Toggle menu
Toggle personal menu
Not logged in
Your IP address will be publicly visible if you make any edits.

Library:Prison Notebooks In Original Italian/Notebook 25

From ProleWiki, the proletarian encyclopedia
More languages
The printable version is no longer supported and may have rendering errors. Please update your browser bookmarks and please use the default browser print function instead.

Written in 1934

 QUADERNO 25


         I MARGINI DELLA STORIA. STORIA DEI GRUPPI SOCIALI SUBALTERNI


Q25 §1 Davide Lazzaretti. In un articolo pubblicato dalla «Fiera Letteraria» del 26 agosto 1928, Domenico Bulferetti ricorda alcuni elementi della vita e della formazione culturale di Davide Lazzaretti. Bibliografia: Andrea Verga, Davide Lazzaretti e la pazzia sensoria (Milano, Rechiedei, 1880); Cesare Lombroso, Pazzi e anormali (questo era il costume culturale del tempo: invece di studiare le origini di un avvenimento collettivo, e le ragioni del suo diffondersi, del suo essere collettivo, si isolava il protagonista e ci si limitava a farne la biografia patologica, troppo spesso prendendo le mosse da motivi non accertati o interpretabili in modo diverso: per una élite sociale, gli elementi dei gruppi subalterni hanno sempre alcunché di barbarico e di patologico). Una Storia di David Lazzaretti, Profeta di Arcidosso fu pubblicata a Siena nel 1905 da uno dei più distinti discepoli del Lazzaretti, l’ex‑frate filippino Filippo Imperiuzzi: altre scritture apologetiche esistono, ma questa è la più notevole, secondo il Bulferetti. Ma l’opera «fondamentale» sul Lazzaretti è quella di Giacomo Barzellotti, che nella 1a e2a edizione (presso Zanichelli) era intitolata Davide Lazzaretti e che fu ampliata e in parte modificata nelle successive edizioni (Treves) col titolo Monte Amiata e il suo Profeta. Il Bulferetti crede che il Barzellotti abbia sostenuto che le cause del movimento lazzarettista sono «tutte particolari e dovute solo allo stato d’animo e di coltura di quella gente là» solo «un po’ per naturale amore ai bei luoghi nativi (!) e un po’ per suggestione delle teorie di Ippolito Taine». È più ovvio pensare, invece, che il libro del Barzellotti, che ha servito a formare l’opinione pubblica italiana sul Lazzaretti, sia niente altro che una manifestazione di patriottismo letterario (– per amor di patria! – come si dice) che portava a cercar di nascondere le cause di malessere generale che esistevano in Italia dopo il 70, dando, dei singoli episodi di esplosione di tale malessere, spiegazioni restrittive, individuali, folcloristiche, patologiche ecc. La stessa cosa è avvenuta più in grande per il «brigantaggio» meridionale e delle isole.

Gli uomini politici non si sono occupati del fatto che l’uccisione del Lazzaretti è stata di una crudeltà feroce e freddamente premeditata (in realtà il Lazzaretti fu fucilato e non ucciso in conflitto: sarebbe interessante conoscere le istruzioni riservate mandate dal governo alle autorità): neanche i repubblicani se ne sono occupati (ricercare e verificare) nonostante che il Lazzaretti sia morto inneggiando alla repubblica (il carattere tendenzialmente repubblicano del movimento, che era tale da poter diffondersi tra i contadini, deve aver specialmente contribuito a determinare la volontà del governo di sterminarne il protagonista), forse per la ragione che nel movimento la tendenzialità repubblicana era bizzarramente mescolata all’elemento religioso e profetico. Ma appunto questo miscuglio rappresenta la caratteristica principale dell’avvenimento perché dimostra la sua popolarità e spontaneità. È da ritenere inoltre che il movimento lazzarettista sia stato legato al non‑expedit del Vaticano, e abbia mostrato al governo quale tendenza sovversiva‑popolare‑elementare poteva nascere tra i contadini in seguito all’astensionismo politico clericale e al fatto che le masse rurali, in assenza di partiti regolari, si cercavano dirigenti locali che emergevano dalla massa stessa, mescolando la religione e il fanatismo all’insieme di rivendicazioni che in forma elementare fermentavano nelle campagne. Altro elemento politico da tener presente è questo: al governo erano andate da due anni le sinistre, il cui avvento aveva suscitato nel popolo un ribollimento di speranze e di aspettazioni che dovevano essere deluse. Il fatto che al governo fossero le sinistre può spiegare anche la tiepidezza nel sostenere una lotta per l’uccisione delittuosa di un uomo che poteva essere presentato come un codino, papalino, clericale ecc.

Nota il Bulferetti che il Barzellotti non fece ricerche sulla formazione della cultura del Lazzaretti, alla quale pure si riferisce. Altrimenti avrebbe visto che anche a Monte Amiata arrivavano allora in gran copia (!? da dove lo sa il Bulferetti? D’altronde per chi conosce la vita dei contadini, specialmente di una volta, la «gran copia» non è necessaria, per spiegare l’estensione e la profondità di un movimento) foglietti, opuscoli e libri popolari stampati a Milano. Il Lazzaretti ne era lettore insaziabile e per il suo mestiere di barrocciaio aveva agio di procurarsene. Davide era nato in Arcidosso il 6 novembre 1834 e aveva esercitato il mestiere paterno fino al 1868, quando, da bestemmiatore si convertì e si ritirò a far penitenza in una grotta della Sabina dove «vide» l’ombra di un guerriero che gli «rivelò» di essere il capostipite della sua famiglia, Manfredo Pallavicino, figlio illegittimo di un re di Francia ecc. Uno studioso danese, il dottor Emilio Rasmussen, trovò che Manfredo Pallavicino è il protagonista di un romanzo storico di Giuseppe Rovani, intitolato appunto Manfredo Pallavicino. L’intreccio e le avventure del romanzo sono passati tali e quali nella «rivelazione» della grotta e da questa rivelazione si inizia la propaganda religiosa del Lazzaretti. Il Barzellotti aveva creduto invece che il Lazzaretti fosse stato influenzato dalle leggende del Trecento (le avventure del re Giannino, senese) e la scoperta del Rasmussen lo indusse solo a introdurre nell’ultima edizione del suo libro un vago accenno alle letture del Lazzaretti, senza però accennare al Rasmussen e lasciando intatta la parte del libro dedicata a re Giannino. Tuttavia il Barzellotti studia il successivo svolgimento dello spirito del Lazzaretti, i suoi viaggi in Francia, e l’influsso che ebbe su di lui il prete milanese Onorio Taramelli, «uomo di fine ingegno e larga coltura», che per aver scritto contro la monarchia era stato arrestato a Milano e poi era fuggito in Francia. Dal Taramelli Davide ebbe l’impulso repubblicano. La bandiera di Davide era rossa con la scritta: «La repubblica e il regno di Dio». Nella processione del 18 agosto 1878 in cui Davide fu ucciso, egli domandò ai suoi fedeli se volevano la repubblica. Al «sì» fragoroso egli rispose: «la repubblica incomincia da oggi in poi nel mondo; ma non sarà quella del ’48: sarà il regno di Dio, la legge del Diritto succeduta a quella di Grazia». Nella risposta di David ci sono alcuni elementi interessanti, che devono essere collegati alle sue reminiscenze delle parole del Taramelli: il voler distinguersi dal ’48 che in Toscana non aveva lasciato buon ricordo tra i contadini, la distinzione tra Diritto e Grazia.

Il dramma del Lazzaretti deve essere riannodato alle «imprese» delle così dette bande di Benevento, che sono quasi simultanee: i preti e i contadini coinvolti nel processo di Malatesta pensavano in modo molto analogo a quello dei Lazzarettisti, come risulta dai resoconti giudiziari (cfr per es. il libro di Nitti sul Socialismo Cattolico dove giustamente si accenna alle bande di Benevento: vedere se accenni al Lazzaretti). In ogni modo, il dramma del Lazzaretti è stato finora veduto solo dal punto di vista dell’impressionismo letterario, mentre meriterebbe un’analisi politico‑storica.

Giuseppe Fatini, nell’«Illustrazione Toscana» (cfr il «Marzocco» del 31 gennaio 1932) richiama l’attenzione sulle attuali sopravvivenze del lazzarettismo. Si credeva che dopo l’esecuzione di Davide da parte dei carabinieri, ogni traccia di lazzarettismo si fosse per sempre dispersa anche nelle pendici dell’Amiata grossetana. Invece i lazzarettisti o cristiani giurisdavidici, come amano chiamarsi, continuano a vivere: raccolti per lo più nel villaggio arcidossino di Zancona, con qualche proselite sparso nelle borgate adiacenti, trassero dalla guerra mondiale nuovo alimento per stringersi sempre più fra loro nella memoria del Lazzaretti, che, secondo i seguaci, aveva tutto previsto, dalla guerra mondiale a Caporetto, dalla vittoria del popolo latino alla nascita della Società delle Nazioni. Di quando in quando, quei fedeli si fanno vivi fuor del loro piccolo cerchio con opuscoli di propaganda, indirizzandoli ai «fratelli del popolo latino», e in essi raccolgono qualcuno dei tanti scritti, anche poetici, lasciati inediti dal Maestro e che i seguaci custodiscono gelosamente.

Ma che cosa vogliono i cristiani giurisdavidici? A chi non è ancora tocco dalla grazia di poter penetrare nel segreto del linguaggio dei Santi non è facile comprendere la sostanza della loro dottrina. La quale è un miscuglio di dottrine religiose d’altri tempi con una buona dose di massime socialistoidi e con accenni generici alla redenzione morale dell’uomo, redenzione che non potrà attuarsi se non col pieno rinnovamento dello spirito e della gerarchia della Chiesa Cattolica. L’articolo XXIV che chiude il «Simbolo dello Spirito Santo», costituente come il «Credo» dei lazzarettisti, dichiara che «il nostro istitutore David Lazzaretti, l’unto del Signore, giudicato e condannato dalla Curia Romana, è realmente il Cristo Duce e Giudice nella vera e viva figura della seconda venuta di nostro Signore Gesù Cristo sul mondo, come figlio dell’uomo venuto a portare compimento alla Redenzione copiosa su tutto il genere umano in virtù della terza legge divina del Diritto e Riforma generale dello Spirito Santo, la quale deve riunire tutti gli uomini alla fede di Cristo in seno alla Cattolica Chiesa in un sol punto e in una sola legge in conferma delle divine promesse». Parve per un momento, nel dopoguerra, che i lazzarettisti si incanalassero «per una via pericolosa», ma seppero ritrarsene a tempo e dettero piena adesione ai vincitori. Non certo per le sue divergenze con la Chiesa cattolica – «la setta dell’Idolatria papale» – ma per la tenacia con cui essi difendono il Maestro e la Riforma, il Fatini ritiene degno di attenzione e di studio il fenomeno religioso amiatino.

Q25 §2 Criteri metodologici. La storia dei gruppi sociali subalterni è necessariamente disgregata ed episodica. È indubbio che nell’attività storica di questi gruppi c’è la tendenza all’unificazione sia pure su piani provvisori, ma questa tendenza è continuamente spezzata dall’iniziativa dei gruppi dominanti, e pertanto può essere dimostrata solo a ciclo storico compiuto, se esso si conchiude con un successo. I gruppi subalterni subiscono sempre l’iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e insorgono: solo la vittoria «permanente» spezza, e non immediatamente, la subordinazione. In realtà, anche quando paiono trionfanti, i gruppi subalterni sono solo in istato di difesa allarmata (questa verità si può dimostrare con la storia della Rivoluzione francese fino al 1830 almeno). Ogni traccia di iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni dovrebbe perciò essere di valore inestimabile per lo storico integrale; da ciò risulta che una tale storia non può essere trattata che per monografie e che ogni monografia domanda un cumulo molto grande di materiali spesso difficili da raccogliere.

Q25 §3 Adriano Tilgher, /Homo faber. Storia del concetto del lavoro nella civiltà occidentale/, Roma, Libreria di Scienze e Lettere, 1929. L. 15.

Q25 §4 Alcune generali sullo sviluppo storico dei gruppi sociali subalterni nel Medio Evo e a Roma. Nel saggio di Ettore Ciccotti Elementi di «verità» e di «certezza» nella tradizione storica romana (contenuto nel volume Confronti storici) ci sono alcuni accenni allo sviluppo storico delle classi popolari nei Comuni italiani, specialmente degni di attenzione e di trattazione separata. Le guerre reciproche fra i Comuni e quindi la necessità di reclutare una più vigorosa e abbondante forza militare col lasciare armare il maggior numero, davano la coscienza della loro forza ai popolani e nello stesso tempo ne rinsaldavano le file (cioè funzionarono da eccitanti alla formazione compatta e solidale di gruppo e di partito). I combattenti rimanevano uniti anche in pace, sia per il servizio da prestare, sia, in prosieguo, con crescente solidarietà, per fini di utilità particolare. Si hanno gli statuti delle «Società d’armi», che si costituirono a Bologna, come sembra, verso il 1230 ed emerge il carattere della loro unione e il loro modo di costituzione. Verso la metà del secolo XIII le società erano già ventiquattro, distribuite a seconda della contrada ove abitavano (i componenti). Oltre al loro ufficio politico di difesa esterna del Comune, avevano il fine di assicurare a ciascun popolano la tutela necessaria contro le aggressioni dei nobili e dei potenti. I capitoli dei loro statuti – per esempio della Società detta dei Leoni – hanno in rubrica titoli come: «De adiutorio dando hominibus dicte societatis…»; «Quod molestati iniuste debeant adiuvari ab hominibus dicte societatis». E alle sanzioni civili e sociali si aggiungevano, oltre al giuramento, una sanzione religiosa, con la comune assistenza alla messa e alla celebrazione di uffici divini, mentre altri obblighi comuni, come quelli, comuni alle confraternite pie, di soccorrere i soci poveri, seppellire i defunti ecc., rendevano sempre più persistente e stretta l’unione. Per le funzioni stesse delle società si formarono poi cariche e consigli ‑ a Bologna, per es., quattro o otto «ministeriales» foggiati sugli ordini della Società delle Arti o su quelli più antichi del Comune – che col tempo ebbero valore oltre i termini delle società e trovarono luogo nella costituzione del Comune.

Originariamente, in queste società entrano milites al pari di pedites, nobili e popolani, se anche in minor numero. Ma, a grado a grado, i milites, i nobili tendono ad appartarsene, come a Siena, o, secondo i casi, ne possono essere espulsi, come nel 1270, a Bologna. E a misura che il movimento di emancipazione prende piede, oltrepassando anche i limiti e la forma di queste società, l’elemento popolare chiede e ottiene la partecipazione alle maggiori cariche pubbliche. Il popolo si costituisce sempre più in vero partito politico e per dare maggiore efficienza e centralizzazione alla sua azione si dà un capo, «il Capitano del popolo», ufficio che pare Siena abbia preso da Pisa e che nel nome come nella funzione, rivela insieme origini e funzioni militari e politiche. Il popolo che già, volta a volta, ma sporadicamente, si era armato, si era riunito, si era costituito e aveva preso deliberazioni distinte, si costituisce come un ente a parte, che si dà anche proprie leggi. Campana propria per le sue convocazioni «cum campana Comunis non bene audiatur». Entra in contrasto col Podestà a cui contesta il diritto di pubblicar bandi e col quale il Capitano del popolo stipula delle «paci». Quando il popolo non riesce ad ottenere dalle autorità comunali le riforme volute, fa la sua secessione, con l’appoggio di uomini eminenti del Comune e, costituitosi in assemblea indipendente, incomincia a creare magistrature proprie ad immagine di quelle generali del Comune, ad attribuire una giurisdizione al Capitano del popolo, e a deliberare di sua autorità, dando inizio (dal 1255) a tutta un’opera legislativa. (Questi dati sono del Comune di Siena). Il popolo riesce, prima praticamente, e poi anche formalmente, a fare accettare negli Statuti generali del Comune disposizioni che prima non legavano se non gli ascritti al «Popolo» e di uso interno. Il popolo giunge quindi a dominate il Comune, soverchiando la precedente classe dominante, come a Siena dopo il 1270, a Bologna con gli Ordinamenti «Sacrati» e «Sacratissimi», a Firenze con gli «Ordinamenti di giustizia». (Provenzan Salvani a Siena è un nobile che si pone a capo del popolo).

La maggior parte dei problemi di storia romana che il Ciccotti prospetta nello studio già citato (a parte l’accertamento di episodi «personali» come quello di Tanaquilla ecc.) si riferiscono ad eventi ed istituzioni dei gruppi sociali subalterni (tribuno della plebe ecc.). Perciò il metodo dell’«analogia» affermato e teorizzato dal Ciccotti può dare qualche risultato «indiziario», perché, i gruppi subalterni, mancando di autonomia politica, le loro iniziative «difensive» sono costrette da leggi proprie di necessità, più semplici, più limitate e politicamente più compressive che non siano le leggi di necessità storica che dirigono e condizionano le iniziative della classe dominante. Spesso i gruppi subalterni sono originariamente di altra razza (altra cultura e altra religione) di quelli dominanti e spesso sono un miscuglio di razze diverse, come nel caso degli schiavi. La quistione dell’importanza delle donne nella storia romana è simile a quella dei gruppi subalterni, ma fino a un certo punto; il «maschilismo» può solo in un certo senso essere paragonato a un dominio di classe, esso ha quindi più importanza per la storia dei costumi che per la storia politica e sociale.

Di un altro criterio di ricerca occorre tener conto per rendere evidenti i pericoli insiti nel metodo dell’analogia storica come criterio d’interpretazione: nello Stato antico e in quello medioevale, l’accentramento sia politico‑territoriale, sia sociale (e l’uno non è poi che funzione dell’altro) era minimo. Lo Stato era, in un certo senso, un blocco meccanico di gruppi sociali e spesso di razze diverse: entro la cerchia della compressione politico‑militare, che si esercitava in forma acuta solo in certi momenti, i gruppi subalterni avevano una vita propria, a sé, istituzioni proprie ecc. e talvolta queste istituzioni avevano funzioni statali, che facevano dello Stato una federazione di gruppi sociali con funzioni diverse non subordinate, ciò che nei periodi di crisi dava un’evidenza estrema al fenomeno del «doppio governo». L’unico gruppo escluso da ogni vita propria collettiva organizzata era quello degli schiavi (e dei proletari non schiavi) nel mondo classico, e quello dei proletari e dei servi della gleba e dei coloni nel mondo medioevale. Tuttavia se per molti aspetti schiavi antichi e proletari medioevali si trovavano nelle stesse condizioni, la loro situazione non era identica: il tentativo dei Ciompi non produsse certo l’impressione che avrebbe prodotto un tentativo simile degli schiavi antichi (Spartaco che domanda di essere assunto al governo in collaborazione con la plebe ecc.). Mentre nel Medio Evo era possibile una alleanza tra proletari e popolo e ancor di più, l’appoggio dei proletari alla dittatura di un principe, niente di simile nel mondo classico per gli schiavi. Lo Stato moderno sostituisce al blocco meccanico dei gruppi sociali una loro subordinazione all’egemonia attiva del gruppo dirigente e dominante, quindi abolisce alcune autonomie, che però rinascono in altra forma, come partiti, sindacati, associazioni di cultura. Le dittature contemporanee aboliscono legalmente anche queste nuove forme di autonomia e si sforzano di incorporarle nell’attività statale: l’accentramento legale di tutta la vita nazionale nelle mani del gruppo dominante diventa «totalitario».

Q25 §5 Criteri metodici. L’unità storica delle classi dirigenti avviene nello Stato e la storia di esse è essenzialmente la storia degli Stati e dei gruppi di Stati. Ma non bisogna credere che tale unità sia puramente giuridica e politica, sebbene anche questa forma di unità abbia la sua importanza e non solamente formale: l’unità storica fondamentale, per la sua concretezza, è il risultato dei rapporti organici tra Stato o società politica e «società civile». Le classi subalterne, per definizione, non sono unificate e non possono unificarsi finché non possono diventare «Stato»: la loro storia, pertanto, è intrecciata a quella della società civile, è una funzione «disgregata» e discontinua della storia della società civile e, per questo tramite, della storia degli Stati o gruppi di Stati. Bisogna pertanto studiare: 1) il formarsi obbiettivo dei gruppi sociali subalterni, per lo sviluppo e i rivolgimenti che si verificano nel mondo della produzione economica, la loro diffusione quantitativa e la loro origine da gruppi sociali preesistenti, di cui conservano per un certo tempo la mentalità, l’ideologia e i fini; 2) il loro aderire attivamente o passivamente alle formazioni politiche dominanti, i tentativi di influire sui programmi di queste formazioni per imporre rivendicazioni proprie e le conseguenze che tali tentativi hanno nel determinare processi di decomposizione e di rinnovamento o di neoformazione; 3) la nascita di partiti nuovi dei gruppi dominanti per mantenere il consenso e il controllo dei gruppi subalterni; 4) le formazioni proprie dei gruppi subalterni per rivendicazioni di carattere ristretto e parziale; 5) le nuove formazioni che affermano l’autonomia dei gruppi subalterni ma nei vecchi quadri; 6) le formazioni che affermano l’autonomia integrale ecc.

La lista di queste fasi può essere ancora precisata con fasi intermedie o con combinazioni di più fasi. Lo storico deve notare e giustificare la linea di sviluppo verso l’autonomia integrale, dalle fasi più primitive, deve notare ogni manifestazione del sorelliano «spirito di scissione». Perciò, anche la storia dei partiti dei gruppi subalterni è molto complessa, in quanto deve includere tutte le ripercussioni delle attività di partito, per tutta l’area dei gruppi subalterni nel loro complesso, e sugli atteggiamenti dei gruppi dominanti e deve includere le ripercussioni delle attività ben più efficaci, perché sorrette dallo Stato, dei gruppi dominanti su quelli subalterni e sui loro partiti. Tra i gruppi subalterni uno eserciterà o tenderà ad esercitare una certa egemonia attraverso un partito e ciò occorre fissare studiando gli sviluppi anche di tutti gli altri partiti in quanto includono elementi del gruppo egemone o degli altri gruppi subalterni che subiscono tale egemonia. Molti canoni di ricerca storica si possono costruire dall’esame delle forze innovatrici italiane che guidarono il Risorgimento nazionale: queste forze hanno preso il potere, si sono unificate nello Stato moderno italiano, lottando contro determinate altre forze e aiutate da determinati ausiliari o alleati; per diventare Stato dovevano subordinarsi o eliminare le une e avere il consenso attivo o passivo delle altre. Lo studio dello sviluppo di queste forze innovatrici da gruppi subalterni a gruppi dirigenti e dominanti deve pertanto ricercare e identificare le fasi attraverso cui esse hanno acquistato l’autonomia nei confronti dei nemici da abbattere e l’adesione dei gruppi che le hanno aiutate attivamente o passivamente, in quanto tutto questo processo era necessario storicamente perché si unificassero in Stato. Il grado di coscienza storico‑politica cui erano giunte progressivamente queste forze innovatrici nelle varie fasi si misura appunto con questi due metri e non solo con quello del suo distacco dalle forze precedentemente dominanti. Di solito si ricorre solo a questo criterio e si ha così una storia unilaterale o talvolta non ci si capisce nulla, come nel caso della storia della penisola dall’era dei Comuni in poi. La borghesia italiana non seppe unificare intorno a sé il popolo e questa fu la causa delle sue sconfitte e delle interruzioni del suo sviluppo. Anche nel Risorgimento tale egoismo ristretto impedì una rivoluzione rapida e vigorosa come quella francese. Ecco una delle quistioni più importanti e delle cause di difficoltà più gravi nel fare la storia dei gruppi sociali subalterni e quindi della storia senz’altro (passata) degli Stati.

Q25 §6 Gli schiavi a Roma. 1) Un’osservazione casuale di Cesare (Bello Gallico, I, 40, 5) informa del fatto che il nucleo degli schiavi che si rivoltarono con Spartaco era costituito dai prigionieri di guerra Cimbri: questi rivoltosi furono annientati. (Cfr Tenney Frank, Storia economica di Roma, trad. italiana, Ed. Vallecchi, p. 153). In questo stesso capitolo del libro del Frank sono da vedere le osservazioni e le congetture sulla diversa sorte delle varie nazionalità di schiavi e sulla loro sopravvivenza probabile in quanto non furono distrutti: o si assimilarono alla popolazione indigena o addirittura la sostituirono.

2) A Roma gli schiavi non potevano essere riconosciuti esteriormente come tali. Quando un senatore propose una volta che agli schiavi fosse dato un abito che li distinguesse, il Senato fu contrario al provvedimento, per timore che gli schiavi divenissero pericolosi qualora potessero rendersi conto del loro grande numero (cfr Seneca, De clem., I, 24 e Tacito, Annali, 4, 27). In questo episodio sono contenute le ragioni politico‑psicologiche che determinano una serie di manifestazioni pubbliche: le processioni religiose, i cortei, le assemblee popolari, le parate di vario genere e anche in parte le elezioni (la partecipazione alle elezioni di alcuni gruppi) e i plebisciti.

Q25 §7 Fonti indirette. Le «Utopie» e i così detti «romanzi filosofici». Sono stati studiati per la storia dello sviluppo della critica politica, ma un aspetto dei più interessanti da vedere è il loro riflettere inconsapevolmente le aspirazioni più elementari e profonde dei gruppi sociali subalterni, anche dei più bassi, sia pure attraverso il cervello di intellettuali dominati da altre preoccupazioni. Questo genere di pubblicazioni è sterminato, se si tiene conto anche dei libri che hanno nessuna importanza letteraria e artistica, cioè se si parte dal punto di vista che si tratta di un fenomeno sociale. Si pone perciò il primo problema: la pubblicazione in massa (relativa) di tale letteratura, coincide con determinati periodi storici, con i sintomi di profondi rivolgimenti politico‑sociali? Si può dire che essa è come un insieme di «cahiers de doléance» indeterminati e generici, e di un tipo particolare? Intanto è anche da osservare che una parte di questa letteratura esprime gli interessi dei gruppi dominanti o spodestati ed ha carattere retrivo e forcaiolo. Sarebbe interessante compilare un elenco di questi libri, «utopie» propriamente dette, romanzi così detti filosofici, libri che attribuiscono a paesi lontani e poco conosciuti ma esistenti, determinate usanze e istituzioni che si vogliono contrapporre a quelle del proprio paese. L’Utopia di T. Moro, la Nuova Atlantide di Bacone, l’Isola dei Piaceri e la Salento di Fénelon (ma anche il Telemaco), i Viaggi di Gulliver dello Swift, ecc. Di carattere retrivo in Italia sono da ricordare brani incompiuti di Federico De Roberto e di Vittorio Imbriani (Naufragazia, frammento di romanzo inedito, con un’avvertenza di Gino Dotia, nella Nuova Antologia del 1° agosto 1934).

2) In un articolo di Giuseppe Gabrieli su Federico Cesi linceo, nella Nuova Antologia del 1° agosto 1930, si afferma un nesso storico‑ideologico tra la Controriforma (che secondo il Gabrieli contrappose all’individualismo, acuito dall’Umanesimo e sbrigliato dal Protestantesimo, lo spirito romano (!) di collegialità, di disciplina, di corporazione, di gerarchia per la ricostruzione (!) della società), le Accademie (come quella dei Lincei, tentata dal Cesi, cioè il lavoro collegiale degli scienziati, di tipo ben diverso da quello dei centri universitari, rimasti medioevali nei metodi e nelle forme), e le idee e le audacie delle grandi teorie, delle riforme palingenetiche e delle ricostruzioni utopistiche dell’umana convivenza (la Città del Sole, la Nuova Atlantide, ecc.).

In questo nesso c’è troppo di stiracchiato, di unilaterale, di meccanico e di superficiale. Si può sostenere, a maggior ragione, che le Utopie più famose sono nate nei paesi protestantici e che anche nei paesi della Controriforma le Utopie sono piuttosto una manifestazione, la sola possibile e in certe forme, dello spirito «moderno» essenzialmente contrario alla Controriforma (tutta l’opera di Campanella è un documento di questo lavoro «subdolo» di scalzare dall’interno la Controriforma, la quale, del resto, come tutte le restaurazioni, non fu un blocco omogeneo, ma una combinazione sostanziale, se non formale, tra il vecchio e il nuovo). Le Utopie sono dovute a singoli intellettuali, che formalmente si riattaccano al razionalismo socratico della Repubblica di Platone e che sostanzialmente riflettono, molto deformate, le condizioni di instabilità e di ribellione latente delle grandi masse popolari dell’epoca; sono, in fondo, manifesti politici di intellettuali, che vogliono raggiungere l’ottimo Stato. Bisogna tener conto inoltre delle scoperte scientifiche del tempo e del razionalismo scientifista che ebbe le sue prime manifestazioni proprio nel periodo della Controriforma. Anche il Principe del Machiavelli fu a suo modo un’Utopia (cfr in proposito alcune in altro quaderno). Si può dire che proprio l’Umanesimo, cioè un certo individualismo, fu il terreno propizio al nascere delle Utopie e delle costruzioni politico‑filosofiche: la Chiesa, con la Controriforma, si staccò definitivamente dalle masse degli «umili» per servire i «potenti»; singoli intellettuali tentarono di trovare, attraverso le Utopie, una soluzione di una serie dei problemi vitali degli umili, cioè cercarono un nesso tra intellettuali e popolo: essi sono da ritenere pertanto i primi precursori storici dei Giacobini e della Rivoluzione francese, cioè dell’evento che pose fine alla Controriforma e diffuse l’eresia liberale, ben più efficace contro la Chiesa di quella protestantica.

3) Articolo di Ezio Chiòrboli nella Nuova Antologia del 1° maggio 1928 su Anton Francesco Doni: profilo interessante su questo pubblicista, popolarissimo al suo tempo, nel Cinquecento, spiritoso, caustico, di spiriti moderni. Il Doni si occupò di infiniti problemi di ogni genere, precorrendo molte innovazioni scientifiche. Di tendenze che oggi si direbbero materialistiche (volgari); accenna all’importanza dell’angolo facciale e ai segni specifici della delinquenza due secoli prima del Camper (Pietro, olandese, 1722‑1789) e due secoli e mezzo prima del Lavater (Gian Gaspare, svizzero, nato a Zurigo, 1741‑1801) e del Gall (Francesco Giuseppe, tedesco, 1758‑1828) parlò delle funzioni dell’intelletto e delle parti del cervello ad esse deputate. Scrisse una Utopia nel Mondo pazzo o savio – «immaginosa ricostruzione sociale che si pinge di molte delle iridescenze e delle ansie onde s’è arroventato il socialismo odierno» – che forse tolse dall’Utopia del Moro. Conobbe il libro del Moro e lo pubblicò egli stesso nella volgarizzazione del Lando. «Pure l’immaginazione non è più la medesima, come la medesima non è di Platone nella Repubblica né d’altri quali si fossero, oscuri o ignoti; ché egli se la compì, se la rimutò, se la rifoggiò a sua posta, sì che n’ha già avvivata un’altra, sua, proprio sua, della quale tanto è preso che e nei Marmi e via via in più opere e opuscoli esce or in questo e or in quel particolare, in questo o quel sentimento». Per la bibliografia del Doni cfr l’edizione dei Marmi curata dal Chiòrboli negli «Scrittori d’Italia» del Laterza e l’antologia del Doni pubblicata nelle «Più belle pagine» del Treves.

4) La Tempesta di Shakespeare (l’opposizione di Calibano e Prospero ecc.; carattere utopistico dei discorsi di Gonzalo). Cfr Achille Loria, Pensieri e soggetti economici in Shakespeare nella Nuova Antologia del 1° agosto 1928 che può essere utilizzato come prima scelta dei brani shakespeariani di carattere politico‑sociale e come documento indiretto del modo di pensare dei popolani del tempo. A proposito della Tempesta sono da vedere il Calibano e l’Eau de Jouvence del Renan.

Q25 §8 Scientismo e postumi del basso romanticismo. È da vedere la tendenza della sociologia di sinistra in Italia a occuparsi intensamente del problema della criminalità. È essa legata al fatto che alla tendenza di sinistra avevano aderito Lombroso e molti dei più «brillanti» seguaci che parevano allora la suprema espressione della scienza e che influivano con tutte le loro deformazioni professionali e i loro specifici problemi? O si tratta di un postumo del basso romanticismo del 48 (Sue e le sue elucubrazioni di diritto penale romanzato)? O è legato a ciò che in Italia «impressionava»L’integrazione è basata sul testo A. certi gruppi intellettuali la grande quantità di reati di sangue ed essi pensavano di non poter procedere oltre senza aver spiegato «scientificamente» (cioè naturalisticamente) questo fenomeno di «barbarie»?