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Library:Prison Notebooks In Original Italian/Notebook 7: Difference between revisions

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Written in 1930-31

     QUADERNO 7


         APPUNTI DI FILOSOFIA. MATERIALISMO E IDEALISMO


Seconda serie

Q7 §1 Benedetto Croce e il materialismo storico cfr a p. 55 bis. A proposito del discorso del Croce nella sezione di Estetica del Congresso filosofico di Oxford (cfr «La Nuova Italia» del 20 ottobre 1930). La traduzione dei termini di un sistema filosofico nei termini di un altro, così come del linguaggio di un economista nel linguaggio di un altro economista ha dei limiti e questi limiti sono dati dalla natura fondamentale dei sistemi filosofici o dei sistemi economici; cioè nella filosofia tradizionale ciò è possibile, mentre non è possibile tra la filosofia tradizionale e il materialismo storico. Lo stesso principio della traducibilità reciproca è un elemento «critico» inerente al materialismo storico, in quanto si presuppone e si postula che una data fase della civiltà ha una «fondamentalmente identica» espressione culturale e filosofica, anche se l’espressione ha un linguaggio diverso dalla tradizione particolare di ciascuna «nazione» o di ogni sistema filosofico. Il Croce avrebbe quindi commesso un arbitrio, curioso: avrebbe ricorso a una «gherminella» polemica, si sarebbe servito di un elemento critico del materialismo storico per assalire in blocco tutto il materialismo storico presentandolo come una concezione del mondo in arretrato persino su Kant. (In ciò il Croce innova «integralmente» tutta la sua critica del materialismo storico: questo punto di vista può essere avvicinato agli elogi che egli ha fatto del libro del De Man). Ma ha il Croce completamente torto? Ho detto che egli ha ricorso a una «gherminella» polemica, cioè non ha compiuto un atto da filosofo, da storico, ma un’«azione politica», «pratica».

È certo che nel materialismo storico si è formata una corrente deteriore che può essere indicata come corrispondente al cattolicismo popolare in confronto a quello teologico o degli intellettuali; così come il cattolicismo popolare può essere tradotto nei termini del «paganesimo» o di altre religioni corrispondenti, così il materialismo storico deteriore può essere tradotto nei termini «teologici», cioè della filosofia prekantiana e precartesiana. La gherminella del Croce corrisponde a quella degli anticlericali massonici e razionalisti volgari che appunto combattevano il cattolicismo con questi confronti e con queste «traduzioni» nel linguaggio «feticista». (Il Croce sarebbe caduto a stessa posizione che il Sorel rimproverava a Clemenceau, di giudicare una filosofia dalla sua letteratura di volgarizzazione intellettuale).

È la posizione dell’uomo del Rinascimento verso l’uomo della Riforma protestante: non capire che la rozzezza intellettuale dell’uomo della Riforma tuttavia prelude alla filosofia classica tedesca e al vasto movimento culturale tedesco moderno). Erasmo e Lutero: «dove entra Lutero, cessa la cultura» disse Erasmo (o qualcosa di simile). Croce rimprovera al materialismo storico il suo «scientismo», la sua «superstizione» materialistica, il suo ritorno al «medio evo» intellettuale. Sono i rimproveri che Erasmo, nel linguaggio del tempo, muoveva a Lutero. L’uomo del Rinascimento e l’uomo della Riforma si sono fusi nell’intellettuale moderno del tipo Croce, ma se questo tipo contiene in sé l’uomo della Riforma, esso non intende più il processo storico per cui dal «medioevale» Lutero si è potuti giungere a Hegel e perciò di fronte alla nuova Riforma intellettuale e morale rappresentata dal materialismo storico, si ritrova nella stessa posizione di Erasmo di fronte a Lutero.

Questa posizione di Croce si può studiare nel suo atteggiamento pratico verso la religione. Croce è antireligioso e per gli intellettuali italiani la sua filosofia, specialmente nelle sue manifestazioni meno sistematiche (come le recensioni, le postille, ecc. raccolte nei volumi come Cultura e vita morale, Conversazioni critiche, Frammenti di etica ecc.), è stata una vera riforma intellettuale e morale, del tipo «Rinascimento»; ma Croce non è andato «al popolo», non è diventato un elemento «nazionale» (come non lo sono stati gli uomini del Rinascimento a differenza dei Luterani e Calvinisti) perché non è riuscito a creare una schiera di discepoli che abbiano potuto rendere questa filosofia «popolare» capace di diventare un elemento educativo fin dalle scuole elementari (e quindi educativo per il semplice operaio e per il semplice contadino, cioè per il semplice uomo del popolo): ciò era impossibile, come hanno dimostrato gli avvenimenti.

Croce in qualche punto ha scritto qualcosa di questo genere: «Non si può togliere la religione all’uomo del popolo, senza subito sostituirla con qualcosa che soddisfi le stesse esigenze per cui la religione si è formata e ancora permane». C’è qualcosa di vero in questa affermazione, ma non è essa anche una confessione dell’impotenza della filosofia idealista a diventare una integrale concezione del mondo? Così è avvenuto che Gentile, praticamente più conseguente del Croce, ha rimesso la religione nelle scuole e ha giustificato questo atto con la concezione hegeliana della religione come fase primitiva della filosofia (Croce del resto avrebbe fatto altrettanto se il suo progetto scolastico avesse superato gli scogli della politica parlamentare): ma non è questa una pura gherminella? Perché si dovrebbe dare al popolo un cibo diverso da quello degli intellettuali? Si ricordi il «frammento» di Etica del Croce sulla religione: esso è bellissimo; perché non è stato svolto? In realtà era impossibile. La concezione dell’«obbiettività del reale» quale è stata radicata nel popolo dalle religioni non può essere sradicata che da un principio che si presenti come «dogmatico», ma abbia in sé la possibilità di storicizzarsi: questo principio non può essere dato che dalla scienza. Essa magari diventerà una superstizione simile o anche peggiore della superstizione religiosa, ma può trovare in se stessa gli elementi per superare questa prima fase primitiva. Essa pone l’uomo in contatto con la natura, mantenendo la superiorità dell’uomo, quindi della storia o dello spirito, come il Croce dice. (Vedere il capitolo del Missiroli sulla «scienza» pubblicato nell’«Ordine Nuovo»).

A questo proposito è interessante questo brano di M. Missiroli («L’Italia letteraria», 23 marzo 1930, Calendario: Religione e filosofia): «È probabile che qualche volta, di fronte alla logica del professore di filosofia, specie se questi sarà un seguace dell’idealismo assoluto, il senso comune degli scolari e il buon senso degli insegnanti delle altre materie, siano tratti a dar ragione al teologo piuttosto che al filosofo. Non vorrei in un eventuale contradditorio, davanti ad un pubblico non iniziato, trovarmi a dover perorare le ragioni della filosofia moderna L’umanità è ancora tutta quanta aristotelica e la comune opinione segue ancora quel dualismo, che è proprio del realismo greco‑cristìano. Che il conoscere sia un “vedere” anziché un “fare”, che la verità sia fuori di noi, esistente in sé e per sé e non una nostra creazione; che la “natura” e il “mondo” siano delle intangibili realtà, nessuno dubita e si rischia di passare per pazzi quando si afferma il contrario. I difensori dell’oggettività del sapere, i difensori più rigidi della scienza positiva, della scienza e del metodo di Galileo contro la gnoseologia dell’idealismo assoluto, oggi si trovano fra i cattolici. Quelli che Croce chiama pseudoconcetti e quello che Gentile definisce come pensiero astratto, sono le ultime rocche dell’oggettivismo. Donde la tendenza, sempre più visibile, della coltura cattolica a valorizzare la scienza positiva e l’esperienza contro la nuova metafisica dell’assoluto. Non è da escludere che il pensiero cattolico possa ringiovanirsi rifugiandosi nella cittadella della scienza sperimentale. Da trent’anni i gesuiti lavorano per eliminare i contrasti – in realtà basati su equivoci – fra la religione e la scienza e non a caso Giorgio Soler uno scritto oggi rarissimo osservava che, fra tutti gli scienziati, i matematici sono i soli per i quali il miracolo non ha nulla di miracoloso».

Questi punti di vista sono stati dal Missiroli più diffusamente esposti e presentati in parte diversamente nel volume Date a Cesare. I cattolici fanno dei grandi sforzi per non perdere il contatto con società moderna, cioè con l’alta cultura: con la diffusione dell’istruzione pubblica, che modifica incessantemente la composizione e il livello culturale delle masse popolari, l’influenza della religione andava esaurendosi, per confinarsi nella generazione più anziana e nelle donne. La religione si trasforma molecolarmente. I cattolici hanno cercato di assorbire il positivismo, ma hanno anche civettato con l’idealismo attuale e specialmente col crocismo. D’altronde il Croce civetta continuamente col «senso comune» e col «buon senso» popolare (bisognerà raccogliere tutti i brani di Croce sui rapporti tra filosofia e «senso comune»).

L’attacco di Croce al materialismo deve essere studiato sotto diversi aspetti: 1°) Atteggiamento di Croce verso il materialismo storico, organicamente espresso nel volume speciale e in articoli sparsi collegati al volume. 2°) Quanto del materialismo storico è penetrato nella stessa filosofia crociana, cioè la funzione che ha avuto il materialismo storico nello sviluppo filosofico del Croce: cioè, in che misura il Croce è un materialista storico «inconsapevole» o consapevole nel modo che egli chiama di «superamento»? 3°) Recente atteggiamento del Croce, nel secondo dopoguerra (il primo accenno di questo ultimo atteggiamento, a mia nozione, è nel volumetto sulla politica già prima nella Storia della storiografia italiana nel sec. XIX), che rappresenta un rinnegamento non solo della prima critica del Croce, ma anche di una parte cospicua della sua stessa filosofia: cioè questo nuovo atteggiamento del Croce non è solo un nuovo atteggiamento del Croce verso il materialismo storico, ma anche verso se stesso, verso tutta la sua filosofia precedente.

Il Croce fa quistioni di parole: quando dice che per il materialismo storico le superstrutture sono apparenze (ciò che è vero nella polemica politica ma non è vero «gnoseologicamente»), non pensa che ciò può significare qualcosa di simile alla sua affermazione della non «definitività» di ogni filosofia? Quando dice che il materialismo storico stacca la struttura dalle superstrutture, rimettendo così in vigore il dualismo teologico, non pensa che questo distacco è posto in senso dialettico, come tra tesi ed antitesi e che pertanto ogni accusa di dualismo teologico è vacua e superficiale? Forse che la struttura è concepita come qualcosa di immobile, o non è essa stessa la realtà in movimento: cosa vuol dire M. nelle Tesi su Feuerbach quando parla di «educazione dell’educatore» se non che la superstruttura reagisce dialetticamente sulla struttura e la modifica, cioè non afferma in termini «realistici» una negazione della negazione? non afferma l’unità del processo del reale?

Il Croce ritorce contro il materialismo storico l’accusa di disgregazione del processo del reale che i Gentiliani hanno rivolto allo stesso Croce, in quanto pone una «distinzione» tra le attività dello spirito e introduce una «dialettica dei distinti» (espressione infelice e incongrua, se anche è esatta la proposizione del Croce); ecco perché si può dire che il Croce, con questo suo atteggiamento verso il materialismo storico, in realtà rivela un processo di revisione dei capisaldi della sua stessa filosofia. (Concetto di blocco storico; nel materialismo storico è l’equivalente filosofico dello «spirito» nella filosofia crociana: introdurre nel «blocco storico» una attività dialettica e un processo di distinzione non significa negarne l’unità reale).

Q7 §2 Traducibilità dei linguaggi scientifici e filosofici. Nel 1921: quistioni di organizzazione. Vilici [Lenin ndc] disse e scrisse: «non abbiamo saputo “tradurre” nelle lingue “europee” la nostra lingua».

Q7 §3 «Esperanto» filosofico e scientifico. Dal non comprendere la storicità dei linguaggi e quindi delle ideologie e delle opinioni è conseguita la tendenza a costruire un esperanto o un volapük della filosofia e della scienza. È strano e curioso come nei rappresentanti di questa tendenza esista lo stesso stato d’animo dei popoli primitivi verso tutti gli altri popoli da loro conosciuti: ogni popolo primitivo chiamava se stesso «uomo» o «uomini», cioè la parola per indicare se stesso è la stessa che serve ad indicare l’«uomo», e gli altri popoli sono chiamati «muti» o «balbettanti» (barbari), in quanto non conoscono la «lingua degli uomini». Così avviene che per gli inventori di volapük della filosofia e della scienza, tutto ciò che non è espresso in questo volapük è delirio, è pregiudizio, è superstizione ecc.: essi (con processo analogo a quello che si verifica nelle mentalità settarie) trasformano in giudizio morale o in diagnosi di ordine psichiatrico ciò che dovrebbe essere un giudizio storico. Pare che in Italia il rappresentante più compiuto di questa tendenza sia oggi il signor Mario Govi, col suo volume Fondazione della Metodologia ‑ Logica ed Epistemologia, Torino, Bocca, 1929, pp. 579 ma molte tracce di questa tendenza si trovano nel Saggio popolare. Per il Govi pare che la logica e l’epistemologia (ossia metodologia speciale, mentre la logica sarebbe la metodologia generale) esistano in se e per sé astratte dal pensiero concreto e dalle concrete scienze particolari (così come la lingua esiste nel vocabolario e nelle grammatiche, la tecnica esiste fuori del lavoro, ecc. ecc.): con questa concezione è naturale che si ritenga legittimo un «volapük» della filosofia.

Q7 §4 Scienza morale e materialismo storico. La base scientifica di una morale del materialismo storico è da cercare, mi pare, nell’affermazione che «la società non si pone compiti per la soluzione dei quali non esistano già le condizioni di risoluzione». Esistendo le condizioni, la soluzione dei compiti diviene «dovere», la «volontà» diviene libera. La morale diventerebbe una ricerca delle condizioni necessarie per la libertà del volere in un certo senso, verso un certo fine e la dimostrazione che queste condizioni esistono. Si dovrebbe trattare anche non di una gerarchia dei fini, ma di graduazione dei fini da raggiungere, dato che si vuole «gradualizzare» non solo ogni individuo singolarmente preso, ma anche tutta una società di individui.

Q7 §5 Il «Saggio popolare», la scienza e gli strumenti della scienza. La Geologia non ha strumenti, oltre il martello. Il suo progresso e la sua storia non possono perciò essere indicati dal progresso e dalla storia dei suoi strumenti. In generale il progredire delle scienze non può essere documentato materialmente; può esserne solo ravvivato il ricordo, e non per tutte, col successivo progresso degli strumenti che sono stati i suoi mezzi e delle macchine che sono state sue applicazioni. I principali «strumenti» del progredire delle scienze sono di ordine intellettuale, metodologìco e giustamente Engels ha detto che gli «strumenti intellettuali» non sono nati dal nulla, non sono innati, ma sono acquisiti e si sono sviluppati e si sviluppano storicamente. Del resto con gli strumenti «materiali» della scienza, si è sviluppata una «scienza degli strumenti», strettamente legata allo sviluppo generale della produzione. (Su questo argomento è da vedere: G. Boffito, Gli strumenti della scienza e la scienza degli strumenti, Libreria Internazionale Sceber, 1929).

Q7 §6 Il «Saggio popolare» e la sociologia. La riduzione del materialismo storico a «sociologia» marxista è un incentivo alle facili improvvisazioni giornalistiche dei «genialoidi». L’«esperienza» del materialismo storico è la storia stessa, lo studio dei fatti particolari, la «filologia». Questo dovrebbero forse voler dire quegli scrittori, che, come accenna molto affrettatamente il Saggio popolare, negano che si possa fare una sociologia marxista e affermano che il materialismo storico vive nei saggi storici particolari.

La «filologia» è l’espressione metodologica dell’importanza dei fatti particolari intesi come «individualità» definite e precisate. A questo metodo si contrappone quello dei «grandi numeri» o della «statistica», preso in prestito dalle scienze naturali o almeno da alcune di esse. Ma non si è osservato abbastanza che la legge dei «grandi numeri» può essere applicata alla storia e alla politica solo fino a quando le grandi masse della popolazione rimangono passive – per rispetto alle quistioni che interessano lo storico o il politico – o si suppone che rimangano passive. Questa estensione della legge dei grandi numeri dalle scienze naturali alle scienze storiche e politiche ha diverse conseguenze per la storia e per la politica: nella scienza storica può avere per risultato spropositi scientifici, che potranno essere corretti agevolmente dalla scoperta di nuovi documenti che precisino meglio ciò che prima era solo «ipotesi»; ma nella scienza e nell’arte politica può avere per risultato delle catastrofi, i cui danni «secchi» non potranno mai più essere risarciti. Nella scienza e nell’arte politica l’elevazione della legge dei grandi numeri a legge essenziale non è solo errore scientifico, ma errore politico in atto: è incitamento alla pigrizia mentale e alla superficialità programmatica, è affermazione aprioristica di «inconoscibilità» del reale, molto più grave che non sia nelle scienze naturali, in cui l’affermazione di «non conoscere» è un criterio di prudenza metodica e non affermazione di carattere filosofico. L’azione politica tende appunto a far uscire le grandi moltitudini passività, cioè a distruggere la «legge» dei grandi numeri; come allora questa può essere ritenuta una «legge»? Anche in questo campo si può vedere lo sconvolgimento che nell’arte politica porta la sostituzione nella funzione direttiva dell’organismo collettivo all’individuo singolo, al capo individuale: i sentimenti standardizzati delle masse che il «singolo» conosce come espressione della legge dei grandi numeri, cioè razionalmente, intellettualmente, e che egli – se è un grande capo – traduce in idee‑forza, in parole‑forza, dall’organismo collettivo sono conosciuti per «compartecipazione», per con- passionalità» e se l’organismo collettivo è innestato vitalmente nelle masse, conosce per esperienza dei particolari immediati, con un sistema di «filologia» vivente, per così dire.

Mi pare che il libro del De Man, se ha un suo valore, lo ha appunto in questo senso: che incita a «informarsi» particolarmente dei «sentimenti» dei gruppi e degli individui e a non accontentarsi delle leggi dei grandi numeri. Il De Man non ha fatto nessuna scoperta nuova, né ha trovato un principio originale che possa superare il materialismo storico o dimostrarlo scientificamente errato o infecondo: ha elevato a «principio» scientifico ciò che è solo un criterio già noto ma insufficientemente definito e sviluppato, o almeno non ancora sistematicamente definito e sviluppato nella sua teoria e nella sua portata scientifica. Il De Man non ha neanche compreso l’importanza del suo criterio, poiché ha creato una nuova legge dei «grandi numeri» inconsapevolmente, un nuovo metodo statistico e classificatorio, una nuova sociologia astratta.

Q7 §7 La metafora dell’ostetrica e quella dì Michelangelo. La metafora dell’ostetrica che aiuta, coi ferri, il neonato a nascere dall’alvo materno e il principio espresso da Michelangelo nei versi: «Non ha l’ottimo artista alcun concetto – che un marmo solo in sé non circoscriva – col suo soverchio e solo a quello arriva – la mano che obbedisce all’intelletto». Togliere il soverchio di marmo che nasconde la figura concepita dall’artista a gran colpi di martello sul blocco corrisponde all’operazione dell’ostetrica che trae alla luce il neonato squarciando il seno materno.

Q7 §8 Benedetto Croce e il materialismo storico. Cfr il giudizio del Croce su Giovanni Botero nel volume Storia dell’età barocca in Italia. Il Croce riconosce che i moralisti del seicento, per quanto piccoli di statura a paragone del Machiavelli, «rappresentavano, nella filosofia politica, uno stadio ulteriore e superiore». Questo giudizio deve essere messo insieme a quello del Sorel a proposito di Clémenceau che non riusciva a vedere, anche attraverso la «letteratura» mediocre, le esigenze che tale letteratura rappresentava e che non erano, esse, «mediocri». Un pregiudizio da «intellettuale» è quello di misurare i movimenti storici e politici col metro dell’«intellettualismo», cioè della compiuta espressione letteraria e non col metro della «scienza politica», cioè della capacità concreta e attuale di conformare il mezzo al fine: questo pregiudizio è anche «popolare», in certi stadi della organizzazione politica e si confonde spesso col pregiudizio dell’«oratore»: l’uomo politico deve essere grande oratore o grande intellettuale, deve avere il crisma del «genio» ecc. ecc.

Q7 §9 B. Croce e la storia etico‑politica. L’avvicinamento delle due espressioni etica e politica è appunto l’espressione esatta delle esigenze in cui si muove la storiografia del Croce: storia etica è l’aspetto della storia correlativo alla «società civile», all’egemonia; storia politica è l’aspetto della storia corrispondente all’iniziativa statale-governativa. Quando c’è contrasto tra egemonia e governo‑statale c’è crisi della società e il Croce giunge ad affermare che il vero «Stato», cioè la forza direttiva dell’impulso storico occorre talvolta cercarlo non là dove si crederebbe, nello Stato giuridicamente inteso, ma spesso nelle forze «private» e talvolta nei così detti «rivoluzionari» (questa proposizione del Croce è molto importante teoricamente per intendere appieno la sua concezione della politica e della storiografia). Sarebbe utile analizzare in concreto la teoria crociana, prendendo come modelli specialmente La storia del regno di Napoli e La Storia d’Italia dal 1870 al 1915.

Q7 §10 Struttura e superstruttura (vedi scritte nella «prima serie»). Mi pare che si potrebbe richiamare a questo proposito il confronto con la tecnica guerresca così come si è trasformata nell’ultima guerra col passaggio dalla guerra manovrata alla guerra di posizione. Ricordare il libretto della Rosa [Luxemburg ndc] tradotto da Alessandri nel 1919‑20 e la cui teoria era basata sulle esperienze storiche del 1905 (d’altronde, a quanto pare, non studiate con esattezza, perché vi erano trascurati gli elementi volontari e organizzativi, molto più diffusi di quanto era portata a credere la Rosa che, per pregiudizio «economistico», li trascurava inconsciamente); questo libretto mi pare il più significativo della teoria della guerra manovrata applicata alla scienza storica e all’arte politica. L’elemento economico immediato (crisi ecc.) è considerato come l’artiglieria campale nella guerra il cui ufficio era quello di aprire un varco nella difesa nemica, sufficiente perché le proprie truppe vi facessero irruzione e ottenessero un successo strategico definitivo o almeno nella linea necessaria del successo definitivo. Naturalmente nella scienza storica l’efficacia dell’elemento economico immediato era ben più complessa di quella che non fosse quella dell’artiglieria campale nella guerra di manovra, poiché esso era concepito come avente un doppio effetto: 1°) di aprire il varco nella difesa nemica dopo aver scompaginato e fatto perdere la fiducia in sé e nelle sue forze e nel suo avvenire al nemico stesso; 2°) di organizzare fulmineamente le proprie truppe, di creare i quadri, o almeno di porre i quadri esistenti (elaborati fino allora dal processo storico generale) fulmineamente al loro posto di inquadramento delle truppe disseminate; di creare fulmineamente la concentrazione dell’ideologia e dei fini da raggiungere. Era una forma di ferreo determinismo economistico, con l’aggravante che gli effetti ne erano concepiti come rapidissimi nel tempo e nello spazio: perciò era un vero e proprio misticismo storico, l’aspettazione di una specie di fulgurazione miracolosa.

L’osservazione del generale Krasnov (nel suo romanzo) che durante la guerra l’Intesa (cioè l’Inghilterra che non voleva la vittoria della Russia imperiale, perché non fosse definitivamente risolta a favore dello zarismo la quistione orientale) impose allo Stato maggiore la guerra di trincea (assurda dato l’enorme sviluppo del fronte dal Baltico al Mar Nero, con grandi zone paludose e boscose), mentre unica possibile era la guerra di manovra, ha solo un’apparenza di verità. In realtà l’esercito russo tentò la guerra di manovra e di sfondamento, specialmente nel settore austriaco (ma anche in Prussia, ai laghi Masuri) ed ebbe successi parziali brillantissimi ma effimeri. La guerra di posizione non è infatti solo costituita dalle trincee vere e proprie, ma da tutto il sistema organizzativo e industriale del territorio che è alle spalle dell’esercito schierato ed è dato specialmente dal tiro rapido dei cannoni, delle mitragliatrici, dei fucili e dalla loro concentrazione (oltre che dalla loro abbondanza, che permette di sostituire il materiale perduto dopo uno sfondamento). Nel fronte orientale si vede subito la differenza che la tattica russa di sfondamento otteneva nei suoi risultati nel settore tedesco e in quello austriaco: anche nel settore austriaco dopo il passaggio del comando ai tedeschi questa tattica cadde nel disastro. Lo stesso si vide nella guerra polacca del 1920, in cui l’invasione irresistibile fu fermata a Varsavia da Weygand e dalla linea tenuta dagli ufficiali francesi.

Con ciò non si vuol dire che la tattica d’assalto e di sfondamento e la guerra manovrata debbano essere considerate come ormai sparite studio dell’arte militare: sarebbe un grosso errore. Ma esse, nelle guerre tra gli Stati più avanzati industrialmente e civilmente, devono considerarsi ridotte più a funzione tattica che a funzione strategica, così come era la guerra d’assedio nel periodo precedente della storia militare.

La stessa riduzione deve avvenire nell’arte e nella scienza della politica, almeno per ciò che riguarda gli Stati più avanzati, dove la «società civile» è diventata una struttura molto complessa e resistente alle «irruzioni» catastrofiche dell’elemento economico immediato (crisi, depressioni ecc.): le superstrutture della società civile sono come il sistema delle trincee nella guerra moderna. Come avveniva che un furibondo attacco di artiglieria contro le trincee avversarie, che sembrava aver distrutto tutto, in realtà aveva distrutto solo la superficie della difesa e al momento dell’avanzata gli assalitori si trovavano di fronte una difesa ancora efficace, così avviene nella politica durante le grandi crisi economiche, né le truppe assalitrici, per effetto della crisi, si organizzano fulmineamente nel tempo e nello spazio, né, tanto meno, acquistano lo spirito aggressivo; per reciproca, gli assaliti non si demoralizzano né abbandonano le difese, pur tra le macerie, né perdono la fiducia nella propria forza e nel proprio avvenire. Non che le cose rimangano tali e quali; ma le cose non si svolgono fulmineamente e con marcia progressiva definitiva come si aspetterebbero gli strateghi del cadornismo politico. L’ultimo fatto di tal genere sono stati avvenimenti del 1917. Essi hanno segnato una svolta decisiva nella storia dell’arte e della scienza della politica.

Si tratta dunque di studiare, con profondità, quali sono gli elementi della società civile che corrispondono ai sistemi di difesa nella guerra di posizione. Dico «con profondità» a disegno, perché essi sono stati studiati, ma da un punto di vista superficiale e banale, come certi storici del costume studiano le stranezze della moda femminile o che so io: o da un punto di vista «razionalistico» cioè con la persuasione che certi fenomeni sono distrutti appena se ne è data una giustificazione o una spiegazione «realistica», come superstizioni, insomma.

Q7 §11 Un giudizio sull’«idealismo attuale» di Gentile. Dall’«Italia Letteraria» del 23 novembre 1930: articolo di Bruno Revel Il VII Congresso di Filosofia: «… l’idealismo attuale ci ripresenta ancora la storia come la suprema istanza di giustificazione. Badando: questa storia è pregna di tutti i valori universali e positivi in se stessi che si solevano un tempo isolare in un regno trascendente di essenze e di norme. Perciò questo idealismo immanentistico, valendosi di tali valori nel corso del tempo sapientemente isolati e assolutizzati – e validi assolutamente sol perché affermati come trascendenti, puri – può permettersi di predicare e d’insegnar morale quasi ignorando il proprio inguaribile relativismo e scetticismo. E giacché l’evoluzione sociale, contrassegnata da una crescente organizzazione attorno alla fabbrica, tende a centralizzazioni razionali ferree e bene agencées, così l’idealismo attuale non fa che prestar lustro d’assoluto, dignità metafisica a tale evoluzione, secondo la sua teoria dello Stato. E crede di conferire così un carattere etico assoluto alle contingenti necessità industriali dello Stato moderno». Contorto e abborracciato, ma vi si vede l’influsso del materialismo storico.

Q7 §12 L’uomo-individuo e l’uomo-massa. Il proverbio latino: «Senatores boni viri, senatus mala bestia» è diventato un luogo comune. Cosa significa questo proverbio e quale significato ha assunto? Che una folla di persone dominate dagli interessi immediati o in preda alla passione suscitata dalle impressioni del momento trasmesse acriticamente di bocca in bocca, si unifica nella decisione collettiva peggiore, che corrisponde ai più bassi istinti bestiali. L’osservazione è giusta e realistica in quanto si riferisce alle folle casuali, raccoltesi come «una moltitudine durante un acquazzone sotto una tettoia”, composte di uomini che non sono legati da vincoli di responsabilità verso altri uomini o gruppi di uomini o verso una realtà economica concreta, il cui sfacelo si ripercuota nel disastro degli individui. Si può dire perciò che in tali folle l’individualismo non solo non è superato ma è esasperato per la certezza dell’impunità e dell’irresponsabilità.

È però anche osservazione comune che un’assemblea «bene ordinata» di elementi riottosi e indisciplinati si unifica in decisioni collettive superiori alla media individuale: la quantità diventa qualità. Se così non fosse, non sarebbe possibile l’esercito, per esempio non sarebbero possibili sacrifizi inauditi che gruppi umani ben disciplinati sanno compiere in determinate occasioni, quando il loro senso di responsabilità sociale è svegliato fortemente dal senso immediato del pericolo comune e l’avvenire appare più importante del presente. Si può far l’esempio di un comizio in piazza che è diverso da un comizio in sala chiusa ed è diverso da un comizio sindacale di categoria professionale e così via. Una seduta di ufficiali di Stato Maggiore sarà ben diversa da un’assemblea di soldati di un plotone ecc.

Tendenza al conformismo nel mondo contemporaneo più estesa e più profonda che nel passato: la standardizzazione del modo di pensare e di operare assume estensioni nazionali o addirittura continentali. La base economica dell’uomo‑collettivo: grandi fabbriche, taylorizzazione, razionalizzazione ecc. Ma nel passato esisteva o no l’uomo‑collettivo? Esisteva sotto forma della direzione carismatica, per dirla con Michels: cioè si otteneva una volontà collettiva sotto l’impulso e la suggestione immediata di un «eroe», di un uomo rappresentativo; ma questa volontà collettiva era dovuta a fattori estrinseci e si componeva e scomponeva continuamente. L’uomo‑collettivo odierno si forma invece essenzialmente dal basso in alto, sulla base della posizione occupata dalla collettività nel mondo della produzione: l’uomo rappresentativo ha anche oggi una funzione nella formazione dell’uomo‑collettivo, ma inferiore di molto a quella del passato, tanto che esso può sparire senza che il cemento collettivo si disfaccia e la costruzione crolli.

Si dice che «gli scienziati occidentali ritengono che la psiche delle masse non sia altro che il risorgere degli antichi istinti dell’orda primordiale e pertanto un regresso a stadi culturali da tempo superati»; ciò è da riferirsi alla così detta «psicologia delle folle» cioè delle moltitudini casuali e l’affermazione è pseudo‑scientifica, è legata alla sociologia positivistica.

Sul «conformismo» sociale occorre notare che la quistione non è nuova e che l’allarme lanciato da certi intellettuali è solamente comico. Il conformismo è sempre esistito: si tratta oggi di lotta tra «due conformismi» cioè di una lotta di egemonia, di una crisi della società civile. I vecchi dirigenti intellettuali e morali della società sentono mancarsi il terreno sotto i piedi, si accorgono che le loro «prediche» sono diventate appunto «prediche», cioè cose estranee alla realtà, pura forma senza contenuto, larva senza spirito; quindi la loro disperazione e le loro tendenze reazionarie e conservative: poiché la particolare forma di civiltà, di cultura, di moralità che essi hanno rappresentato si decompone, essi gridano alla morte di ogni civiltà, di ogni cultura, di ogni moralità e domandano misure repressive allo Stato o si costituiscono in gruppo di resistenza appartato dal processo storico reale, aumentando in tal modo la durata della crisi, poiché il tramonto di un modo di vivere e di pensare non può verificarsi senza crisi. I rappresentanti del nuovo ordine in gestazione, d’altronde, per odio «razionalistico» al vecchio, diffondono utopie e piani cervellotici. Quale il punto di riferimento per il nuovo mondo in gestazione? Il mondo della produzione, il lavoro. Il massimo utilitarismo deve essere alla base di ogni analisi degli istituti morali e intellettuali da creare e dei principii da diffondere: la vita collettiva e individuale deve essere organizzata per il massimo rendimento dell’apparato produttivo. Lo sviluppo delle forze economiche sulle nuove basi e l’instaurazione progressiva della nuova struttura saneranno le contraddizioni che non possono mancare e avendo creato un nuovo «conformismo» dal basso permetteranno nuove possibilità di autodisciplina, cioè di libertà anche individuale.

Q7 §13 Einaudi e il materialismo storico. Non pare che Einaudi abbia studiato molto le teorie del materialismo storico; si può anzi dire che egli parla del materialismo storico da orecchiante, per sentito dire, spesso di terza o quarta mano. Le sue nozioni principali le ha prese dal Croce (Materialismo storico ed economia marxistica) ma in modo superficiale e anche sgangherato (in una nota ho messo a confronto un brano del Croce sulla originalità della scienza e la ripetizione sguaiata che ne fa l’Einaudi). Ciò che più interessa è il fatto che della «Riforma Sociale» è sempre stato scrittore apprezzato (e in qualche tempo anche membro della redazione) Achille Loria, cioè il divulgatore, nel senso deteriore, del materialismo storico. Si può dire anzi che in Italia gran parte di ciò che si chiama materialismo storico non sia altro che lorianismo: recentemente, proprio nella «Riforma Sociale» il Loria ha pubblicato un suo zibaldone di schede caoticamente disposte, intitolandolo

Nuove conferme dell’economismo storico. Nella «Riforma Sociale» di novembre‑dicembre 1930 l’Einaudi pubblica una nota Il mito dello strumento tecnico ecc. a proposito dell’autobiografia di Rìnaldo Rigola che rinforza l’opinione precedentemente accennata. Il Croce precisamente ha mostrato nel suo volume sul materialismo storico che il mito dello strumento è stata una invenzione del Loria, ciò di cui l’Einaudi non fa cenno. L’Einaudi inoltre commette tutta una serie di errori per «ignorantia elenchi»: 1°) confonde lo strumento tecnico con lo «sviluppo delle forze economiche» in generale; per lui parlare dello sviluppo delle forze economiche significa parlare dello strumento tecnico; 2°) crede che per il marxismo «strumento tecnico» o «forze economiche» significhi parlare delle cose materiali e non dei rapporti sociali, cioè umani, che sono incorporati nelle cose materiali e la cui espressione giuridica è il principio di proprietà; 3°) appare anche in questo scritto il solito «cretinismo economico» che è proprio dell’Einaudi e di molti suoi soci, i quali come propagandisti sono dei puri «illuministi»: sarebbe interessante vedere la raccolta degli scritti di propaganda economica dell’Einaudi; da essa apparirebbe che i capitalisti non hanno mai compreso i loro veri interessi e si sono sempre comportati antieconomicamente ecc.

Data la innegabile influenza dell’Einaudi su un largo strato di intellettuali varrà la pena di fare una ricerca di tutte le in cui egli accenna al materialismo storico: ricordare l’articolo sul Gobetti scritto nel numero unico del «Baretti» e il brano sul Gobetti nel Piemonte di Giuseppe Prato.

Q7 §14 Testimonianze. Di Luigi Volpicelli, Per la nuova storiografia italiana («La Fiera Letteraria», 29 gennaio 1928): «Il primo quarto di secolo non è stato infecondo d’opere e di ricerche per gli studi storici; in complesso anzi, molti passi in avanti sono stati fatti sulla storiografia del secolo scorso. Rinnovata totalmente dal materialismo storico, l’indagine contemporanea è riuscita a battere nuove e più congrue vie e a rendersi sempre più esigente e complessa». Ma il Volpicelli non ha coscienza esatta di ciò che scrive; infatti, dopo aver parlato di questa funzione del materialismo storico nel primo quarto di secolo, critica la storiografia dell’800 (in modo molto vago e superficiale) e continua: «Mi sono soffermato a lungo su tale argomento (la storiografia dell’800) per dare un’idea precisa (!) al lettore del passo gigantesco compiuto dalla storiografia contemporanea. Le conseguenze, infatti, sono state enormi (– conseguenze di che?); il rinnovamento, addirittura totale. Sono stati distrutti gli esteriori limiti fissati dalle varie metodologie che esaurivano l’indagine storica in una formale ricerca filologica o diplomatica; sono state di lungo tratto oltrepassate le tendenze economico‑giuridiche del principio di secolo, le lusinghe del materialismo storico, le astrazioni e gli apriorismi di certi ideologi, più romanzieri che storici». Così, il materialismo storico, che inizialmente è il rinnovatore della storiografia, diventa ad un tratto, sotto forma di «lusinga», una vittima del rinnovamento, da becchino della storiografia ottocentesca, diventa parte dell’ottocento seppellita col suo tutto. Il Volpicelli dovrebbe studiare un po’ di logica formale.

Q7 §15 La quistione del capitalismo antico e Barbagallo. Quella del Barbagallo sul capitalismo antico è una storia ipotetica, congetturale, possibile, un abbozzo storico, uno schema sociologico, non una storia certa e determinata. Gli storici come il Barbagallo cadono, mi pare, in un errore filologico‑critico molto curioso: che la storia antica debba essere fatta sui documenti del tempo, su cui si fanno ipotesi ecc., senza tener conto che tutto lo sviluppo storico susseguente è un «documento» per la storia precedente ecc. Gli emigrati inglesi nell’America del Nord hanno portato con loro l’esperienza tecnico‑economica dell’Inghilterra; come mai si sarebbe perduta l’esperienza del capitalismo antico se questo fosse veramente esistito nella misura in cui il Barbagallo lascia supporre o vuole che si supponga?

Q7 §16 Guerra di posizione e guerra manovrata o frontale. È da vedere se la famosa teoria di Bronstein [Trotzky ndc] sulla permanenza del movimento non sia il riflesso politico della teoria della guerra manovrata (ricordare osservazione del generale dei cosacchi Krasnov), in ultima analisi il riflesso delle condizioni generali‑economiche‑culturali‑sociali di un paese in cui quadri della vita nazionale sono embrionali e rilasciati e non possono diventare «trincea o fortezza». In questo caso si potrebbe dire che Bronstein, che appare come un «occidentalista» era invece un cosmopolita, cioè superficialmente nazionale e superficialmente occidentalista o europeo. Invece Ilici [Lenin ndc] era profondamente nazionale e profondamente europeo. Bronstein nelle sue memorie ricorda che gli fu detto che la sua teoria si era dimostrata buona dopo... quindici anni e risponde all’epigramma con un altro epigramma. In realtà la sua teoria, come tale, non era buona né quindici anni prima né quindici anni dopo: come avviene agli ostinati, di cui parla il Guicciardini, egli indovinò all’ingrosso, cioè ebbe ragione nella previsione pratica più generale; come a dire che si predice che una bambina di quattro anni diventerà madre e quando lo diventa a venti anni si dice «l’avevo indovinato», non ricordando però che quando aveva quattro anni si voleva stuprare la bambina sicuri che sarebbe diventata madre. Mi pare che Ilici aveva compreso che occorreva un mutamento dalla guerra manovrata, applicata vittoriosamente in Oriente nel 17, alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente, dove, come osserva Krasnov, in breve spazio gli eserciti potevano accumulare sterminate quantità di munizioni, dove i quadri sociali erano di per sé ancora capaci di diventare trincee munitissime. Questo mi pare significare la formula del «fronte unico» che corrisponde alla concezione di un solo fronte dell’Intesa sotto il comando unico di Foch. Solo che Ilici non ebbe il tempo di approfondire la sua formula, pur tenendo conto che egli poteva approfondirla solo teoricamente, mentre il compito fondamentale era nazionale, cioè domandava una ricognizione del terreno e una fissazione degli elementi di trincea e di fortezza rappresentati dagli elementi di società civile ecc. In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale.

La teoria del Bronstein può essere paragonata a quella di certi sindacalisti francesi sullo sciopero generale e alla teoria di Rosa nell’opuscolo tradotto da Alessandri: l’opuscolo di Rosa e la teoria di Rosa hanno del resto influenzato i sindacalisti francesi come appare da certi articoli di Rosmer sulla Germania nella «Vie Ouvrière» (prima serie in fascicoletti): dipende in parte anche dalla teoria della spontaneità.

Q7 §17 Croce. Si potrebbe dire che Croce è l’ultimo uomo del Rinascimento e che esprime rapporti internazionali o cosmopoliti più che rapporti puramente nazionali (ciò non vuol dire che il Croce non sia un elemento nazionale, anche nell’accezione moderna della parola, vuol dire che nel Croce si verifica anche nel tempo moderno, e nelle condizioni della vita moderna, quella funzione di elemento intellettuale cosmopolita che si è verificata negli intellettuali italiani dal Medio Evo fino alla fine del 700). La funzione del Croce, insomma, è simile a quella del papa, e bisogna dire che il Croce, nell’ambito della sua influenza, sa meglio o può meglio condursi dello stesso papa: esempio tipico la guerra. Non bisogna tanto considerare il Croce come filosofo, quanto il Croce come moralista e maestro di vita, costruttore di principi di condotta. I due Croce sono inscindibili teoricamente, ma praticamente l’influsso crociano si diffonde più attraverso la sua attività polemica minuta, che attraverso le sue opere teoretiche.

Si pone il problema di chi rappresenti meglio e più radicalmente l’attuale società contemporanea italiana dal punto di vista teoretico e morale: il papa, Croce, Gentile, cioè chi abbia più importanza dal punto di vista egemonico nella struttura della società civile, contenuto della società politica. Secondo me la importanza maggiore l’ha il papa, poi Croce, terzo Gentile. Mi pare che la filosofia del Gentile, l’attualismo, sia strettamente legata al momento economico‑corporativo, sia ancora alla fase dell’espressione tecnica diretta di questo momento. Per questa stessa ragione molti possono credere il contrario, e con apparenza di ragione, così come credono che sia più rappresentativo degli interessi industriali in Parlamento un industriale stesso piuttosto che un avvocato, un professore o magari un organizzatore di sindacati operai, senza pensare che se l’intera maggioranza del Parlamento fosse composta di industriali, il Parlamento perderebbe immediatamente la sua funzione politica e il suo prestigio. (Ricordare il discorso del Gentile tenuto a Roma e pubblicato in «Cultura e fascismo»). Il papa e il Croce sono sullo stesso piano teorico (cioè il Croce è una specie di papa laico) ma la maggiore importanza del papa è data dall’essere egli a capo di un apparato direttivo fortemente centralizzato e disciplinato, ciò che non si può dire del Croce; inoltre il papa influisce su masse sterminate di popolo nella fissazione di norme di vita che si riferiscono alle cose anche più elementari, mentre la «moralità» del Croce è del tipo Rinascimento, non può diventate popolare.

Q7 §18 Unità negli elementi costitutivi del marxismo. L’unità è data dallo sviluppo dialettico delle contraddizioni tra l’uomo e la materia (natura ‑ forze materiali di produzione). Nell’economia il centro unitario è il valore, ossia il rapporto tra il lavoratore e le forze industriali di produzione (i negatori della teoria del valore cadono nel crasso materialismo volgare ponendo le macchine in sé – come capitale costante o tecnico – come produttrici di valore all’infuori dell’uomo che le conduce). Nella filosofia – la prassi – cioè rapporto tra la volontà umana (superstruttura) e la struttura economica. Nella politica – rapporto tra lo Stato e la società civile – cioè intervento dello Stato (volontà centralizzata) per educare l’educatore, l’ambiente sociale in genere. (Da approfondire e porre in termini più esatti).

Q7 §19 Ideologie. Un elemento di errore nella considerazione del valore delle ideologie mi pare sia dovuto al fatto (fatto che d’altronde non è casuale) che si dà il nome di ideologia sia alla soprastruttura necessaria di una determinata struttura, sia alle elucubrazioni arbitrarie di determinati individui. Il senso deteriore della parola è diventato estensivo e ciò ha modificato e snaturato l’analisi teorica del concetto di ideologia. Il processo di questo errore può essere facilmente ricostruito: 1°) si identifica l’ideologia come distinta dalla struttura e si afferma che non le ideologie mutano le strutture ma viceversa; 2°) si afferma che una certa soluzione politica è «ideologica» cioè è insufficiente a mutare la struttura, mentre crede di poterla mutare si afferma che è inutile, stupida ecc.; 3°) si passa ad affermare che ogni ideologia è «pura» apparenza, inutile, stupida ecc.

Bisogna dunque distinguere tra ideologie storicamente organiche, che sono cioè necessarie a una certa struttura, e ideologie arbitrarie, razionalistiche, «volute». In quanto storicamente necessarie esse hanno una validità che è validità «psicologica», esse «organizzano» le masse umane, formano il terreno in cui gli uomini si muovono, acquistano coscienza della loro posizione, lottano ecc. In quanto «arbitrarie» non creano altro che «movimenti» individuali, polemiche ecc.; (non sono completamente inutili neanche esse, perché sono come l’errore che si contrappone alla verità e l’afferma).

Q7 §20 Il «Saggio popolare». Non è trattato il punto fondamentale: come dalle strutture nasce il movimento storico? Eppure questo è il punto cruciale di tutta la quistione del materialismo storico, è il problema dell’unità tra la società e la «natura». Le due proposizioni: – 1) la «società» non si pone problemi per la cui soluzione non si siano già realizzate le condizioni (premesse) necessarie e sufficienti; 2) nessuna forma di società sparisce prima di aver esaurito tutte le sue possibilità di sviluppo – avrebbero dovuto essere analizzate in tutta la loro portata e conseguenza. Solo su questo terreno può essere eliminato ogni meccanicismo e ogni traccia di «miracolo» superstizioso. Anche in questo terreno deve essere posto il problema del formarsi degli aggruppamenti sociali e dei partiti politici e, in ultima analisi, quello della funzione delle grandi personalità nella storia.

Q7 §21 Validità delle ideologie. Ricordare la frequente affermazione che fa il Marx della «solidità delle credenze popolari» come elemento necessario di una determinata situazione: egli dice presso a poco «quando questo modo di concepire avrà la forza delle credenze popolari» ecc. (Ricercare queste affermazioni e analizzarle nel contesto in cui sono espresse). Altra affermazione del Marx è che una persuasione popolare ha spesso la stessa energia di una forza materiale o qualcosa di simile e che è molto significativa. L’analisi di queste affermazioni credo porti a rafforzare la concezione di «blocco storico», in cui appunto le forze materiali sono il contenuto e le ideologie la forma, distinzione di forma e contenuto meramente didascalica, perché le forze materiali non sarebbero concepibili storicamente senza forma e le ideologie sarebbero ghiribizzi individuali senza le forze materiali.

Q7 §22 Teoria dei costi comparati e decrescenti. Da vedere se questa teoria, che occupa tanto posto nell’economia moderna ufficiale con l’altra dell’equilibrio statico e dinamico, non sia perfettamente aderente o corrispondente in altro linguaggio alla teoria marxista del valore e della caduta del saggio del profitto, non ne sia cioè l’equivalente scientifico in linguaggio ufficiale e «puro» (spogliato di ogni energetica politica per le classi produttrici subalterne).

Q7 §23 Il paese di Cuccagna di Graziadei. Nel suo volumetto Sindacati e salari il Graziadei si ricorda finalmente, dopo 35 anni, di riferirsi alla nota sul paese di Cuccagna a lui dedicata dal Croce nel saggio «Recenti interpretazioni della teoria marxistica del valore» (p. 147 del volume Materialismo storico ecc. IVa ediz.) e chiama «alquanto grossolano» il suo esempio analizzato dal Croce. Realmente il caso del Graziadei di «una società in cui non già col sopralavoro, ma col non lavoro esista il profitto» è tipico anche per tutta la recente produzione del Graziadei e bene ha fatto il Rudas a riportarlo nell’inizio del suo saggio sul Prezzo e sovraprezzo pubblicato nell’«Unter dem Banner» del 1926 (non ricordo più se il Rudas gli ha dato questo valore essenziale). Tutta la concezione del Graziadei è basata su questo sgangherato principio che le macchine e l’organizzazione materiale (di per sé) producano profitto, cioè valore: nel 1894 (articolo della «Critica Sociale» analizzato dal Croce) la sua ipotesi era totale (tutto il profitto esiste senza nessun lavoro); ora la sua ipotesi è parziale (non tutto il profitto esiste per il lavoro) ma la «grossolanità» (grazioso eufemismo chiamare solo «grossolana» l’ipotesi primitiva) rimane parzialmente. Tutto il modo di pensare è «grossolano», da volgare leguleio e non da economista. Col Graziadei bisogna proprio rifarsi ai principi fondamentali dell’economia, alla logica di questa scienza: il Graziadei è maestro nella piccola logica, nell’arte del cavillo e della casistica ma non della grande logica, sia dell’economia, sia di ogni altra scienza del pensiero.

Lo stesso principio del Graziadei del paese di Cuccagna appare dall’introduzione della protezione doganale come elemento «creatore» di margini di profitto e di margini di salario: è dimostrato infatti (confronta letteratura antiprotezionista) che senza produrre nessun «valore» e senza far lavorare un solo operaio (lavorano solo le dattilografe che scrivono i certificati di azioni inesistenti) si possono avere lauti «profitti» e distribuire alti «dividendi» (cfr per es. L. Einaudi e E. Giretti, Le società anonime a catena, «Riforma Sociale» del gennaio‑febbraio 1931 è da vedere se di questa attività «economica» debba occuparsi la scienza economica (sebbene essa sia «economica» nel senso crociano, come il brigantaggio, la camorra ecc.) o la magistratura penale.

Ricordare una polemica nella «Critica Sociale» tra il Graziadei e Luigi Negro (prima del 900, mi pare) in cui il Negro osservava che il Graziadei è portato ad accogliere come «esatte» e base di speculazione scientifica le affermazioni pubbliche degli industriali sulla loro attività.

Q7 §24 Struttura e superstruttura. Economia e ideologia. La pretesa (presentata come postulato essenziale del materialismo storico) di presentare ed esporre ogni fluttuazione della politica e dell’ideologia come una espressione immediata della struttura, deve essere combattuta teoricamente come un infantilismo primitivo, o praticamente deve essere combattuta con la testimonianza autentica del Marx, scrittore di opere politiche e storiche concrete. Per questo aspetto sono importanti specialmente il 18 Brumaio e gli scritti sulla Quistione Orientale, ma anche altri (Rivoluzione e Controrivoluzione in Germania, La guerra civile in Francia e minori). Un’analisi di queste opere permette di fissar meglio la metodologia storica marxista, integrando, illuminando e interpretando le affermazioni teoriche sparse in tutte le opere. Si potrà vedere quante cautele reali Marx introduca nelle sue ricerche concrete, cautele che non potevano trovar posto nelle opere generali (esse potrebbero trovar posto solo in una esposizione metodica sistematica tipo Bernheim, e il libro del Bernheim potrà essere tenuto presente come «tipo» di manuale scolastico o «saggio popolare» del materialismo storico, in cui oltre al metodo filologico ed erudito – cui per programma si attiene il Bernheim, sebbene sia implicita nella sua trattazione una concezione del mondo – dovrebbe essere esplicitamente trattata la concezione marxista della storia). Tra queste cautele si potrebbero elencare come esempio queste:

1°) La difficoltà di identificare volta per volta, staticamente (come immagine fotografica istantanea), la struttura; la politica, di fatto, è volta per volta il riflesso delle tendenze di sviluppo della struttura, tendenze che non è detto necessariamente debbano inverarsi. Una fase strutturale può essere concretamente studiata e analizzata solo dopo che essa ha superato tutto il suo processo di sviluppo, non durante il processo stesso, altro che per ipotesi e esplicitamente dichiarando che si tratta di ipotesi.

2°) Dal 1° si deduce che un determinato atto politico può essere stato un errore di calcolo da parte dei dirigenti delle classi dominanti, errore che lo sviluppo storico, attraverso le «crisi» parlamentari governative delle classi dirigenti, corregge e supera: il materialismo storico meccanico non considera la possibilità di errore, ma assume ogni atto politico come determinato dalla struttura, immediatamente, cioè come riflesso di una reale e permanente (nel senso di acquisita) modificazione della struttura. Il principio dell’«errore» è complesso: può trattarsi di un impulso individuale per errato calcolo, o anche di manifestazione dei tentativi di determinati gruppi o gruppetti di assumere l’egemonia nell’interno del raggruppamento dirigente, tentativi che possono fallire.

3°) Non si considera abbastanza che molti atti politici sono dovuti a necessità interne di carattere organizzativo, cioè legati al bisogno di dare una coerenza a un partito, a un gruppo, a una società. Questo appare chiaro nella storia per esempio della Chiesa cattolica. Se di ogni lotta ideologica nell’interno della Chiesa si volesse trovare la spiegazione immediata, primaria, nella struttura, si starebbe freschi: molti romanzi politico‑economici sono stati scritti per questa ragione. È evidente invece che la maggior parte di queste discussioni sono legate a necessità settarie, di organizzazione. Nella discussione tra Roma e Bisanzio sulla processione dello Spirito Santo, sarebbe ridicolo cercare nella struttura dell’Oriente Europeo l’affermazione che lo Spirito Santo procede solo dal Padre, e in quella dell’Occidente l’affermazione che esso procede dal Padre e dal Figlio. Le Chiese, la cui esistenza e il cui conflitto è in dipendenza dalla struttura e da tutta la storia, hanno posto delle quistioni che sono principio di distinzione e di coesione interna per ognuna, ma poteva avvenire che ognuna delle due Chiese avesse affermato ciò che invece ha affermato l’altra: il principio di distinzione e di conflitto si sarebbe mantenuto lo stesso ed è questo problema della distinzione e del conflitto che costituisce il problema storico, non la casuale bandiera di ognuna delle parti.

La «stelletta» che scrive dei romanzi di appendice ideologici nei «Problemi del Lavoro» (e che dev’essere il famigerato Franz Weiss) nella sua divertente filastroccola Il dumping russo e il suo significato storico, parlando appunto di queste controversie dei primi tempi cristiani, afferma che esse sono legate alle condizioni materiali immediate del tempo, e che se non riusciamo a identificare questo collegamento immediato è perché i fatti sono lontani o per altra debolezza intellettuale. La posizione è comoda, ma irrilevante scientificamente. Infatti ogni fase storica reale lascia traccia di sé nelle fasi successive che ne diventano in un certo senso il migliore documento. Il processo di sviluppo storico è una unità nel tempo, per cui il presente contiene tutto il passato e del passato si realizza nel presente ciò che è «essenziale» senza residuo di un «inconoscibile» che sarebbe la vera «essenza». Ciò che si è «perduto», cioè non è stato trasmesso dialetticamente nel processo storico, era di per se stesso irrilevante, era «scoria» casuale e contingente, cronaca e non storia, episodio superficiale, trascurabile, in ultima analisi.

Q7 §25 Oggettività del reale. Per intendere esattamente i significati che può avere questo concetto, mi pare opportuno svolgere l’esempio dei concetti «Oriente» e «Occidente» che non cessano di essere «oggettivamente reali» seppure all’analisi si dimostrano nient’altro che una «costruzione convenzionale» ossia «storica» (spesso i termini «artificiale» e «convenzionale» indicano fatti «storici», prodotti dello sviluppo della civiltà e non costruzioni razionalisticamente arbitrarie o individualmente arbitrarie). Ricordare il libretto di Bertrand Russell (ediz. Sonzogno, in una nuova collezione scientifica, numero 5 o 6) sulla filosofia neorealistica, e il suo esempio. Il Russell dice presso a poco: «Noi non possiamo pensare, senza l’esistenza dell’uomo sulla terra, all’esistenza di Londra e di Edimburgo, ma possiamo pensare all’esistenza di due posti, dove sono oggi Londra e Edimburgo, uno a Nord e l’altro a Sud». Si potrebbe obbiettare che senza pensare all’esistenza dell’uomo, non si può pensare di «pensare», non si può pensare in genere a nessun fatto o rapporto che esiste solo in quanto esiste l’uomo.

Ma il fatto più tipico, da questo punto di vista, è il rapporto Nord-Sud e specialmente Est‑Ovest. Essi sono rapporti reali e tuttavia non esisterebbero senza l’uomo e senza lo sviluppo della civiltà. È evidente che Est e Ovest sono costruzioni arbitrarie, e convenzionali (storiche), poiché fuori della storia reale ogni punto della terra è Est ed Ovest nello stesso tempo: costruzioni convenzionali e storiche non dell’uomo in generale, ma delle classi colte europee, che attraverso la loro egemonia mondiale le hanno fatte accettare a tutto il mondo. Il Giappone probabilmente è Estremo Oriente non solo per l’Europeo, ma anche per l’americano della California e per lo stesso Giapponese, il quale attraverso la cultura inglese chiamerà prossimo Oriente l’Egitto, che dal suo punto di vista dovrebbe essere Occidente lontano ecc. D’altronde il valore puramente storico di tali riferimenti appare dal fatto che oggi le parole Oriente e Occidente hanno acquistato un significato extracardinale e indicano anche rapporti fra complessi di civiltà.

Perciò il Marocco sarà indicato come paese orientale dalle nazioni dell’Europa mediterranea che sono invece ad Oriente del Marocco e in questo caso «orientale» significherà «musulmano», «arabo», persino «asiatico» ecc. Tuttavia questi riferimenti sono reali, corrispondono a fatti reali, permettono di viaggiare per terra e per mare e di giungere proprio dove si era stabilito di giungere, di prevedere il futuro, di «oggettivare la realtà», di comprendere la «Oggettività reale del mondo esterno». Razionale e reale si identificano. Mi pare che senza aver capito questo rapporto non si può capire il materialismo storico, la sua posizione filosofica in confronto dell’idealismo e del materialismo tradizionali e l’importanza e il significato delle soprastrutture: Marx non ha sostituito l’«idea» hegeliana con il «concetto» di struttura, come dice il Croce. L’idea hegeliana è risolta tanto nella struttura che nelle soprastrutture e tutta la concezione filosofica tradizionale (e non solo hegeliana) è «storicizzata», fatta diventare realtà, con un’altra espressione linguistica e quindi un’altra filosofia, se intesa come sistema di «concetti» sulla realtà.

Q7 §26 Sul «Saggio popolare». Registro degli intellettuali la cui filosofia viene combattuta con qualche diffusione, e annotazione del loro significato e importanza scientifica. Accenni a grandi intellettuali fugacissimi. Si pone la questione: non occorreva invece riferirsi solo ai grandi intellettuali avversari e magari ad uno solo di essi e trascurare i secondari? Si ha l’impressione appunto che si cerchi di combattere contro i più deboli e magari contro le posizioni più deboli (o più inadeguatamente espresse dai più deboli) per ottenere una facile vittoria (dato che vittoria reale ci sia). Illusione che ci sia somiglianza (altro che formale) tra un fronte ideologico e un fronte politico-militare. Nella lotta politica e militare può convenire la tattica di sfondare nei punti di minor resistenza per essere in grado di investire il punto più importante col massimo di forze reso appunto disponibile dall’aver eliminato gli «ausiliari» più deboli ecc. La vittoria politica e militare, entro certi limiti, è permanente, il fine strategico può essere raggiunto in modo, entro certi limiti, decisivo. Sul fronte ideologico invece la sconfitta degli ausiliari e dei minori seguaci ha importanza infinitamente minore: in esso bisogna lottare contro i più eminenti e non contro i minori. Altrimenti si confonde il giornale col libro, la polemica quotidiana con il lavoro scientifico. I minori, appunto, devono essere abbandonati alla polemica di tipo giornalistico. Ma una scienza nuova raggiunge la prova della sua efficienza e vitalità quando dimostra di saper affrontare i grandi campioni della tendenza opposta, quando spiega coi propri mezzi le quistioni vitali che essi hanno posto, o dimostra perentoriamente che questi problemi sono falsi problemi.

È vero che una determinata epoca e una determinata civiltà sono meglio rappresentate dalla media degli intellettuali, e quindi dagli intellettuali mediocri, ma l’ideologia diffusa, di massa, deve essere distinta dalle opere scientifiche, dalle grandi sintesi filosofiche, che poi ne sono le reali chiavi di volta e queste devono essere nettamente superate, negativamente, dimostrandone l’infondatezza, e positivamente, contrapponendo sintesi filosofiche equivalenti per significato e importanza. La parte negativa e positiva non possono essere scisse altro che per motivi didascalici. Leggendo il Saggio popolare si ha l’impressione di uno che sia annoiato e non possa dormire per il chiarore lunare e si diverta a trucidare le lucciole, persuaso che il chiarore diminuirà o sparirà.

Q7 §27 Graziadei e il paese di Cuccagna. Vedere nel Gog di Papini (intervista con Ford, p. 24) le parole attribuite a Ford: «Fabbricare senza nessun operaio un numero sempre più grande di oggetti che non costino quasi nulla».

Q7 §28 Società civile e società politica. Distacco della società civile da quella politica: si è posto un nuovo problema di egemonia, cioè la base storica dello Stato si è spostata. Si ha una forma estrema di società politica: o per lottare contro il nuovo e conservare il traballante rinsaldandolo coercitivamente, o come espressione del nuovo per spezzare le resistenze che incontra nello svilupparsi ecc.

Q7 §29 Sul «Saggio popolare». È possibile scrivere un libro elementare, un manuale, un saggio popolare, quando una dottrina è ancora nello stato di discussione, di polemica, di elaborazione? Il manuale popolare non può essere concepito se non come l’esposizione formalmente dogmatica, stilisticamente calma, scientificamente serena, di un determinato argomento: esso è un’introduzione allo studio scientifico, non l’esposizione stessa delle ricerche scientifiche originali, dedicato o all’età giovanile, o a un pubblico che dal punto di vista della disciplina scientifica, si trova nelle condizioni preliminari dell’età giovanile e che perciò ha immediatamente bisogno di «certezze», di opinioni che si presentano come veridiche e fuori discussione, per il momento. Se una determinata dottrina non ha ancora raggiunto questa fase «classica» del suo sviluppo, ogni tentativo di manualizzarla fallisce, la sua sistemazione logica è solo apparente: si tratterà, invece, come appunto nel Saggio, di una meccanica giustapposizione di elementi disparati o che rimangono inesorabilmente indipendenti e sconnessi tra loro. Perché allora non porre la quistione nei suoi giusti termini storici e teorici e accontentarsi di pubblicare un libro in cui la serie dei problemi essenziali della dottrina sia esposta monograficamente? Sarebbe più serio e più «scientifico». Ma si crede che scienza voglia assolutamente dire «sistema» e perciò si costruiscono sistemi purchessia, che del sistema hanno solo l’esteriorità meccanica.

È notevole che nel Saggio manca una trattazione adeguata della dialettica: la dialettica viene presupposta, non esposta, cosa assurda in un manuale che deve contenere in sé gli elementi essenziali della dottrina trattata e i cui rimandi bibliografici devono avere il fine di spingere ad allargare e approfondire la materia, non di sostituire il manuale stesso. La quistione dell’assenza di una trattazione della «dialettica» può avere due origini:

1°) La prima è costituita dal fatto che il materialismo storico non viene concepito come una filosofia, di cui la dialettica è la dottrina della conoscenza, ma come una «sociologia» la cui filosofia è il materialismo filosofico o metafisico o meccanico (volgare, come diceva Marx). Posta così la quistione, non si capisce più l’importanza e il significato della dialettica, che viene degradata a una sottospecie di logica formale, a una scolastica elementare. La funzione e il significato della dialettica possono solo essere concepiti in tutta la loro fondamentalità, quando il materialismo storico è concepito come una filosofia integrale originale, che inizia una nuova fase nella storia e nello sviluppo mondiale del pensiero, in quanto supera (e superando, ne include in sé gli elementi vitali) e l’idealismo e il materialismo tradizionali, espressioni delle vecchie società succedutesi nella storia mondiale. Se il materialismo storico non può essere pensato che subordinatamente a una altra filosofia, quella del materialismo filosofico, non si può concepire la dialettica marxista, nella quale appunto quel superamento si effettua e si esprime.

2°) La seconda origine mi pare d’ordine psicologico. Si sente che la dialettica è cosa molto ardua e difficile in quanto il pensare dialetticamente va contro il volgare senso comune che ha la logica formale come espressione ed è dogmatico e avido di certezze perentorie. Per aver un modello pratico si pensi ciò che avverrebbe se nelle scuole primarie e secondarie le scienze naturali e cosmografiche fossero insegnate sulla base del relativismo di Einstein e accompagnando alla nozione tradizionale di «legge della natura» quella di «legge statistica o dei grandi numeri». I ragazzi e gli adolescenti non capirebbero nulla di nulla e l’urto tra l’insegnamento scolastico e la logica dei rapporti familiari e popolari sarebbe tale che la scuola diverrebbe oggetto familiare di ludibrio e di scetticismo caricaturale. Questo motivo mi pare sia un freno psicologico per l’autore del Saggio popolare: egli realmente capitola dinanzi al senso comune e al pensiero volgare, perché non si è posto il problema nei termini teorici esatti e quindi è praticamente disarmato e impotente. L’ambiente ineducato e rozzo ha dominato l’educatore, il senso comune volgare si è imposto alla scienza e non viceversa: se l’ambiente è l’educatore, esso deve essere educato a sua volta, ha scritto Marx, ma il Saggio popolare non capisce questa dialettica rivoluzionaria.

Q7 §30 Su Graziadei. Per aver ragione di Graziadei occorre risalire ai concetti fondamentali della scienza economica. 1°) Occorre fissare che la scienza economica parte dall’ipotesi di un mercato determinato, o di pura concorrenza o di puro monopolio, salvo a stabilire poi quali variazioni può apportare a questa costante l’uno o l’altro elemento della realtà, che non è mai «pura». 2°) Che si studia la produzione di nuova ricchezza reale e non le ridistribuzioni di ricchezza esistente (a meno che non si voglia proprio studiare questa ridistribuzione), cioè la produzione di valore e non la ridistribuzione del valore già distribuito sulla base della produzione determinata.

Su Graziadei bisognerà poi fare una accurata ricerca sulla biografia politica e scientifica. Il suo libro sul nitrato del Cile: egli non poteva pensare alla possibilità della produzione sintetica dell’azoto che ha battuto in breccia il monopolio cileno: sarà interessante rivedere le affermazioni perentorie che egli ha fatto su questo monopolio. Per la sua posizione politica la risposta di Graziadei all’inchiesta del «Viandante» nel 1908-909: Graziadei era dei più destri e opportunisti. Opuscolo sul sindacalismo: il modello di Graziadei era il laburismo inglese, egli liquidatore del partito. La sua posizione nel dopoguerra curioso fenomeno di psicologia di intellettuale, che è persuaso «intellettualmente» dell’asinità del riformismo politico e perciò se ne distacca e lo avversa. Ma altro è la sfera dell’intelligenza astratta e altro quella della pratica e dell’azione. Nel campo scientifico trova, dopo il 22, il terreno di ritirata e il ritorno alla posizione di avanguerra. Si pone il problema: è leale ricercare nel passato di un uomo tutti gli errori che egli ha commesso per rimproverarglieli ai fini della polemica attuale? Non è umano che si sbagli? Non è anzi attraverso gli sbagli che si sono formate le attuali personalità scientifiche? E la biografia di ognuno non è in gran parte la lotta contro il passato e il superamento del passato? Se uno oggi è areligioso, è lecito ricordargli che egli è stato battezzato ed ha, fino ad una certa età, osservato le regole del culto? Ma a caso del Graziadei è ben diverso. Egli si è ben guardato dal criticare e superare il proprio passato. Nel campo economico egli si è limitato, per un certo tempo, a tacere: oppure ha sostenuto, a proposito del ritmo di accentramento del capitale nella campagna, che la «pratica attuale» dava ragione alle sue teorie (– sulla superiorità della mezzadria sull’impresa capitalistica accentrata, ciò che era lo stesso che dire sulla superiorità dell’artigianato sul sistema di fabbrica – egli si basava sulla Romagna e anzi addirittura su Imola per questa sua conclusione. Non teneva conto della quasi sparizione dell’obbligato nel periodo 1901-1910, come risulta dal censimento del 1911 e specialmente non teneva conto dei fattori politico‑protezionistici che determinavano la situazione nella valle padana: l’Italia aveva tale scarsezza di capitali che sarebbe stato davvero miracoloso un largo impiego nell’agricoltura).

In politica egli se la cavò affermando sofisticamente di essere stato «storicista» o «tempista» se domina il boia, bisogna fargli da tirapiedi – ecco lo storicismo di Graziadei, cioè di non aver mai avuto principii: nel periodo 95‑1914 «bisognava» essere laburisti, nel dopoguerra antilaburisti ecc. Ricordare l’insistenza noiosa di Graziadei a proposito dell’affermazione «le spese militari improduttive» che egli si vantava d’aver sempre avversato come sciocca e demagogica: sta a vedere come l’avversava allora, quando era favorevole all’andata al governo. Così è da notare la sua concezione pessimistico‑pettegola sugli «Italiani» in blocco, tutti senza carattere, vigliacchi, esseri civilmente inferiori ecc. ecc., concezione stolta e banalmente disfattista, forma di antiretorica, che era poi una vera e propria retorica deprimente e da falso furbo, tipo Stenterello‑Machiavelli. Che in Italia ci sia uno strato piccolo‑borghese particolarmente repugnante è certamente vero, ma è questo strato tutta l’Italia? Sciocca generalizzazione. D’altronde anche questo fenomeno ha un’origine storica e non è affatto una fatale qualità dell’uomo‑italiano: il materialismo storico del Graziadei rassomiglia a quello di Ferri, di Niceforo, di Lombroso, di Sergi e si sa quale funzione storica questa concezione biologica della «barbarie» attribuita ai Meridionali (anzi ai Sudici) ha avuto nella politica della classe dirigente italiana.

Q7 §31 Sulla critica letteraria. Il modello di critica del De Sanctis. Nel trattare questo argomento ricordare il saggio del De Sanctis Scienza e Vita che poi è un modo di porre la quistione dell’unità di teoria e pratica e le discussioni cui ha dato luogo: p. es. l’articolo di L. Russo nel «Leonardo» del 1928 (o 29). Del Russo sarà da vedere lo studio su Francesco De Sanctis e l’Università di Napoli, Casa ed. «La Nuova Italia».

Q7 §32 Henri De Man. Da un articolo di Arturo Masoero, Un americano non edonista (in «Economia» del febbraio 1931) risulta che molte opinioni esposte dal H. De Man nella Gioia del lavoro e quindi anche in altri suoi libri, sono prese dalle teorie dell’economista americano Thorstein Veblen, che ha portato nella scienza economica alcuni principii sociologici del positivismo, specialmente di A. Comte e dello Spencer: il Veblen vuole specialmente introdurre l’evoluzionismo nella scienza economica. Così troviamo nel Veblen l’«instinct of workmanship», che il De Man chiama «istinto creatore». W. James nel 1890 aveva esposto la nozione di un istinto costruttivo («instinct of constructiveness») e già Voltaire parlava di un istinto meccanico. (Cfr questa grossolana concezione dell’«istinto» del De Man con ciò che scrive Marx sull’istinto delle api e su ciò che distingue l’uomo da questo istinto). Ma pare che il De Man abbia preso dal Veblen anche quella sua mirabolante e grossolana concezione di un «animismo» negli operai su cui tanto insiste nella Gioia del lavoro.

Così il Masoero espone la concezione del Veblen: «Presso i primitivi l’interpretazione mitica cessa di essere un ostacolo e spesso diventa un aiuto per ciò che riguarda lo sviluppo della tecnica agricola e dell’allevamento. Non può che giovare infatti, a questo sviluppo il considerare come dotati di anima o addirittura di caratteri divini le piante e gli animali, poiché da una simile considerazione derivano quelle cure, quelle attenzioni che possono portare ai miglioramenti tecnici e alle innovazioni. Una mentalità animista è invece decisamente contraria al progresso tecnico della manifattura, all’esplicarsi dell’istinto operaio sulla materia inerte. Così il Veblen spiega come, all’inizio dell’era neolitica, in Danimarca la tecnica agricola fosse già tanto avanzata mentre rimase nullo per lungo tempo lo sviluppo della tecnica manifatturiera. Attualmente l’istinto operaio, non più ostacolato dalla credenza nell’intervento di elementi provvidenziali e misteriosi, va unito a uno spirito positivo e consegue quei progressi nelle arti industriali, che sono propri dell’epoca moderna».

Il De Man avrebbe preso così dal Veblen l’idea di un animismo operaio» che il Veblen crede esistito nell’età neolitica, ma non più oggi e l’avrebbe riscoperto nell’operaio moderno, con molta originalità.

È da notare, date queste origini spenceriane del De Man, la conseguenzialità del Croce che ha visto nel De Man un superatore del marxismo ecc. Tra Spencer e Freud, che ritorna a forma di sensismo più misterioso ancora di quello settecentesco, il De Man meritava proprio di essere esaltato dal Croce e di vedersi proposto allo studio degli italiani intelligenti. Del Veblen è annunziata la traduzione in italiano per iniziativa dell’on. Bottai. In ogni modo in questo articolo del Masoero si trova in nota la bibliografia essenziale.

Nel Veblen si può osservare, come appare dall’articolo, un certo influsso del marxismo. Il Veblen mi pare che abbia avuto anche influsso nelle teorizzazioni del Ford.

Q7 §33 Posizione del problema. Produzione di nuove Weltanschauungen, che feconda e alimenta la cultura di un’età storica e produzione indirizzata filosoficamente secondo le Weltanschauungen originali. Marx è un creatore di Weltanschauung, ma quale è la posizione di Ilici [Lenin ndc]? È puramente subordinata e subalterna? La spiegazione è nello stesso marxismo – scienza e azione –. Il passaggio dall’utopia alla scienza e dalla scienza all’azione (ricordare opuscolo o di Carlo Radek). La fondazione di una classe dirigente (cioè di uno Stato) equivale alla creazione di una Weltanschauung. L’espressione che il proletariato tedesco è l’erede della filosofia classica tedesca: come deve essere intesa – non voleva indicare Marx l’ufficio storico della sua filosofia divenuta teoria di una classe che sarebbe diventata Stato? Per Ilici questo è realmente avvenuto in un territorio determinato. Ho accennato altrove all’importanza filosofica del concetto e del fatto di egemonia, dovuto a Ilici. L’egemonia realizzata significa la critica reale di una filosofia, la sua reale dialettica. Cfr ciò che scrive Graziadei (Nel ms è aggiunta a questo punto la seguente nota a piè di pagina: «Graziadei è arretrato in confronto di Mons. Olgiati, che nel suo volumetto sul Marx non trova altro paragone possibile che con Gesù, paragone che per un prelato è realmente il colmo della concessione poiché egli crede alla natura divina di Cristo») nell’introduzione a Prezzo e sovraprezzo: egli pone Marx come unità di una serie di grandi scienziati. Errore fondamentale: nessuno degli altri ha prodotto una originale e integrale concezione del mondo. Marx inizia intellettualmente un’età storica che durerà probabilmente dei secoli, cioè fino alla sparizione della Società politica e all’avvento della Società regolata. Solo allora la sua concezione del mondo sarà superata (concezione della necessità, superata da concezione della libertà).

Fare un parallelo tra Marx e Ilici per giungere a una gerarchia è stolto e ozioso: esprimono due fasi: scienza-azione, che sono omogenee ed eterogenee nello stesso tempo. Così, storicamente, sarebbe assurdo un parallelo tra Cristo e S. Paolo: Cristo‑Weltanschauung, S. Paolo organizzazione, azione, espansione della Weltanschauung: essi sono ambedue necessarii nella stessa misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesimo‑paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta (solo la credenza nella divinità di Cristo ha impedito un caso di questo genere, ma questa credenza è anch’essa solo un elemento storico, e non teorico).

Q7 §34 Caduta tendenziale del saggio del profitto. Si potrebbe chiamare (forse) un teorema di prima approssimazione: ma (forse) perciò è meno importante? Questo teorema dovrebbe essere studiato in base al taylorismo e al fordismo. Non sono queste due attività il tentativo di superare questa prima approssimazione? Si aumenta il capitale costante, ma in questo incremento esiste una variabile che toglie immediatamente effetto alla legge: una o più variabili, come produzione di macchine più perfette, di metalli più resistenti, di un diverso tipo di operaio, diminuzione dello scarto, utilizzazione dei sottoprodotti (in generale, cioè risparmio di scarti, necessari, reso possibile dalla loro grande quantità). L’industriale con ognuna di queste innovazioni passa da un periodo di costi crescenti a un periodo di costi decrescenti, in quanto viene a godere di un monopolio d’iniziativa che può durare abbastanza a lungo (relativamente): il monopolio dura a lungo anche a causa degli «alti salari» che tali industrie progressive possono e «devono» dare, per avere la possibilità di selezionare, nella massa degli operai esistenti, quelli «psicofisicamente» adatti per i nuovi metodi di lavoro e di produzione. L’estensione del nuovo tipo di produzione porta a una serie di crisi, che ripropone gli stessi problemi della «caduta tendenziale del saggio di profitto», problemi che si può immaginare ritornanti a ciclo finché: 1°) non si sia raggiunto il limite matematico della resistenza del materiale, 2°) non si sia raggiunto il limite nell’uso delle macchine automatiche, 3°) non si sia raggiunto il limite di saturazione nell’industria mondiale, tenendo conto del saggio di aumento della popolazione e della produzione per rinnovare la merce d’uso e i beni strumentali.

La legge tendenziale scoperta da Marx sarebbe quindi alla base dell’americanismo, cioè del ritmo accelerato nel progresso dei metodi di lavoro e di produzione e di modificazione del tipo di operaio.

Q7 §35 Materialismo e materialismo storico. L’affermazione di Feuerbach: «L’uomo è quello che mangia», può essere, presa in sé, interpretata variamente. Interpretazione gretta e stolta: cioè l’uomo è volta per volta quello che mangia materialmente, cioè i cibi hanno una immediata influenza determinatrice sul modo di pensare. Ricordare l’affermazione di Amadeo [Bordiga ndc] che se si sapesse ciò che un uomo ha mangiato prima di un discorso, per esempio, si sarebbe in grado di interpretare meglio il discorso stesso. Affermazione infantile, e, di fatto, estranea anche alla scienza positiva, poiché il cervello non viene nutrito di fave o di tartufi, ma i cibi giungono a ricostituire le molecole del cervello trasformati in sostanze omogenee e assimilabili, che hanno cioè la «stessa natura» potenziale delle molecole cerebrali. Se questa affermazione fosse vera, la storia avrebbe la sua matrice determinante nella cucina e le rivoluzioni coinciderebbero coi mutamenti radicali dell’alimentazione di massa. Il contrario è storicamente vero: cioè sono le rivoluzioni e il complesso sviluppo storico che hanno modificato l’alimentazione e creato i «gusti» successivi nella scelta dei cibi. Non è la semina regolare del frumento che ha fatto cessare il nomadismo, ma viceversa, le condizioni emergenti contro il nomadismo hanno spinto alle semine regolari ecc. (Cfr questa affermazione del Feuerbach con la campagna di S. E. Marinetti contro la pastasciutta e la polemica di S. E. Bontempelli in difesa, e ciò nel 1930, in pieno sviluppo della crisi mondiale).

D’altronde è anche vero che «l’uomo è quello che mangia», in quanto l’alimentazione è una delle espressioni dei rapporti sociali nel loro complesso, e ogni raggruppamento sociale ha una sua fondamentale alimentazione, ma allo stesso modo si può dire che l’«uomo è il suo appartamento», l’«uomo è il suo particolare modo di riprodursi cioè la sua famiglia», poiché l’alimentazione, l’abbigliamento, la casa, la riproduzione sono elementi della vita sociale in cui appunto in modo più evidente e più diffuso (cioè con estensione di massa) si manifesta il complesso dei rapporti sociali.

Il problema di cos’è l’uomo è dunque sempre il così detto problema della «natura umana», o anche quello del così detto «uomo in generale», cioè la ricerca di creare una scienza dell’uomo (una filosofia) che parte da un concetto inizialmente «unitario», da un’astrazione in cui si possa contenere tutto l’«umano». Ma l’«umano» è un punto di partenza o un punto di arrivo, come concetto e fatto unitario? o non è piuttosto, questa ricerca, un residuo «teologico» e «metafisico» in quanto posto come punto di partenza? La filosofia non può essere ridotta ad una naturalistica «antropologia», cioè l’unità del genere umano non è data dalla natura «biologica» dell’uomo; le differenze dell’uomo che contano nella storia non sono quelle biologiche (razze, conformazione del cranio, colore della pelle ecc.; e a ciò si riduce poi l’affermazione «l’uomo è ciò che mangia» – mangia grano in Europa, riso in Asia ecc. – che si ridurrebbe poi all’altra affermazione: «l’uomo è il paese dove abita», poiché la gran parte degli alimenti, in generale, è legata alla terra abitata) e neppure l’«unità biologica» ha mai contato gran che nella storia (l’uomo è quell’animale che ha mangiato se stesso, proprio quando era pìù vicino allo «stato naturale», cioè quando non poteva moltiplicare «artificiosamente» la produzione dei beni naturali). Neanche la facoltà di «ragionare» o lo «spirito» ha creato unità o può essere riconosciuto come fatto unitario, perché concetto solo formale, categorico. Non il «pensiero», ma ciò che realmente si pensa unisce o differenzia gli uomini.

Che la «natura umana» sia il «complesso dei rapporti sociali» è la risposta più soddisfacente, perché include l’idea del divenire: l’uomo diviene, si muta continuamente col mutarsi dei rapporti sociali, e perché nega l’«uomo in generale»: infatti i rapporti sociali sono espressi da diversi gruppi di uomini che si presuppongono, la cui unità è dialettica, non formale. L’uomo è aristocratico in quanto è servo della gleba ecc. (cfr Plekhanov in opuscolo su libertari se fissa questo carattere dialettico). Si può anche dire che la natura dell’uomo è la «storia» (e in questo senso, posta storia = spirito, che la natura dell’uomo è lo spirito) se appunto si dà a storia il significato di «divenire», in una «concordia discors» che non parte dall’unità, ma ha in sé le ragioni di una unità possibile: perciò la «natura umana» non può ritrovarsi in nessun uomo particolare ma in tutta la storia del genere umano (e il fatto che si adoperi la parola «genere», di carattere naturalistico, ha il suo significato) mentre in ogni singolo si trovano caratteri messi in rilievo dalla contraddizione con quelli di altri. Le concezioni di «spirito» delle filosofie tradizionali, come quella di «natura umana» trovata nella biologia, dovrebbero spiegarsi come «utopie scientifiche» che sostituirono la maggior utopia della «natura umana» cercata in Dio (e gli uomini – figli di Dio) e servono a indicare il travaglio continuo della storia, un’aspirazione razionale o sentimentale ecc. È vero che tanto le religioni che affermano l’eguaglianza degli uomini come figli di Dio o le filosofie che affermano la loro uguaglianza come partecipanti della facoltà di ragionare sono state espressioni di complessi movimenti rivoluzionari (la trasformazione del mondo classico – la trasformazione del mondo medioevale) che hanno posto gli anelli più potenti dello sviluppo storico.

Che la dialettica hegeliana sia stata un riflesso di questi grandi nodi storici e che la dialettica, da espressione delle contraddizioni sociali debba diventare, con la sparizione di queste contraddizioni, una pura dialettica concettuale, sarebbe alla base delle ultime filosofie a base utopistica come quella del Croce. Nella storia l’«uguaglianza» reale, cioè il grado di «spiritualità» raggiunto dal processo storico della «natura umana», si identifica nel sistema di associazioni «private e pubbliche», esplicite ed implicite, che si annodano nello «Stato» e nel sistema mondiale politico: si tratta di «uguaglianze» sentite come tali fra i membri di una associazione e di «diseguaglianze» sentite tra le diverse associazioni, uguaglianze e disuguaglianze che valgono in quanto se ne abbia coscienza individualmente e come gruppo. Si giunge così anche all’eguaglianza o equazione tra «filosofia e politica», tra pensiero e azione, cioè ad una filosofia della praxis. Tutto è politica, anche la filosofia o le filosofie (confronta sul carattere delle ideologie) e la sola «filosofia» è la storia in atto, cioè è la vita stessa. In questo senso si può interpretare la tesi del proletariato tedesco erede della filosofia classica tedesca – e si può affermare che la teorizzazione e la realizzazione dell’egemonia fatta da Ilici [Lenin ndc] è stata anche un grande avvenimento «metafisico».

Q7 §36 «Saggio popolare». La metafora e il linguaggio. (Cfr altra nota a proposito dell’affermazione nuda e cruda, fatta nel Saggio popolare come spiegazione in sé esauriente, che Marx adopera i termini «immanenza e immanente» solo come metafora). Tutto il linguaggio è metafora ed è metafora in due sensi: è metafora della «cosa» od «oggetto materiale e sensibile» indicati ed è metafora dei significati ideologici dati alle parole durante i precedenti periodi di civiltà. (Un trattato di semantica – per es. quello di Michel Bréal – può dare un catalogo delle mutazioni semantiche delle singole parole). Dal non tener conto di tale fatto derivano due tendenze erronee principali (per non parlare di altre di carattere più ristretto come quella di ritenere «belle» in sé certe parole a differenza di altre in quanto le si analizza storicamente ed etimologicamente: si confonde la «gioia» libresca del filologo che spasima per le sue parolette con la «gioia» data dall’arte: questo è il caso di rinnovata retorica nel libretto Linguaggio e poesia di Giulio Bertoni): 1°) quella delle lingue fisse o universali; 2°) le quistioni poste dal Pareto e dai pragmatisti sul «linguaggio come causa di errore». Il Pareto, come i pragmatisti e molti altri di minore conto, in quanto credono di aver originato una nuova concezione del mondo (di aver quindi dato alle parole un significato o almeno una sfumatura nuova), si trovano di fronte al fatto che le parole, nell’uso comune e anche nell’uso della classe colta e anche nell’uso di quella sezione di dotti che trattano le stesse scienze, continuano a mantenere il vecchio significato. Si reagisce: il Pareto crea un suo «dizionario» che contiene in nuce la tendenza a creare una lingua matematica, cioè completamente astratta; i pragmatisti ne fanno una quistione filosofica e teorizzano sul linguaggio come causa di errore.

Ma è possibile togliere al linguaggio questo significato metaforico? È impossibile. Il linguaggio si trasforma col trasformarsi di tutta la civiltà e precisamente assume metaforicamente le parole delle civiltà e culture precedenti: nessuno oggi pensa che «dis‑astro» è legato all’astrologia e si ritiene indotto in errore sulle opinioni di chi la adopera. Il nuovo significato metaforico si estende con l’estendersi della nuova cultura, che d’altronde crea anche parole nuove di zecca o le assume da altre lingue con un significato preciso. È probabile che per molti uomini la parola «immanenza» sia conosciuta e capita e usata per la prima volta solo nel nuovo significato datole dal materialismo storico.

Q7 §37 Goethe. Cercare dove e in quali sensi Goethe ha affermato: «Come può un uomo raggiungere l’autocoscienza? Con la contemplazione? Certamente no, ma con l’azione».

Q7 §38 Esame del concetto di natura umana. Origini del sentimento di «uguaglianza»: la religione con la sua idea di dio‑padre e uomini‑figli, quindi uguali; la filosofia secondo l’aforisma: «Omnis enim philosophia, cum ad communem hominum cogitandi facultatem revocet, per se democratica est; ideoque ab optimatibus non iniuria sibi existimatur perniciosa». La scienza biologica, che afferma l’uguaglianza «naturale» cioè psico‑fisica di tutti gli elementi individuali del «genere» umano: tutti nascono allo stesso modo ecc. «L’uomo è mortale; Tizio è uomo, Tizio è mortale». Tizio = tutti gli uomini. Così ha origine empirico-scientifica (empirico = scienza folcloristica) la formula: «Siamo nati tutti nudi».

Ricordare la novella di Chesterton nella Ingenuità di Padre Brown sull’uomo‑portalettere e l’uomo ‑ piccolo costruttore di macchine portentose; c’è un’osservazione di questo genere: «Una vecchia dama abita in un castello con venti servi: è visitata da un’altra dama e dice a questa: “Sono sempre così sola ecc.”; il medico le annunzia che c’è la peste in giro, infezioni ecc. e allora dice “Siamo in tanti”». (Il Chesterton trae da questo spunto effetti puramente novellistici di intrigo).

Q7 §39 Croce. L’elemento «passionale» come origine dell’atto politico, così come è teorizzato dal Croce, non può essere accettato tal quale. Dice il Croce a proposito del Sorel: «il “sentimento di scissione” non l’aveva garantito (il sindacalismo) abbastanza, forse anche perché una scissione teorizzata è una scissione sorpassata; né il “mito” lo scaldava abbastanza, forse perché il Sorel, nell’atto stesso di crearlo, lo aveva dissipato, dandone la spiegazione dottrinale» (cfr Cultura e Vita morale, 2a ed., p. 158). Le osservazioni sul Sorel sono giuste anche per il Croce: la «passione» teorizzata non è anch’essa sorpassata? la «passione» di cui si dà una spiegazione dottrinale, non è anch’essa «dissipata»? Né si dica che la «passione» di Croce sia cosa diversa dal «mito» di Sorel, che la «passione» significhi la «categoria o il momento spirituale pratico» mentre il «mito» sia una «determinata» passione, che come «determinata» può essere dissipata e sorpassata senza che perciò la «categoria» sia dissipata e «sorpassata»; l’obbiezione è vera solo in parte, e cioè in quanto significa che Croce non è Sorel, cosa ovvia e banale. Sorel non ha teorizzato un determinato mito, ma «il mito» come sostanza dell’azione pratica e ha poi fissato quale determinato mito era storicamente e psicologicamente il più aderente a una certa realtà. La sua trattazione ha perciò due aspetti: uno propriamente teorico, di scienza politica, e uno pratico-politico. È possibile, sebbene sia discutibile, che l’aspetto pratico‑politico sia stato dissipato e sorpassato; oggi si può dire che è stato sorpassato solo nel senso che è stato integrato, ma il determinato mito aveva una base reale. In ogni modo rimane la «teoria dei miti» che non è altro che la «teoria delle passioni» con un linguaggio meno preciso e formalmente coerente. Se teorizzare il mito significa dissolvere tutti i miti, teorizzare le passioni significa dissipare tutte le passioni, costruire una nuova medicina delle passioni.

Che il Croce non sia uscito fuori da queste contraddizioni e che le senta, si capisce dal suo atteggiamento verso i «partiti politici», come si può vedere dal capitolo «Il partito come giudizio e come pregiudizio» di Cultura e Vita morale e da ciò che si dice dei partiti negli Elementi di politica, quest’ultimo più significativo. Il Croce riduce i partiti ai «singoli» capi-partito che per la loro «passione» si costruiscono lo strumento adatto di trionfo. Ma anche ciò non spiega nulla. Si tratta di questo: i partiti sono sempre esistiti, anche se con altre forme e altri nomi, e ancor di più è sempre esistita una organizzazione permanente militare, che è l’«attore politico» per eccellenza. Come mettere insieme la «passione» e la «permanenza, l’ordine, la disciplina ecc.»? La volontà politica deve avere anche altra molla oltre alla passione.

Q7 §40 Nazionalizzazioni e statizzazioni. Cfr M. Saitzew, Die öffentliche Unternehmung der Gegenwart, Tübingen, Mohor, 1930, RM. 3,40. Il Saitzew è professore dell’Università di Zurigo. Secondo il Saitzew l’area d’azione delle imprese pubbliche, specialmente in certi rami, è molto maggiore di ciò che si crede; in Germania il capitale delle imprese pubbliche sarebbe un quinto dell’intera ricchezza nazionale (durante la guerra e l’immediato dopoguerra l’impresa pubblica si è dilatata). Il Saitzew non crede che le imprese pubbliche siano una forma di socialismo, ma crede siano parte integrante del capitalismo. Le obbiezioni contro l’impresa pubblica potrebbero farsi anche per le società anonime; si ripetono argomenti che erano buoni quando le imprese private erano individuali, eppure le anonime sono oggi prevalenti ecc.

Sarà utile il volumetto per vedere l’estensione che ha avuto l’impresa pubblica in alcuni paesi: il carattere dell’impresa pubblica non sarebbe, secondo il Saitzew, quello di avere come scopo principale il reddito fiscale, ma quello di impedire che in certi rami, in cui la concorrenza è tecnicamente impossibile, si stabilisca un monopolio privato pericoloso per la collettività.

Q7 §41 Economia. Deve essere molto interessante il volume di Henryk Grossmann, Das Akkumulations‑ und Zusammenbruchsgesetz des kapitalistischen Systems (Zugleich eine Krisentheorie) in «Schriften des Instituts für Sozialforschung an der Universität Frankfurt a. M.», Verlag C. L. Hirschfeld, Lipsia, 1929, pp. XVI‑628, RM. 20, di cui è pubblicata una recensione di Stefano Samogyi nell’«Economia» del marzo 1931 (pp. 327‑332). La recensione non è molto brillante e forse non bisogna sempre fidarsi dei suoi riassunti (il Samogyi usa «tendenzioso» e «tendenziale» indifferentemente, «tracollo» per «catastrofe» e introduce affermazioni pseudoteoriche gradite solo a Gino Arias, ecc.), tuttavia ne trarrò alcune indicazioni (sotto cautela di revisione futura sul testo del Grossmann). Vedi oltre.

Q7 §42 Paragone ellittico? Che la teoria del valore del Marx non sia un paragone ellittico, come vorrebbe spiegarla il Croce, risulta dal fatto che essa teoria è uno sviluppo della teoria di Ricardo (osservazione fatta da Graziadei in Sindacati e Salari, il quale non faceva certamente un «paragone ellittìco». Tuttavia anche questa correzione al Croce mi pare non sia soddisfacente in tutto e per tutto. È arbitraria la teoria di Marx? E in che allora consisterebbe l’arbitrio? Nello svolgimento dato dal Croce alla sua dimostrazione del paragone ellittico non potrebbe esserci tuttavia un grano di verità inconsapevole? Bisognerebbe studiare bene la teoria di Ricardo e specialmente la teoria di Ricardo sullo Stato come elemento che assicura la proprietà, cioè il monopolio dei mezzi di produzione. Se si studia infatti l’ipotesi «economica» pura, come Ricardo probabilmente intendeva fare, non occorre prescindere dagli «Stati» (dico apposta «Stati») e dal monopolio «legale» della proprietà? Non si tratterebbe quindi per nulla di un «paragone ellittico» fatto da Marx come «propugnatore» di una futura forma sociale diversa da quella studiata, ma di una teoria risultante dalla riduzione alla pura «economicità» dei fatti economici, cioè del massimo di determinazione del «libero gioco delle forze economiche». È certo che Ricardo come gli altri economisti classici erano estremamente spregiudicati e la teoria del valore‑lavoro di Ricardo non sollevò nessuno scandalo al suo tempo (cfr la Storia del Gide e Rist; non rappresentava nessun pericolo perché era ed appariva come una constatazione puramente obbiettiva; il valore polemico, pur senza perdere la sua obbiettività, lo acquista col Marx ecc.). Questo problema è legato allo stesso problema fondamentale della scienza economica «pura» cioè alla ricerca e alla identificazione di ciò che è il concetto e il fatto economico, indipendente dagli altri concetti e fatti di spettanza delle altre scienze; e per fatto economico occorre ancora intendere il fatto «produzione e distribuzione dei beni economici materiali» e non tutti i fatti che possono essere compresi nel concetto di «economia» quale appare nel Croce (per il quale anche l’amore, per es., è un fatto economico ecc.).

A proposito di «paragoni ellittici» sarebbe ancora da notate che tutto il linguaggio è una serie di «paragoni ellittici» e che la storia è un paragone implicito tra il passato e il presente (l’attualità storica). E perché l’ellissi sarebbe illecita se il paragone avviene con un’ipotesi avvenire, mentre sarebbe lecita se il paragone avviene con un fatto passato? (il quale in tal caso è preso proprio come «ipotesi», cioè punto di riferimento che fa meglio comprendere il presente?) Questo spunto è da approfondire.

Q7 §43 Riforma e Rinascimento. Questi modelli di sviluppo culturale forniscono un punto di riferimento critico che mi pare sempre più comprensivo e importante (per il suo valore di suggestione pedagogica) quanto più ci rifletto. È evidente che non si capisce il processo molecolare di affermazione di una nuova civiltà che si svolge nel mondo contemporaneo senza aver capito il nesso storico Riforma-Rinascimento. Superficialità del Liefscitz nell’articolo introduttivo alla pubblicazione periodica di bibliografia del Rivière («La Critique Sociale»). Il Liefscitz mi pare non abbia capito gran che del marxismo e la sua concezione si potrebbe chiamare veramente da «burocratico». Luoghi comuni a tutto andare, detti con la mutria di chi è ben soddisfatto di se stesso e creda di essere tanto superiore alla critica che non immagina neanche di non dire continuamente verità strabilianti e originali. Critica (superficiale) fatta dal punto di vista dell’intellettuale (dell’intellettuale mezza calzetta). Il Liefscitz vede nell’uomo politico più il grande intellettuale nel senso letterario che il grande politico. Ma chi è stato più grande intellettuale, Bismarck o Barrès? Chi ha «realizzato» maggiori mutamenti nel mondo della cultura?

Il Liefscitz non capisce nulla di tali quistioni, ma non capisce nulla neanche della quistione che egli malamente imposta: si tratta, è vero, di lavorare alla elaborazione di una élite, ma questo lavoro non può essere staccato dal lavoro di educare le grandi masse, anzi le due attività sono in realtà una sola attività ed è appunto ciò che rende difficile il problema (ricordare l’articolo della Rosa [Luxemburg ndc] sullo sviluppo scientifico del marxismo e sulle ragioni del suo arresto); si tratta insomma di avere una Riforma e un Rinascimento contemporaneamente. Per il Liefscitz il problema è semplicemente un motivo di disfattismo; e non è infatti puro disfattismo trovare che tutto va male e non indicare criticamente una via d’uscita da questo male? Un «intellettuale», come crede di essere il Liefscitz, ha un modo di impostare e risolvere il problema: lavorando concretamente a creare quelle opere scientifiche di cui piange amaramente l’assenza, e non limitarsi a esigere che altri (chi?) lavori. Né il Liefscitz pretenderà che la sua rivista sia già questo lavoro: essa potrebbe essere un’attività utile se fosse scritta con modestia e con migliore autocritica e senso critico in generale. Una rivista è «un terreno» per iniziare a lavorare per la soluzione di un problema di cultura, non è essa stessa una soluzione: e, ancora, deve avere un indirizzo preciso e quindi offrire modo a un lavoro collettivo di un gruppo intellettuale, tutte cose che non si vedono nella rivista del Liefscitz. Recensire i libri è molto più facile che scrivere dei libri, tuttavia è cosa utile: ma un «recensore» per programma può, senza essere un puro disfattista, piangere sconsolatamente sul fatto che gli «altri» non scrivono libri? E se anche gli altri preferiscono scrivere «recensioni»?

Q7 §44 Riforma e Rinascimento. Che il processo attuale di formazione molecolare di una nuova civiltà possa essere paragonato al movimento della Riforma può essere mostrato anche con lo studio di aspetti parziali dei due fenomeni. Il nodo storico‑culturale da risolvere nello studio della Riforma è quello della trasformazione della concezione della grazia, che «logicamente» dovrebbe portare al massimo di fatalismo e di passività, in una pratica reale di intraprendenza e di iniziativa su scala mondiale che ne fu invece conseguenza dialettica e che formò l’ideologia del capitalismo nascente. Ma noi vediamo oggi avvenire lo stesso per la concezione del materialismo storico; mentre da essa, per molti critici, non può derivare «logicamente» che fatalismo e passività, nella realtà invece essa dà luogo a una fioritura di iniziative e di intraprese che stupiscono molti osservatori (cfr estratto dell’«Economist» di Michele Farbman). Se si dovesse fare uno studio su l’Unione, il primo capitolo, o addirittura la prima sezione del libro, dovrebbe proprio sviluppare il materiale raccolto sotto questa rubrica «Riforma e Rinascimento».

Ricordare il libro del Masaryk su Dostoievskij e la sua tesi della necessità di una Riforma protestante in Russia, e le critiche di Leo Davidovich [Trotzky ndc] nel «Kampf» dell’agosto 1914; è notevole che il Masaryk nel suo libro di memorie (La Résurrection d’un Etat. Souvenirs et réflexions, 1914‑1918, Parigi, Plon) proprio nel campo in cui la Riforma avrebbe dovuto operare, cioè come determinatrice di un nuovo atteggiamento verso la vita, atteggiamento attivo, di intraprendenza e iniziativa, riconosce l’apporto positivo del materialismo storico attraverso l’opera del gruppo che lo incarna. (A proposito di cattolicismo e protestantesimo e del loro atteggiamento reciproco verso la dottrina della grazia e quella delle «opere», ricordare che le «opere» nel linguaggio cattolico hanno ben poco da vedere con l’attività e l’iniziativa operosa e laboriosa, ma hanno un significato ristretto e «corporativo»).

Q7 §45 Quando si può dire che una filosofia ha un’importanza storica? Molte ricerche e studi intorno al sìgnificato storico delle diverse filosofie sono assolutamente sterili e cervellotici perché non si tiene conto del fatto che molti sistemi filosofici sono espressioni puramente (o quasi) individuali e che la parte che di essi può chiamarsi storica è spesso minima e annegata in un complesso di astrazioni di origine puramente razionale e astratto. Si può dire che il valore storico di una filosofia può essere «calcolato» dall’efficacia «pratica» che essa ha conquistato (e «pratica» deve essere intesa in senso largo). Se è vero che ogni filosofia è l’espressione di una società, dovrebbe reagire sulla società, determinare certi effetti, positivi e negativi: la misura in cui appunto reagisce è la misura della sua portata storica, del suo non essere «elucubrazione» individuale, ma «fatto storico».

Q7 §46 Sul «Saggio Popolare». La teleologia. Nella frase e nella concezione di «missione storica» non c’è una radice teleologica? E infatti in molti casi essa assume un valore equivoco e mistico. Ma in altri ha un significato che, dopo le limitazioni di Kant, può essere difeso dal materialismo storico.

Q7 §47 Sul «Saggio popolare». Il modo con cui è posto il problema della «realtà oggettiva del mondo esterno» è superficiale ed estraneo al materialismo storico. L’autore non conosce la tradizione cattolica e non sa che proprio la religione sostiene strenuamente questa tesi contro l’idealismo, cioè la religione cattolica sarebbe in questo caso «materialista». L’autore commette questo errore anche nella relazione al Congresso di storia della scienza e della tecnologia tenuta a Londra nel 31 (cfr pubblicazione degli Atti) affermando che la concezione soggettivistica e idealistica è legata alla concezione di un… Adamo che apre gli occhi per la prima volta nel mondo e crede di crearlo lui in quel momento (o qualcosa di simile) dimenticando che Adamo, secondo la Bibbia, e quindi la concezione religiosa, è creato dopo il mondo, e anzi il mondo è creato da Dio per lui. La religione perciò non può allontanarsi dal concetto della «realtà» indipendente dall’uomo pensante. La Chiesa (attraverso i gesuiti e specialmente i neoscolastici – Università di Lovanio e del Sacro Cuore a Milano –) ha cercato di assorbire il positivismo e anzi si serve di questo ragionamento per mettere in ridicolo gli idealisti presso le folle: «Gli idealisti sono quelli che pensano che il tal campanile esiste solo perché tu lo pensi; se tu non lo pensassi, il campanile non esisterebbe più». Cfr Mario Casotti, Maestro e scolaro, p. 49: «le ricerche dei naturalisti e dei biologi presuppongono già esistenti la vita e l’organismo reale», che suona come una frase di Engels nell’Antidühring.

Q7 §48 Giorgio Sorel. Vedere nel libro di Gaétan Pirou su Sorel, la bibliografia completa degli scritti del Sorel stesso (Seguono nel ms cinque righe bianche).

Finisce qui la «Seconda serie» degli Appunti di filosofia. Materialismo e idealismo.

Q7 §49 Letteratura Popolare. Romanzi d’appendice. Nelle «Nouvelles Littéraires» del mese di luglio 1931 e seguenti, cfr la rassegna degli odierni scrittori francesi di romanzi d’appendice Les illustres inconnus di G. Charensol. Finora sono apparsi brevi schizzi su M. Leblanc (autore di Arsenio Lupin), di Allain (autore di Fantomas) e di altri quattro o cinque (autore di Zigomar, ecc.).

Q7 §50 Letteratura popolare. Del carattere non popolare-nazionale della letteratura italiana. Atteggiamento verso il popolo nei Promessi Sposi. Il carattere «aristocratico» del cattolicismo manzoniano appare dal «compatimento» scherzoso verso le figure di uomini del popolo (ciò che non appare in Tolstoi) come fra Galdino (in confronto di frate Cristoforo), il sarto, Renzo, Agnese, Perpetua, la stessa Lucia, ecc. (Su questo argomento ho scritto altra nota). Vedere se spunti interessanti nel libro di A. A. Zottoli, Umili e potenti nella poetica di A. Manzoni, Ed. «La Cultura», Roma‑Milano 1931.

Sul libro dello Zottoli cfr Filippo Crispolti, Nuove indagini sul Manzoni, nel «Pègaso», di agosto 1931. Questo articolo del Crispolti è interessante di per se stesso, per comprendere l’atteggiamento del cristianesimo gesuitico verso gli «umili». Ma in realtà mi pare che il Crispolti abbia ragione contro lo Zottoli, sebbene il Crispolti ragioni «gesuiticamente». Dice il Crispolti del Manzoni: «Il popolo ha per sé tutto il cuore di lui, ma egli non si piega ad adularlo mai; lo vede anzi collo stesso occhio severo con cui vede i più di coloro che non sono popolo». Ma non si tratta di volere che il Manzoni «aduli il popolo», si tratta del suo atteggiamento psicologico verso i singoli personaggi che sono «popolari»; questo atteggiamento è nettamente di casta pur nella sua forma religiosa cattolica; i popolani, per il Manzoni, non hanno «vita interiore», non hanno personalità morale profonda; essi sono «animali» e il Manzoni è «benevolo» verso di loro proprio della benevolenza di una cattolica società di protezione degli animali. In un certo senso il Manzoni ricorda l’epigramma su Paolo Bourget: che per il Bourget occorre che una donna abbia 100 000 franchi di rendita per avere una psicologia. Da questo punto di vista il Manzoni (e il Bourget) sono schiettamente cattolici; niente in loro dello spirito «popolare» di Tolstoi, cioè dello spirito evangelico del cristianesimo primitivo. L’atteggiamento del Manzoni verso i suoi popolani è l’atteggiamento della Chiesa Cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di medesimezza umana. Lo stesso Crispolti, nella frase citata, inconsapevolmente confessa questa «parzialità» (o «partigianeria») del Manzoni: il Manzoni vede con «occhio severo» tutto il popolo, mentre vede con occhio severo «i più di coloro che non sono popolo»: egli trova «magnanimità», «alti pensierì», «grandi sentimenti» solo in alcuni della classe alta, in nessuno del popolo, che nella sua totalità è bassamente animalesco.

Che non abbia un gran significato il fatto che gli «umili» abbiano una parte di prim’ordine nel romanzo manzoniano, è giusto, come dice il Crispolti. Il Manzoni pone il «popolo» nel suo romanzo, oltre che per i personaggi principali (Renzo, Lucia, Perpetua, fra Galdino, ecc.) anche per la massa (tumulti di Milano, popolani di campagna, il sarto, ecc.), ma appunto il suo atteggiamento verso il popolo non è «popolare‑nazionale», ma aristocratico.

Studiando il libro dello Zottoli, occorre ricordare questo articolo del Crispolti. Si può mostrare che il «cattolicismo» anche in uomini superiori e non «gesuitici» come il Manzoni (il Manzoni aveva certamente una vena giansenistica e antigesuitica) non contribuì a creare in Italia il «popolo‑nazione» neanche nel Romanticismo, anzi fu un elemento anti‑nazionale‑popolare e solamente aulico. Il Crispolti accenna solo al fatto che il Manzoni per un certo tempo accolse la concezione del Thierry (per la Francia) della lotta di razza nel seno del popolo (Longobardi e Romani, come in Francia Franchi e Galli) come lotta tra umili e potenti (Nel ms seguono, tra parentesi, alcune righe cancellate a leggeri tratti di penna): «A questo proposito è ancora più strana l’affermazione del Croce nella Storia della storiografia in Italia nel secolo XIX, che solo in Italia e non in Francia ci sia stata questa ricerca della lotta di razza nel Medio Evo come origine della divisione della società in ordini privilegiati e terzo stato, mentre è proprio l’opposto, ecc.».. Lo Zottoli cerca di rispondere al Crispolti nel «Pègaso» del settembre 1931.

Q7 §51 Storia delle classi subalterne. L’elemento di lotta di razza innestato nella lotta di classe in Francia dal Thierry ha avuto importanza e quale, in Francia, nel determinare la sfumatura nazionalistica dei movimenti delle classi subalterne? Il «gallicismo» operaio di Proudhon sarebbe da studiare, come espressione più compiuta della tendenza democratico‑gallicistica rappresentata dai romanzi popolari di Eugenio Sue.

Q7 §52 Letteratura popolare. ‑ Sezione cattolica. Il gesuita Ugo Mioni. Ho letto in questi giorni (agosto 1931) un romanzo di Ugo Mioni La ridda dei milioni stampato dall’Opera di S. Paolo di Alba. A parte il carattere prettamente gesuitico (e antisemita) che è particolarissimo di questo romanzaccio, mi ha colpito la trascuratezza stilistica e anche grammaticale della scrittura del Mioni. La stampa è pessima, i refusi e gli errori formicolano e questo è già grave in libretti dedicati ai giovani del popolo che spesso in essi imparano la lingua letteraria; ma se lo stile e la grammatica del Mioni possono aver sofferto per la cattiva stampa, è certo che lo scrittore è pessimo oggettivamente, è sgrammaticato e spropositante obbiettivamente. In ciò il Mioni si stacca dalla tradizione di compostezza e anzi di falsa eleganza e lindura degli scrittori gesuitici come il padre Bresciani.

Pare che Ugo Mioni (attualmente Mons. U. M.) non sia più gesuita della Compagnia di Gesù.

Q7 §53 Passato e presente. Debiti della Germania e pagamenti all’America. Pare che aver fissato prima di ogni altro che debba esistere interferenza tra i pagamenti all’America e i debiti di guerra della Germania sia stato Lord Balfour nella sua famosa nota del 1922. Il sen. D’Amelio non avrebbe che aderito alla nota Balfour nella conferenza di Londra del 1923.

Q7 §54 Passato e presente. La quistione della terra. Apparente frazionamento della terra in Italia: ma la terra non è dei contadini coltivatori, ma della borghesia rurale che spesso è più feroce e usuraia del grande proprietario. Accanto a questo fenomeno c’è l’altro del polverizzarsi della poca terra posseduta dai contadini lavoratori (che intanto sono per lo più in alta collina e in montagna). Questo polverizzarsi ha diverse cause: 1) la povertà del contadino che è costretto a vendere una parte della sua poca terra; 2) la tendenza ad avere molte piccolissime parcelle nelle diverse zone agricole del comune o di una serie di comuni, come assicurazioni contro la monocultura esposta a totale distruzione in caso di cattiva annata; 3) il principio di eredità della terra fra i figli, ognuno dei quali vuole una parcella di ogni campo ereditato (questo parcellamento non appare dal catasto perché la divisione non viene fatta legalmente ma bona fide). Pare che il nuovo Codice civile introduca anche in Italia il principio dell’Homestead, o bene di famiglia, che tende appunto in molti paesi a evitare lo sminuzzamento eccessivo della terra, a causa di eredità.

Q7 §55 Passato e presente. Vedere nella collezione della «Gerarchia» le fasi salienti del periodo 1920 e sg. e specialmente la serie di studi sulle nuove istituzioni create dal regime fascista.

Q7 §56 L’on. De Vecchi. Cfr nella «Gerarchia» dell’ottobre 1928 l’articolo di Umberto Zamboni, La marcia su Roma. Appunti inediti. L’azione della colonna Zamboni, dove si dice che il De Vecchi, solo tra i quadrumviri, era rimasto a Roma «per tentare ancora l’estremo tentativo di una soluzione pacifica». L’affermazione è da confrontare con l’articolo di M. Bianchi nel numero unico di «Gerarchia» dedicato alla marcia su Roma e in cui si parla del De Vecchi in forma abbastanza strana. Lo Zamboni andò a Perugia col Bianchi e avrà sentito da lui questa versione dei contatti avuti tra il De Vecchi e il Bianchi il 27 ottobre.

Q7 §57 Passato e presente. L’alimentazione del popolo italiano. In «Gerarchia» del febbraio 1929, p. 158, il prof. Carlo Foà riporta le cifre fondamentali dell’alimentazione italiana in confronto agli altri paesi: l’Italia ha 909 750 calorie disponibili per abitante, la Francia un milione 358 300, l’Inghilterra 1 380 000, il Belgio 1 432 500, gli Stati Uniti 1 866 250. La Commissione scientifica interalleata per i vettovagliamenti ha stabilito che il minimo di consumo alimentare per l’uomo medio è di 1 milione di calorie per anno. L’Italia come media nazionale di disponibilità è al di sotto di questa media. Ma se si considera che la disponibilità non si distribuisce tra gli uomini medii, ma prima di tutto per gruppi sociali, si può vedere come certi gruppi sociali, come i braccianti meridionali (contadini senza terra) a stento devono giungere alle 400 mila calorie annue, ossia 2/5 della media stabilita dagli scienziati.

Q7 §58 Romanzo popolare. Diffusione dell’Ebreo Errante in Italia nel periodo del Risorgimento. Vedere l’articolo di Baccio M. Bacci Diego Martelli, l’amico dei «Macchiaioli» nel «Pègaso» del marzo 1931. Il Bacci riporta integralmente in parte e in parte riassume (pp. 298‑99) alcune pagine inedite dei Ricordi della mia prima età, in cui il Martelli racconta che spesso (tra il 49 e il 59) si riunivano in casa sua gli amici del padre, tutti patriotti e uomini di studio come il padre stesso: Atto Vannucci, Giuseppe Arcangeli, insegnante di greco e di latino, Vincenzo Monteri, chimico, fondatore dell’illuminazione a gas a Firenze, Pietro Thouar, Antonio Mordini, Giuseppe Mazzoni, triumviro con Guerrazzi e Montanelli, il Salvagnoli, il Giusti, ecc.: discutevano di arte e di politica e talvolta leggevano i libri che circolavano clandestini. Vieusseux aveva introdotto l’Ebreo Errante: ne fu fatta lettura in casa Martelli, davanti agli amici intervenuti da Firenze e da fuori. Racconta Diego Martelli: «Chi si strappava i capelli, chi pestava i piedi, chi mostrava le pugna al cielo...».

Q7 §59 Il Sansimonismo in Italia. Studiare la diffusione del Sansimonismo: esistono alcune pubblicazioni in Italia. Potrebbe pensarsi che le idee del basso sansimonismo abbiano avuto una diffusione attraverso Sue.

Q7 §60 Storia degli intellettuali italiani. Cfr l’accenno nei Ricordi di un vecchio normalista di Girolamo Vitelli nella Nuova Antologia del 1° aprile 1930: la filologia classica in Italia per tre secoli (fino alla seconda metà del secolo XIX) fu completamente trascurata: «Quando si conosca un po’ la storia di questi nostri studi, si sa anche che dal Rinascimento in poi, dopo gli italiani del ’400 (e anche sino alla fine del ’500, con l’ultima grande scuola di Pier Vettori), ne tennero successivamente l’egemonia, con tendenze più o meno diverse, i francesi, gli olandesi, gl’inglesi, i tedeschi». Perché questa assenza degli italiani? Il Vitelli non la spiega altro che col «mercantilismo», ma chi più mercantilista degli olandesi e degli inglesi? È curioso che sono proprio le nazioni protestanti (e in Francia mi pare che gli Étiennes fossero ugonotti) che mantengono lo studio del mondo antico in onore. Bisognerebbe vedere l’organizzazione di questi studi in queste nazioni e paragonare coi centri di studi in Italia. La Controriforma ha influito? ecc.

Q7 §61 Quistioni di cultura. Le biblioteche. Cfr l’interessante articolo di Ettore Fabietti, Per la sistemazione delle Biblioteche pubbliche «nazionali» e «popolari», nella «Nuova Antologia» del 1° aprile 30.

Q7 §62 La quistione degli intellettuali. Quando incomincia la vita culturale nei vari paesi del mondo e dell’Europa? Ciò che noi dividiamo in «Storia antica», «medioevale», «moderna», come si può applicare ai diversi paesi? Pure queste diverse fasi della storia mondiale sono state assorbite dagli intellettuali moderni anche dei paesi solo di recente entrati nella vita culturale. Tuttavia il fatto dà luogo ad attriti. Le civiltà dell’India e della Cina resistono all’introduzione della civiltà occidentale, che pure in una forma o nell’altra finirà col vincere: possono esse d’un colpo decadere alle condizioni di folklore? di superstizione? Questo fatto però non può accelerare la rottura tra popolo e intellettuali e la espressione da parte del popolo di nuovi intellettuali formatisi nella sfera del materialismo storico?

Q7 §63 Storia degli intellettuali italiani. Cfr l’articolo di Giuseppe Tucci, Del supposto architetto del Taj e di altri italiani alla corte del Mogul, nella «Nuova Antologia» del 1° maggio 1930. Il supposto architetto del Taj sarebbe stato Jeromino Veroneo, morto nel 1640, cioè prima che il Taj fosse ultimato (1648), ma che si suppone abbia fatto il piano, ultimato poi da un mussulmano (vedi l’articolo per i dettagli).

Q7 §64 Roberto Michels. Nell’articolo Il pangermanismo coloniale tra le cause del conflitto mondiale di Alberto Giaccardi (Nuova Antologia, 16 maggio 1930), a p. 238 è scritto: «Il “posto al sole” reclamato dalla Germania cominciò troppo presto a diventare di una tale ampiezza, che avrebbe ridotto tutti gli altri all’ombra o quasi: perfino al popolo italiano, la cui situazione era analoga a quella del popolo tedesco, un dotto germanico, Roberto Michels, negava il diritto di esigere colonie, perché “l’Italia, pur essendo demograficamente forte, è povera di capitali”». Il Giaccardi non dà il riferimento bibliografico dell’espressione del Michels.

Nel fascicolo del 1° luglio successivo il Giaccardi pubblica una «rettifica» della sua affermazione, evidentemente per impulso del Michels; ricorda: L’Imperialismo italiano del Michels (Milano, 1914, Società editrice libraria) e del 1912 gli Elemente zur Entstehungsgeschichte des Imperialismus in Italien, nell’«Archiv für Sozialwissenschaft», gennaio‑febbraio 1912, pp. 91‑92, e conclude: «Il che corrisponde perfettamente ai sentimenti di italianità costantemente (!) dimostrati dall’ìllustre professore dell’Ateneo perugino, che, sebbene renano d’origine, ha scelto l’Italia come sua Patria di adozione, svolgendo in ogni occasione una intensa ed efficace attività in nostro favore» .

Q7 §65 Femminismo. Cfr l’articolo di Vittorio Cian, Femminismo patriottico del Risorgimento, nella «Nuova Antologia» del 1° giugno 1930. Tipo retorico, ma interessante per le indicazioni obbiettive sulla partecipazione delle donne alla vita politica nel Risorgimento.

In una nota è citato questo brano del Gioberti preso dall’Apologia del libro intitolato «Il Gesuita Moderno ecc.», cap. III della parte I: «la partecipazione della donna alla causa nazionale è un fatto quasi nuovo in Italia e che verificandosi in tutte le sue provincie, vuol essere specialmente avvertito, perché esso è, al parer mio, uno dei sintomi più atti a dimostrare che siamo giunti a maturità civile e a pieno essere di coscienza come nazione». L’osservazione del Gioberti non è valida solo per la vita nazionale: ogni movimento storico innovatore è maturo solo in quanto vi partecipano non solo i vecchi ma i giovani e i maturi e le donne, cosicché esso ha persino un riflesso nella fanciullezza.

Q7 §66 Storia degli intellettuali italiani. Gioacchino Volpe nell’articolo (discorso) Il primo anno dell’Accademia d’Italia («Nuova Antologia», 16 giugno 1930) a p. 494, tra i libri di storia che l’Accademia (Sezione di scienze morali‑storiche) desidererebbe fossero scritti accenna: «O dedicati a quella mirabile irradiazione della nostra coltura che si ebbe fra il XV e XVII secolo, dall’Italia verso l’Europa, pur mentre dall’Europa muovevano verso l’Italia le nuove invasioni e dominazioni».

Q7 §67 Storia degli intellettuali italiani. Cfr Renaud Przezdziecki, Ambasciatori veneti in Polonia, Nuova Antologia, 1° luglio 1930:

«La mancanza di una unità patria, di una dinastia unica, creava tra gli italiani uno stato di spirito indipendente, per cui ciascuno che fosse fornito di capacità politiche e diplomatiche, le considerava come un talento personale che poteva mettere, secondo il suo interesse, al servizio di qualunque causa, allo stesso modo che i capitani di ventura disponevano della loro spada. La diplomazia considerata come un libero mestiere, creava così, nei secoli XVII e XVIII, il tipo del diplomatico senza patria, di cui l’esempio più classico è probabilmente il cardinale di Mazzarino».

La diplomazia, secondo il Przezdziecki, avrebbe trovato in Italia un terreno naturale per nascere e svilupparsi: 1) vecchia cultura; 2) frazionamento «statale» che dava luogo a contrasti e lotte politiche e commerciali e quindi favoriva lo sviluppo delle capacità diplomatiche.

In Polonia si ritrovano di questi diplomatici italiani al servizio di altri Stati: un prelato fiorentino, monsignor Bonzi, fu ambasciatore di Francia a Varsavia, dal 1664 al 1669; un marchese de Monti, bolognese, fu ambasciatore di Luigi XV presso Stanislao Lesczynski; un marchese Lucchesini, fu ministro plenipotenziario del re di Prussia a Varsavia alla fine del ’700. I re di Polonia si servirono spesso delle abilità diplomatiche di italiani, quantunque la nobiltà polacca avesse fatto approvare delle leggi, che vietavano ai sovrani di affidare a forestieri funzioni pubbliche. Ladislao Jagellone, al principio del ’400, aveva incaricato tal Giacomo de Paravesino di missioni diplomatiche, come suo ambasciatore a Venezia, a Milano, a Mantova. L’umanista fiorentino Filippo Buonaccorsi da Fiesole, detto il Callimaco, dopo essere stato pedagogo dei figli di Casimiro III, andò ambasciatore di questo re presso Sisto IV. Innocenzo VIII, la Repubblica di Venezia e il Sultano. Nel secolo XVI, furono ambasciatori polacchi in vari Stati Luigi del Monte, Pietro degli Angeli, i fratelli Magni di Como. Nel secolo XVI, Domenico Roncalli è ministro di Ladislao IV a Parigi e negozia il matrimonio di quel sovrano con Luisa Maria Gonzaga; Francesco Bibboni è ambasciatore polacco a Madrid, Andrea Bollo è ministro di Polonia presso la Repubblica di Genova e un dall’Oglio incaricato d’affari a Venezia alla fine del secolo XVIII. Tra i rappresentanti polacchi presso la santa sede troviamo, anche nella seconda metà del secolo XVIII, un cardinale Antici e un conte di Lagnasco.

Gli Italiani hanno creato la diplomazia moderna. La Santa Sede, durante lunghi secoli arbitra in buona parte della politica mondiale, fu la prima a istituire Nunziature stabili e la Repubblica di Venezia fu il primo Stato che organizzò un servizio diplomatico regolare.

Q7 §68 Storia degli intellettuali italiani. Umanesimo e Rinascimento. Cfr Luigi Arezio, Rinascimento, Umanesimo e spirito moderno, «Nuova Antologia» del 1° luglio 1930.

L’Arezio si occupa del libro di G. Toffanin, Che cosa fu l’Umanesimo (Firenze, Sansoni, 1929) che appare, dai cenni fattine, molto interessante per il mio argomento. Accennerò qualche spunto, perché dovrò leggere il volume. (Il Voigt e il Burckhardt credettero che l’Umanesimo fosse diretto contro la Chiesa; il Pastor – sarà da leggere il suo volume sulla Storia dei Papi, che concerne l’Umanesimo – non crede che l’Umanesimo fosse inizialmente diretto contro la Chiesa). Per il Toffanin, il principio della irreligiosità o della nuova religione non è la via maestra per entrare nel segreto degli umanisti; né vale parlare del loro individualismo, perché «i presunti effetti della rivalutazione della personalità umana» a opera di una cultura, sarebbero tanto più sorprendenti in un tempo rimasto a sua volta famoso per aver «allungata la distanza fra il resto degli uomini e quelli di studio». Il fatto veramente caratteristico dell’Umanesimo «resta quella passione per il mondo antico per cui, quasi d’improvviso, con una lingua morta si tenta di soppiantarne una popolare e consacrata dal genio, s’inventa, possiam dire, la scienza filologica, si rinnova gusto e cultura. Il mondo pagano rinasce».

Il Toffanin sostiene che non bisogna confondere l’umanesimo col progressivo risveglio posteriore all’anno mille; l’umanesimo è un fatto essenzialmente italiano «indipendente da codesti fallaci presagi» e ad esso attingeranno per farsi classici e colti la Francia e il mondo intero. In un certo senso può chiamarsi eretica quella civiltà comunale del duecento, che apparve in una irruzione di sentimenti e pensieri raffinatissimi in forme plebee, e «inizialmente eretico fu quell’impulso all’individualismo anche se tra il popolo esso prese coscienza d’eresia meno di quanto a un primo sguardo si sospetti». La letteratura volgare prorompente dal seno della civiltà comunale e indipendente dal classicismo è indice d’una società «in cui il lievito eretico fermentò»; lievito, che, se indeboliva nelle masse l’ossequio all’autorità ecclesiastica, diventava nei pochi un aperto distacco dalla «romanitas», caratteristico fra il Medio Evo propriamente detto e l’Umanesimo. Alcuni intellettuali sembrano consapevoli di questa discontinuità storica: essi pretendono di essere colti senza leggere Virgilio, cioè senza i liberali studi, il cui generale abbandono giustificherebbe, secondo il Boccaccio, l’uso del volgare, anziché del latino, nella Divina Commedia. Massimo fra questi intellettuali Guido Cavalcanti. In Dante «l’amore della lingua plebea, germogliato da uno stato d’animo comunale e virtualmente eretico» dovette contrastare con un concetto della sapienza quasi umanistico. «Caratterizza gli umanisti la coscienza d’uno stacco senza rimedio tra uomo di cultura e folla: ideali astratti sono per loro quelli della potestà imperiale e papale; reale invece è la loro fede nella universalità culturale e nelle ragioni di essa». La Chiesa favorì il distacco della cultura dal popolo cominciato col ritorno al latino, perché lo considerò come sana reazione contro ogni mistica indisciplinatezza. L’Umanesimo, da Dante a prima del Machiavelli, è una età che sta nettamente a sé, e, contrariamente a quel che ne pensano alcuni per il comune impulso antidemocratico e antieretico ha una non superficiale affinità con la Scolastica. Così il Toffanin nega che l’Umanesimo si trasfonda vitale nella Riforma, perché questa, col suo distacco dalla romanità, con la rivincita ribelle dei volgari, e con tante altre cose rinnova i palpiti della cultura comunale, fremente eresia, contro la quale l’umanesimo era sorto. Col finire dell’umanesimo nasce l’eresia e sono fuori dell’umanesimo Machiavelli, Erasmo (?), Lutero, Giordano Bruno, Cartesio, Giansenio.

Queste tesi del Toffanin spesso coincidono con le già da me fatte in altri quaderni. Solo che il Toffanin si mantiene sempre nel campo culturale‑letterario e non pone l’umanesimo in connessione con i fatti economici e politici che si svolgevano in Italia contemporaneamente: passaggio ai principati e alle signorie, perdita dell’iniziativa borghese e trasformazione dei borghesi in proprietari terrieri. L’Umanesimo fu un fatto reazionario nella cultura perché tutta la società italiana stava diventando reazionaria.

L’Arezio cerca di fare obbiezioni al Toffanin, ma si tratta di inezie e di superficialità. Che l’età comunale sia tutto un fermento di eresie non pare accettabile all’Arezio, che per eresia intende solo l’averroismo e l’epicureismo. Ma il comune era una eresia esso stesso perché tendenzialmente doveva entrare in lotta col papato e rendersene indipendente.

Così non gli piace che il Toffanin ponga tutto l’Umanesimo come fedele al cristianesimo, sebbene riconosca che anche gli scettici facevano ostentazione di religiosità. La verità è che si trattò del primo fenomeno «clericale» nel senso moderno, una Controriforma in anticipo (d’altronde era Controriforma in rapporto all’età comunale). Essi si opponevano alla rottura dell’universalismo medioevale e feudale che era implicito nel Comune e che fu soffocata in fasce, ecc. L’Arezio segue le vecchie concezioni sull’Umanesimo e ripete le affermazioni diventate classiche del Voigt, Burckhardt, del Rossi, De Nolhac, Symonds, Jebb, ecc.

Q7 §69 Azione Cattolica. Per il significato reale e di politica immediata e mediata dell’enciclica Quadragesimo anno di Pio XI per il 40° anniversario dell’enciclica Rerum Novarum per quanto riguarda i rapporti tra cattolicismo e socialdemocrazia, occorre tener conto dell’atteggiamento del cardinale inglese Bourne e del suo discorso a Edimburgo (nella prima quindicina del giugno 1931) sul partito laburista. Cfr i giornali cattolici inglesi del tempo.

Q7 §70 Storia delle classi subalterne. Intellettuali italiani. Da un articolo di Alfredo Panzini (Biancofiore, nel «Corriere della Sera» del 2 dicembre 1931) su Severino Ferrari e il suo poemetto Il Mago: «Al pari di molti figli della piccola borghesia, specie quelli che frequentavano l’Università, si era sentimentalmente accostato al fonte battesimale di Bakunin più forse che di Carlo Marx. I giovani, nell’entrare della vita, domandano un battesimo; e di Giuseppe Mazzini rimaneva la tomba e il gran fulgore della tomba; ma la parola del grande apostolo non bastava più alle nuove generazioni». Da che il Panzini trae che i giovani, ecc., si accostassero più al Bakunin, ecc.? Forse semplicemente dai ricordi personali di Università (Severino Ferrari era nato nel 1856; il Mago fu pubblicato nel 1884) sebbene il Panzini abbia frequentato l’Università di Bologna molti anni dopo il Ferrari.

Q7 §71 Intellettuali. Sulla cultura dell’India. Cfr la serie di articoli pubblicati nella «Civiltà Cattolica» del luglio 1930 e mesi seguenti: Sistemi filosofici e sette dell’Induismo. I gesuiti si pongono questo problema: Il cattolicismo in India riesce a far proseliti solo, e anche in questo caso in misura limitata, fra le caste inferiori. Gli intellettuali indiani sono refrattari alla propaganda, e il papa ha detto che occorre operare anche fra loro tanto più in quanto le masse popolari si convertirebbero se si convertissero dei nuclei intellettuali importanti (il papa conosce il meccanismo di riforma culturale delle masse popolari‑contadine più di molti elementi del laicismo di sinistra: egli sa che una grande massa non si può convertire molecolarmente; occorre, per affrettare il processo, conquistare i dirigenti naturali delle grandi masse, cioè gli intellettuali o formare gruppi di intellettuali di nuovo tipo, onde la creazione di vescovi indigeni); quindi la necessità di conoscere esattamente i modi di pensare e le ideologie di questi intellettuali, per meglio intenderne l’organizzazione di egemonia culturale e morale per distruggerla o assimilarla. Questi studi di parte gesuitica hanno perciò una particolare importanza oggettiva, in quanto non sono «astratti» e accademici, ma sono rivolti a scopi pratici concreti. Essi sono molto utili per conoscere le organizzazioni di egemonia culturale e morale nei grandi paesi asiatici come la Cina e l’India.

Q7 §72 Passato e presente. La borghesia rurale. Articolo di Alfredo Rocco, La Francia risparmiatrice e banchiera, in «Gerarchia» dell’ottobre 1931. Articolo da rettificare in molti particolari; ma il punto principale da notarsi è questo: perché in Francia si accumula tanto risparmio? Sarà solamente perché i francesi sono tirchi e avari, come pare sostenere il Rocco? Sarebbe difficile dimostrarlo, almeno in senso assoluto. Gli italiani sono «sobri, lavoratori, economi»: perché non si accumula risparmio in Italia? Il tenore di vita medio francese è superiore in modo vole a quello italiano (Cfr studio del Camis sull’alimentazione in Italia) perciò gli italiani dovrebbero risparmiare di più dei francesi. In Italia non avviene ciò che avviene in Francia perché esistono classi assolutamente parassitarie che non esistono in Francia, e più importante di tutte la borghesia rurale (Cfr il libro del Serpieri sulle classi rurali in Italia durante la guerra e precisare quanto «costa» una tale classe ai contadini italiani).

Q7 §73 Azione Cattolica. Oltre all’Annuario Pontificio che ha carattere ufficiale e alle altre pubblicazioni di Almanacchi, ecc., vedere la pubblicazione «Annali dell’Italia Cattolica» che nel 1930 sono stati pubblicati dalle edizioni «Pro Familia», Milano (in 16°, pp. 416, L. 8).

Q7 §74 Passato e presente. Gli industriali e le missioni cattoliche. È noto che gli industriali italiani hanno formato un organismo per aiutare direttamente e organicamente le missioni cattoliche nella loro opera di penetrazione culturale ed economica nei paesi arretrati. Si pubblica un bollettino speciale per tale attività: «Bollettino ufficiale del Comitato nazionale industriali e commercianti per le Missioni Cattoliche», Roma, in 8°. Contribuiranno industriali e commercianti anche ebrei e miscredenti, naturalmente, e anche la Fiat che negli anni del dopoguerra aiutava l’Y.M.C.A. e i metodisti a Torino.

Q7 §75 Letteratura popolare. In un articolo di Antonio Baldini («Corriere della Sera», 6 dicembre 1931) su Paolina Leopardi (Tutta‑di‑tutti) e i suoi rapporti con Prospero Viani, si ricorda, sulle tracce di un gruppo di lettere pubblicate da C. Antona‑Traversi («Civiltà moderna», anno III, n. 5, Firenze, Vallecchi) che il Viani soleva inviare alla Leopardi i romanzi di Eugenio Sue (I misteri di Parigi anche L’ebreo errante) che Paolina trovava «deliziosi». Ricordare il carattere di P. Viani, erudito, corrispondente della Crusca e l’ambiente in cui viveva Paolina, accanto all’ultrareazionario Monaldo, che scriveva la rivista «Voce della Ragione» (di cui Paolina era la redattrice capo) ed era avverso alle ferrovie, ecc.

Q7 §76 Nozioni enciclopediche. Bibliografia. Raccogliere i dati bibliografici delle pubblicazioni enciclopediche specializzate per la politica, la sociologia, la filosofia, l’economia. Si potrebbe cominciare dal Dizionario filosofico di Voltaire, in cui «filosofico» significa precisamente «enciclopedico» dell’ideologia dell’enciclopedismo o illuminismo. Ricordare il Dizionario politico di Maurizio Block, che è il «dizionario filosofico» del liberalismo francese. Il Dictionnaire politique et critique di Carlo Maurras (dalle «Nouvelles Littéraires» del 14 novembre 1931 appare che di questo lavoro di Maurras sono già usciti 20 fascicoli di 96 pp. l’uno; ogni fascicolo costa 10 franchi; presso le edizioni «La Cité des Livres»).

Q7 §77 Gli intellettuali. I partiti politici. Una delle quistioni più importanti riguardo ai partiti politici è quella della loro «tempestività», o «tempismo», ossia del come essi reagiscono contro lo spirito di «consuetudine» e le tendenze a diventare anacronistici e mummificati. Praticamente i partiti nascono come organizzazione dopo avvenimenti storici importanti per i gruppi sociali rappresentati: ma essi non sanno sempre adattarsi alle nuove epoche o fasi storiche, non sanno svilupparsi secondo che si sviluppano i rapporti complessivi di forza e quindi i rapporti relativi nel paese determinato o nel campo internazionale. In questa ricerca occorre distinguere: il gruppo sociale; la massa del partito; la burocrazia o stato maggiore del partito. Quest’ultima è la forza consuetudinaria più pericolosa: se essa si organizza come corpo a sé, solidale e indipendente, il partito finisce con l’anacronizzarsi. Avvengono così le crisi dei partiti, che, qualche volta d’un tratto, perdono la loro base sociale storica e si trovano campati in aria: ciò è avvenuto in Germania specialmente con la espansione dell’hitlerismo. I partiti francesi sono i più utili per studiare l’anacronizzarsi delle organizzazioni politiche: nati in conseguenza della Rivoluzione dell’89 e dei movimenti successivi essi ripetono una terminologia vieta, che permette ai dirigenti di mantenere la vecchia base pur facendo compromessi con forze affatto diverse e spesso contrarie e asservendosi alla plutocrazia.

Q7 §78 Azione Cattolica. A proposito dei provvedimenti presi nel 1931 contro l’Azione Cattolica italiana è interessante l’articolo Una grave questione di educazione cristiana: A proposito del Primo Congresso Internazionale dell’Insegnamento medio libero di Bruxelles (28‑31 luglio 1930), pubblicato nella «Civiltà Cattolica» del 20 settembre 1930.

Il Codice Sociale di Malines_1 , come è noto, non esclude la possibilità dell’insurrezione armata da parte dei cattolici: naturalmente restringe i casi di questa possibilità, ma lascia nel vago e nell’incerto le condizioni positive per la possibilità stessa, che però si capisce riguardare certi casi estremi di soppressione e limitazione dei privilegi ecclesiastici e vaticani. In questo articolo della «Civiltà Cattolica», proprio nella prima pagina e senza altra osservazione, si riproduce un brano del libro: Ch. Terlinden, Guillaume I, roi des Pays bas, et l’Eglise Catholique en Belgique (1814‑1830), Bruxelles, Dewit, 1906, Tom. 2, p. 545: «Se Guglielmo I non avesse violate le libertà e i diritti dei cattolici, questi, fedeli ad una religione che comanda il rispetto all’autorità, non avrebbero mai pensato a sollevarsi, né ad unirsi coi liberali loro irreconciliabili nemici. Né i liberali, pochi allora e con debole influenza sul popolo, avrebbero potuto da soli scuotere il giogo straniero. Senza il concorso dei cattolici, la rivoluzione belga sarebbe stata una sterile sommossa senza esito». Tutta la citazione è impressionante, in tutti e tre i suoi periodetti, come interessante è l’intero articolo in cui il Belgio rappresenta un riferimento polemico d’attualità.

Q7 §79 Passato e presente. Sulla quistione dell’importanza data dal Gentile al Gioberti per individuare un filone filosofico nazionale permanente e conseguente sono da vedere due studi sul Gioberti: quello dello scrittore cattolico Palhoriès, Gioberti, Parigi, Alcan, 1929, in 8°, pp. 408, e quello dell’idealista Ruggero Rinaldi, Gioberti e il Problema religioso del Risorgimento, prefazione di Balbino Giuliano, Vallecchi, Firenze, in 8°, pp. XXVIII‑180. Ambedue sebbene partendo da punti di vista diversi, giungono a dimostrazioni simili: che il Gioberti, cioè, non è per nulla lo Hegel italiano, ma si mantiene nel campo dell’ortodossia cattolica e dell’ontologismo. E da tener conto dell’importanza che ha nel «gentilismo» l’interpretazione idealistica del Gioberti, che in fondo è un episodio di Kulturkampf o un tentativo di riforma cattolica. È da notare l’introduzione del Giuliano al libro del Rinaldi, perché pare che il Giuliano presenti alcuni dei problemi di cultura posti dal Concordato in Italia e cioè come, avvenuto l’accordo politico tra Stato e Chiesa, possa aversi un «accordo» tra trascendenza e immanenza nel campo del pensiero filosofico e della cultura.

Q7 §80 Passato e presente. La discussione su la forza e il consenso ha dimostrato come sia relativamente progredita in Italia la scienza politica e come nella sua trattazione, anche da parte di statisti responsabili, esista una certa franchezza di espressione. Questa discussione è la discussione della «filosofia dell’epoca», del motivo centrale della vita degli Stati nel periodo del dopoguerra. Come ricostruire l’apparato egemonico del gruppo dominante, apparato disgregatosi per le conseguenze della guerra in tutti gli Stati del mondo? Intanto perché si è disgregato? Forse perché si è sviluppata una forte volontà politica collettiva antagonistica? Se così fosse stato, la quistione sarebbe stata risolta a favore di tale antagonista. Si è disgregata invece per cause puramente meccaniche, di diverso genere: 1) perché grandi masse, precedentemente passive, sono entrate in movimento, ma in un movimento caotico e disordinato, senza direzione, cioè senza precisa volontà politica collettiva; 2) perché classi medie che nella guerra avevano avuto funzioni di comando e di responsabilità, ne sono state private con la pace, restando disoccupate, proprio dopo aver fatto un apprendissaggio di comando, ecc.; 3) perché le forze antagonistiche sono risultate incapaci a organizzare a loro profitto questo disordine di fatto. Il problema era di ricostruire l’apparato egemonico di questi elementi prima passivi e apolitici, e questo non poteva avvenire senza la forza: ma questa forza non poteva essere quella «legale», ecc. Poiché in ogni Stato il complesso dei rapporti sociali era diverso, diversi dovevano essere i metodi politici di impiego della forza e la combinazione delle forze legali e illegali. Quanto più grande è la massa di apolitici, tanto più grande deve essere l’apporto delle forze illegali. Quanto più grandi sono le forze politicamente organizzate e educate, tanto più occorre «coprire» lo Stato legale, ecc.

Q7 §81 Riviste‑tipo. Collaborazione straniera. Non si può fare a meno di collaboratori stranieri, ma anche la collaborazione straniera deve essere organica e non antologica e sporadica o casuale. Perché sia organica è necessario che i collaboratori stranieri, oltre a conoscere le correnti culturali del loro paese siano capaci di «confrontarle» con quelle del paese in cui la rivista è pubblicata, cioè conoscano le correnti culturali anche di questo e ne comprendano il «linguaggio» nazionale. La rivista pertanto (ossia il direttore della rivista) deve formare anche i suoi collaboratori stranieri per raggiungere l’organicità.

Nel Risorgimento ciò avvenne molto di rado e perciò la cultura italiana continuò a rimanere alquanto provinciale. Del resto una organicità di collaborazione internazionale si ebbe forse solo in Francia, perché la cultura francese, già prima dell’epoca liberale, aveva esercitato un’egemonia europea; erano quindi relativamente numerosi gli intellettuali tedeschi, inglesi, ecc. che sapevano informare sulla cultura dei loro paesi impiegando un «linguaggio» francese. Infatti non bastava che l’«Antologia» del Vieusseux pubblicasse articoli di «liberali» francesi o tedeschi o inglesi perché tali articoli potessero informare utilmente i liberali italiani, perché tali informazioni cioè potessero suscitare o rafforzare correnti ideologiche italiane: il pensiero rimaneva generico, astratto, cosmopolita. Sarebbe stato necessario suscitare collaboratori specializzati nella conoscenza dell’Italia, delle sue correnti intellettuali, dei suoi problemi, cioè collaboratori capaci di informare nello stesso tempo la Francia sull’Italia.

Tale tipo di collaboratore non esiste «spontaneamente», deve essere suscitato e coltivato. A questo modo razionale di intendere la collaborazione si oppone la superstizione di avere tra i propri collaboratori esteri i capiscuola, i grandi teorici, ecc. Non si nega l’utilità (specialmente commerciale) di avere grandi firme. Ma dal punto di vista pratico di promuovere la cultura, è più importante il tipo di collaboratore affiatato con la rivista, che sa tradurre un mondo culturale nel linguaggio di un altro mondo culturale, perché sa trovare le somiglianze anche dove esse pare non esistano e sa trovare le differenze anche dove pare ci siano solo somiglianze ecc.

Q7 §82 I nipotini di padre Bresciani. Enrico Corradini. Saranno da vedere i giornali contenenti la sua commemorazione (il Corradini è morto il 10 dicembre 1931). Del Corradini è da vedere la sua teoria della «nazione proletaria» in lotta con le nazioni plutocratiche e capitaliste, teoria che servì di ponte ai sindacalisti per passare al nazionalismo prima della guerra libica e dopo. La teoria connessa col fatto dell’emigrazione di grandi masse di contadini in America e quindi con la quistione meridionale. I romanzi e i drammi del Corradini sotto rubrica del Brescianesimo.

Q7 §83 Nozioni enciclopediche. L’opinione pubblica. Ciò che si chiama «opinione pubblica» è strettamente connesso con l’egemonia politica, è cioè il punto di contatto tra la «società civile» e la «società politica», tra il consenso e la forza. Lo Stato quando vuole iniziare un’azione poco popolare crea preventivamente l’opinione pubblica adeguata, cioè organizza e centralizza certi elementi della società civile. Storia dell’«opinione pubblica»: naturalmente elementi di opinione pubblica sono sempre esistiti, anche nelle satrapie asiatiche; ma l’opinione pubblica come oggi si intende è nata alla vigilia della caduta degli Stati assoluti, cioè nel periodo di lotta della nuova classe borghese per l’egemonia politica e per la conquista del potere.

L’opinione pubblica è il contenuto politico della volontà politica pubblica che potrebbe essere discorde: perciò esiste la lotta per il monopolio degli organi dell’opinione pubblica: giornali, partiti, parlamento, in modo che una sola forza modelli l’opinione e quindi la volontà politica nazionale, disponendo i discordi in un pulviscolo individuale e disorganico.

Q7 §84 Nozioni enciclopediche. Mistica. Il termine «mistica» italiano non coincide col francese «mystique», pure anche in italiano si è incominciato a diffondere col significato francese, ma in modo strano, cioè il significato francese che è evidentemente critico e peggiorativo, si sta accettando con significato «positivo» senza senso deteriore. La «mistica» non può essere staccata dal fenomeno dell’«estasi», cioè di uno stato nervoso particolare nel quale il soggetto «sente» di entrare direttamente in contatto con dio, con l’universale, senza bisogno di mediatori (perciò i cattolici sono diffidenti verso il misticismo, che deprezza la chiesa‑intermediaria). Si intende perché i francesi abbiano introdotto il termine «mistica», nel linguaggio politico: vogliono significare uno stato d’animo di esaltazione politica non razionale o non ragionata, un fanatismo permanente incoercibile alle dimostrazioni corrosive, che poi non è altro che la «passione» di cui parla Croce o il «mito» di Sorel giudicato da cervelli cartesianamente logicistici: si parla pertanto di una mistica democratica, parlamentare, repubblicana, ecc. Positivamente si parla di mistica (come nella «Scuola di mistica fascista» di Milano) per non usare i termini di religiosità o addirittura di «religione». Nella prolusione di Arnaldo Mussolini per il terzo anno della Scuola di mistica fascista (Coscienza e dovere, pubblicata nel settimanale «Gente Nostra» del 13 dicembre 1931) si dice, fra l’altro. «Si è detto che la vostra scuola di mistica fascista non ha il titolo appropriato. Mistica è una parola che si addice a qualche cosa di divino, e quando viene portata fuori dal campo rigidamente religioso si adatta a troppe ideologie inquiete, vaghe, indeterminate. Diffidate delle parole e sopra tutto delle parole che possono avere parecchi significati. Certo che qualcuno può rispondermi che con la parola “mistica” si è voluto porre in evidenza i rapporti necessari fra il divino e lo spirito umano che ne è la sua derivazione. Accetto questa tesi senza indugiarmi in una questione di parole. In fondo non sono queste che contano: è lo spirito che vale. E lo spirito che vi anima è in giusta relazione al correre del tempo che non conosce dighe, né ha dei limiti critici; mistica è un richiamo a una tradizione ideale che rivive trasformata e ricreata nel vostro programma di giovani fascisti rinnovatori». Al significato di mistica francese si avvicina quello di «religione» come è impiegata dal Croce nella Storia d’Europa.

Q7 §85 Nozioni enciclopediche. Dottrinarismo e dottrinario. Significherebbe poi «nemico dei compromessi», «fedele ai principii». Parola presa dal linguaggio politico francese. Partito di dottrinari sotto Carlo X e Luigi Filippo: Royer‑Collard, Guizot, ecc.

Q7 §86 Nozioni enciclopediche. Bibliografie. Nella bibliografia di un Dizionario politico e critico occorre tener conto: 1) dei dizionari e delle enciclopedie generali, in quanto esse danno le spiegazioni più comuni e volgari della terminologia delle scienze morali e politiche; 2) delle enciclopedie speciali, cioè delle enciclopedie pubblicate dalle varie correnti intellettuali e politiche, come i cattolici, ecc.; 3) dei dizionari politici, filosofici, economici, ecc., esistenti nei diversi paesi; 4) dei dizionari etimologici generali e speciali, per esempio quello per i termini derivati dal greco del Guarnerio, pubblicato dal Vallardi (mi pare).

Siccome la terminologia acquista diversi contenuti secondo i tempi e secondo le diverse correnti culturali, intellettuali e politiche, la bibliografia generale teoricamente è indefinibile, perché abbraccia tutta la letteratura generale. Si tratta di limiti da porre: un dizionario politico e critico limitato per un certo livello culturale e di carattere elementare, che dovrebbe presentarsi come un saggio parziale.

Tra i libri generali ricordare di Mario Govi, Fondazione della Metodologia. Logica ed Epistemologia, Bocca, Torino 1929, pp. 579, per le nozioni storiche sulla classificazione delle scienze e altri problemi di metodo ecc.

Q7 §87 Nozioni enciclopediche. Agnosticismo. Questo termine è spesso usato nel linguaggio politico con significati spesso curiosi e sorprendenti: ciò avviene specialmente nelle polemiche «provinciali» in cui lo scrittore fa sfoggio di parole difficili. Si dice per esempio che Tizio è agnostico in proposito, quando Tizio non vuole discutere perché non prende sul serio un determinato argomento, ecc.

Il termine è d’origine religiosa e si riferisce al teòs agnostos (deus ignotus; ignoramus, ignorabimus, su dio, ecc.). Setta degli agnostici, ecc. Agnosticismo uguale pertanto a empirismo e materialismo (nominalismo, ecc.) ecc.; impossibilità di conoscere l’assoluto, gli universali, ecc., in quanto legati alla metafisica religiosa, ecc.

Q7 §88 Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. Roberto Bellarmino. Pio XI il 13 maggio 1923 dette al Bellarmino il titolo di beato, più tardi (nel 50° anniversario del suo sacerdozio, quindi in una data specialmente segnalata) lo inscrisse nell’albo dei Santi, insieme coi gesuiti missionari morti nell’America settentrionale; nel settembre 1931 infine lo dichiarò Dottore della Chiesa Universale. Queste particolari attenzioni alla massima autorità gesuitica dopo Ignazio di Loyola, permettono di dire che Pio XI, il quale è stato chiamato il papa delle Missioni e il papa dell’Azione Cattolica, deve specialmente essere chiamato il papa dei gesuiti (le Missioni e l’Azione Cattolica, del resto, sono le due pupille degli occhi della Compagnia di Gesù). È da osservare che nella lettera apostolica tradotta con cui il Bellarmino è dichiarato Dottore (vedi «Civiltà Cattolica» del 7 novembre 1931) parlandosi della Compagnia in generale, il Bellarmino è chiamato «vero compagno di Gesù»: perché «compagno» e non «soldato», come dovrebbe esattamente dirsi? Il nome «Compagnia» è solo la traduzione di «Societas» o non ha il significato militare? La parola latina «Societas» non può avere significato militare (almeno mi pare) ma quale fu l’intenzione di Ignazio di Loyola? (Ricordare la connessione del Bellarmino con il processo di Galileo).

Nell’articolo di commento della «Civiltà Cattolica» alla Lettera apostolica si accenna al fatto che la «causa» (di beatificazione e di santificazione) del Bellarmino era stata arrestata dalle «mene e (dalle) minacce (!) di quegli sconsigliati politici e avversari del Pontificato, amici altri dell’assolutismo regio (“gli integrali”), altri del sovversivismo demagogico (“i modernisti”)»; accenna la «Civiltà Cattolica» a fatti del 700, ma parla poi dei «loro infelici successori e imitatori odierni». (Pare che la beatificazione del Bellarmino nel 700 sia stato uno degli elementi della lotta che portò alla soppressione della Compagnia per imposizione dei Borboni).

I gesuiti oggi vedono nella santificazione e nel «dottorato» una rivincita (sebbene l’ultimo atto papale coincida con la soppressione dei gesuiti in Ispagna), ma sono cauti: «Nessuno certo vuole esagerare oltre misura questo avvenimento, o troppo allargarne l’importanza, il significato, l’opportunità o “attualità” rispetto all’ora presente, e tanto più rispetto all’insolita bufera che doveva essere non solo impreveduta ma imprevedibile, quando fu deliberato prima e discusso poi, ecc., il decreto per la dichiarazione di Dottore».

Q7 §89 Passato e presente. La religione nella scuola. «Ecco perché nei nuovi programmi per le scuole, secondo la riforma gentiliana, l’arte e la religione sono assegnate alla sola scuola elementare, e la filosofia è largamente attribuita alle scuole secondarie. Nell’intenzione filosofica dei programmi elementari, le parole “l’insegnamento della religione è considerato come fondamento e coronamento di tutta l’istruzione primaria” significano appunto che la religione è una categoria necessaria, ma inferiore, attraverso la quale deve passare l’educazione, giacché, secondo la concezione dell’Hegel, la religione è una filosofia mitologica e inferiore, corrispondente alla mentalità infantile ancora incapace di levarsi alla filosofia pura, nella quale poi la religione deve essere risoluta e assorbita. Notiamo subito che, nel fatto, questa teoria idealistica non è riuscita ad inquinare l’insegnamento religioso nella scuola elementare facendovelo trattare come mitologico, sia perché i maestri o non si intendono o non si curano di tali teorie, sia perché l’insegnamento religioso cattolico è intrinsecamente storico e dogmatico, ed è esternamente vigilato e diretto dalla Chiesa nei programmi, testi, insegnamenti. Inoltre, le parole “fondamento e coronamento” sono state accettate dalla Chiesa nel loro significato ovvio e ripetute nel concordato tra la Santa Sede e l’Italia, secondo il quale (art. 36) l’insegnamento religioso è esteso alle scuole medie. Questo estendimento è venuto a contrariare le mire dell’idealismo, il quale pretendeva di escludere la religione dalle scuole medie e lasciarvi dominare solo la filosofia, destinata a superare e assorbire in sé la religione appresa nelle scuole elementari». «Civiltà Cattolica», 7 novembre 1931 (Il buono ed il cattivo nella pedagogia nuova, anonimo, ma del padre Mario Barbera).

Q7 §90 Passato e presente. Stato e partiti. La funzione egemonica o di direzione politica dei partiti può essere valutata dallo svolgersi della vita interna dei partiti stessi. Se lo Stato rappresenta la forza coercitiva e punitiva di regolamentazione giuridica di un paese, i partiti, rappresentando lo spontaneo aderire di una élite a tale regolamentazione, considerata come tipo di convivenza collettiva a cui tutta la massa deve essere educata, devono mostrare nella loro vita particolare interna di aver assimilato come principii di condotta morale quelle regole che nello Stato sono obbligazioni legali. Nei partiti la necessità è già diventata libertà, e da ciò nasce il grandissimo valore politico (cioè di direzione politica) della disciplina interna di un partito, e quindi il valore di criterio di tal disciplina per valutare la forza di espansività dei diversi partiti. Da questo punto di vista i partiti possono essere considerati come scuole della vita statale. Elementi di vita dei partiti: carattere (resistenza agli impulsi delle culture oltrepassate), onore (volontà intrepida nel sostenere il nuovo tipo di cultura e di vita), dignità (coscienza di operare per un fine superiore), ecc.

Q7 §91 Passato e presente. Tendenze nell’organizzazione esterna dei fattori umani produttivi nel dopoguerra. Mi pare che tutto l’insieme di queste tendenze debba far pensare al movimento cattolico economico della Controriforma, che ebbe la sua espressione pratica nello Stato gesuitico del Paraguay. Tutte le tendenze organiche del moderno capitalismo di Stato dovrebbero essere ricondotte a quella esperienza gesuitica. Nel dopoguerra c’è stato un movimento intellettualistico e razionalistico che corrisponde al fiorire delle utopie nella Controriforma: quel movimento è legato al vecchio protezionismo, ma se ne differenzia e lo supera, sboccando in tanti tentativi di economie «organiche» e di Stati organici. Si potrebbe applicare ad essi il giudizio del Croce sullo Stato del Paraguay: che si tratti, cioè, di un modo per un savio sfruttamento capitalistico nelle nuove condizioni che rendono impossibile (almeno in tutta la sua esplicazione ed estensione) la politica economica liberale.

Q7 §92 Risorgimento. L’Italia meridionale. Studiare le origini e le cause della convinzione che esiste nel Mazzini che l’insurrezione nazionale dovesse cominciare o fosse più facile da fare incominciare nell’Italia meridionale (fratelli Bandiera, Pisacane). Pare che tale convincimento fosse pure nel Pisacane che pure, come scrive Mazzini (Opere, vol. LVIII, Epist., XXXIV, 1931) aveva un «concetto strategico della Guerra d’Insurrezione». Si trattò di un desiderio (contrapporre l’iniziativa popolare meridionale a quella monarchica piemontese?) diventato convinzione o aveva delle origini razionali e positive? E quali potevano essere?

Riallacciare questa convinzione a quella di Bakònin e dei primi internazionalisti, già prima del 70: ma in Bakònin rispondeva a una concezione politica dell’efficienza sovvertitrice di certe classi sociali. Questo concetto strategico della guerra d’insurrezione nazionale del Pisacane dove occorre ricercarlo? Nei suoi saggi politico‑militari, in tutti gli scritti che ci rimangono di lui e in più: negli scritti di Mazzini (in tutti gli scritti, ma specialmente nell’Epistolario; si potrebbe scrivere un saggio su Pisacane e Mazzini) e nei vari atteggiamenti pratici del Pisacane. Uno dei momenti più importanti mi pare debba essere l’avversione di Pisacane a Garibaldi durante la Repubblica Romana. Perché tale avversione? Era Pisacane avverso in linea di principio alla dittatura militare? Oppure l’avversione era di carattere politico‑ideologico, cioè era contro il fatto che tale dittatura sarebbe stata meramente militare, con un vago contenuto nazionale, mentre Pisacane voleva alla guerra d’insurrezione dare oltre al contenuto nazionale anzi e specialmente un contenuto sociale? In ogni caso l’opposizione di Pisacane fu un errore nel caso specifico, perché non si trattava di una dittatura vaga e indeterminata ma di una dittatura in regime di Repubblica già instaurata, con un governo mazziniano in funzione (sarebbe stato un governo di salute pubblica, di carattere più strettamente militare, ma forse appunto i pregiudizi ideologici di avversione alle esperienze della Rivoluzione francese ebbero gran parte nel determinare tale avversione).

Q7 §93 Nomenclatura politica. Privilegi e prerogative. Fissare i significati storici dei due termini. Mi pare che se in uno Stato moderno sarebbe assurdo parlare di privilegi a determinati gruppi sociali, non altrettanto assurdo è invece parlare di prerogative. D’altronde di prerogative non si può parlare che con riferimento ai corpi costituiti e con riferimento alle funzioni politiche, non come benefici nella vita economica: la prerogativa non può non essere «strettamente» legata alla funzione sociale e all’esplicazione di determinati doveri. Perciò è da vedere se i «privilegi» non sono che «prerogative» degenerate, cioè involucri senza contenuto sociale e funzionale, benefici mantenuti parassitariamente anche quando la funzione da cui erano giustificati era morta o si era spostata a un nuovo gruppo sociale che quindi aveva il gravame funzionale senza aver tutti i mezzi giuridico‑politici per esplicarlo regolarmente. È da mettere in rilievo che i concetti di privilegio e di prerogativa erano concetti giuridici originariamente, anzi sono stati il contenuto di tutta una epoca della storia degli Stati: essi sono diventati concetti morali reprobativi solo quando appunto non hanno corrisposto più a servizi sociali e statali necessari. «Prerogative della Corona» è la frase più comune in cui ricorre oggi il termine di «prerogativa». Se la teoria costituzionale che la funzione della Corona di impersonare la sovranità sia nel senso statale che in quello della direzione politico‑culturale (cioè di essere arbitra nelle lotte interne dei ceti dominanti, la classe egemone e i suoi alleati) sta passando ai grandi partiti di tipo «totalitario» è esatta, è evidente che a tali partiti passano le prerogative corrispondenti. Perciò è da studiare la funzione del Gran Consiglio, che tende a diventare un «Consiglio di Stato» nel vecchio senso (cioè con le vecchie attribuzioni), ma con funzioni ben più radicali e decisive.

Q7 §94 Laburismo inglese. L’arcivescovo di Canterbury, primate della Chiesa anglicana e il laburismo. Durante le elezioni inglesi del 1931 il candidato laburista W. T. Collyer affermò in una riunione che l’arcivescovo di Canterbury era uno dei sottoscrittori per il fondo del Labour Party. Fu domandato all’arcivescovo se l’affermazione era esatta e il suo segretario rispose: «L’Arcivescovo mi incarica di dire che egli è stato membro sottoscrittore del Labour Party dal 1919 al 1925 o 26, quando egli trovò che un crescente disagio col movimento e con lo spirito e l’umore del partito rendeva impossibile la continuazione di una tale affiliazione (membership)». (Cfr il «Manchester Guardian Weekly» del 30 ottobre 1931, p. 357).

Q7 §95 Nomenclatura politica. Reich, ecc. Cercare l’origine storica e ideologica esatta di questo termine che viene malamente tradotto con «impero». Così il «Commonwealth» delle nazioni britanniche non può essere tradotto con «repubblica» sebbene significhi anche «repubblica».

Q7 §96 Nomenclatura politica. Artigianato, piccola, media, grande industria. Concetti quantitativi e concetti qualitativi. Dal punto di vista quantitativo si parte dal numero dei lavoratori impiegati nelle singole aziende, stabilendo delle cifre medie per ogni tipo: da 1 a 5 artigianato, da 5 a 50 piccola industria, da 50 a 100 media industria, da 100 in su grande industria; si tratta di tipi o generalizzazioni molto relative e che possono mutare da paese a paese. Il concetto qualitativo sarebbe più scientifico ed esatto, ma è molto più complesso e presenta molte difficoltà. Qualitativamente i tipi dovrebbero essere fissati dalla combinazione di elementi svariati: oltre che dal numero degli operai, dal tipo delle macchine e dall’ingranamento tra macchina e macchina, dal grado di divisione del lavoro, dal rapporto tra diversi tipi di lavoratori (manovali, manovali specializzati o addetti macchina, operai qualificati, specializzati) e del grado di razionalizzazione (oltre che di industrializzazione) dell’insieme dell’apparato produttivo e amministrativo. Un’azienda razionalizzata ha meno lavoratori di un’azienda non razionalizzata, e quindi con 50 lavoratori può essere più «grande industria» di una con 200 lavoratori (ciò avviene quando certe aziende per certe parti della loro produzione si servono di un’azienda esterna che è come il reparto specializzato di tutto un gruppo di aziende non collegate organicamente, ecc.). Questi elementi singoli hanno diverso peso relativo a seconda della branca industriale: nell’industria edile il macchinismo non si svilupperà mai come nell’industria meccanica. Il tipo di macchina tessile si sviluppa in modo diverso da quello dell’industria meccanica, ecc.

A questo concetto di grandezza dell’industria è legato il concetto di «macchina». È anche legata la nozione di «fabbrica disseminata», che è un aspetto dell’artigianato, del lavoro a domicilio e della piccola industria. Ma anche una grande impresa edilizia non può, in un certo senso, considerarsi come una fabbrica disseminata? E quella tranviaria e ferroviaria? (Dal punto di vista dell’organizzazione territoriale ossia della concentrazione tecnica, queste imprese sono disseminate e ciò ha un’importanza per la psicologia dei lavoratori. Un casellante ferroviario non avrà mai la stessa psicologia del manovale di una grande fabbrica, ecc.).

Altro elemento importante è la forza motrice adoperata: un artigiano che si serve dell’energia elettrica è più un artigiano nel senso tradizionale? Il fatto moderno della facilità di distribuzione della forza motrice elettrica anche per piccole unità trasforma e rinnova tutti i tipi d’industria e di azienda.

Q7 §97 Nomenclatura politica. Ierocrazia‑teocrazia. «Un governo nel quale hanno partecipazione e ingerenza legale il clero, il papa o altre autorità ecclesiastiche» sarebbe più propriamente ierocratico; ma può anche esserci un governo «che opera per impulsi religiosi e subordina leggi, rapporti di vita civile, costumi e dettami religiosi» senza essere composto di ecclesiastici, ed è teocratico. In realtà elementi di teocrazia sussistono in tutti gli stati dove non esista netta e radicale separazione tra chiesa e Stato, ma il clero eserciti funzioni pubbliche di qualsiasi genere e l’insegnamento della religione sia obbligatorio o esistano concordati. (Rovesciamento della massima di Machiavelli: «regnum instrumentum religionis»).

Q7 §98 Azione cattolica. Cfr in altro quaderno l’annotazione di due studi pubblicati nella «Civiltà Cattolica» dell’agosto 1930 su Cesare D’Azeglio e gli albori della stampa cattolica in Italia e La fortuna del La Mennais e le prime manifestazioni di Azione Cattolica in Italia. Questi studi si riferiscono specialmente alla fioritura di periodici cattolici in varie città italiane durante la Restaurazione, che tendevano a combattere le idee dell’Enciclopedia e della Rivoluzione Francese che tuttavia perduravano, ecc. In questo movimento intellettuale‑politico si riassume l’inizio del neoguelfismo italiano, che non può quindi staccarsi dalla Società dei Sanfedisti (pars magna di queste riviste fu il principe di Canosa, che abitava a Modena, dove era pubblicata una delle più importanti riviste del gruppo). Nel cattolicismo italiano erano due tendenze principali: 1) quella nettamente austriacante, che vedeva la salvezza del Papato e della religione nel gendarme imperiale a guardia dello statu quo politico italiano; 2) quella Sanfedista in senso stretto che sosteneva la supremazia politico‑religiosa del Papa prima di tutto in Italia e quindi era avversaria subdola dell’egemonia austriaca in Italia e favorevole a un certo movimento di indipendenza nazionale (se in questo caso si può parlare di nazionale). È a questo movimento che si riferisce la «Civiltà Cattolica» quando polemizza coi liberali del Risorgimento e sostiene il «patriottismo e unitarismo» dei cattolici d’allora: ma quale fu l’atteggiamento dei gesuiti? Pare che essi fossero piuttosto austriacanti che sanfedisti «indipendentisti».

Si può dire perciò che questo periodo preparatorio dell’Azione Cattolica abbia avuto la sua massima espressione nel neoguelfismo, cioè in un movimento di totalitario ritorno alla posizione politica della Chiesa nel Medio Evo, alla supremazia papale, ecc. La catastrofe del neoguelfismo nel 48 riduce l’Azione Cattolica a quella che sarà ormai la sua funzione nel mondo moderno: funzione difensiva essenzialmente, nonostante le profezie apocalittiche dei cattolici sulla catastrofe del liberalismo e sul ritorno trionfale del dominio della Chiesa sulle macerie dello Stato liberale e del suo antagonista storico, il socialismo (quindi astensionismo clericale e creazione dell’esercito di riserva cattolico). In questo periodo della restaurazione il cattolicismo militante si atteggia diversamente secondo gli Stati: la posizione più interessante è quella dei sanfedisti piemontesi (De Maistre, ecc.) che sostengono l’egemonia piemontese e la funzione italiana della monarchia e della dinastia dei Savoia.

Q7 §99 Nomenclatura politica. Fazione. Il termine serve oggi a indicare generalmente una certa degenerazione dello spirito di partito, una certa unilateralità estremista fanatica, esclusiva, aliena da compromessi anche, anzi specialmente, su quistioni secondarie e subordinate; il punto di vista di tale giudizio è lo spirito nazionale, cioè un certo modo di concepire la direzione politica di un paese. «Fazione» e «fazioso» sono adoperati dai partiti di destra contro i loro avversari, i quali hanno risposto col termine di «consorteria», di «spirito di consorteria», ecc., per indicare la tendenza di certi aggruppamenti politici governativi a identificare i loro interessi particolari con quelli dello Stato e della Nazione, e a difenderli con altrettanto fanatismo ed esclusivismo.

La parola «fazione» che è d’origine militare (probabilmente) è diventata comune in Italia per indicare i partiti che si combattevano nei Comuni medioevali, ecc., ed è implicito nell’uso il concetto che tali lotte impedirono l’unificazione nazionale prima del Risorgimento, cioè tutta una concezione antistorica dello sviluppo nazionale italiano. «Fazione» indica il carattere delle lotte politiche medioevali, esclusiviste, tendenti a distruggere fisicamente l’avversario, non a creare un equilibrio di partiti in un tutto organico con l’egemonia del partito più forte, ecc. «Partito» è parte di un tutto; «fazione», forza armata che segue le leggi militari esclusiviste, ecc.

Q7 §100 Passato e presente. Ricordare la pubblicazione di B. Croce sui rapporti tra Maria Sofia e Malatesta (e la precedente pubblicazione nell’«Unità» di Firenze del 14 o del 15). In un articolo di Alberto Consiglio: Giro per l’Aspromonte, nel «Corriere della Sera» del 24 dicembre 1931, è detto: «L’impresa di Fabrizio Ruffo, che aveva radunato questi montanari e li aveva condotti a “mangiare il cuore” dei giacobini napoletani, aveva creato nel Reame una fama di lealismo borbonico che i calabresi dividevano equamente coi pescatori di Santa Lucia e coi lazzaroni dei borghi napoletani. Questo mito (!) produsse e alimentò molta parte del banditismo politico del primo decennio unitario, ed era ancor vivo, al principio del secolo, tra gli ultimi e sparuti borbonici. Infatti dicono che da Parigi, ove era in esilio, la Regina Maria Sofia inviò a Musolino un po’ di danaro perché il bandito tenesse desta nella Calabria la ribellione». (Un giornaletto borbonizzante uscì a Napoli fino al 1907 o 1908: Eugenio Guarino pubblicò nel «Viandante» di Monicelli un articolo per la sua scomparsa).

Q7 §101 Giornalismo. Corrispondenti dall’estero. Cfr altra nota in proposito nella rubrica Riviste‑tipo. In essa si accennava ai collaboratori stranieri di riviste italiane. Il tipo del «corrispondente dall’estero» di un quotidiano è qualcosa di diverso, tuttavia alcune osservazioni dell’altra nota sono valide anche per questa attività. Intanto non bisogna concepire il corrispondente dall’estero come un puro reporter o trasmettitore di notizie del giorno per telegramma o per telefono, cioè una integrazione delle agenzie telegrafiche. Il tipo moderno più compiuto di corrispondente dall’estero è il pubblicista di partito, il critico politico che osserva e commenta le correnti politiche più vitali di un paese straniero e tende a diventare uno «specialista» sulle quistioni di quel dato paese (i grandi giornali perciò hanno «uffici di corrispondenza» nei diversi paesi, e il capo ufficio è lo «scrittore politico», il direttore dell’ufficio). Il corrispondente dovrebbe mettersi in grado di scrivere, entro un tempo determinato, un libro sul paese dove è mandato per risiedervi permanentemente, un’opera completa su tutti gli aspetti vitali della sua vita nazionale ed internazionale. (Altro è il corrispondente viaggiante che va in un paese per informare su grandi avvenimenti immediati che vi si svolgono).

Criteri per la preparazione e la formazione di un corrispondente: 1) Giudicare gli avvenimenti nel quadro storico del paese stesso e non solo con riferimento al suo paese d’origine. Ciò significa che la posizione di un paese deve essere misurata dai progressi o regressi verificatisi in quel paese stesso e non può essere meccanicamente paragonata alla posizione di altri paesi nello stesso momento. Il paragone tra Stato e Stato ha importanza, perché misura la posizione relativa di ognuno di essi: infatti un paese può progredire, ma se in altri il progresso è stato maggiore o minore, la posizione relativa muta, e muta la influenza internazionale del paese dato. Se giudichiamo l’Inghilterra da ciò che essa era prima della guerra, e non da ciò che essa è oggi in confronto della Germania, il giudizio muta, sebbene anche il giudizio di paragone abbia grande importanza. 2) I partiti in ogni paese hanno un carattere nazionale, oltre che internazionale: il liberalismo inglese non è uguale a quello francese o a quello tedesco, sebbene ci sia molto di comune ecc. 3) Le giovani generazioni sono in lotta con le vecchie nella misura normale in cui i giovani sono in lotta coi vecchi, oppure i vecchi hanno un monopolio culturale divenuto artificiale o dannoso? I partiti rispondono ai problemi nuovi o sono superati e c’è crisi? ecc.

Ma l’errore più grande e più comune è quello di non saper uscire dal proprio guscio culturale e misurare l’estero con un metro che non gli è proprio: non vedere la differenza sotto le apparenze uguali e non vedere l’identità sotto le diverse apparenze.

Q7 §102 Passato e presente. Chiarezza del mandato e mandato imperativo. Nelle elezioni italiane nessuna chiarezza nel mandato, perché non esistevano partiti definiti intorno a programmi definiti. Il governo era sempre di coalizione, e di coalizione sul terreno strettamente parlamentare, quindi spesso tra partiti lontani uno dall’altro: conservatori con radicali, mentre i liberali democratici erano fuori del governo, ecc. Le elezioni erano fatte su quistioni molto generiche, perché i deputati rappresentavano posizioni personali e locali, non posizioni di partiti nazionali. Ogni elezione sembrava essere quella per una costituente, e nello stesso tempo sembrava essere quella per un club di cacciatori. Lo strano è che tutto ciò pareva essere il massimo della democrazia.

Q7 §103 Nozioni enciclopediche. Opinione pubblica. Tra gli elementi che recentemente hanno turbato il normale governo dell’opinione pubblica da parte dei partiti organizzati e definiti intorno a programmi definiti sono da porre in prima linea la stampa gialla e la radio (dove è molto diffusa). Essi danno la possibilità di suscitare estemporaneamente scoppi di panico o di entusiasmo fittizio che permettono il raggiungimento di scopi determinati nelle elezioni, per esempio. Tutto ciò è legato al carattere della sovranità popolare, che viene esercitata una volta ogni 3‑4‑5 anni: basta avere il predominio ideologico (o meglio emotivo) in quel giorno determinato per avere una maggioranza che dominerà per 3‑4‑5 anni, anche se, passata l’emozione, la massa elettorale si stacca dalla sua espressione legale (paese legale non eguale a paese reale). Organismi che possono impedire o limitare questo boom dell’opinione pubblica più che i partiti sono i sindacati professionali liberi e da ciò nasce la lotta contro i sindacati liberi e la tendenza a sottoporli a controllo statale: tuttavia la parte inorganizzabile dell’opinione pubblica (specialmente le donne, dove esiste il voto alle donne) è talmente grande da rendere sempre possibili i booms e i colpi di mano elettorali dove la stampa gialla è molto diffusa e molto diffusa la radio (in monopolio controllato dal governo). Uno dei problemi di tecnica politica che si presentano oggi, ma che le democrazie non riescono a trovare il modo di risolvere è appunto questo: di creare organismi intermedi tra le grandi masse, inorganizzabili professionalmente (o difficilmente organizzabili), i sindacati professionali, i partiti e le assemblee legislative. I consigli comunali e provinciali hanno avuto nel passato una funzione approssimativamente vicina a questa, ma attualmente essi hanno perduto di importanza. Gli Stati moderni tendono al massimo di accentramento, mentre si sviluppano, per reazione, le tendenze federative e localistiche, sì che lo Stato oscilla tra il dispotismo centrale e la completa disgregazione (fino alla Confederazione dei tre oppressi).

Q7 §104 Storia degli intellettuali. Lotta tra Stato e Chiesa. Diverso carattere che ha avuto questa lotta nei diversi periodi storici. Nella fase moderna, essa è lotta per l’egemonia nell’educazione popolare; almeno questo è il tratto più caratteristico, cui tutti gli altri sono subordinati. Quindi è lotta tra due categorie di intellettuali, lotta per subordinare il clero, come tipica categoria di intellettuali, alle direttive dello Stato, cioè della classe dominante (libertà dell’insegnamento ‑ organizzazioni giovanili ‑ organizzazioni femminili ‑ organizzazioni professionali).

Q7 §105 I nipotini di padre Bresciani. Ardengo Soffici. Filiazione del Lemmonio Boreo dal Jean‑Christophe di Romain Rolland. Perché il Lemmonio Boreo fu interrotto? Il piglio donchisciottesco del Lemmonio Boreo è esteriore e fattizio: in realtà esso manca di sostanza epico‑lirica: è una coroncina di fatterelli, non un organismo.

Potrebbe aversi in Italia un libro come il Jean‑Christophe? Jean‑Christophe, a pensarci bene, conclude tutto un periodo della letteratura popolare francese (dai Miserabili a Jean‑Christophe); il suo contenuto supera quello del periodo precedente: dalla democrazia al sindacalismo. Jean‑Christophe è il tentativo di un romanzo «sindacalista» ma fallito: il Rolland era tutt’altro che un antidemocratico, quantunque risentisse fortemente gli influssi morali e intellettuali della temperie sindacalista.

Dal punto di vista nazionale‑popolare quale era l’atteggiamento del Soffici? Una esteriorità donchisciottesca senza elementi ricostruttivi, una critica superficiale ed estetistica.

Q7 §106 Nozioni enciclopediche. Bibliografia. A London Bibliography of the Social Science. Comp. under the direction of B. M. Headicar and C. Fuller, with an introd. by S. Webb. È uscito il III volume, dalla P alla Z, in 8° gr., pp. XI‑1232. Sarà in 4 voll., Londra, School of Economics and Political Science.

Q7 §107 Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. In altra nota è citato il periodico «Fede e Ragione», come di carattere «integralista» (la «Civiltà Cattolica» lo cita appunto in una sua polemica cogli integralisti). «Fede e Ragione» è un settimanale cattolico che esce a Fiesole da circa 14 anni. È diretto dal sacerdote Paolo De Toth (almeno era diretto dal De Toth nel 1925) e l’abbonamento costava nel 1925 15 lire, ciò che significa che deve trattarsi di una semi-rivista.

Q7 §108 Risorgimento. Iniziative popolari. Cfr nella rivista «Irpinia» (di Avellino) del luglio 1931 (è riassunta nel «Marzocco» del 26 luglio 1931) la lettura di Nicola Valdimiro Testa sugli avvenimenti svoltisi nella provincia di Avellino negli anni 1848‑49. La narrazione pare molto interessante per intendere quali fossero i sentimenti popolari e quali correnti di passioni attraversassero le grandi masse, che però non avevano un indirizzo e un programma e si esaurivano in tumulti e atti brutali di violenza disordinata. Partecipazione di alcuni elementi del clero a queste passioni di massa, che spiegano l’atteggiamento di alcuni preti verso le così dette «bande di Benevento». Si verifica la solita confusione tra «comunismo» e «riforma agraria» che il Testa (da ciò che appare nel riassunto del «Marzocco») non sa criticamente presentare (come del resto non sanno fare la maggior parte dei ricercatori di archivio e degli storici). Sarebbe interessante raccogliere la bibliografia di tutte le pubblicazioni come queste per gli anni del Risorgimento.