale dei proprietari contro contadini.

Q2 §56 Massimo D’Azeglio. In questi anni molte pubblicazioni apologetiche di Massimo D’Azeglio, specialmente del nominato Marcus De Rubris (vedere quanti titoli il De Rubris ha inventato per il D’Azeglio: il cavaliere della nazione, l’araldo della vigilia, ecc. ecc.). Raccogliere materiali per un capitolo di «fame usurpate».

Nel 1860, il D’Azeglio, governatore di Milano, impedì che fossero mandate armi e munizioni a Garibaldi per l’impresa di Marsala, «sembrandogli poco leale (!) aiutare una insurrezione contro il regno di Napoli, con cui si era in relazioni diplomatiche», come scrive il senatore Mozziotti («Nuova Antologia», 1° marzo 1928, La spedizione garibaldina del «Utile». Cfr Luzio, Il milione di fucili e la spedizione dei Mille nella «Lettura» dell’aprile 1910 e la letteratura su Garibaldi in generale: come Garibaldi giudicò il D’Azeglio? Cfr le Memorie). Poiché il D’Azeglio, in altre occasioni, non fu così attaccato alla «lealtà», il suo atteggiamento deve essere spiegato con l’avversione cieca e settaria al partito d’azione e a Garibaldi. L’atteggiamento del D’Azeglio spiega la politica pavida e ondeggiante di Cavour nel 60: D’Azeglio era un Cavour meno intelligente e meno uomo di Stato, ma politicamente si rassomigliavano: non si trattava tanto per loro di unificare l’Italia, quanto di impedire che operassero i democratici.

Q2 §57 Tendenze contro le città. Ricordare nel libro del Gerbi sulla Politica del 700 l’accenno alle opinioni di Engels sulla nuova disposizione da dare agli agglomerati cittadini industriali, dal Gerbi malamente interpretate (e le opinioni di Ford che il Gerbi anche interpreta male). Questi modi di vedere non sono da confondere con le tendenze «illuministiche» contro la città. Vedere le opinioni di Spengler sulle grandi città, definite «mostruosi crematorii della forza del popolo, di cui essi assorbono e distruggono le energie migliori». Ruralismo, ecc.

Q2 §58 Sulla moda. Un articolo molto interessante e intelligente nella Nuova Antologia del 16 marzo 1928: Formazione e organizzazione della moda di Bruno De Pol. (Il De Pol credo sia un industriale milanese del cuoio). Molti spunti, spiegazione della moda dallo sviluppo economico (lusso non è la moda, la moda nasce col grande sviluppo industriale); spiegazione dell’egemonia francese per la moda femminile e inglese per la maschile; situazione attuale di lotta per ridurre queste egemonie a un «condominio»: attività dell’America e della Germania in questo senso. Conseguenze economiche specialmente per la Francia, ecc.

Q2 §59 Tittoni. Ha certamente avuto sempre molta importanza l’opinione di Tittoni nello stabilire i programmi di politica estera del governo dal 23 in poi: seguire l’attività pratica e letteraria di Tittoni in questi anni. Alla sua raccolta di articoli di politica estera del 1928, Quistioni del giorno, ha fatto precedere una interessante prefazione politica il Capo del Governo. Passato di Tittoni. Sua attività. Giudizi su Tittoni di diplomatici stranieri (vedi i Carnets di Georges Louis, ecc.). Suoi rapporti con Isvolsky. (Libro nero di Marchand).

Tittoni come letterato e la sua fissazione linguaiola, curiosa perché la Nuova Antologia pubblica cose errorose per la lingua, specialmente traduzioni, ecc. Vedi l’articolo Per la verità storica, firmato «Veracissimus», nella Nuova Antologia del 16 marzo ‑ 1° aprile 1928: l’autore (Tittoni) vi parla dei suoi rapporti con Isvolsky, dei suoi rapporti con la stampa francese (Isvolsky in un rapporto pubblicato dal Libro Nero aveva accennato al molto denaro che Tittoni distribuì alla stampa al tempo della guerra libica, ecc.), fa degli accenni interessanti al convegno di Racconigi del 1909. Ricordare il libro di Alberto Lumbroso sulle cause economiche della guerra e i suoi accenni a Tittoni (nell’episodio del Carthage e Manouba accennato dal Lumbroso quanta responsabilità spetta a Tittoni?). Nell’articolo c’è anche un accenno rozzo (da mercante di campagna, direbbe Georges Louis) all’ambasciata attuale russa a Parigi e ai suoi possibili contatti col conte Manzoni. (Perché questo animus particolarmente aggressivo di Tittoni? Ricordare lo scandalo provocato nel 1925 – mi pare –, dal Tittoni come Presidente del Senato e per cui il governo dovette domandare scusa. L’episodio più interessante della vita di Tittoni è la sua permanenza a Napoli come prefetto in un tempo di grandi scandali: nella stampa del tempo si potrà trovare il materiale; forse nella «Propaganda», ecc.).

Q2 §60 Su Emanuele Filiberto, è interessante, scritto con serietà (non agiografico) l’articolo di Pietro Egidi nella «Nuova Antologia» del 16 aprile 1928, Emanuele Filiberto di Savoia. Le capacità militari di Emanuele Filiberto sono delineate con perspicuità: Emanuele Filiberto segna il passaggio dalla strategia degli eserciti di ventura alla nuova strategia che troverà poi i suoi rappresentanti in Federico II e in Napoleone: la grande guerra di movimento per obbiettivi capitali e decisivi. A Cateau Cambrésis riesce a riottenere, per l’aiuto della Spagna, il suo Stato, ma nel trattato è stabilita la «neutralità» del Piemonte, cioè è stabilita l’indipendenza sia da Francia che da Spagna (l’Egidi sostiene che sia stato Emanuele Filiberto a suggerire ai francesi di domandare questa neutralità, per essere in grado di sfuggire alla soggezione spagnola, ma si tratta di ipotesi: in questo caso gli interessi della Francia e quelli del Piemonte coincidevano perfettamente): così si inizia la politica estera moderna dei Savoia di equilibrio tra le due potenze principali dell’Europa. Ma dopo questa pace il Piemonte perde già da allora irreparabilmente alcune terre: Ginevra e le terre intorno al lago di Ginevra.

In una storia bisognerebbe almeno accennare alle varie fasi territoriali attraversate dal Piemonte, da prevalentemente francese a franco‑piemontese, a italiano. (Emanuele Filiberto fu fondamentalmente un generale della Controriforma).

L’Egidi delinea abbastanza perspicuamente anche la politica estera di Emanuele Filiberto, ma non dà che cenni in sufficienti sulla politica interna e specialmente militare, e i pochi cenni sono legati a quei fatti di politica interna che dipendevano strettamente dall’estero, cioè dall’unificazione territoriale dello Stato per le retrocessioni delle terre ancora occupate da francesi e spagnoli dopo Cateau Cambrésis o dagli accordi coi Cantoni Svizzeri per riacquistare qualche elemento delle terre perdute. (Per lo studio su Machiavelli studiare specialmente gli ordinamenti militari di Emanuele Filiberto e la sua politica interna per rispetto all’equilibrio di classi su cui si fondò il principato assoluto dei Savoia).

Q2 §61 Controriforma. Nella Nuova Antologia del 16 aprile 1928 Guido Chialvo pubblica una Istruttione di Emanuele Filiberto a Pierino Belli, suo Cancelliere ed Auditore di guerra, sul «Consiglio di Stato» in data 1° dicembre 1559. Ecco l’inizio di questa Istruttione: «Si come il timor di Dio è principio di sapienza et non c’è maggior morbo né più capital peste nel governo de li stati, che quando gl’huomini che ne hanno la cura non temono Dio, et attribuiscono a la prudenza loro quello che si deve solo riconoscer dalla Divina Provvidenza et Inspiratione, et che da questa empia heresia, come dal fonte di ogni vitio derivano tutte le malvagità et scelleratezze del mondo, et gl’huomini ardiscono violar le divine et humane leggi».

Q2 §62 Giuseppe De Maistre. Nel 1927 fu pubblicato a Firenze dalla Libreria editrice fiorentina il libro del De Maistre sul papa (Il papa, traduzione di Tito Casini). In un articolo della «Nuova Antologia» del 16 aprile 1928 (Guelfismo e nazionalismo di Giuseppe De Maistre) Niccolò Rodolico ricorda come il De Maistre nel 1820, in un tempo di restaurate antiche Monarchie e di rinnovata autorità della Santa Sede, ebbe amareggiato l’ultimo anno di sua vita da indugi e da difficoltà opposti per la dedica e per la stampa della seconda edizione di questo libro (che fu pubblicata a Lione nel 1822 postuma). Il De Maistre desiderava dedicare il libro a Pio VII che aveva per lui grandissima stima, e desiderava pubblicarlo in Piemonte, il cui re egli aveva fedelmente servito durante la Rivoluzione, ma non riuscì.

Secondo il Rodolico la condotta di questi cattolicissimi governanti si spiega con le condizioni dello spirito pubblico dal 19 al 20 in Europa, quando liberali, giansenisti e settari anticlericali si agitavano, e con la paura di provocare nuove e più vivaci polemiche. «Dopo più di un secolo – aggiunge il Rodolico – compare in Italia, e senza provocare polemiche, una buona traduzione del libro Du pape, che può ora serenamente essere esaminato sotto un aspetto politico, collegandolo ad altre manifestazioni del pensiero politico del tempo».

La quistione però è che questa pubblicazione, come altre del genere, non è stata fatta «serenamente», per dare agli studiosi un documento, ma è stata fatta come «polemica attuale». Si tratta di un segno dei tempi. La stessa Libreria editrice fiorentina pubblica tutta una collana di tal genere, dove è apparso il Sillabo e altri fossili del genere, preceduti da introduzioni «attuali» scritte da neocattolici del tipo Papini, Manacorda, ecc.

Allo stesso clima di serra calda è dovuta la ristampa del Memorandum di Solaro della Margarita, lanciato in commercio come «attualità». (A questo proposito occorre ricordare la discussione in Senato tra Ruffini e il capo del governo a proposito dello Statuto e il paragone spiritosissimo di Ruffini col Solaro della Margarita).

Notare queste pubblicazioni che sono tipiche, anche se la loro importanza abbia o possa avere una efficacia trascurabile, distinguendole da quelle puramente «clericali». Ma si pone il problema: perché gli stessi clericali non le hanno stampate prima di ora e preferivano essi stessi che non se ne parlasse? Sarebbe interessante vedere quante ristampe abbia avuto il Sillabo negli ultimi tempi: credo che lo stesso Vaticano preferisse lasciarlo cadere nel dimenticatoio e che dopo Pio X «seccasse» la Cattedra del Sillabo creata da monarchici francesi nelle loro scuole di partito. (Questo argomento di De Maistre, Solaro, Sillabo, ecc., occorre tenerlo presente per un paragrafo della rubrica «Passato e presente».

L’articolo del Rodolico è interessante per ciò che dice sulle opinioni antiaustriache del De Maistre, sulle sue convinzioni che il Piemonte dovesse fare una politica nazionale e non angustamente piemontese, ecc. Dal corso dell’articolo appare che il libro sul papa non fu lasciato stampare in Piemonte perché erano al governo i «piemontesisti» assoluti e nel libro del De Maistre sono esposte opinioni che poi saranno riprese dal Gioberti del Primato, sulla funzione nazionale italiana del Papato.

Sul De Maistre libro del Mandoul, Joseph De Maistre et la politique de la Maison de Savoie, Paris, Alcan. (Questa opposizione al De Maistre, moderatissimo uomo, bisogna studiarla nel suo complesso politico per giungere alla esatta comprensione del nesso storico 1848‑49 e alla spiegazione di Novara: rivedere questo articolo del Rodolico, se del caso, e cercare l’altra letteratura documentaria).

Q2 §63 Italia ed Egitto. Articolo di Romolo Tritonj nella «Nuova Antologia» del 16 aprile 1928, Le Capitolazioni e l’Egitto (che sarebbe un capitolo di un Manuale di quistioni politiche dell’Oriente musulmano di prossima pubblicazione ma che non ho visto annunziato o recensito. Il Tritonj è anche autore di un volume, È giunto il momento di abolire le Capitolazioni in Turchia?, pubblicato a Roma nel 1916, e collabora spesso alla «Nuova Antologia» e alla «Politica» di Coppola. Chi è? È uno dei vecchi nazionalisti? Non ricordo. Mi pare serio e informato: è specialista nelle quistioni del prossimo Oriente. Vedere).

È favorevolissimo alle Capitolazioni, specialmente in Egitto, da un punto di vista europeo e italiano: sostiene la necessità della unità fra gli Stati europei nella quistione, ma prevede che questa unità d’azione non sarà mantenuta per il distacco dell’Inghilterra. Coi 4 punti sull’Egitto già l’Inghilterra tentò di staccarsi dall’Europa affermando di riservarsi la «protezione degli interessi stranieri», clausola non chiara perché sembrava che l’Inghilterra s’arrogasse la protezione, escludendone le altre potenze; ma fu spiegato che alla prossima conferenza sulle Capitolazioni l’Inghilterra parteciperebbe su di un piede di uguaglianza con gli altri Stati capitolari.

L’Inghilterra ha in Egitto una colonia molto esigua (se si tolgono i funzionari britannici nell’Amministrazione egiziana e i militari) e accettando l’abolizione delle Capitolazioni venderebbe la pelle degli altri. Per ingraziarsi i nazionalisti, metterebbe in cattiva luce gli altri europei (questo è il punto delicato che preme agli italiani: essi vorrebbero aver amici i nazionalisti, ma fare la politica della colonia italiana in Egitto lasciando l’odiosità della situazione creata dall’Europa all’Egitto sulle spalle dell’Inghilterra: vedere nelle riviste i giudizi sugli avvenimenti egiziani nel 1929‑30: sono contradditori, impacciati: l’Italia è favorevole alle nazionalità ma... ecc.; la stessa situazione per l’India, ma nell’Egitto gli interessi sono molto forti e le ripercussioni dei giudizi più immediate).

La colonia italiana in Egitto è molto selezionata, cioè è di quel tipo i cui elementi sono giunti già alla terza o quarta generazione passando dall’emigrato proletario all’industriale, commerciante, professionista; mantenuto il carattere nazionale, aumentano la clientela commerciale dell’Italia, ecc. ecc. (sarebbe interessante vedere la composizione sociale della colonia italiana: è però probabile che un ragguardevole numero di emigrati dopo tre o quattro generazioni sia salito di classe sociale: in ogni modo le Capitolazioni dànno unità alla colonia e permettono ai funzionari italiani e ai borghesi di controllare tutta la massa degli emigrati).

Nei paesi del Mediterraneo dove sono abolite le Capitolazioni, l’emigrazione italiana o è cessata, o viene gradualmente eliminata (Turchia) o si trova nelle condizioni della Tunisia, dove si cerca di snazionalizzarla. Abolizione delle Capitolazioni significa snazionalizzazione dell’emigrazione (altra quistione, data dal fatto che l’Italia è potenza esclusivamente mediterranea e ogni mutamento in questo mare la interessa più che ogni altra potenza).

Naturalmente il Tritonj vorrebbe mantenersi amici gli Egiziani con queste sue opinioni e riconosce che «è di capitale importanza per noi essere amici del loro Paese».

Q2 §64 R. Garofalo, Criminalità e amnistia in Italia, Nuova Antologia del 1° maggio 1928. Per la figura del Garofalo.

Q2 §65 Claudio Faina, Foreste, combustibili e carburante nazionale, Nuova Antologia del 1° maggio 1928. Interessante. Dimostra che la selvicultura italiana, se coltivata e sfruttata industrialmente, può aumentare di molto il suo rendimento e dare sottoprodotti numerosi. (In questo articolo del Faina, che è il figlio del senatore Eugenio Faina, relatore dell’inchiesta parlamentare sul Mezzogiorno e che si occupa assiduamente di attività organizzative e propagandistiche di carattere agrario – scuole rurali istituite dal padre nell’Umbria, ecc. –, si accenna a un disboscamento intensivo e irrazionale nella montagna della Sardegna meridionale per vendere carbone alla Spagna. Ricordare questo accenno alla Sardegna).

Q2 §66 La quistione agraria. Nella Nuova Antologia del 16 maggio 1928 è pubblicato un articolo di Nello Toscanelli, Il latifondo, che contiene già nella prima pagina una perla come questa: «Da quando l’arte di scrivere ha permesso agli Italiani di avere una storia (!), l’argomento della divisione delle terre è sempre stato all’ordine del giorno» dei comizi popolari. Infatti, in un paese, nel quale si può viver bene per la maggior parte dell’anno all’aria aperta, il diventar padrone, sia pur di un piccolo appezzamento di terra, rappresenta l’aspirazione segreta del cittadino (!?), convinto di poter trovare le più facili gioie ed una fonte perenne di prodotti nei campi, da lui visti soltanto nel rigoglio primaverile delle mèssi o nell’epoca dell’allegra vendemmia. Ed, in minor grado (!?), la dolce visione della proprietà terriera scuote anche (!) il campagnolo, che pur sa (!) le lentezze e le disillusioni dell’agricoltura». (Questo Nello Toscanelli è un tipo bislacco come Loria).

Secondo il Toscanelli la formula: «La terra ai contadini» fu presentata nel 1913 in un programma elettorale dall’onorevole Aurelio Drago. (Ripresa durante la guerra, nel 1917, da un presidente del Consiglio e divulgata nel «Resto del Carlino» dal senatore Tanari). L’articolo del Toscanelli è una verbosa scorribanda giornalistica senza alcun valore (contro la riforma agraria, naturalmente).

Il Toscanelli, nel suo articolo, aveva accennato molto cortesemente al fatto che nel 1917 il senatore Tanari aveva illustrato la formula «la terra ai contadini», per dire che essa non faceva più paura a nessuno se un noto conservatore come il Tanari e un Presidente del Consiglio (chi è stato? Orlando? o si riferisce a Nitti che diventò più tardi Presidente e allora era ministro del Tesoro?) la propugnavano e illustravano. Ma nel 1928 il Tanari si è fortemente adombrato e ha avuto paura che qualcuno credesse essere egli stato, in un qualsiasi momento, un Ravachol (sic) della proprietà.

Nella Nuova Antologia del 1° giugno 1928 è pubblicata una Lettera al

Direttore della Nuova Antologia in cui il Tanari si giustifica, cercando di spiegare e di attenuare il suo atteggiamento del 1917: «Tengo a dichiarare che in un articolo: La terra ai contadini? (con tanto di punto interrogativo), e successivamente in un mio studio pubblicato Sulla quistione agraria, non intesi illustrare proprio nulla! Ecco invece come stanno le cose. Ero piuttosto (sic) al corrente di ciò che si prometteva in trincea ai contadini, e quando mi accorsi che la divisione della terra diventava programma di dopo guerra (in corsivo dall’autore) mi pare fosse venuto il tempo di convogliarla nei suoi argini; onde difendere al possibile il principio di proprietà, che io ritenevo... (ecc. ecc.). In qual modo raggiungere questo intento? Erano tempi nei quali con il suffragio sempre più allargato, con i Comuni presi d’assalto dal socialismo (nel 1917?!!), nei Consigli Comunali su dieci consiglieri vi erano forse due aniministratori che pagavano tasse (tasse dirette, vuol dire, ma quelle indirette, tra cui il dazio sul grano a beneficio dei vari Tanari?) mentre altri otto, nullatenenti, le mettevano (cioè cercavano di impedire che le amministrazioni, come avrebbero voluto i vari Tanari, vivessero solo con le imposte indirette). Questo numero esiguo di abbienti di fronte ai non abbienti sottostava alla teoria social‑comunista del così detto “carciofo” (la teoria, a dire il vero, è molto più antica, è precisamente la teoria della politica piemontese nell’unificazione italiana e il Tanari commette un delitto di lesa maestà affermando che si tratta di una teoria socialcomunista, e nel 1917, per giunta); metter cioè sempre più tasse a carico di coloro che possedevano e piano piano, foglia per foglia, giungere alla espropriazione. In alcuni Comuni ci si era quasi arrivati (!?). Cosa mi venne in mente allora?... In Francia, pensavo, sopra una popolazione di 40 milioni di abitanti vi erano nell’anteguerra quattro milioni di proprietari: in Italia sopra 35 milioni non eravamo che un milione e mezzo. Evidentemente in pochi, per difendersi con l’aria che tirava in quei tempi! (“in quei tempi” era poi il 1917!) Ed allora azzardai questa idea veramente “rivoluzionaria”: “Se venisse una legge che facilitasse non coattivamente (notate bene), ma liberamente il trapasso della media e grande proprietà assenteista (in corsivo dall’autore) nei coltivatori diretti del suolo, quando risultassero tecnicamente, moralmente e finanziariamente idonei, pagando la terra, si noti bene (in corsivo dall’autore), con obbligazioni garantite in parte dal reddito della nuova proprietà ed in parte dallo Stato, io non sarei stato contrario (come, Dio me lo perdoni, non lo sono neanche ora) ad una simile legge”. Non l’avessi mai detto! Socialisti più evoluti e intelligenti capirono benissimo dove andavo a vulnerarli e me lo dissero. Altri meno onesti tolsero al mio articolo il punto interrogativo; così che da una questione posta dubitativamente ed interrogativa, si passò ad una affermativa. Nell’altro campo dei proprietari, parecchi che non mi avevano letto, o che non capivano nulla, mi considerarono come un vero espropriatore; e così con la migliore intenzione in difesa del principio di proprietà, bersagliato tra i due fuochi di opposti interessi mi convinsi... che avevo ragione! (corsivo dall’autore)».

Questa lettera del senatore G. Tanari è notevole per la sua ipocrisia politica e per le sue reticenze. Occorre notare: che il Tanari si guarda bene dal dare le indicazioni precise dei suoi scritti, che risalgono alla fine del 17 o ai primi del 18, mentre egli, molto abilmente, ma anche con molta rozza slealtà, cerca di far credere del dopo guerra. Ciò che spinse il Tanari a occuparsi della divisione della terra e a sostenerla esplicitamente (naturalmente egli ha ragione quando sostiene che voleva rafforzare la classe dei proprietari, ma non è questa la quistione) fu lo spavento che invase la classe dirigente per le crisi militari del 17 e che la spinse a fare larghe promesse ai soldati contadini (cioè alla stragrande maggioranza dell’esercito). Queste promesse non furono mantenute e oggi il marchese Tanari si «vergogna» di essere stato debole, di avere avuto paura, di avere fatto della demagogia la più scellerata. In ciò consiste l’ipocrisia politica del Tanari e da ciò le sue reticenze e i suoi tentativi di far apparire la sua iniziativa nell’atmosfera del dopoguerra e non in quella del 1917‑18. Bologna era allora zona di guerra e il Tanari scrisse l’articolo nel «Resto del Carlino», cioè nel giornale che, dopo il «Corriere», era il più diffuso in trincea.

Il Tanari esagera nel descrivere la reazione contro di lui dei proprietari. Di fatto avvenne che il suo primo articolo fu discusso molto serenamente dal senatore Bassini, grande proprietario veneto, il quale mosse al Tanari obbiezioni di carattere tecnico («come possono essere divise le aziende agricole industrializzate») non di carattere politico. L’articolo del Tanari, quello del Bassini e la risposta del Tanari (mi pare che ci sia stata una risposta «illustrativa») furono riportati dalla «Perseveranza», giornale moderato e legato agli agrari lombardi, diretto allora o dal conte Arrivabene o da Attilio Fontana, noto agrario. Il rimprovero che i proprietari avranno certamente fatto al Tanari sarà stato quello di averli compromessi pubblicamente di fronte ai soldati‑contadini, di non aver lasciato che solo degli irresponsabili facessero promesse che si sapeva non sarebbero state mantenute. Ed è questo il rimprovero che anche oggi continueranno a fargli, perché comprendono che non tutti hanno dimenticato come le promesse fatte nel momento del pericolo non sono state mantenute. L’episodio merita di essere esaminato e studiato perché molto educativo. (Su questo episodio devo aver scritto una nota in altro posto, senza aver davanti la lettera del Tanari: vedere e raggruppare).

Q2 §67 Nicola Zingarelli, Le idee politiche del Petrarca, «Nuova Antologia», 16 giugno 1928.

Q2 §68 E. De Cillis, Gli aspetti e le soluzioni del problema della colonizzazione agraria in Tripolitania, Nuova Antologia, 16 luglio 1928. Vedere la letteratura in proposito e seguire le pubblicazioni del De Cillis. L’articolo è interessante perché realistico.

Q2 §69 H. Nelson Gay, Mazzini e Antonio Gallenga apostoli dell’Indipendenza italiana in Inghilterra (con nove lettere inedite di Mazzini), Nuova Antologia, 16 luglio 1928. Tratta specialmente della violazione di segreto epistolare compiuta dal governo inglese a danno di Mazzini nel 1844 prima della spedizione dei fratelli Bandiera e del servizio reso dall’Inghilterra ai Borboni, comunicandogli i dati della congiura. I fratelli Bandiera furono arrestati per «merito» del governo inglese o di un mazziniano traditore (Boccheciampe)? Bisogna vedere con maggiore esattezza, perché l’arresto dei Bandiera domandò misure militari e spese così cospicue, che solo una grande autorità nella fonte d’informazione poteva decidere il governo a fare, dato che non dovevano mancare le informazioni infondate da parte di provocatori e speculatori su congiure, iniziative rivoluzionarie, ecc. Perciò bisogna precisare meglio se la responsabilità del governo inglese (lord Aberdeen) fu solo morale (in quanto realmente informò) o anche decisiva e immediata (in quanto senza di essa non ci sarebbe stata la repressione così come avvenne). Il deputato radicale Duncombe, che presentò in Parlamento la petizione di Mazzini, in un discorso affermò: «Se un monumento dovesse essere eretto in memoria di coloro che caddero a Cosenza, come spero sarà fatto, la lapide commemorativa dovrebbe ricordare che essi caddero per la causa della giustizia e della verità, vittime della bassezza e dell’inganno di un Ministro Britannico».

Q2 §70 La Rivoluzione francese e il Risorgimento. Un motivo che ricorre spesso nella letteratura italiana, storica e non storica, è questo espresso da Decio Cortesi in un articolo, Roma centotrent’anni fa (Nuova Antologia, 16 luglio 1928): «È da deplorare che nella pacifica Italia, che s’incamminava verso un miglioramento graduale e senza scotimenti (!!?), le teorie giacobine, figlie di un idealismo pedantesco, che nei nostri cervelli non ha mai allignato, dessero occasione a tante scene di violenze; ed è da deplorare tanto più perché se queste violenze, nella Francia ancora oppressa dagli ultimi avanzi del feudalismo e da un dispotismo regale, potevano, fino ad un certo punto, essere giustificate, in Italia, dai costumi semplici e schiettamente democratici in pratica (!!?), non avevano uguale (ragione) d’essere. I reggitori d’Italia potevano essere chiamati «tiranni» nei sonetti dei letterati, ma chi senza passione prende a considerare il benessere del quale godé il nostro paese nello splendido secolo XVIII non potrà non pensare con qualche rimpianto a tutto quell’insieme di sentimenti e di tradizioni che l’invasione straniera colpì a morte».

L’osservazione potrebbe essere vera se la restaurazione stessa avvenuta dopo il 15 non dimostrasse che anche in Italia la situazione del secolo XVIII era tutt’altro da quella ritenuta. L’errore è di considerare la superficie e non le condizioni reali delle grandi masse popolari. In ogni modo è giusto che senza l’invasione straniera i «patriotti» non avrebbero acquistato quell’importanza e non avrebbero subìto quel relativamente rapido processo di sviluppo che poi ebbero. L’elemento rivoluzionario era scarso e passivo.

Q2 §71 Sui bilanci dello Stato. Vedere i discorsi in Senato dell’on. Federico Ricci, ex Sindaco di Genova. Questi discorsi sono da leggere prima di ogni lavoro sulla storia di questi anni.

Nel discorso del 16 dicembre 1929 sul rendiconto dell’esercizio finanziario 1927‑28 il Ricci osservò:

1) A proposito della Cassa d’ammortamento del debito estero istituito con decreto‑legge 3 marzo 1926 dopo gli accordi di Washington (14 novembre 1925) e di Londra (27 gennaio 1926): che gli avanzi realizzati sulla differenza fra quota pagata dalla Germania e quota pagata dall’Italia all’America e all’Inghilterra viene imprestata alla Tesoreria che a un certo punto dovrà restituirla (si arriverà a miliardi) quando l’Italia dovrà pagare più di quanto riceve. Pericolo che la Tesoreria non possa pagare. L’Italia ha ricevuto dalla Germania pagamenti in natura e in denaro. Non vengono più pubblicati i resoconti dettagliati delle vendite fatte dallo Stato delle merci ricevute dalla Germania, e delle somme realizzate: non si sa se esse sono maggiori o minori di quelle accreditate.

2) A proposito della Cassa d’ammortamento dei debiti interni, istituita con decreto‑legge 5 agosto 1927 per provvedere all’estinzione del Consolidato e degli altri debiti di Stato. Doveva essere dotata cogli avanzi di bilancio, coi proventi degli interessi dei capitali, coi ricuperi per capitale e interesse dei prestiti fatti dallo Stato a certe industrie private, ecc. Dopo il primo anno, tutti i cespiti principali sono mancati, specialmente gli avanzi di bilancio. Essa è accreditata semplicemente per tali somme, sicché nei residui passivi il suo credito è di lire 1728 milioni. Le offerte dei privati nel resoconto ultimo fino al dicembre 1928 sono di 4 800 000 lire, somma molto inferiore a quella pubblicata nei giornali.

3) Polizze di assicurazione per i combattenti, istituite con decreto‑legge 10 dicembre 1917, in ragione di 500 lire per i soldati, 1000 lire per i sottufficiali e 5000 lire per gli ufficiali (è esatto? O non si parlava di 1000 lire per i soldati?) Esse verranno a scadenza nel 1947 o 1948, rappresentando un carico grandissimo per il bilancio (naturalmente gli interessati non hanno avuto quasi nulla e gli accaparratori saranno loro a riscuotere: ecco un argomento interessante). Il Governo con decreto 10 maggio 1923 aveva provvisto alla costituzione di una riserva presso la Cassa depositi e prestiti dando una prima dotazione di 600 milioni e più di 50 milioni annui I 600 milioni però non furono mai versati: sono iscritti fra i residui all’attivo come prestito da contrarre al 3,50% (portato poi al 4,75% con decreto 10 maggio 1925, n. 852) e al passivo come credito della C.D.P. Quanto ai 50 milioni, furono inscritti in bilancio per qualche anno e poi intervenne un decreto ministeriale il quale cancellò per l’anno in corso (1927) e per i successivi quel versamento (Decreto ministeriale 6 ottobre 1927, n. 116 635). «È curioso (!!?) che sia possibile mutare radicalmente la fisionomia del bilancio solennemente (!) approvato dalle Camere, con semplici decreti ministeriali che non compaiono sulla “Gazzetta Ufficiale”, dei quali lo stesso Capo del Governo potrebbe non saper nulla; e lo stesso ministro competente potrebbe averli firmati inavvertitamente»; queste parole del Ricci sono di colore oscuro)

Una osservazione del Ricci: La Cassa di ammortamento del debito interno, ha fatto un «debituccio» di 80 milioni per ammortizzare il Debito Pubblico!!! La Tesoreria, non sapendo dove sbattere la testa, si fece prestare denaro dall’Alto Commissario della Città di Napoli, dal Consorzio del Porto di Genova, ecc. Si fece prestare dalle Casse d’ammortamento del debito estero e di quello interno, facendo loro un trattamento curioso, non pagando cioè gli interessi!, ecc.

Q2 §72 A proposito dei bilanci. Occorre sempre confrontare il bilancio preventivo normale con le aggiunte, correzioni e variazioni che di solito vengono fatte dopo qualche mese; spesso in questo supplemento di bilancio, si annidano delle voci interessanti (per es. nel preventivo le spese segrete degli Esteri erano 1 500 000: nel supplemento ci fu un aumento di 10 000 000). Certo è che il supplemento interessa meno del preventivo ordinario, e perciò suscita meno curiosità e meno indagini: pare sia ordinaria amministrazione. La seconda parte della p. 96 è bianca.

Q2 §73 L’Action Française e il Vaticano. Bibliografia dal Mercure de France del 1° maggio 1928:

1) F. Gay., Comment j’ai défendu le Pape, «La Vie Catholique».

(Riproduzione degli articoli apparsi sulla «Vie Catholique», contro l’Action Française, dal 6 novembre 1926 al 13 agosto 1927).

2) Mermeix, Le Ralliement et l’Action Française, A. Fayard.

(Storia minutissima e documentatissima, ma molto tendenziosa, dell’adesione dei cattolici alla repubblica e delle vicende dell’Action Française, 1871‑ 1927).

3) A. Lugan, L’Action Française, de son origine à nos jours («Études sur les doctrines de l’Action Française», n. 4).

(Rimprovera all’Action Française d’aver perseguitato con la sua rabbia e le sue ingiurie Piou e l’Action libérale, Marc Sangnier e il Sillon, e di essersi associato a tutti coloro che con mezzi talvolta pochissimo onesti, come la delazione, andavano alla caccia del modernismo e del radicalismo fin tra i cardinali e i papi. La politica, presso questi atei e i loro alleati, contava più che la preoccupazione dell’integrità dottrinale; domanda che la religione venga separata da certe avventure che l’hanno compromessa anche troppo; è una notevole esposizione storica).

4) L’Equivoque du laicisme et les élections de 1928, par un Polytechnicien; Librairie du Petit Démocrate.

(Domanda la formazione di un grande partito che abbracci i «clericali» e una frazione del vecchio partito radicale. I cattolici hanno definitivamente ripudiato ogni spirito di predominio e domandano solo il diritto di sacrificarsi come hanno fatto durante la guerra; a tal fine occorre fare certe distinzioni nelle così dette «leggi laiche»).

5) Paul Rémond (vescovo di Clisma), L’heure d’obéir, «La Vie Catholique».

(«La Santa Sede domandava ai cattolici di porsi nel quadro della Costituzione, per meglio realizzare l’una nimità sul terreno puramente cattolico... L’Action Française dichiara che su questo terreno non può ricevere ordini da Roma...»).

Q2 §74 Bibliografia varia:

1) C. Smogorzeriski, Le jeu complexe des Partis en Pologne, «Geebethner et Wolff».

2) Louis Fischer, L’Impérialisme du pétrole, Rieder.

(Esposizione della storia della produzione del petrolio secondo i documenti del Ministero tedesco e del Commissariato russo. Contro Sir Henri Deterding e gli altri re del petrolio).

3) Charles Benoist, Les lois de la Politique française, A. Fayard.

(Tra l’altro: «il francese è guerriero, ma non militare», ha bisogno di essere disciplinato, perciò «il servizio militare di corta durata non è possibile che con quadri solidissimi»).

4) Georges Valois, Basile ou la Politique de la Calomnie, «Valois».

(Contro Maurras e l’Action Française: autobiografico. Storia del «Cercle Proudhon» e dei suoi «Cahiers». Vedere a proposito della partecipazione di Sorel il libro su Sorel di Pierre Lasserre e la corrispondenza Sorel‑Croce. Per la situazione esistente in Francia nel 1925 e per le speranze dei reazionari, «Maurras s’était presque engagé à faire la monarchie pour le fin de 1925». Per la storia lamentevole del movimento di Valois in Francia).

5) Edouard Champion, Le livre aux Etats Unis; lungo articolo nella «Revue des Deux Mondes» del 15 maggio e 1° giugno 1927.

6) Ottavio Cina, La Commedia Socialista, Bernardo Lux edit., Roma, 1914, pp. VIII‑102, 3° migliaio (?).

Titolo preso dal libro di Yves Guyot, La Comédie Socialiste, Paris, 1897, Charpentier (ma non lo dice).

Questo del Cina è un libercolo molto banale e pedestre, a tipo libellistico. Può essere considerato solo in una bibliografia di questa specie di letteratura ai margini estremi della polemica di quel tempo. Molto generico. Se cita fatti concreti o nomi, commette errori grossolani (cfr a p. 5, a proposito del contrasto Turati-Ferri). Vedi a che titolo lo cita Croce nella bibliografia della sua Storia d’Italia dal 1871 al 1915. Il Cina rimanda, a p. 34, a suoi articoli nell’«Economista d’Italia» del 1910. Fa un esame delle condizioni economiche in quegli anni, molto superficiale e banalmente tendenzioso, naturalmente, e finisce con un appello alla resistenza delle classi borghesi contro gli operai, anche con la violenza. Da questo punto di vista è interessante, come un segno dei tempi. Bisognerebbe vedere chi era (o è) questo signor Cina. Non pare un «nazionalista» nel senso di partito.

Q2 §75 R. Michels, Les Partis politiques e la contrainte sociale, «Mercure de France», 1° maggio 1928, pp. 513-535. «Le parti politique ne saurait être étymologiquement et logiquement qu’une partie de l’ensemble des citoyens, organisée sur le terrain de la politique. Le parti n’est donc qu’une fraction, pars pro toto» (?).

Secondo Max Weber (Wirtschaft und Gesellschaft, Grundriss der Sozialökonomik, III, 2a ediz., Tubinga 1925, pp. 167, 639) ha la sua origine da due specie di cause: sarebbe specialmente una associazione spontanea di propaganda e d’agitazione, che tende al potere per procurare così ai suoi aderenti attivi (militanti) possibilità morali e materiali per realizzare fini oggettivi o vantaggi personali o ancora le due cose insieme. L’orientazione generale dei partiti politici consisterebbe pertanto nel Machtstreben, personale o impersonale. Nel primo caso i partiti personali sarebbero basati sulla protezione accordata a degli inferiori da un uomo potente. Nella storia (?) dei partiti politici i casi di tal genere sono frequenti. Nella vecchia dieta prussiana del 1855, che comprendeva molti gruppi politici, tutti avevano il nome dei loro capi: il solo gruppo che si diede il vero nome fu un gruppo nazionale, quello polacco (cfr Friedrich Naumann, Die politischen Parteien, Berlino, 1910, «Die Hilfe», p. 8).

La storia del movimento operaio dimostra che i socialisti non hanno sprezzato questa tradizione borghese. Spesso i partiti socialisti hanno preso il nome dai loro capi («comme pour faire aveu public de leur assujettissement complet à ces chefs») (!). In Germania, tra il e il 1875, le frazioni socialiste rivale erano i Marxisti e i Lassalliani. In Francia, in un’epoca più recente, le grandi correnti socialiste erano divise in Broussistes, Allemanistes, Blanquistes, Guesdistes e Jaurèssistes. È vero che gli uomini che davano così il nome ai diversi movimenti personificavano il più completamente possibile le idee e le tendenze che ispiravano il partito e li guidarono durante tutta la sua evoluzione (Maurice Charnay, Les Allemanistes, Parigi, Rivière, 1912, p. 25).

Forse c’è analogia tra i partiti politici e le sette religiose e gli ordini monastici; Yves Guyot, La Comédie socialiste, Parigi, 1897, Charpentier, p. 111). Ecco dei partiti-tipo, che potrebbero essere chiamati «partis de patronage». Quando il capo esercita un influsso sui suoi aderenti per qualità così eminenti che sembrano soprannaturali a questi ultimi, esso può essere chiamato capo charismatico (, dono di dio, ricompensa; cfr M. Weber, op. cit., p. 140). Questa nota è segnata 4 bis, cioè è stata inserita nelle bozze; non certo per la traduzione di «», ma forse per la citazione del Weber. Il Michels ha fatto molto baccano in Italia per la «sua» trovata del «capo charismatico» che probabilmente occorrerebbe confrontare era già nel Weber; bisognerebbe vedere anche il libro del Michels sulla Sociologia politica del 27: non accenna neanche che una concezione del capo per grazia di dio è già esistita e come!)

Tuttavia questa specie di partito si presenta talvolta in forme più generali. Lo stesso Lassalle, il capo dei Lassalliani, officialmente non era che presidente a vita dell’Allgemeiner Deutscher Arbeiterverein. Egli si compiaceva di vantarsi dinanzi ai suoi fautori dell’idolatria che godeva da parte delle masse deliranti e delle vergini vestite di bianco che gli cantavano dei cori e gli offrivano dei fiori. Questa fede charismatica non era solo frutto di una psicologia esuberante e un po’ megalomane, ma corrispondeva anche a una concezione teorica. Noi dobbiamo – disse agli operai renani esponendo loro le sue idee sull’organizzazione del partito – di tutte le nostre volontà disperse foggiare un martello e metterlo nelle mani d’un uomo la cui intelligenza, il carattere e l’attaccamento ci siano una garanzia che colpisca energicamente (cfr Michels, Les partis politiques, 1914, p. 130; non rimanda all’edizione italiana ampliata e del 24). Era il martello del dittatore. Più tardi le masse domandarono almeno un simulacro di democrazia e di potere collettivo, si formarono gruppi sempre più numerosi di capi che non ammettevano la dittatura di un solo. Jaurès e Bebel sono due tipi di capi charismatici. Bebel, orfano di un sottufficiale di Pomerania, parlava altezzosamente (?) ed era imperativo (Hervé lo chiamò il Kaiser Bebel: cfr Michels, Bedeutende Männer, Lipsia, 1927, p. 29). Jaurès, oratore straordinario, senza uguali, infiammato, romantico e insieme realista, che cercava di sormontare le difficoltà, «seriando» i problemi, per abbatterli a misura che si presentavano. (Cfr Rappoport, Jean Jaurès. L’homme. Le Penseur. Le Socialiste, 2a ed., Parigi, 1916, p. 366). I due grandi capi, amici e nemici, avevano in comune una fede indomita tanto nell’efficacia della loro azione, che nei destini delle legioni delle quali erano i portabandiera. Furono ambedue deificati: Bebel ancor vivo, Jaurès da morto.

Mussolini è un altro esempio di capo partito che ha del veggente e del credente.

Egli, inoltre, non è solo capo unico di un grande partito, ma è anche il capo unico di un grande Stato. Con lui anche la nozione dell’assioma: «il partito sono io», ha avuto, nel senso della responsabilità e del lavoro assiduo, il massimo sviluppo. (Storicamente inesatto. Intanto è proibita la formazione di gruppi e ogni discussione di assemblea, perché esse si erano verificate disastrose. Mussolini si serve dello Stato per dominare il partito e del partito, solo in parte, nei momenti difficili, per dominare lo Stato. Inoltre il cosidetto «charisma», nel senso del Michels, nel mondo moderno coincide sempre con una fase primitiva dei partiti di massa, con la fase in cui la dottrina si presenta alle masse come qualcosa di nebuloso e incoerente, che ha bisogno di un papa infallibile per essere interpretata e adattata alle circostanze; tanto più avviene questo fenomeno, quanto più il partito nasce e si forma non sulla base di una concezione del mondo unitaria e ricca di sviluppi perché espressione di una classe storicamente essenziale e progressiva, ma sulla base di ideologie incoerenti e arruffate, che si nutrono di sentimenti ed emozioni che non hanno raggiunto ancora il punto terminale di dissolvimento, perché le classi (o la classe) di cui è espressione, quantunque in dissoluzione, storicamente, hanno ancora una certa base e si attaccano alle glorie del passato per farsene scudo contro l’avvenire).

L’esempio che Michels dà come prova della risonanza nelle masse di questa concezione è infantile, per chi conosce la facilità delle folle italiane all’esagerazione sentimentale e all’entusiasmo «emotivo»: una voce su diecimila presenti dinanzi a palazzo Chigi avrebbe gridato: «No, sei tu l’Italia», in un’occasione di commozione obbiettivamente reale della folla fascista. Mussolinia avrebbe poi manifestato l’essenza charismatica del suo carattere nel telegramma inviato a Bologna in cui diceva di essere sicuro, assolutamente sicuro (e certamente lo era, pour cause) che niente di grave poteva capitargli prima d’aver portato a termine la sua missione.

«Nous n’avons pas ici à indiquer les dangers que la conception charismatique peut entraîner» (?). La direzione charismatica porta in sé un dinamismo politico vigorosissimo. Saint‑Simon, nel suo letto di morte, disse ai suoi discepoli di ricordarsi che per fare grandi cose, bisogna essere appassionati. Essere appassionati significa avere il dono di appassionare gli altri. È uno stimolante formidabile. Questo è il vantaggio dei partiti charismatici su gli altri basati su un programma ben definito e sull’interesse di classe. È vero, però, che la durata dei partiti charismatici è spesso regolata dalla durata del loro slancio e dal loro entusiasmo, che talvolta danno una base molto fragile. Perciò vediamo i partiti charismatici portati ad appoggiare i loro valori psicologici (!) sulle organizzazioni più durature degli interessi umani.

Il capo carismatico può appartenere a qualsiasi partito, sia autoritario sia antiautoritario (dato che esistano partiti antiautoritari, come partiti; avviene anzi che i «movimenti» antiautoritari, anarchici, sindacalisti‑anarchici, diventano «partito» perché l’aggruppamento avviene intorno a personalità «irresponsabili» organizzativamente, in un certo senso «carismatiche»).

La classificazione dei partiti del Michels è molto superficiale e sommaria, per caratteri esterni e generici: 1) partiti «carismatici», cioè raggruppamenti intorno a certe personalità, con programmi rudimentali; la base di questi partiti è la fede e l’autorità d’un solo. (Di tali partiti non se n’è mai visti; certe espressioni d’interessi sono in certi momenti rappresentate da certe personalità più o meno eccezionali: in certi momenti di «anarchia permanente» dovuta all’equilibrio statico delle forze in lotta, un uomo rappresenta l’«ordine» cioè la rottura con mezzi eccezionali dell’equilibrio mortale e intorno a lui si raggruppano gli «spauriti», le «pecore idrofobe» della piccola borghesia: ma c’è sempre un programma, sia pure generico, anzi generico appunto perché tende solo a rifare l’esteriore copertura politica a un contenuto sociale che non attraversa una vera crisi costituzionale, ma solo una crisi dovuta al troppo numero di malcontenti, difficili da domare per la loro mera quantità e per la simultanea ma meccanicamente simultanea manifestazione del malcontento su tutta l’area della nazione); 2) partiti che hanno per base interessi di classe, economici e sociali, partiti di operai, contadini o di «petites gens» (poiché) i borghesi non possono da soli formare un partito; 3) partiti politici generati (!) da idee politiche o morali, generali e astratte: quando questa concezione si basa su un dogma più sviluppato ed elaborato fino nei dettagli, si potrebbe parlare di partiti dottrinari, le cui dottrine sarebbero privilegio dei capi: partiti libero scambisti o protezionisti o che proclamano dei diritti di libertà o di giustizia come: «a ciascuno il prodotto del suo lavoro! a ciascuno secondo le sue forze! a ciascuno secondo i suoi bisogni!»

Il Michels trova, meno male, che questa distinzione non può essere netta né completa, perché i partiti «concreti» rappresentano per lo più sfumature intermedie o combinazioni di tutte e tre. A questi tre tipi ne aggiunge altri due: i partiti confessionali e i partiti nazionali (bisognerebbe ancora aggiungere i partiti repubblicani in regime monarchico e i partiti monarchici in regime repubblicano). Secondo il Michels i partiti confessionali più che una Weltanschauung professano una Ueberweltanschauung (che poi è lo stesso). I partiti nazionali professano il principio generale del diritto di ogni popolo e di ogni frazione di popolo alla completa sovranità senza condizioni (teorie di P. S. Mancini). Ma dopo il 48 questi partiti sono spariti, e sono sorti i partiti nazionalisti, senza principi generali perché negano agli altri ecc. (sebbene i partiti nazionalisti non sempre neghino «teoricamente» agli altri popoli ciò che affermano per il proprio: pongono la risoluzione del conflitto nelle armi, quando non partano da concezioni vaghe di missioni nazionali, come poi il Michels dice).

L’articolo è pieno di parole vuote e imprecise. «Il bisogno dell’organizzazione … e le tendenze ineluttabili (!) della psicologia umana, individuale e collettiva, cancellano alla lunga la maggior parte delle distinzioni originarie». (Cosa vuol dire tutto ciò: il tipo «sociologico» non corrisponde al fatto concreto). «Il partito politico come tale ha la sua propria anima (!), indipendente dai programmi e dai regolamenti che si è dato e dai principi eterni di cui è imbevuto». Tendenza all’oligarchia. «Dandosi dei capi, gli stessi operai si creano, con le proprie mani, nuovi padroni, la cui principale arma di dominio consiste nella loro superiorità tecnica e intellettuale, e nell’impossibilità d’un controllo efficace da parte dei loro mandanti». Gli intellettuali hanno una funzione (in questa manifestazione). I partiti socialisti, grazie ai numerosi posti retribuiti e onorifici di cui dispongono, offrono agli operai (a un certo numero di operai, naturalmente!) una possibilità di far carriera, ciò che esercita su di essi una forza di attrazione considerevole (questa forza si esercita, però, più sugli intellettuali).

Complessità progressiva del mestiere politico per cui i capi dei partiti diventano sempre più dei professionisti, che devono avere nozioni sempre più estese, un tatto, una pratica burocratica, e spesso una furberia sempre più vasta. Così i dirigenti si allontanano sempre più dalla massa e si vede la flagrante contraddizione che nei partiti avanzati esiste tra le dichiarazioni e le intenzioni democratiche e la realtà oligarchica (bisogna però osservare che altra è la democrazia di partito e altra la democrazia nello Stato: per conquistare la democrazia nello Stato può essere necessario – anzi è quasi sempre necessario – un partito fortemente accentrato; e poi ancora: le quistioni di democrazia e di oligarchia hanno un significato preciso che è loro dato dalla differenza di classe tra capi e gregari: la quistione diventa politica, acquista un valore reale cioè e non più solo di schematismo sociologico, quando nell’organizzazione c’è scissione di classe: ciò è avvenuto nei sindacati e nei partiti socialdemocratici: se non c’è differenza di classe la quistione diventa puramente tecnica – l’orchestra non crede che il direttore sia un padrone oligarchico – di divisione del lavoro e di educazione, cioè l’accentramento deve tener conto che nei partiti popolari l’educazione e l’«apprendissaggio» politico si verifica in grandissima parte attraverso la partecipazione attiva dei gregari alla vita intellettuale – discussioni – e organizzativa dei partiti. La soluzione del problema, che si complica appunto per il fatto che nei partiti avanzati hanno una grande funzione gli intellettuali, può trovarsi nella formazione tra i capi e le masse di uno strato medio quanto più numeroso è possibile che serva di equilibrio per impedire ai capi di deviare nei momenti di crisi radicale e per elevare sempre più la massa).

Le idee di Michels sui partiti politici sono abbastanza confuse e schematiche, ma sono interessanti come raccolta di materiale grezzo e di osservazioni empiriche e disparate.

Anche gli errori di fatto non sono pochi (il partito bolscevico sarebbe nato dalle idee minoritarie di Blanqui e dalle concezioni, più severe e più diversificate, del movimento sindacalista francese, inspirate da G. Sorel). La bibliografia degli scritti del Michels si può sempre ricostruire dai suoi stessi scritti, perché egli si cita abbondantemente.

La ricerca può incominciare dai libri che ho già. Un’osservazione interessante per il modo di lavorare e di pensare del Michels: le sue scritture sono zeppe di citazioni bibliografiche, in buona parte oziose e ingombranti. Egli appoggia anche i più banali truismi con l’autorità degli scrittori più disparati. Si ha spesso l’impressione che non è il corso del pensiero che determina le citazioni, ma il mucchio di citazioni già pronte che determina il corso del pensiero, dandogli un che di saltellante e improvvisato. Il Michels deve aver costruito un immenso schedario, ma da dilettante, da autodidatta. Può avere una certa importanza sapere chi ha fatto per la prima volta una certa osservazione, tanto più se questa osservazione ha dato uno stimolo a una ricerca o ha fatto progredire in qualsiasi modo una scienza. Ma annotare che il tale o il tal altro ha detto che due e due fanno quattro è per lo meno inetto.

Altre volte le citazioni sono molto addomesticate: il giudizio settario, o, nel caso migliore, epigrammatico, di un polemista, viene assunto come fatto storico o come documento di fatto storico. Quando a p. 514 di questo articolo sul «Mercure de France», egli dice che in Francia la corrente socialista era divisa in Broussisti, Allemanisti, Blanquisti, Guesdisti e Jauressisti per trarne l’osservazione che nei partiti moderni avviene come negli ordini monastici medioevali (benedettini, francescani, ecc.), con la citazione della Comédie socialiste di Yves Guyot, da cui deve aver preso lo spunto, egli non dice che quelle non erano le denominazioni ufficiali dei partiti, ma denominazioni di «comodo» nate dalle polemiche interne, anzi quasi sempre contenevano implicitamente una critica e un rimprovero di deviazione personalistica, critica e rimprovero scambievoli che si irrigidivano poi nell’effettivo uso della denominazione personalistica (per la stessa ragione «corporativa» e «settaria» per cui i «Gueux» si chiamarono anch’essi così). Per questa ragione tutte le considerazioni epigrammatiche del Michels cadono nel superficialismo da salotto reazionario.

La pura descrittività e classificazione esterna della vecchia sociologia positivistica sono un altro carattere essenziale di queste scritture del Michels: egli non ha nessuna metodologia intrinseca ai fatti, nessun punto di vista critico che non sia un amabile scetticismo da salotto o da caffè reazionario che ha sostituito la sbarazzineria altrettanto superficiale del sindacalismo rivoluzionario e del sorellismo.

Rapporti tra Michels e Sorel: lettera di Sorel a Croce in cui accenna alla superficialità di Michels e tentativo meschino del Michels per togliersi di dosso il giudizio del Sorel. Nella lettera al Croce del 30 maggio 1916 («Critica», 20 settembre 1929, p. 357) il Sorel scrive: «Je viens de recevoir une brochure de R. Michels, tirée de Scientia, mai 1916: “La débacle de L’Internatioriale ouvrière et l’avenir”. Je vous prie d’y jeter les yeux; elle me semble prouver que l’auteur n’a jamais rien compris à ce qui est important dans le marxisme. Il nous présente Garibaldi, L. Blanc, Benoit Malon (!!) comme les vrais maîtres de la pensée socialiste…». (L’impressione del Sorel deve essere esatta – io non ho letto questo scritto del Michels – perché essa colpisce in modo più evidente nel libro del Michels sul movimento socialista italiano, Edizioni della «Voce»).

Nei «Nuovi studi di Diritto, Economia e Politica» del settembre‑ottobre 1929, il Michels pubblica cinque letterine inviategli dal Sorel (1a nel 1905,2a nel 1912 3a nel 1917, 4a nel 17, 5a nel 17) di carattere tutt’altro che confidenziale, ma piuttosto di corretta e fredda convenienza, e in una nota (v. p. 291) scrive a proposito del su citato giudizio: «Il Sorel evidentemente non aveva compreso (!) il senso più diretto dell’articolo incriminato, in cui io avevo accusato (!) il marxismo di lasciarsi sfuggire (!) il lato etico del socialismo mazziniano ed altro, e di aver, esagerando il lato meramente economico, portato il socialismo alla rovina. D’altronde, come risulta dalle lettere già pubblicate (quali lettere? quelle pubblicate dal Michels, queste cinque in parola? esse non dicono nulla), lo scatto (in corsivo dal Michels, ma si tratta di ben altro che scatto; per il Sorel si tratta, pare, di conferma di un giudizio già fatto da un pezzo) del Sorel nulla tolse ai buoni rapporti (!) coll’autore di queste righe». In queste nei «Nuovi Studi», il Michels mi pare tende ad alcuni fini discretamente interessanti e ambigui: a gettare un certo discredito sul Sorel come uomo e come «amico» dell’Italia e a far apparire se stesso come patriotta italiano di vecchia data. Ritorna questo motivo molto equivoco nel Michels (credo di aver notato altrove la sua situazione allo scoppio della guerra). È interessante la letterina di Sorel a Michels del 10 luglio 1912: «Je lis le numéro de la Vallée d’Aoste che vous avez bien voulu m’envoyer. J’y ai remarqué que vous affirmez un droit au séparatisme qui est bien de nature à rendre suspect aux Italiens le maintien de la langue française dans la Vallée d’Aoste», Michels nota che si tratta di un numero unico: «La Vallée d’Aoste pour sa langue française», pubblicato nel maggio 1912 ad Aosta dalla tipografia Margherittaz, sotto gli auspici di un Comitato locale valdostano per la protezione della lingua francese (collaboratori, Michels, Croce, Prezzolini, Graf, ecc.). «Inutile dire che nessuno di questi autori aveva fatta sua, come con soverchia licenza poetica si esprime il Sorel, una qualsiasi tesi separatista». Il Sorel accenna solo al Michels ed io sono portato a credere che egli abbia veramente per lo meno accennato al diritto al separatismo (bisognerebbe controllare nel caso di una presentazione del Michels che sarà necessaria un giorno).

Q2 §76 Gli ufficiali in congedo. Traggo le notizie dal discorso del senatore Libertini tenuto al Senato il 10 giugno 1929. L’Unione Nazionale degli Ufficiali in congedo illimitato (U.N.U.C.I.) è sorta in relazione al R. D. L. 9 dicembre 1926 (n. 2352) convertito in legge il 12 febbraio1928 n. 261: diede frutti molto scarsi, perché, dice il Libertini, «mancava in essa lo spirito necessario a darle vita».

(Questa affermazione è interessante, in quanto per «spirito» si intende precisamente la concessione di benefici materiali, i quali, in questo caso, vengono velati eufemisticamente nell’espressione «giuste aspirazioni della benemerita classe degli ufficiali in congedo, i quali sentivano di avere bene meritato dalla Patria per i servizi da loro prestati nella guerra di redenzione ed intendono perciò esser tenuti nella considerazione che meritano, moralmente e materialmente». Se si fosse trattato di classi popolari, non si sarebbe trattato di «spirito» ma di basse avidità materialistiche, suscitate dalla demagogia, ecc. Questo modo di pretendere «gratuitamente» dalle masse popolari ciò che invece è «pagato» alle altre classi è caratteristico dei dirigenti italiani: se le masse rimangono passive, la colpa non è dell’insipienza dei dirigenti e del loro gretto egoismo, ma dei demagoghi: è poi notevole il modo di ragionare per cui è «materialistico» chi vuole migliorare le proprie condizioni economiche ma non è tale chi non vuole peggiorare sia pure di poco le proprie: si domanda «materialisticamente», si rifiuta «idealisticamente»; chi non ha è gretto, chi ha è altruista perché non dà, ecc.).

Nuova legge del 24 dicembre 1928, n. 3242, che concede benefizi. Il Libertini a questo punto esamina la situazione degli ufficiali in congedo in Jugoslavia e in Francia. In Francia gli ufficiali di riserva, se viaggiano per recarsi alle conferenze ed esercitazioni nelle scuole di perfezionamento fuori residenza, ricevono indennità dai 12 ai 32 franchi giornalieri a seconda della durata dell’assenza; indennità chilometriche di prima classe (tariffa militare) andata e ritorno, ecc. ecc. A partire dal 1° gennaio1925 l’ufficiale di riserva francese riceve 700 franchi a titolo di indennità di prima vestizione; a chi non ha riscosso questa indennità, si dà un vestito gratis.

In Jugoslavia: sono iscritti all’Albo degli ufficiali in congedo ed ex combattenti costituito nel 1922, 18 000 ufficiali di riserva e 35 000 ex combattenti, cioè a dire la quasi totalità degli ufficiali in congedo. In caso di «servizio» per istruzione, ecc., sono vettovagliati, alloggiati e rimborsati delle spese di viaggio.

Ancora a proposito dello «spirito», nel discorso alla Camera il generale Gazzera, sottosegretario alla guerra, ammise che il provvedimento di invitare gli ufficiali in congedo a prestare volontariamente servizio durante il periodo estivo di esercitazioni ha avuto questo risultato: nel 1926 si presentarono 1007 ufficiali, nel 27 206 e nel 28 165!!

(Lo Stato deve curare gli ufficiali in congedo per due fondamentali ordini di ragioni: la prima di carattere tecnico, perché questi ufficiali, che saranno richiamati come tali in caso di mobilitazione, non perdano la qualifica professionale acquistata e la sviluppino anzi coll’apprendimento teorico-pratico delle innovazioni che vengono introdotte nei sistemi tattici e strategici; la seconda di carattere ideologico facilmente comprensibile.

A proposito dello «spirito» e della «materia» le osservazioni non riguardano naturalmente gli ufficiali, ma i dirigenti. Le cifre del Gazzera sono molto interessanti, più ancora se si considera che molti sono gli ufficiali appartenenti alle organizzazioni ufficiali politiche: sono da mettere insieme alle cifre sull’appartenenza alle associazioni di propaganda coloniale citate da Carlo Curcio nella «Critica fascista» del luglio 1930: da tener presente per la rubrica Passato e Presente).

Q2 §77 La politica militare. Leggere attentamente le discussioni specialmente del Senato sui bilanci militari. Si possono trovare molte osservazioni interessanti sulla reale efficienza delle forze armate e per il confronto tra il vecchio e nuovo regime.

Q2 §78 Atlantico‑Pacifico. Funzione dell’Atlantico nella civiltà e nell’economia moderna. Si sposterà questo asse nel Pacifico? Le masse più grandi di popolazione del mondo sono nel Pacifico: se la Cina e l’India diventassero nazioni moderne con grandi masse di produzione industriale, il loro distacco dalla dipendenza europea romperebbe appunto l’equilibrio attuale: trasformazione del continente americano, spostamento dalla riva atlantica alla riva del Pacifico dell’asse della vita americana, ecc. Vedere tutte queste quistioni nei termini economici e politici (traffici, ecc.).

Q2 §79 I contadini italiani. Problemi contadini: malaria, brigantaggio, terre incolte, pellagra, analfabetismo, emigrazione. (Nel Risorgimento questi problemi furono trattati? come? da chi?). Nel periodo del Risorgimento alcuni di questi malanni raggiungono il grado massimo di gravità: il Risorgimento coincide con un periodo di grande depressione economica in larghe regioni italiane, che viene aumentata dal sommovimento politico. La pellagra apparve in Italia nel corso del 700, e andò sempre più aggravandosi nel secolo successivo: ricerche sulla pellagra di medici ed economisti. (Quali le cause della pellagra e della cattiva nutrizione dei contadini che ne è l’origine?). Confrontare il libro di Luigi Messedaglia: Il Mais e la vita rurale italiana (Piacenza, Ed. Federazione dei consorzi agrari, 1927). Questo libro del Messedaglia è necessario per lo studio della quistione agraria italiana, come il libro del Jacini e quelli di Celso Ulpiani.

Q2 §80 Sull’emigrazione italiana. Articolo di Luigi Villari nella Nuova Antologia del 16 febbraio 1928: L’emigrazione italiana vista dagli stranieri. Sull’emigrazione il Villari ha scritto parecchio: vedere. (In questo articolo recensisce alcuni libri americani, inglesi e francesi che parlano dell’emigrazione italiana).

Q2 §81 I volontari nel Risorgimento. Paulo Fambri scrisse un articolo sui volontari nella Nuova Antologia (o «Antologia») del 1867 (?). Nella Nuova Antologia del 1° agosto 1928, L’Archivio inedito di Paulo Fambri (di A. F. Guidi), è riportata una lettera diretta al Fambri del generale C. di Robilant che era direttore della Scuola Superiore di Guerra di Torino (la lettera è del 31 gennaio 1868) in cui si approva la prima parte dell’articolo del Fambri. Il Di Robilant aggiunge che dei 21 000 volontari del 1859 solo la metà o poco più era presente nelle file combattenti (cfr i giudizi di Plon‑Plon contro i volontari in questa stessa guerra del 59).

Q2 §82 Giolitti. Articolo nella Nuova Antologia del 1° agosto 1928 su G. Giolitti di Spectator (che deve essere Mario Missiroli). L’articolo è interessante e bisogna servirsene nel caso di trattazione dello stesso argomento. Giolitti e il movimento operaio e socialista, Giolitti e il dopoguerra, ecc. Molti aspetti della politica di Giolitti sono appena sfiorati: in realtà il nocciolo della sua azione non è toccato, sebbene ci siano accenni che potrebbero far pensare che il Missiroli avrebbe potuto dire di più.

Q2 §83 Francesco Tommasini, La Conferenza panamericana dell’Avana, Nuova Antologia del 16 agosto e 1° settembre 1928. Articolo molto analitico e minuzioso.

Q2 §84 G. E. di Palma Castiglione L’organizzazione internazionale del lavoro e la XI sessione della Conferenza internazionale del lavoro, Nuova Antologia del 16 agosto.

Q2 §85 Daniele Varé, Pagine di un diario in Estremo Oriente, «Nuova Antologia» del 16 settembre, 1° e 16 ottobre 1928. Il Varé è un diplomatico italiano ministro in Cina non so di che grado: ha firmato l’accordo tra il governo italiano e quello di Ciang‑Kai‑Sceck nel 28 o 29. Queste pagine di diario sono disastrose sia letterariamente che da ogni altro punto di vista. Ai diplomatici dovrebbe essere proibita ogni pubblicazione (non solo per ciò che riguarda la politica) senza il placet di un ufficio speciale di revisione costituito di persone intelligenti, perché le loro fesserie extra‑diplomatiche nuocciono al governo tanto quanto quelle diplomatiche e feriscono il prestigio dello Stato che ha dato loro incarichi di rappresentanza.

Q2 §86 Giuseppe Tucci, La religiosità dell’India, Nuova Antologia 16 settembre 1928. Articolo interessante. Critica tutti i luoghi comuni che di solito si ripetono sull’India e sull’«anima» indiana, sul misticismo, ecc. L’India attraversa una crisi spirituale; il nuovo (spirito critico) non è ancora così diffuso da formare un’«opinione pubblica» che si contrapponga al vecchio: superstizione nelle classi popolari, ipocrisie, mancanza di carattere nelle classi superiori così dette colte. In realtà anche in India, le quistioni e gli interessi pratici assorbono l’attenzione pubblica. (È evidente che in India, dato il secolare intorpidimento sociale, e le stratificazioni ossificate della società e data anche, come avviene nei grandi paesi agrari, la grande quantità di intellettuali medii, specialmente ecclesiastici, la crisi durerà molto a lungo e sarà necessaria una grande rivoluzione perché si abbia l’inizio di una soluzione). Molte osservazioni che il Tucci fa a proposito dell’India si potrebbero fare per molti altri paesi e altre religioni. Tenere presente.

Q2 §87 Oscar di Giamberardino, Linee generali della politica marittima dell’Impero britannico, Nuova Antologia, 16 settembre 1928. Utile.

Q2 §88 Ettore Fabietti, Il primo venticinquennio delle Biblioteche popolari milanesi, Nuova Antologia, 1° ottobre 1928. Articolo molto utile per le informazioni che dà sull’origine e lo sviluppo di questa istituzione che è stata la più cospicua iniziativa per la cultura popolare del tempo moderno. L’articolo è abbastanza serio, sebbene il Fabietti abbia dimostrato di non essere lui molto serio: bisognerà riconoscergli tuttavia molte benemerenze e una indiscutibile capacità organizzativa nel campo della cultura operaia in senso democratico. Il Fabietti mette in luce come gli operai fossero i migliori «clienti» delle biblioteche popolari: curavano i libri, non li smarrivano (a differenza delle altre categorie di lettori: studenti, impiegati, professionisti, donne di casa, benestanti (?), ecc.); le letture di «belletristica» rappresentavano una percentuale relativamente bassa, inferiore a quella di altri paesi: operai che proponevano di pagare la metà di libri costosi pur di poterli leggere: operai che davano oblazioni fino di cento lire alle biblioteche popolari; un operaio tintore che è divenuto «scrittore» e traduttore dal francese con le letture e gli studi fatti nelle biblioteche popolari, ma continua a rimanere operaio.

La letteratura delle biblioteche popolari milanesi dovrà essere studiata per avere spunti «reali» sulla cultura popolare: quali libri più letti come categoria e come autori, ecc.; pubblicazioni delle biblioteche popolari, loro carattere, tendenze, ecc. Come mai una tale iniziativa solo a Milano in grande stile? Perché non a Torino o in altre grandi città? Carattere e storia del «riformismo» milanese; Università Popolare, Umanitaria, ecc. Argornento molto interessante ed essenziale.

Q2 §89 I primordi del movimento unitario a Trieste, di Camillo de Franceschi, Nuova Antologia, 1° ottobre 1928. Articolo incoerente e a base retorica. Ci sono però degli accenni all’intervento del «materialismo storico» nella trattazione della quistione nazionale, argomento che sarà interessante studiare concretamente.

Di Angelo Vivante: Socialismo, Nazionalismo, Irredentismo nelle provincie adriatiche orientali, Trieste, 1905; Irredentismo adriatico, Firenze, 1912 (opuscoli della «Voce»?). Del Vivante, che fu uomo molto serio e di molto carattere, furono pubblicati opuscoli dall’editrice «Avanti!» per cura di Mussolini, che difese il Vivante dagli attacchi feroci degli irredentisti e nazionalisti. Alla bibliografia su questo argomento bisogna aggiungere gli articoli di Mussolini sull’«Avanti!» a proposito di Trieste e il suo opuscolo sul Trentino pubblicato dalla «Voce». Articoli furono pubblicati dal «Viandante» di Monicelli, dovuti ad Arturo Labriola, a Francesco Ciccotti e mi pare ad altri (il problema nazionale fu uno dei punti critici per cui una parte degli intellettuali sindacalisti passò al nazionalismo: Monicelli, ecc.). Vedere in quanto il Vivante seguiva l’austro‑marxismo sulla quistione nazionale e in quanto se ne distaccava; vedere le critiche dei russi all’austro‑marxismo sulla quistione nazionale. Speciale forma che assumeva la quistione nazionale a Trieste e in Dalmazia (per gli italiani): articolo di Ludo Hartmann nella «Unità» del 1915 riprodotto nel volumetto sul Risorgimento (ed. Vallecchi): polemiche sulla «Voce» a proposito dell’irredentismo e della quistione nazionale con molti articoli (mi pare uno del Borgese) favorevoli alla tesi «austriaca» (Hartmann).

Q2 §90 La nuova evoluzione dell’Islam, 1) Michelangelo Guidi, 2) Sirdar Ikbal Ali Shah, Nuova Antologia, 1° ottobre 1928. Si tratta di un articolo mediocre del diplomatico afgano anglofilo Ikbal Ali Shah e di una breve nota introduttiva del prof. Michelangelo Guidi. La nota del Guidi pone, senza risolverlo, il problema se l’Islam sia come religione conciliabile con il progresso moderno e se esso sia suscettibile d’evoluzione. Si riferisce a un recente libretto del prof. R. Hartmann, «profondo e diligente studioso tedesco di lingue e civiltà orientali», Die Krisis des Islams, pubblicato dopo un soggiorno ad Angora e che risponde affermativamente alla quistione; e riporta il giudizio espresso dal prof. Kampffmeyer in una recensione pubblicata del libretto dello Hartmann nell’«Oriente Moderno» (agosto 1928) che un breve soggiorno in Anatolia non può essere sufficiente per giudicare su quistioni così vive, ecc., e che troppe delle fonti dell’Hartmann sono di origine letteraria e le apparenze ingannano, in Oriente più che altrove, ecc. Il Guidi (almeno in questa nota) non conclude, ricordando solo che può soccorrerci l’opinione degli orientali stessi (ma non sono essi «apparenza» che inganna, presi uno per uno ecc.?), sebbene all’inizio abbia scritto che sarebbe utopistico pensare che l’Islam possa mantenersi nel suo splendido isolamento e che nell’attesa maturino in esso nuovi formidabili agenti religiosi e la forza insita nella concezione orientale della vita abbia ragione del materialismo occidentale e riconquisti il mondo.

Mi pare che il problema sia molto più semplice di quanto lo si voglia fare apparire, per il fatto che implicitamente si considera il «cristianesimo» come inerente alla civiltà moderna, o almeno non si ha il coraggio di porre la quistione dei rapporti tra cristianesimo e civiltà moderna. Perché l’Islam non potrebbe fare ciò che ha fatto il cristianesimo? Mi pare anzi che l’assenza di una massiccia organizzazione ecclesiastica del tipo cristiano‑cattolico dovrebbe rendere più facile l’adattamento. Se si ammette che la civiltà moderna nella sua manifestazione industriale economico‑politica finirà col trionfare in Oriente (e tutto prova che ciò avviene e che anzi queste discussioni sull’Islam avvengono perché c’è una crisi determinata appunto da questa diffusione di elementi moderni) perché non bisogna concludere che necessariamente l’Islam si evolverà? Potrà rimanere tal quale? No: già non è più quello di prima della guerra. Potrà cadere d’un colpo? Assurdo. Potrà essere sostituito da una religione cristiana? Assurdo pensarlo per le grandi masse. Il Vaticano stesso si accorge come sia contradditorio voler introdurre il cristianesimo nei paesi orientali in cui viene introdotto il capitalismo: gli orientali ne vedono l’antagonismo che nei nostri paesi non si vede perché il cristianesimo si è adattato molecolarmente ed è diventato gesuitismo, cioè una grande ipocrisia sociale: da ciò le difficoltà dell’opera delle missioni e lo scarso valore delle conversioni, d’altra parte molto limitate.

In realtà la difficoltà più tragica per l’Islam è data dal fatto che una società intorpidita da secoli di isolamento e da un regime feudale imputridito (naturalmente i signori feudali non sono materialisti!!) è troppo bruscamente messa a contatto con una civiltà frenetica che è già nella sua fase di dissoluzione. Il Cristianesimo ha impiegato nove secoli a evolversi e ad adattarsi, lo ha fatto a piccole tappe, ecc.: l’Islam è costretto a correre vertiginosamente. Ma in realtà esso reagisce proprio come il cristianesimo: la grande eresia su cui si fonderanno le eresie propriamente dette è il «sentimento nazionale» contro il cosmopolitismo teocratico. Appare poi il motivo del ritorno alle «origini» tale e quale come nel cristianesimo; alla purezza dei primi testi religiosi contrapposta alla corruzione della gerarchia ufficiale: i Wahabiti rappresentano proprio questo e il Sirdar Ikbal Ali Shah spiega con questo principio le riforme di Kemal Pascià in Turchia: non si tratta di «novità» ma di un ritorno all’antico, al puro, ecc. ecc. Questo Sirdar Ikbal Ali Shah mi pare dimostri proprio come tra i mussulmani esista un gesuitismo e una casistica altrettanto sviluppati che nel cattolicismo.

Q2 §91 Giuseppe Gallavresi, Ippolito Tainestorico della Rivoluzione francese, «Nuova Antologia», 1° novembre 1928. Cabanis (Giorgio) 1750‑1808, sue teorie materialiste esposte nel libro dedicato allo studio dei rapporti tra le physique et le moral. Il Manzoni ammirava profondamente l’angélique Cabanis e anche quando si convertì continuò ad ammirare questo suo libro. Il Taine discepolo del Cabanis.

Il metodo induttivo e le norme dell’osservazione presi a prestito dalle scienze naturali dovevano portare il Taine, secondo il Gallavresi, alla conclusione che la Rivoluzione francese sia stata una mostruosità, una malattia. «La democrazia egualitaria è una mostruosità alla luce delle leggi della natura; ma il fatto che è stata concepita dall’uomo ed anche realizzata tratto tratto nella storia di taluni popoli deve far riflettere gli spiriti più riluttanti ad accettare un regime pur così convenzionale». (Interessanti questi concetti di «convenzionale», di «artificiale», ecc., applicati a certe manifestazioni storiche: «convenzionale» e «artificiale» sono implicitamente contrapposti a «naturale», cioè a uno schema «conservatore» veramente convenzionale e artificiale perché la realtà lo ha distrutto: in verità i peggiori «scientifisti» sono i reazionari che si proiettano una «evoluzione» di proprio comodo e ammettono l’importanza e l’efficacia dell’intervento della volontà umana fortemente organizzata e concentrata, solo quando è reazionaria, quando tende a restaurare ciò che è stato, come se ciò che è stato ed è stato distrutto non sia altrettanto «ideologico», «astratto», «convenzionale», ecc., di ciò che ancora non è stato effettuato e anzi molto più).

Questa quistione del Taine e della Rivoluzione Francese deve essere studiata perché ha avuto una certa importanza, nella storia della cultura del secolo scorso: confronta i libri di Aulard contro Taine e le pubblicazioni di Augustin Cochin su tutti e due. Questo articolo del Gallavresi è molto superficiale. (Confronta anche il fatto per cui la letteratura pamphletistica che precedette e accompagnò la Rivoluzione Francese sembra stomachevole agli spiriti raffinati: ma la letteratura gesuitica contro la Rivoluzione fu migliore o non fu peggiore? La classe rivoluzionaria intellettualmente è sempre debole da questo punto di vista: essa lotta per farsi una cultura ed esprimere una classe colta consapevole e responsabile: di più, tutti i malcontenti e i falliti delle altre classi si buttano dalla sua parte per rifarsi una posizione. Lo stesso non può dirsi della vecchia classe conservatrice, anzi il contrario: eppure la sua letteratura di propaganda è peggiore e più demagogica, ecc.).

Q2 §92I problemi dell’automobilismo al Congresso mondiale di Roma, di Ugo Ancona, nella Nuova Antologia del 1° novembre 1928. (Contiene qualche spunto interessante sulla mania delle autostrade dispendiosissime di questi anni e sul «puricellismo»; possono servire per Passato e presente: bisognerebbe fissare quanto nelle spese statali e locali è andato a strade indispensasabili e quanto a strade di lusso.

Q2 §93 Sull’americanismo. Roberto Michels, Cenni sulla vita universitaria negli Stati Uniti, Nuova Antologia, 1° novembre 1928. Qualche spunto interessante,

Q2 §94 Sulla finanza dello Stato. Le riforme del Tesoro, di «Alacer», nella Nuova Antologia del 16 novembre 1928. Integra l’articolo di Tittoni del giugno 27: da tener presente per seguire tutte le varie fasi della lotta sorda che gli elementi conservatori conducono intorno alla politica finanziaria.

Q2 §95 Quistioni interessanti della storia e della politica italiana. Confrontare Il mistero dei «Ricordi diplomatici» di Costantino Nigra di Delfino Orsi nella Nuova Antologia del 16 novembre 1928.

Articolo molto importante, sebbene pieno di particolari sciocchezze – (alcune delle quali dimostrano a che punto di esasperazione bestialmente acritica erano giunti molti borghesi italiani: a p. 148 l’Orsi scrive: «Il 19 ottobre 1904 il conte Nigra era giunto a Torino per recarsi il giorno dopo a Racconigi, dove il Re l’aveva chiamato per averlo testimonio, insieme al Bianchieri, alla rogazione dell’atto di nascita del Principe Ereditario. Da due giorni con un pretesto di sustrato economico, ma in verità coll’intenzione (!!) di turbare l’esultanza della Nazione per il faustissimo evento della Reggia, il partito socialista, messosi come al solito vilmente a rimorchio dei comunisti (!! nel 1904!), aveva proclamato lo sciopero generale in tutta Italia». Come le frasi fatte sostituiscono ogni forma responsabile di pensiero fino a condurre alle sciocchezze più esilaranti! Si potrebbe collocare in rubrica in Passato e Presente) –, perché riguarda uno di quei fatti che rimangono misteriosi: la sparizione dei Ricordi diplomatici del Nigra che l’Orsi ha visto ultimati, corretti, rifiniti e che sarebbero stati preziosissimi per la storia del Risorgimento. Collegare con l’affare Bollea per l’epistolario di M. D’Azeglio, coi costituti Confalonieri, ecc.

Q2 §96 Alfredo Oriani. È interessante una nota di Piero Zama, Alfredo Oriani candidato politico, nella Nuova Antologia del 16 novembre 1928.

Q2 §97 Augur, Il nuovo aspetto dei rapporti tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti d’America, Nuova Antologia del 16 dicembre 1928. (Espone questa ipotesi: che gli Stati Uniti cerchino di diventare la forza politica egemone dell’Impero inglese, cioè conquistino l’impero inglese dall’interno e non dall’esterno con una guerra).

Nello stesso fascicolo della Nuova Antologia vedi anche Oscar di Giamberardino La politica marittima degli Stati Uniti d’America; questo articolo è molto interessante e da tener presente.

Q2 §98 Nino Cortese, L’esercito napoletano e le guerre napoleoniche, Napoli, Ricciardi, 1928, pp. 199, in 8°, L. 12).

Q2 §99 Giuseppe Brindisi, Giuseppe Salvioli, Napoli, Casella, 1928, pp. 142, L. 5 (collezione «Contemporanei».

Il Brindisi è l’editore e il prefattore dell’edizione postuma del Capitalismo antico del Salvioli: vedere se in questo volumetto tratta la quistione dei rapporti tra il Salvioli e il materialismo storico nella forma crociana, ecc. (La prefazione al Capitalismo antico è però mediocre e balzellante). Da una recensione del Tilgher in «Italia che scrive» (settembre 1928) vedo che questo argomento è trattato ampiamente, insieme ad un altro, anch’esso interessante: le concezioni sociali del Salvioli, che lo portavano a una specie di socialismo giuridico di Stato (!?) non senza somiglianza con la legislazione sociale fascista.

Q2 §100 Pietro Silva, Bilanci consuntivi. La Storiografia, nell’«Italia che scrive» del settembre 1928. Interessante nota bibliografica sulle più recenti pubblicazioni storiche italiane. Da tener presente. Deve essere interessante, per le mie particolari ricerche, il volumetto di Arrigo Solmi, L’unità fondamentale della storia italiana (ed. Zanichelli), diretto a rintracciare e ad additare nella storia della penisola una continuità nazionale mai spezzata dai tempi di Roma in poi. Concezione interessante, ma certamente indimostrabile e riflesso indubbio degli attuali bisogni di propaganda.

(Contro questa tesi: Croce e Volpe).

Q2 §101 Albano Sorbelli, Opuscoli, stampe alla macchia e fogli volanti riflettenti il pensiero politico italiano (1830‑35). Saggio di bibliografia storica, Firenze, Leo S. Olschki, 1927, pp. LXXXVIII‑273, L. 70.

Il Sorbelli registra quasi un migliaio di fogli volanti e opuscoli, raggruppati in ordine cronologico e con un cenno del contenuto. Nella prefazione studia le correnti di pensiero di quegli anni, che si raggrupperanno nei partiti più tardi.

Q2 §102 Giuseppe Ferrari, Corso su gli scrittori politici italiani. Nuova edizione completa con prefazione di A. O. Olivetti. 1928, Milano, Monanni, pp. 700, L. 25.

Q2 §103 Adriano Tilgher, Perché l’artista scrive o dipinge, o scolpisce, ecc.?, nell’«Italia che scrive» del febbraio 1929.

Articolo tipico della incongruenza logica e della leggerezza morale del Tilgher, il quale dopo aver «sfottuto» banalmente la teoria del Croce in proposito, alla fine dell’articolo la ripresenta tale e quale come sua, in una forma fantasiosa e immaginifica. Dice il Tilgher che secondo il Croce «l’estrinsecazione fisica … del fantasma artistico ha scopo essenzialmente mnemonico», ecc. Questo argomento è da vedere: cosa significa per il Croce in questo caso «memoria»? Ha un valore puramente personale, individuale, o anche di gruppo? Lo scrittore si preoccupa solo di sé o storicamente è portato a pensare anche agli altri? ecc.

Q2 §104 Recensione del libro del Bonomi sul Bissolati nell’«Italia che scrive» del maggio 1929, di Giuseppe A. Andriulli. (Bisognerebbe poter seguire tutte queste recensioni di simili libri, specialmente se dovute a ex socialisti come l’Andriulli).

Q2 §105 «Mente et Malleo». Organo ufficiale dell’Istituto «M. Fossati», pubblicato a cura dell’Associazione Nazionale Esperti nell’Ordinamento della Produzione, Torino, via Rossini 18, Anno 1°, n. 1, 10 aprile 1929, in 4°, pp. 44‑XVI.

Bollettino tecnico quindicinale, si propone di portare un contributo all’organizzazione scientifica del lavoro od ordinamento razionale della produzione in qualsiasi campo dell’Industria, dell’Agricoltura, del Commercio.

Q2 §106 Risorgimento italiano. I giacobini italiani. Di solito sono trattati assai male nei libri e negli articoli divulgativi e se ne sa anche assai poco. Negli Atti del XIV Congresso nazionale per la storia del Risorgimento Italiano (1927) è pubblicato uno studio di Renato Sòriga, L’idea nazionale e il ceto dei «patrioti» avanti il maggio 1796, che rende noti alcuni documenti estratti dal copialettere di Filippo Buonarroti. Da questo studio si potranno avere dati bibliografici e indicazioni per studiare questo primo periodo del liberalismo italiano.

Q2 §107 Lo «stellone d’Italia». Come è nato questo modo di dire sullo «stellone» che è entrato a far parte dell’ideologia patriottica e nazionale italiana? Il 27 novembre 1871, il giorno in cui Vittorio Emanuele II inaugurò a Roma il Parlamento, fu visto di pieno giorno il pianeta Venere, che di solito (poiché Venere è un pianeta interno all’orbita della terra) non si può vedere che al mattino prima del nascere del sole o alla sera dopo il tramonto. Se poi certe condizioni atmosferiche favoriscono la visibilità del pianeta, non è raro il caso che esso possa vedersi anche dopo che il sole è spuntato ed anche prima che sia tramontato, ciò che appunto avvenne il 27 novembre 1871. Il fatto è ricordato nel modo più preciso da Giuseppe Manfroni, allora commissario di Borgo, che nelle sue Memorie scrive: «Il più grande avvenimento del mese di novembre è stata la inaugurazione della nuova sessione del Parlamento, avvenuta il 27 con un discorso pronunziato dal Re... non è mancato il miracolo; in pieno giorno si vedeva brillare sul Quirinale una stella lucentissima; Venere, dicono gli astronomi; ma il popolo diceva che la stella d’Italia illuminava il trionfo delle idee unitarie». La visibilità di Venere in pieno giorno pare sia fenomeno raro, non rarissimo, già osservato dagli antichi e nel Medio Evo. Nel dicembre 1797 quando Napoleone tornò trionfalmente a Parigi dopo la guerra italiana si vide il pianeta di giorno e il popolo diceva che era la stella di Napoleone.

Q2 §108 Letteratura popolare. Edoardo Perino. Sull’attività editoriale del Perino, che segnò un’epoca a Roma (il Perino stampò letteratura anticlericale a dispense illustrate, cominciando con la Beatrice Cenci di Guerrazzi), cfr il Memoriale di G. De Rossi, che dovrebbe essere stato pubblicato nel 27 o nel 28.

Q2 §109 Gli intellettuali francesi e la loro attuale funzione cosmopolita. La funzione cosmopolita degli intellettuali francesi dal 700 in poi è di carattere assolutamente diverso da quella esercitata dagli italiani precedentemente. Gli intellettuali francesi esprimono e rappresentano esplicitamente un compatto blocco nazionale, di cui sono gli «ambasciatori» culturali, ecc.

Per la situazione attuale dell’egemonia culturale francese confrontare il libro dell’editore Bernardo Grasset,La chose littéraire, Paris, Gallimard, 1929, in cui si parla specialmente dell’organizzazione libraria della produzione culturale francese nel dopo guerra coi nuovi fenomeni tipici dell’epoca presente.

Q2 §110 Cultura popolare. I poeti del popolo siciliano di Filippo Fichera, Isola del Liri, Soc. Tip. A. Macioce e Pisani, 1929. Credo si possano trovare in questo volume indicazioni per identificare l’importanza in Sicilia delle «gare poetiche» o «tenzoni» tenute in pubblico come rappresentazioni teatrali popolari. Che carattere hanno? Da una recensione pubblicata nel «Marzocco» del 1929 pare puramente religioso.

Q2 §111 Risorgimento, Il popolo e il Risorgimento. Nel «Marzocco» del 30 settembre 1928 è riassunto, col titolo La Serenissima meritava di morire?, un opuscolo miscellaneo di Antonio Pilot (Stabil. Grafico U. Bortoli), in cui si estraggono da diari e memorie di veneziani opinioni sulla caduta della Repubblica Veneta.

La responsabilità del patriziato era idea fissa delle classi popolari. L’ultimo doge, Lodovico Manin racconta in certe sue Memorie: «La cosa arrivò al grado che, passando un giorno per una corticella a San Marcuola, una donna, conoscendomi, disse: Almeno venisse la peste, che così moriressimo noi altre, ma morirebbero anche questi ricchi che ci hanno venduti e che sono cagione che moriamo di freddo e di fame». Il vecchio desistette dalla passeggiata e si ritirò. Il Bertucci Balbi‑Valier in un sonetto intitolato I nobili veneti del 1797 non tradirono la Repubblica scrive: «No, no xe vero, i nobili tradio ‑ No ga la patria nel novantasete» (ciò che significa quanto profonda fosse la convinzione e come si cercasse di combatterla).

Q2 §112 Letteratura popolare. Victor Hugo. A proposito di V. Hugo ricordare la sua dimestichezza con Luigi Filippo e quindi il suo atteggiamento monarchico costituzionale nel 48. È interessante notare che, mentre scriveva i Miserabili, scriveva anche le di Choses vues (pubblicate postume) e che le due scritture non sempre vanno d’accordo. Vedere queste quistioni, perché di solito l’Hugo è considerato uomo d’un blocco solo, ecc. (Nella «Revue des Deux Mondes» del 28 o 29, più probabilmente del 29, ci deve essere un articolo su questo argomento).

Q2 §113 Risorgimento. Il popolo e il Risorgimento. Nella «Lettura» del 1928 Pietro Nurra pubblica il diario inedito di un combattente delle cinque giornate di Milano, il mantovano Giovanni Romani, stabilitosi una prima volta a Milano nel 1838 come cuoco alla Croce d’Oro in contrada delle Asole, poi, dopo aver girato quasi tutta Italia, ritornato a Milano, alla vigilia delle cinque giornate, all’osteria del Porto di Mare in Santo Stefano. Il diario si compone di una specie di taccuino di 199 pagine numerate, delle quali 186 scritte con calligrafia grossolana, e dicitura scorrettissima.

Mi pare molto interessante perché i popolani non sono soliti scrivere di questi diarii, tanto più 80 anni fa. Perciò è da studiare per il suo valore psicologico e storico: forse si trova nel Museo del Risorgimento a Milano: vedere nella «Lettura» se sono dati altri estremi bibliografici.

Q2 §114 Storia politica e storia militare. Nel«Marzocco» del 10 marzo 1929 è riassunto un articolo di Ezio Levi nella «Glossa perenne» sugli Almògavari, interessante per due rispetti. Da un lato gli Almògavari (truppe leggere catalane, addestrate nelle aspre lotte della «reconquista» a combattere contro gli arabi col modo stesso degli arabi, cioè in ordine sparso, senza una disciplina di guerra, ma con impeti, agguati, avventure individuali) segnano l’introduzione in Europa di una nuova tattica, che può essere paragonata a quella degli arditi, sebbene in condizioni diverse. Dall’altro lato essi, secondo alcuni eruditi, segnano l’inizio delle compagnie di ventura.

Un corpo di Almògavari fu mandato in Sicilia dagli Aragonesi per le guerre del Vespro: finisce la guerra, ma parte degli Almògavari si reca in Oriente al servizio del basileus dell’Impero bizantino Andronico. L’altra parte fu arruolata da Roberto d’Angiò per la guerra contro i ghibellini toscani. Poiché gli Almògavari avevano mantelli neri, mentre i fiorentini, in processione o in «cavallata» vestivano il camice bianco crociato e gigliato, da ciò sarebbe nata, secondo Gino Masi, la denominazione di Bianchi e Neri. Certo è che, quando gli Angioini lasciarono Firenze, molti Almògavari rimasero al soldo del Comune, rinnovando d’anno in anno la loro «condotta».

La «compagnia di ventura» nacque così come un mezzo per determinare uno squilibrio del rapporto delle forze politiche a favore della parte più ricca della borghesia, a danno dei ghibellini e del popolo minuto.

Q2 §115 Sul Risorgimento e il Mezzogiorno. I libri di Marc Monnier, Notizie storiche sul brigantaggio nelle province napoletane, da Fra diavolo al 1862, e La Camorra, mysteres de Naples.


Q2 §116 La funzione cosmopolita degli intellettuali italiani . Da un articolo di Nello Tarchiani nel «Marzocco» del 3 aprile 1927: Un dimenticato interprete di Michelangelo (Emilio Ollivier): «Per lui (Michelangelo) non esisteva che l’arte. Papi, principi, repubbliche erano la stessa cosa, purché gli dessero modo di operare; pur di fare, si sarebbe dato al Gran Turco, come una volta minacciò; ed in ciò gli si avvicinava il Cellini». E non solo il Cellini: e Leonardo? Ma perché ciò avvenne? E perché tali caratteri esistettero quasi solo in Italia? Questo è il problema. Vedere nella vita di questi artisti come risalti la loro anazionalità. E nel Machiavelli il nazionalismo era poi così forte da superare l’«amore dell’arte per l’arte»? Una ricerca di questo genere sarebbe molto interessante: il problema dello Stato italiano lo occupava più come «elemento nazionale» o come problema politico interessante in sé e per sé, specialmente data la sua difficoltà e la grande storia passata dell’Italia?

Q2 §117 Funzione cosmopolita degli intellettuali italiani. «Nel 1563, durante la guerra civile contro gli Ugonotti, all’assedio di Orléans, intrapreso dal Duca di Guisa, l’ingegnere militare Bartolomeo Campi di Pesaro, il quale aveva nell’esercito attaccante la carica che ora si direbbe di comandante del Genio, fece fare una grande quantità di sacchetti che, riempiti di terra, furono portati sulle spalle dei soldati nella posizione, ed, in un istante, fabbricati con quelli i ripari, ivi, in attesa del momento di avanzare, si fermarono gli assalitori al coperto dalle offese della piazza». (Enrico Rocchi, Un notevole aspetto delle campagne di Cesare nelle Gallie, «Nuova Antologia», 1° gennaio 1929).

Q2 §118 Sull’Anschluss. Tener presente: 1) la posizione della socialdemocrazia austriaca come è stata espressa da Otto Bauer: favorevoli all’Anschluss ma attendere, per realizzarlo, quando la socialdemocrazia tedesca sia padrona dello Stato tedesco, cioè in definitiva Anschluss socialdemocratico; 2) posizione della Francia: non coincide con quella dell’Italia: la Francia è contro l’unione dell’Austria alla Germania ma spinge l’Austria ad entrare in una Confederazione danubiana: l’Italia è contro l’Anschluss e contro la Confederazione. Se si ponesse il problema come una scelta tra le due soluzioni probabilmente l’Italia preferirebbe l’Anschluss alla Confederazione.

Q2 §119 Il tentativo di riforma religiosa francescana. Quanto rapidamente sia decaduto lo spirito di san Francesco appare dalla Cronaca di fra Salimbene da Parma. Cfr Nuova Antologia del 16 febbraio 1929: Vittorio Marvasi, Frate Salimbene da Parma e la sua Cronaca. La Cronaca è stata tradotta nel 1928 da F. Bernini ed edita da un Carabba di Lanciano. Vedere in quanto il tentativo «laico» di Federico II coincide col francescanesimo: certo dei rapporti ci sono stati e lo stesso Salimbene è ammiratore di Federico, anche scomunicato.

Q2 §120 Sull’America. Nella Nuova Antologia del 16 febbraio 1929 questi articoli: 1)Il trattato di Washington per la limitazione degli armamenti navali e le sue conseguenze, di Ulisse Guadagnini; 2) Il patto Kellogg, di Carlo Schanzer; 3) La dottrina di Monroe, di Antonio Borgoni.

Q2 §121 Cadorna. Spectator (M. Missiroli), Luigi Cadorna, Nuova Antologia del 1° marzo 1929. Osservazioni brillanti, ma superficiali, sulla tradizione politico‑militare della famiglia Cadorna e sulle condizioni di crisi dell’esercito italiano nel periodo in cui Luigi iniziò e compì la sua carriera. Importanza del generale napoletano Pianell nell’infondere uno spirito nuovo nel nuovo esercito nazionale, contro la tradizione burocraticamente francese dello Stato maggiore piemontese, composto di elementi mediocri: ma Pianell era vecchio e la sua eredità è stata più di critica che di costruzione. Importanza della guerra del 70 nel mutare le idee sull’arte militare, fossilizzate sulla base della tradizione francese. Cadorna collabora con Pianell. Si «fossilizza» sull’aspetto tecnico, di organizzazione della guerra, e trascura l’aspetto storico‑sociale.

(Mi pare che questa sia un’accusa esagerata: la colpa non è di Cadorna, ma dei governi che devono essi educare politicamente i militari). Il modello napoleonico non può essere richiamato: Napoleone rappresentava la società civile e il militarismo della Francia, congiungeva in sé le due funzioni di capo del governo e di capo dell’esercito. La classe dominante italiana non ha saputo preparare dei capi militari, ecco tutto. Perché si dovrebbe domandare a Cadorna una grande capacità politica, se non si domanda ai capi politici una corrispondente capacità militare? Certo il capo militare deve avere, per la sua stessa funzione, una capacità politica, ma l’atteggiamento politico verso le masse militari e la politica militare devono essere fissati dal governo sotto la sua responsabilità. Ecco una serie di quistioni molto interessanti da studiare a proposito della guerra fino a Caporetto: c’era identità di vedute tra Governo e Cadorna sulla politica militare, sui fini strategici e sui mezzi generali per raggiungerli e sull’amministrazione politica delle masse militari? Sul primo punto c’era disaccordo tra Cadorna e Sonnino, e Cadorna era miglior politico di Sonnino: Cadorna voleva fare una politica delle nazionalità in Austria, voleva cioè cercare di disgregare l’esercito austriaco, Sonnino si oppose; egli non voleva la distruzione dell’Austria. Sul secondo punto non si hanno elementi: è molto probabile che il governo abbia trascurato di occuparsene, pensando che rientrasse nei poteri discrezionali del capo dell’esercito. Non così avvenne in Francia, dove gli stessi deputati si recavano al fronte e controllavano il trattamento fatto ai soldati: in Italia ciò appariva un’enormità, ecc., e avrà magari dato luogo a qualche inconveniente, ma gli inconvenienti non furono certo della importanza di Caporetto).

«Le deficienze naturali di senso storico e di intuito dei sentimenti delle masse si resero più sensibili per una concezione della vita militare che aveva assorbito alla scuola del Pianell e che s’era intrecciata ad una fede religiosa tendente al misticismo». (Sarebbe più esatto parlare di bigotteria e precisare che sull’influsso del sentimento religioso Cadorna fondava la sua politica verso le masse militari: l’unico coefficente morale del regolamento era infatti affidato ai cappellani militari). Avversione di Cadorna per la vita politica parlamentare, che è incomprensione (ma non lui solo responsabile, bensì anche e specialmente il governo). Non ha partecipato alle guerre d’Africa. Diventa capo dello Stato Maggiore il 27 luglio 1914. Ignoto al gran pubblico, «con un alone di rispetto senza effusione nel ceto dei militari». (L’accenno alla Memoria di Cadorna pubblicata nelle Altre pagine sulla grande guerra è ingenuo e gesuitesco).

Il piano strategico «contemplava due possibilità egualmente ragionevoli: offensiva su la fronte Giulia e difensiva sul Trentino, o viceversa? Egli si attenne alla prima soluzione». (Perché ugualmente ragionevoli? Non era la stessa cosa: l’offensiva vittoriosa nel Trentino portava la guerra in piena tedescheria, cioè avrebbe galvanizzato la resistenza germanica e determinato «subito» lo scontro tra Italiani e Tedeschi di Guglielmo; l’offensiva vittoriosa sulla fronte giulia avrebbe invece portato la guerra nei paesi slavi e, appoggiata a una politica delle nazionalità avrebbe permesso di disgregare l’esercito austriaco. Ma il governo era contrario alla politica delle nazionalità e non voleva urtare la Germania, alla quale non aveva dichiarato la guerra: così la scelta di Cadorna – scelta relativa, come si vede, per l’equivoca posizione verso la Germania – mentre poteva essere politicamente ottima, divenne pessima; le truppe slave videro nella guerra una guerra nazionale di difesa delle loro terre da un invasore straniero e l’esercito austriaco si rinsaldò).

Cadorna era un burocratico della strategia; quando aveva fatto le sue ipotesi «logiche», dava torto alla realtà e si rifiutava di prenderla in considerazione.

Caporetto: dalle Memorie di Cadorna appare che egli era da qualche tempo informato, prima di Caporetto, che il morale delle truppe era infiacchito. (E in questo punto bisogna collocare una sua particolare attività «politica», molto pericolosa: egli non cerca di rendersi conto se occorre mutare qualcosa nel governo politico dell’esercito, se cioè l’infiacchimento morale delle truppe non sia dovuto al comando militare egli non sa esercitare l’autocritica; è persuaso che il fatto dipende dal governo civile, dal modo con cui è governato il paese, e domanda misure reazionarie, domanda repressioni, ecc. Nel paese trapela qualcosa di questa sua attività «politica» e gli articoli della «Stampa» sono l’espressione di una crisi e del paese e dell’esercito. La «Stampa» oggettivamente ha ragione: la situazione è molto simile a quella che ha preceduto la «fatal Novara». Anche in questo caso la responsabilità è del governo, che doveva allora sostituire Cadorna e occuparsi «politicamente» dell’esercito).

Il «mistero» militare di Caporetto. Il Comando supremo era stato avvertito dell’offensiva fino al giorno e l’ora, alla zona, alle forze austro‑tedesche che vi avrebbero partecipato. (Vedere il libro di Aldo Valori sulla guerra italiana). Perché invece ci fu «sorpresa»? L’articolista se la cava con dei luoghi comuni: Cadorna capo militare di secondo grado; critica dei militari italiani che erano appartati dal paese e dalla sua vita reale (il contrasto esercito piemontese ‑ garibaldini continua nel contrasto tra esercito e paese: cioè continua a operare la negatività nazionale del Risorgimento).

Molti luoghi comuni: è poi vero che prima della guerra in Italia l’esercito fosse trascurato? Bisognerebbe dimostrare che la percentuale italiana di spese militari sul bilancio totale sia stata più bassa che negli altri paesi: mi pare invece in Italia fosse più alta di molti paesi. (Ostinato più che volitivo: energia del testardo).

Q2 §122 Giuseppe Paratore, La economia, la finanza, il denaro d’Italia alla fine del 1928, Nuova Antologia, 1° marzo 1929.

Articolo interessante ma troppo rapido e troppo conformista. Da tener presente per ricostruire la situazione del 26 fino alle leggi eccezionali. Il Paratore fa una lista delle principali contraddizioni del dopo guerra: 1) le divisioni territoriali hanno moltiplicato le barriere doganali; 2) ad una complessiva riduzione di capacità di consumo ha risposto dappertutto un aumento di impianti industriali; 3) ad una tendenziale depressione economica, un accentuato spirito di nazionalismo economico (ogni nazione vuole produrre tutto e vuole vendere senza comprare); 4) ad un impoverimento complessivo, una tendenza all’aumento reale delle spese statali; 5) ad una maggiore disoccupazione, una minore emigrazione (nell’anteguerra lasciavano annualmente l’Europa circa 1 300 000 lavoratori, oggi emigrano solo 600‑700 mila uomini); 6) la ricchezza distrutta dalla guerra in parte è stata capitalizzata e dà luogo ad interessi che per molto tempo sono stati pagati con altro debito; 7) un indebitamento verso gli Stati Uniti d’America (per debiti politici e commerciali) che se dovesse dar luogo a reali trasferimenti, metterebbe in pericolo qualunque stabilità monetaria.

Per l’Italia il Paratore nota questi elementi della sua situazione post‑bellica: 1) considerevole diminuzione del suo capitale umano; 2) debito di circa 100 miliardi di lire; 3) volume di debito fluttuante preoccupante; 4) bilancio statale dissestato; 5) ordinamento monetario sconvolto, espresso da una profonda riduzione e da una pericolosa instabilità del valore interno ed esterno della unità di denaro; 6) bilancia commerciale singolarmente passiva, aggravata da un completo disorientamento dei suoi rapporti commerciali con l’estero; 7) molti ordinamenti finanziari riguardanti la pubblica e privata economia logorati.

Q2 §123 La riforma fondiaria cecoslovacca, del padre Veriano Ovecka, nella «Civiltà Cattolica» del 16 febbraio e 16 marzo 1929, pubblicata in opuscolo separato poco dopo. È uno studio molto accurato e ben fatto dal punto di vita degli interessi della Chiesa. La riforma è accettata, e giustificata come dovuta a forza maggiore. (In una ricerca generale sulla quistione agraria questo opuscolo sintetico è da rivedere per fare dei confronti con gli altri tipi di riforma agraria; rumena, per esempio, e trarne qualche indicazione generale metodica. Quistioni di programma).

Q2 §124 Giorgio Mortara, Natalità e urbanesimo in Italia, «Nuova Antologia», 16 giugno ‑ 1° luglio 1929.

Tratta le quistioni più strettamente statistiche, osservando una grande cautela nel dare giudizi, specialmente di portata più immediata. Il numero annuo dei nati vivi in Italia è andato aumentando, attraverso oscillazioni, nel primo quarto di secolo successivo all’unità nazionale (massimo di 1 152 906 nel 1887), ha declinato gradualmente fino a un minimo di 1 042 090 nel 1903, è risalito ad un massimo secondario di 1 144 410 nel 1910 e si è mantenuto negli anni prima della guerra a 1 100 000. Nel 1920 (molte nozze dopo l’armistizio) si ha il massimo assoluto di 1 158 041, che scende rapidamente a 1 054 082 nel 1927, e circa 1 040 000 nel 1928 (territorio antebellico; nei nuovi confini 1 093 054 nel 27, e 1 077 000 nel 28), cifra la più bassa negli ultimi 48 anni. In altri paesi la diminuzione assai maggiore. Diminuzione correlativa nelle morti: da un massimo di 869 992 nel 1880 ad un minimo di 635 788 nel 1912, diminuzione che, dopo il periodo bellico, con 1 240 425 morti nel 18, è ricominciata: nel 1927 solo 611 362 morti, nel 1928 614 mila (vecchi confini; nei nuovi confini, 635 996 morti nel 27 e 639 000 nel 28). Così l’eccedenza dei nati sui morti nel 1928 è stata di 426 000 circa (nuovi confini 438 000) cioè più favorevole che nel 1887, in cui solo 323 914, per l’alta percentuale di morti. Il massimo di eccedenza, 448 mila circa, si è avuto nel quinquennio 1910‑14. (Si può dire, approssimativamente, che in un certo periodo storico, il grado di benessere di un popolo non può desumersi dal numero alto delle nascite, ma piuttosto dalla percentuale dei morti e dall’eccedenza dei nati sui morti: ma anche in questa fase storica incidono delle variabili che devono essere analizzate, infatti, più che di benessere popolare assoluto può parlarsi di migliore organizzazione statale e sociale per l’igiene, ciò che impedisce a una epidemia, per esempio, di diffondersi tra una popolazione a basso livello, decimandola, ma non eleva per nulla questo livello stesso, se non si può dire che lo mantenga addirittura, evitando la sparizione dei più deboli e improduttivi che vivono sul sacrificio degli altri).

Le cifre assolute delle nascite e delle morti danno solo l’incremento assoluto della popolazione. L’intensità dell’incremento è data dal rapporto di questo incremento col numero degli abitanti. Da 39,3 per 1000 abitanti del 1876 la frequenza delle nascite scende a 26 nel 1928, con una diminuzione del 33%; la frequenza delle morti da 34,20/00 nel 1867 scende a 15,6 nel 28, con una diminuzione del 54%. La mortalità comincia a discendere nettamente col quinquennio 1876‑80; la natalità inizia la discesa nel quinquennio 91‑95.

Per gli altri paesi d’Europa, su 1000 abitanti: Gran Bretagna 17 nati ‑ 12,5 morti, Francia 18,2‑16,6, Germania 18,4‑12, Italia 26,9‑15,7, Spagna 28,6‑18,9, Polonia 31,6-17,4, Urss (europea) 44,9‑24,4, Giappone 36,2‑19,2. (I dati si riferiscono, per l’Urss, al 1925, per il Giappone al 1926, per gli altri paesi al 1927).

Per la diminuzione della mortalità il Mortara fissa tre cause principali: progresso dell’igiene, progresso della medicina, progresso del benessere, che riassumono in forma schematica un gran numero di fattori di minore mortalità (un fattore è anche la minore natalità, in quanto le età infantili sono soggette ad alta mortalità). Il fattore preponderante della bassa natalità è la decrescente fecondità di matrimoni, dovuta a volontaria limitazione, inizialmente per previdenza, poi per egoismo. Se il movimento si svolgesse uniformemente in tutto il mondo, non altererebbe le condizioni relative delle varie nazioni, pur avendo effetti gravi per lo spirito d’iniziativa, e potendo essere causa d’inerzia e di regresso morale ed economico. Ma il movimento non è uniforme: vi sono oggi popoli che si accrescono rapidamente mentre altri lentamente, vi saranno domani popoli che cresceranno celermente mentre altri diminuiranno.

Già oggi in Francia l’equilibrio tra nascite e morti è faticosamente mantenuto coll’immigrazione, che determina altri gravi problemi morali e politici: in Francia la situazione è aggravata dalla relativamente alta percentuale di mortalità in confronto dell’Inghilterra e della Germania.

Calcolo regionale per il 1926: Piemonte (proporzione per 1000 abitanti, nati e morti) 17,7‑15,4, Liguria 17,1-13,8, Lombardia 25,1‑17,9, Venezia Tridentina 25,0‑17,5, Venezia Euganea 29,3‑15,3, Venezia Giulia 22,8‑16,1, Emilia 25,0‑15,3, Toscana 22,2‑14,3, Marche 28,0‑15,7, Urribria 28,4‑16,5, Lazio 28,1‑16,3, Abruzzi 32,1‑18,9, Campania 32,0‑18,3, Puglie 34,0‑20,8, Basilicata 36,6-23,1, Calabria 32,5‑17,3, Sicilia 26,7‑15,7, Sardegna 31,7-18,9. Prevalgono i livelli medi, ma con tendenza piuttosto verso il basso che verso l’alto.

Per il Mortara la causa della denatalità è da ricercarsi nella limitazione volontaria. Altri elementi possono contribuirvi saltuariamente, ma sono trascurabili (emigrazione degli uomini). C’è stato un «contagio» della Francia nel Piemonte e in Liguria, dove il fenomeno è più grave (emigraz!one temporanea ha servito di veicolo) e di più lontana origine, ma non si può parlare di contagio «francese» per la Sicilia, che nel Mezzogiorno è un focolaio di denatalità. Non mancano indizi di limitazione volontaria in tutto il Mezzogiorno. Campagna e città: la città ha meno nascite che la campagna. Torino, Genova, Milano, Bologna, Firenze hanno (nel 1926) una media di natalità inferiore a Parigi.

Q2 §125 Lodovico Luciolli, La politica doganale degli Stati Uniti d’America, Nuova Antologia del 16 agosto 1929.

Articolo molto interessante e utile da consultare perché fa un riassunto della storia tariffaria negli Stati Uniti e della funzione particolare che le tariffe doganali hanno sempre avuto nella politica degli Stati Uniti. Sarà interessante una rassegna storica delle varie forme che ha assunto e sta assumendo la politica doganale dei vari paesi, ma specialmente dei più importanti economicamente e politicamente, ciò che in fondo significa dei vari tentativi di organizzare il mercato mondiale e di inserirsi in esso nel modo più favorevole dal punto di vista dell’economia nazionale, o delle industrie essenziali dell’attività economica nazionale.

Una nuova tendenza del nazionalismo economico contemporaneo da seguire è questa: alcuni Stati cercano di ottenere che le loro importazioni da un determinato paese siano «controllate» in blocco con un corrispettivo di «esportazione» ugualmente controllato. Che una tale misura giovi alle nazioni la cui bilancia commerciale (visibile) sia in deficit, è manifesto. Ma come spiegare che un tale principio si incominci ad affermare da parte della Francia, che esporta merci più che non ne importi? Si tratta inizialmente di una politica commerciale rivolta a boicottare le importazioni da un determinato paese, ma da questo inizio può svilupparsi una politica generale da inquadrare in una cornice più ampia e di carattere positivo che può (svilupparsi) in Europa in conseguenza della politica tariffaria americana e per cercare di stabilizzare certe economie nazionali. Cioè: ogni nazione importante può tendere a dare un sostrato economico organizzato alla propria egemonia politica su le nazioni che le sono subordinate. Gli accordi politici regionali potrebbero diventare accordi economici regionali, in cui l’importazione e l’esportazione «concordata» non avverrebbe più tra due soli Stati, ma tra un gruppo di Stati, eliminando molti inconvenienti non piccoli evidentissimi. In questa tendenza mi pare si possa far rientrare la politica di libero scambio interimperiale e di protezionismo verso il non‑Impero del gruppo nuovamente formatosi in Inghilterra intorno a lord Beaverbrook (o nome simile), così come l’intesa agraria di Sinaia poi ampliata a Varsavia.

Questa tendenza politica potrebbe essere la forma moderna di Zollverein che ha portato all’Impero Germanico federale, o dei tentativi di lega doganale fra gli Stati italiani prima del 1848, e più innanzi del mercantilismo settecentesco: e potrebbe diventare la tappa intermedia della Paneuropa di Briand, in quanto essa corrisponde a un’esigenza delle economie nazionali di uscire dai quadri nazionali senza perdere il carattere nazionale.

Il mercato mondiale, secondo questa tendenza, verrebbe ad essere costituito di una serie di mercati non più nazionali ma internazionali (interstatali) che avrebbero organizzato nel loro interno una certa stabilità delle attività economiche essenziali, e che potrebbero entrare in rapporto tra loro sulla base dello stesso sistema. Questo sistema terrebbe più conto della politica che dell’economia nel senso che nel campo economico darebbe più importanza all’industria finita che all’industria pesante. Ciò nel primo stadio dell’organizzazione. Infatti: i tentativi di cartelli internazionali basati sulle materie prime (ferro, carbone, potassa, ecc.) hanno messo di fronte Stati egemonici, come la Francia e la Germania, delle quali né l’una né l’altra può cedere nulla della sua posizione e della sua funzione mondiale. Troppo difficile e troppi ostacoli. Più semplice invece un accordo della Francia e dei suoi Stati vassalli per un mercato economico organizzato sul tipo dell’Impero Inglese, che potrebbe far crollare la posizione della Germania e costringerla a entrare nel sistema, ma sotto l’egemonia francese.

Sono tutte ipotesi molto vaghe ancora, ma da tener presenti per studiare gli sviluppi delle tendenze su accennate.

Q2 §126 Andrea Torre, Il principe di Bülowe la politica mondiale germanica, «Nuova Antologia», 1° dicembre 1929 (scritto in occasione della morte del Bülow e in base al libro dello stesso Bülow, Germania imperiale: è interessante e sobrio).

Q2 §127 Alfonso de Pietri‑Tonelli, Wall Street, «Nuova Antologia» del 1° dicembre 1929 (commenta in termini molto generali la crisi di borsa americana della fine del 29: bisognerà rivederlo per studiare l’organizzazione finanziaria americana).

Q2 §128 Azione Cattolica. Sindacalismo cattolico. Cfr nella «Civiltà Cattolica» del 6 luglio 1929 l’articolo La dottrina sociale cristiana e l’organizzazione internazionale del lavoro (del padre Brucculeri). Vi si parla della sezione riguardante il pensiero sociale della Chiesa, del rapporto fatto da Albert Thomas alla XII sessione della Conferenza Internazionale del Lavoro e pubblicato a Ginevra nel 1929. Il padre Brucculeri è estremamente soddisfatto del Thomas e ne riassume i passi più importanti, riesponendo così il programma sociale cattolico.

Q2 §129 Industrie italiane. Cfr l’articolo I «soffioni» della Maremma Toscana nella «Civiltà Cattolica» del 20 luglio 1929. Come articolo di divulgazione scientifica è fatto molto bene.

Q2 §130 Storie regionali. La Liguria e Genova. Cfr Carlo Mioli, La Consulta dei Mercanti genovesi. Rassegna storica della Camera di Commercio e Industria. 1805‑1927, Genova, 1928. È recensito e riassunto nella «Civiltà Cattolica» del 17 agosto 1929. Deve essere molto interessante e irnportante per la storia economica di Genova nel periodo del Risorgimento e poi nel periodo dell’unità fino alla sostituzione dei Consigli d’Economia alle Camere di Commercio. Il Mioli era il segretario dell’ultima Camera di Commercio. Il libro ha una prefazione dell’avv. Pessagno, addetto all’archivio storico di Genova.

Q2 §131 Azione Cattolica. Il conflitto di Lilla. Nella «Civiltà Cattolica» del 7 settembre 1929 è pubblicato il testo integrale del giudizio pronunziato dalla Sacra Congregazione del Concilio sul conflitto tra industriali e operai cattolici della regione Roubaix‑Tourcoing. Il lodo è contenuto in una lettera in data 5 giugno 1929 del cardinale Sbarretti, Prefetto della Congregazione del Concilio, a mons. Achille Liénart, vescovo di Lilla.

Il documento è importante, perché in parte integra il Codice Sociale e in parte ne amplia il quadro, come per esempio là dove riconosce agli operai e ai sindacati cattolici il diritto di formare un fronte unico anche con gli operai e i sindacati socialisti nelle quistioni economiche. Bisogna tener conto che se il Codice Sociale è un testo cattolico, è però privato o soltanto ufficioso, e in tutto o in parte potrebbe essere sconfessato dal Vaticano. Questo documento invece è ufficiale.

Questo documento è certamente legato al lavorìo del Vaticano in Francia per creare una democrazia politica cattolica e l’ammissione del «fronte unico», anche se passibile di interpretazioni cavillose e restrittive, è una «sfida» all’Action française e un segno di détente coi radicali socialisti e la C.G.T.

Nello stesso fascicolo della «Civiltà Cattolica» è un diffuso e interessante articolo di commento al lodo vaticano. Questo lodo è costituito di due parti organiche: nella prima, composta di 7 brevi tesi accompagnate ognuna di ampie citazioni tolte da documenti pontifici, specialmente di Leone XIII, si dà un riassunto chiaro della dottrina sindacale cattolica; nella seconda si tratta del conflitto specifico in esame, cioè le tesi sono applicate e interpretate nei fatti reali.

Q2 §132 L’Action Française e il Vaticano. Cfr La crisi dell’«Action française» e gli scritti del suo «maestro», nella «Civiltà Cattolica» del 21 settembre 1929. (È un articolo del padre Rosa contro Maurras e la sua «filosofia»).

Q2 §133 Leggenda albanese delle «Zane» e le «Zane» sarde. Nell’articolo Antichi monasteri benedettini in Albania ‑ Nella tradizione e nelle leggende popolari del padre gesuita Fulvio Cordignano, pubblicato nella «Civiltà Cattolica» del 7 dicembre 1929 si legge: «Il «“vakùf” – ciò che è rovina di chiesa o bene che gli appartenga – nell’idea del popolo ha in se stesso una forza misteriosa, quasi magica. Guai a chi tocca quella pianta o introduce fra quelle rovine il gregge, le capre divoratrici di ogni fronda: sarà colto all’improvviso da un malanno; rimarrà storpio, paralitico, mentecatto, come se si fosse imbattuto, in mezzo agli ardori meridiani o durante la notte oscura e piena di perigli, in qualche “Ora” o “Zana”, là dove queste fate invisibili e in perfetto silenzio stanno sedute a una tavola rotonda sull’orlo della via o in mezzo al sentiero». C’è ancora qualche altro accenno nel corso dell’articolo.

Q2 §134 Cattolici, neomaltusianismo, eugenetica. A quanto pare neanche fra i cattolici le idee sono ormai più concordi sul problema del neomaltusianismo e dell’eugenetica. Dalla «Civiltà Cattolica» del 21 dicembre 1929 (Il pensiero sociale cristiano. La decima sessione dell’“Unione di Malines”) risulta: alla fine del settembre 1929 è stata tenuta l’assemblea annuale dell’«Unione Internazionale di studi sociali» che ha sede a Malines, il cui lavoro si concentrò specialmente su questi tre soggetti: lo Stato e le famiglie numerose; il problema della popolazione; il lavoro forzato. Sul problema demografico si verificarono forti differenziazioni: l’avv. Cretinon, «pur seguendo una politica della popolazione che faccia credito alla Provvidenza, fa rilevare che non bisogna rappresentare l’eugenismo come semplicemente materialistico, giacché ha pure intenti intellettuali, estetici e morali». Le conclusioni adottate furono concertate non senza difficoltà dal padre Desbuquois e dal prof. Aznar: i due compilatori erano profondamente divisi. «Mentre il primo propugnava il progresso demografico, l’altro era piuttosto inclinato a consigliar la continenza per timore che le famiglie cattoliche non si condannassero alla decadenza economica a causa della troppa prole».

Q2 §135 Pancristianesimo e propaganda del protestantesimo nell’America Meridionale. Cfr l’articolo

Il protestantesimo negli Stati Uniti e nell’America latina, nella «Civiltà Cattolica» del 1° marzo ‑ 15 marzo ‑ 5 aprile 1930. Studio molto interessante sulle tendenze espansionistiche dei protestanti nord‑americani, sui metodi di organizzazione di questa espansione e sulla reazione cattolica.

È interessante notare che i cattolici trovano nei protestanti americani i soli concorrenti, e spesso vittoriosi, nel campo della propaganda mondiale e ciò nonostante che negli Stati Uniti la religiosità sia molto poca (la maggioranza dei censiti professa di non aver religione): le Chiese protestanti europee non hanno espansività o minima. Altro fatto notevole è questo: dopo che le chiese protestanti sono andate sminuzzandosi, si assiste ora a tentativi di unificazione nel movimento pancristiano. (Non dimenticare però l’Esercito della Salute, di origine e organizzazione inglese).

Q2 §136 Azione Cattolica. Cfr l’articolo La durata del lavoro nella «Civiltà Cattolica» del 15 marzo 1930 (del padre Brucculeri). Difende il principio e la legislazione internazionale sulle 8 ore contro Lello Cangemi e il libro di costui, Il problema della durata del lavoro, Vallecchi, Firenze, pp. 526. L’articolo è interessante; il libro del Cangemi è stroncato molto bene. È interessante che un gesuita sia più «progressista» del Cangemi che è abbastanza noto nella politica economica italiana attuale come discepolo del De Stefani e della sua particolare tendenza nel campo della politica economica.

Q2 §137 Città e campagna. Giuseppe De Michelis, Premesse e contributo allo studio dell’esodo rurale, Nuova Antologia, 16 gennaio 1930. Articolo interessante da molti punti di vista. Il De Michelis pone il problema abbastanza realisticamente. Intanto cos’è l’esodo rurale? Se ne parla da 200 anni e la quistione non è mai stata posta nei termini economici precisi.

(Anche il De Michelis dimentica due elementi fondamentali della quistione: 1) i lamenti per l’esodo rurale hanno una delle loro ragioni negli interessi dei proprietari che vedono elevarsi i salari per la concorrenza delle industrie urbane e per la vita più «legale», meno esposta agli arbitrii ed abusi che sono la trama quotidiana della vita rurale; 2) per l’Italia non accenna all’emigrazione dei contadini che è la forma internazionale dell’esodo rurale verso paesi industriali ed è una critica reale del regime agrario italiano, in quanto il contadino si reca a fare il contadino altrove, migliorando il proprio tenor di vita).

È giusta l’osservazione del De Michelis che l’agricoltura non ha sofferto per l’esodo: 1) perché la popolazione agraria su scala internazionale non è diminuita; 2) perché la produzione non è diminuita, anzi c’è sopraproduzione, corne dimostra la crisi dei prezzi di prodotti agricoli. (Nella passata crisi, quando cioè esse corrispondevano a fasi di prosperità industriale, ciò era vero; oggi, però, che la crisi agraria accompagna la crisi industriale, non si può parlare di soraproduzione, ma di sottoconsumo). Nell’articolo sono citate statistiche che dimostrano la progressiva estensione della superficie coltivata a cereali e più ancora di quella coltivata per prodotti per le industrie (canapa, cotone, ecc.) e all’aumento della produzione. Il problema è osservato da un punto di vista internazionale (per un gruppo di 21 paesi) cioè di divisione internazionale del lavoro. (Dal punto di vista delle singole nazioni il problema può cambiare e in ciò consiste la crisi odierna: essa è una resistenza reazionaria ai nuovi rapporti mondiali, all’intensificarsi dell’importanza del mercato mondiale).

L’articolo cita qualche fonte bibliografica: occorrerà rivederlo. Finisce con un colossale errore: secondo il De Michelis: «La formazione delle città nei tempi remoti non fu che il lento e progressivo distacco del mestiere dall’attività agricola, con cui era prima confuso, per assurgere ad attività distinta. Il progresso dei venturi decenni consisterà, grazie soprattutto all’incremento della forza elettrica, nel riportare il mestiere alla campagna per ricongiungerlo, con forme mutate e con procedimenti perfezionati, al lavoro propriamente agricolo. In questa opera redentrice dell’artigianato rurale l’Italia si appresta ad essere anche una volta antesignana e maestra».

Il De Michelis fa molte confusioni: 1) il ricongiungimento della città alla campagna non può avvenire sulla base dell’artigianato, ma solo sulla base della grande industria razionalizzata e standardizzata. L’utopia «artigianesca» si è basata sull’industria tessile: si pensava che con la verificatasi possibilità di distribuire l’energia elettrica a distanza, sarebbe diventato possibile ridare alla famiglia contadina il telaio meccanico moderno mosso dall’elettricità; ma già oggi un solo operaio fa azionare (pare) fino a 24 telai, ciò che pone nuovi problemi di concorrenza e di capitale ingenti, oltre che di organizzazione generale irrisolvibili dalla famiglia contadina; 2) l’utilizzazione industriale del tempo che il contadino deve rimanere disoccupato (questo è il problema fondamentale dell’agricoltura moderna, che pone il contadino in condizione di inferiorità economica di fronte alla città che «può» lavorare tutto l’anno) può avvenire solo in un’economia secondo un piano, molto sviluppata, che sia in grado di essere indipendente dalle fluttuazioni temporali di vendita che già si verificano e portano alle morte stagioni anche nell’industria; 3) la grande concentrazione dell’industria e la produzione a serie di pezzi intercambiabili permette di trasportare reparti di fabbrica in campagna, decongestionando la grande città e rendendo più igienica la vita industriale. Non l’artigiano tornerà in campagna, ma viceversa l’operaio più moderno e standardizzato.

Q2 §138 America. Nel n. del 16 febbraio 1930 della «Nuova Antologia» sono pubblicati due articoli: Punti di vista sull’America: Spirito e tradizione americana del professor J. P. Rice (il Rice nel 1930 fu designato dall’Italy-America Society di New York a tenere l’annuale ciclo di conferenze stabilito dalla Fondazione Westinghouse per intensificare i rapporti tra l’America e l’Italia); l’articolo vale poco; e La rivoluzione industriale degli Stati Uniti, dell’ing. Pietro Lanino, interessante da questo punto di vista: come un accreditato pubblicista e teorico dell’industria italiana non ha capito nulla del sistema industriale capitalistico americano. (Il Lanino nel 1930 ha scritto anche una serie di articoli sull’industria americana nella «Rivista di politica economica» delle società per azioni). Fin dal primo paragrafo il Lanino afferma che in America è avvenuto «un capovolgimento completo di quelli che sino allora erano stati i criteri economici fondamentali della produzione industriale. La legge della domanda e dell’offerta rinunziata nelle paghe. Il costo di produzione diminuito pure aumentando queste». Non è stato rinunziato nulla: il Lanino non ha compreso che la nuova tecnica basata sulla razionalizzazione e il taylorismo ha creato una nuova e originale qualifica psico‑tecnica e che gli operai di tale qualifica non solo sono pochi, ma sono ancora in divenire, per cui i «predisposti» sono contesi con gli alti salari; ciò conferma la legge dell’«offerta e della domanda» nelle paghe. Se fosse vera la affermazione del Lanino non si spiegherebbe l’alto grado di turnover nel personale addetto, cioè che molti operai rinunzino all’alto salario di certe aziende per salari minori di altre. Cioè non solo gli industriali rinuncerebbero alla legge della domanda e dell’offerta, ma anche gli operai, i quali talvolta rimangono disoccupati rinunziando agli alti salari. Indovinello che il Lanino si è ben guardato dal risolvere. Tutto l’articolo è basato su questa incomprensione iniziale. Che gli industriali americani, primo Ford, abbiano cercato di sostenere che si tratta di una nuova forma di rapporti, non fa maraviglia: essi cercarono di ottenere oltre all’effetto economico degli alti salari, anche degli effetti sociali di egemonia spirituale, e ciò è normale.

Q2 §139 Mario Gianturco, La terza sessione marittima della Conferenza Internazionale del Lavoro, Nuova Antologia, 16 marzo 1930. (Riassume i punti anche delle precedenti riunioni dei marittimi; interessante e utile).

Q2 §140 Giuseppe Frisella Vella, Temi e problemi sulla così detta questione meridionale, con introduzione e bibliografia, in 8°, pp. 56, Palermo, La Luce, Casa Editr. Sicula, L. 6,00.

Q2 §141 Passato e presente. Il consumo del sale. (Cfr Salvatore Majorana, Il monopolio del sale, in «Rivista di Politica Economica», gennaio 1931, p. 38). Nell’esercizio 1928‑29, subito dopo l’aumento del prezzo del sale, il consumo del sale è risultato inferiore di Kg. 1,103 in confronto dell’esercizio precedente, cioè si è ridotto a Kg. 7,133 a testa, mentre il contributo è di L. 4,80 superiore. È stata inoltre cessata la largizione gratuita di sale nei comuni di pellagrosi, con la spiegazione che la pellagra è quasi sparita e che altre attività generali dello Stato lottano contro la pellagra (in generale), (ma i pellagrosi effettivi attuali che sorte hanno avuto?)

Q2 §142 Gaspare Ambrosini, La situazione della Palestina e gli interessi dell’Italia, Nuova Antologia del 16 giugno 1930. (Indicazioni bibliografiche sulla quistione).

Q2 §143 Maria Pasolini Ponti, Intorno all’arte industriale, «Nuova Antologia», 1° luglio 1930.

Q2 §144 Passato e presente. Un articolo interessante per constatare un certo movimento di riabilitazione dei Borboni di Napoli è quello di Giuseppe Nuzzo, La politica estera della monarchia napoletana alla fine del secolo XVIII, nella «Nuova Antologia» del 16 luglio 1930. Articolo insulso storicamente, perché parla di velleità burlesche.

Q2 §145 Luigi Villari, L’agricoltura in Inghilterra, «Nuova Antologia», 1° settembre 1930. Interessante.

Q2 §146 Passato e presente. Emigrazione. Nel Congo Belga sono 1600 immigrati italiani: nel solo Katanga, la zona più ricca del Congo, ve ne sono 942. La maggior parte di questi immigrati italiani è al servizio di Compagnie private in qualità di ingegneri, ragionieri, capomastri, sorveglianti di lavoro. Dei 200 medici che esercitano la professione al Congo per conto dello Stato e di società, i due terzi sono italiani («Corriere della Sera», 15 ottobre 1931).

Q2 §147 Risorgimento italiano. Nella Nuova Antologia del 1° ottobre 1930, Francesco Moroncini, Lettere inedite di Carlo Poerioe di altri ad Antonio Ranieri (1860‑66). Interessante per il periodo storico e per la quistione politica del Mezzogiorno.


Q2 §148 Risorgimento italiano. Vedi nel «Corriere della Sera» del 16 ottobre 1931 l’articolo di Gioacchino Volpe, Quattro anni di governo nel Diario autografo del Re (sul libro di Francesco Salata, Carlo Alberto inedito). Il Volpe è anodino e prudente all’eccesso nei suoi giudizi e nella sua esposizione. Un capitoletto è intitolato «Contro le ingerenze straniere», ma quali sono queste ingerenze? Carlo Alberto è favorevolissimo all’intervento dell’Austria nelle Legazioni; è contro l’ingerenza (?) negli affari interni del Piemonte dell’ambasciatore francese e del ministro inglese che vorrebbero una conferenza a Torino per regolare le faccende dello Stato e della Chiesa: Carlo Alberto preferì l’intervento armato dell’Austria nelle Legazioni piuttosto che fare intervenire le proprie truppe come il Papa desiderava, perché non voleva che i soldati piemontesi si contagiassero di liberalismo o nei Romagnoli nascesse il desiderio di unirsi al Piemonte.

Q2 §149 Politica e comando militare. Confrontare nella «Nuova Antologia» del 16 ottobre e 1° novembre 1930 l’articolo di Saverio Nasalli Rocca La politica tedesca dell’impotenza nella guerra mondiale.

L’articolo, sulla base dell’esperienza tedesca (vincere le battaglie, perdere la guerra) raccoglie materiale per corroborare la tesi che, anche in guerra, è il comando politico che dà la vittoria, comando politico, che deve incorporarsi nel comando militare, creando un nuovo tipo di comando proprio al tempo di guerra. Il Nasalli Rocca si serve specialmente delle memorie e degli altri scritti di von Tirpitz. (Il titolo dell’articolo è anche il titolo di un libro di Tirpitz tradotto in italiano). Scrive il Nasalli Rocca: «... una delle più grandi difficoltà della guerra è rappresentata dalle relazioni fra il comando militare e il Governo: vecchio militare, non esito a riconoscere che le relazioni fra Governo e le Forze Armate corrispondono rispettivamente a quelle che corrono fra la strategia e la tattica. Al Governo la strategia della guerra, alle Forze Armate la tattica: ma come il tattico per raggiungere gli scopi fissatigli ha piena libertà di manovra nei larghi limiti fissatigli dalla strategia, così questo non ha facoltà di invadere il campo del tattico. L’assenteismo e l’invadenza sono i due grandi scogli del comando qualunque nome esso abbia: e il senso della misura è quello che fissa i limiti dell’invadenza».

La formula non mi pare molto esatta: esiste certamente una «strategia militare» che non spetta tecnicamente al governo, ma essa è compresa in una più ampia strategia politica che inquadra quella militare. La quistione può allargarsi: i conflitti tra militari e governanti non sono conflitti tra tecnici e politici, ma tra politici e politici, sono i conflitti tra «due direzioni politiche» che entrano in concorrenza all’inizio di ogni guerra. Le difficoltà del comando unico interalleato durante la guerra non erano di carattere tecnico, ma politico: conflitto di egemonie nazionali.

Q2 §150 Argomenti di cultura. Il problema: «Chi è il legislatore?» in un paese, accennato in altre , può ripresentarsi per la definizione «reale», non «scolastica», di altre quistioni. Per esempio: «Cosa è la polizia?» (a questa domanda si è accennato in altre , trattando della reale funzione dei partiti politici). Si sente spesso dire, come se si trattasse di una critica demolitrice della polizia, che il 90 % dei reati, oggi perseguiti (un gran numero non è perseguito perché o non se ne ha notizia o è impossibile ogni accertamento, ecc.) rimarrebbero impuniti se la polizia non avesse a sua disposizione i confidenti ecc. Ma in realtà, questa specie di critica è inetta. Cosa è la polizia? Certo essa non è solo quella tale organizzazione ufficiale, giuridicamente riconosciuta e abilitata alla funzione pubblica della pubblica sicurezza che di solito si intende. Questo organismo è il nucleo centrale e formalmente responsabile, della «polizia», che è una ben più vasta organizzazione, alla quale, direttamente o indirettamente, con legami più o meno precisi e determinati, permanenti o occasionali, ecc., partecipa una gran parte della popolazione di uno Stato. L’analisi di questi rapporti serve a comprendere cosa sia lo «Stato» ben più di molte dissertazioni filosofico‑giuridiche.