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Library:Prison Notebooks In Original Italian/Notebook 5: Difference between revisions

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Latest revision as of 19:27, 13 November 2024

Written in 1930-32

      QUADERNO 5


Q5 §1 Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. «I cattolici integrali» ebbero una certa fortuna durante il papato di Pio X. Rappresentavano una tendenza europea del cattolicismo, ma naturalmente furono più diffusi in certi paesi (Italia, Francia, Belgio; nel Belgio, durante l’invasione, i tedeschi trovarono e pubblicarono una certa quantità di documenti degli «integrali» i quali avevano costituito una specie di società segreta, con cifre, fiduciari, pubblicazioni clandestine ecc.; a capo del movimento era monsignor Umberto Benigni e una parte dell’organizzazione era costituita dal «Sodalitium Pianum» – «Pianum» da Pio, che poi non era neanche Pio X, mi pare, ma un altro papa ancor più intransigente). Monsignor Benigni, i cui rapporti attuali con la Chiesa mi sono ignoti, ha scritto un’opera di ampiezza colossale, La Storia sociale della Chiesa, di cui sono usciti 4 volumi di oltre 600 pp. l’uno, in gran formato presso l’editore Hoepli. Gli integrali appoggiavano in Francia il movimento dell’Action Française, erano contro il Sillon e contro ogni modernismo politico dei cattolici, oltre che contro ogni modernismo religioso. Di fronte ai gesuiti prendevano un atteggiamento di carattere «giansenistico», cioè di grande rigore morale e religioso, contro ogni lassismo, opportunismo o centrismo. I gesuiti naturalmente li accusarono di giansenismo e, ancor di più, li accusarono di fare il gioco dei modernisti: 1°) per la loro lotta contro i gesuiti; 2°) perché allargavano talmente il concetto di modernismo e quindi ampliavano talmente il bersaglio, da permettere ai modernisti un campo di manovra comodissimo. Di fatto poi avveniva che nella loro comune lotta contro i gesuiti, integrali e modernisti si trovassero obbiettivamente nello stesso terreno e magari collaborassero effettivamente tra loro.

Cosa rimane oggi dei modernisti e degli integrali? È difficile identificare la loro forza oggettiva nella Chiesa ma certamente essi sono «fermenti» che continuano ad operare, in quanto rappresentano la lotta contro i gesuiti e il loro strapotere, lotta condotta da elementi di destra e da elementi di sinistra. A queste forze interne alla Chiesa conviene avere questi due centri «esterni», con pubblicazioni periodiche e edizioni di opuscoli e di libri; tra questi centri e quelle forze esistono collegamenti clandestini che diventano il canale delle ire, delle denunzie, dei pettegolezzi e tengono sempre viva la lotta contro i gesuiti. Ciò dimostra che la forza coesiva della Chiesa è minore di ciò che si pensa: specialmente la lotta contro il modernismo ha demoralizzato il giovine clero, che non esitava a prestare il giuramento anti-modernista, pur continuando ad essere modernista. (Ricordare gli ambienti torinesi dei preti e religiosi regolari – anche domenicani – prima della guerra).

Da un articolo di padre Rosa nella «Civiltà Cattolica» del 21 luglio 1928 (Risposta ad «Una polemica senza onestà e senza legge») tolgo alcune indicazioni:

Monsignor Benigni continua ad avere una notevole organizzazione: a Parigi Récalde ‑ Luc Verus ‑ Simon (Luc Verus è uno pseudonimo collettivo degli «integrali») pubblicano una collezione intitolata Vérités.

Il Rosa cita l’opuscolo Les découvertes du jésuite Rosa, successeur de Von Gerlach, Paris, Linotypie G. Dosne, 20 Rue Turgot, 1928, che attribuisce al Benigni almeno per il materiale. I gesuiti sono accusati di essere «amici dei massoni e dei giudei», sono chiamati «demagoghi e rivoluzionari» ecc.

A Roma il Benigni si serve dell’Agenzia Urbs o Romana e firma le sue pubblicazioni col nome di suo nipote Mataloni. Il bollettino romano del Benigni si intitolava «Veritas» (esce ancora?) Nel (28 stesso?) il Benigni ha pubblicato un opuscolo, Di fronte alla calunnia, di poche pagine, con documenti che concernono il Sodalizio Piano, opuscolo che è stato riprodotto in parte e difeso da due periodici cattolici, «Fede e Ragione» e la «Liguria del Popolo» (di Genova).

In passato il Benigni stampava una pubblicazione petiodica, «Miscellanea di storia ecclesiastica». Buonaiuti e i modernisti. L’opuscolo Una polemica senza onestà e senza legge contro il padre Rosa è del Buonaiuti. Il padre Rosa parla del recente libro di Buonaiuti Le Modernisme catholique pubblicato nella collezione «Le Christianisme» diretta da P. L. Couchoud presso «les editions Rieder» (è il n. 21 della collezione e costa 12 fr.): questo libro sarebbe interessante perché il Buonaiuti vi affermerebbe alcuni fatti che aveva sempre negato durante la polemica modernista. Il Buonaiuti fu autore della campagna modernistica del «Giornale d’Italia». Il Benigni organizzò il servizio stampa contro i modernisti al tempo dell’Enciclica Pascendi.

Nelle sue «Ricerche religiose» (luglio 1928, p. 335) il Buonaiuti racconta un episodio caratteristico. Nel 1909 il modernista prof. Antonino De Stefano (attualmente prete spretato e professore d’Università) doveva pubblicare a Ginevra una «Revue moderniste internationale»; Buonaiuti gli scrive una lettera. A poche settimane di distanza è chiamato al Santo Uffizio. L’assessore del tempo, il domenicano Pasqualigo, gli contestò parola per parola la lettera al De Stefano. La lettera era stata trafugata a Ginevra: un emissario romano si era «traforato» in casa De Stefano.

Naturalmente per Buonaiuti, Benigni è stato uno strumento e un complice dei gesuiti. (Buonaiuti però collaborò alla «Miscellanea» del Benigni nel 1904).

Su questo argomento, Cattolici inlegrali, gesuiti, modernisti, che rappresentano le tre principali sezioni del cattolicismo politico, cioè sono le forze che si contendono l’egemonia nella Chiesa romana, occorre raccogliere tutto il materiale possibile e costruire la bibliografia essenziale. (La collezione della «Civiltà Cattolica» dal 1900 in poi sarebbe da consultare). (Così la collezione delle «Ricerche religiose» di Buonaiuti e della «Miscellanea» del Benigni nonché la collezione di opuscoli d’occasione delle tre correnti).

Q5 §2 Rotary Club. Atteggiamento contrario, pur con alcune cautele, dei gesuiti della «Civiltà Cattolica». La Chiesa come tale non ha ancora preso un atteggiamento a proposito del Rotary Club. I gesuiti rimproverano al Rotary i suoi legami col protestantesimo e con la massoneria: vedono in esso uno strumento dell’americanismo, quindi di una mentalità anticattolica, per lo meno. Il Rotary però non vuole essere confessionale né massonico: nelle sue file possono entrare tutti, massoni, protestanti, cattolici – in qualche posto vi hanno aderito anche degli arcivescovi cattolici; il suo programma essenziale pare sia la diffusione di un nuovo spirito capitalistico, cioè l’idea che l’industria e il commercio, prima di essere un affare, sono un servizio sociale, anzi sono e possono essere un affare in quanto sono un «servizio». Il Rotary cioè vorrebbe che fosse superato il «capitalismo di rapina» e che si instaurasse un nuovo costume, più propizio allo sviluppo delle forze economiche. L’esigenza che il Rotary esprime si è manifestata in America in forma gravissima recentemente, mentre in Inghilterra era già stata superata, creando una certa media di «onestà» e «lealtà» negli affari. Perché proprio il Rotary Club si è diffuso fuori dell’America e non un’altra delle tante forme di associazione che vi pullulano e vi costituiscono un superamento delle vecchie forme religiose positive? La causa deve essere cercata in America stessa: forse perché il Rotary ha organizzato la campagna per l’Open Shop e quindi per la razionalizzazione.

Dall’articolo Rotary Club e Massoneria (nella «Civiltà Cattolica» del 21 luglio 1928) tolgo alcune informazioni:

Il Rotary, sorto come istituzione nazionale, nel 1910, si costituì in associazione internazionale con un versamento di capitale a fondo perduto, fatto in conformità con le leggi dello Stato di Illinois. Il presidente del Rotary internazionale è Mister Harr Rogers. Il presidente dei clubs italiani è Felice Seghezza. L’«Osservatore Romano» e la «Tribuna» si posero il problema se il Rotary sia un’emanazione massonica. Il Seghezza mandò una lettera («Tribuna», 16 febbraio 1928) protestando e dichiarando infondato ogni sospetto: la «Tribuna», postillando la lettera, scrisse tra l’altro: «Sono ... gli incerti di tutte le organizzazioni internazionali, le quali spesso hanno apparenze perfettamente innocue e legittime, ma possono anche assumere sostanze ben differenti. La sezione italiana del Rotary può sentirsi perfettamente libera di massoneria e in piena regola col Regime; ma questo non significa che il Rotary altrove non sia diverso. E se è, e altri lo afferma, noi non possiamo né dobbiamo ignorarlo».

Il «Codice morale rotariano». Nel Congresso generale tenuto nel 1928 a St. Louis fu deliberato questo principio: «Il Rotary è fondamentalmente una filosofia della vita che si studia di conciliare l’eterno conflitto esistente fra il desiderio del proprio guadagno e il dovere e il conseguente impulso di servire al prossimo. Questa filosofia è la filosofia del servizio: Dare di sé prima di pensare a sé, fondata sopra quel principio morale: Chi meglio serve guadagna di più». Lo stesso congresso deliberò che tutti i soci del Rotary devono accettare «senza giuramento segreto, senza dogma né fede, ma ognuno a modo suo, tale filosofia rotariana del servizio». La «Civiltà Cattolica» riporta questo brano del rotariano comm. Mercurio da «Il Rotary», pp. 97‑98, che dice citato, ma non lo è in questo numero (non so se il Mercurio sia italiano e «Il Rotary» una pubblicazione italiana, oltre alla «Realtà» diretta dal Bevione): «A questo modo si è fatto, per così dire, dell’onestà un interesse e si è creata quella nuova figura dell’uomo di affari il quale sappia associare in tutte le attività professionali, industriali, commerciali, all’interesse proprio l’interesse generale, che è in fondo il vero e grande fine di ogni operosità, perché ogni uomo nobilmente operoso anche inconsciamente serve sopra tutto l’utile generale».

Il carattere prevalente dato dal Rotary all’attività pratica appare da altre citazioni monche e allusive della «Civiltà Cattolica». Nel Programma del Rotary: «un Rotary club è un gruppo di rappresentanti di affari e di professionisti, i quali senza giuramenti segreti, né domma, né Credo... accettano la filosofia del servizio». Esce un «Annuario» italiano del Rotary, a Milano presso la Soc. An. Coop. «Il Rotary». È uscito almeno l’«Annuario» 1927‑28.

Filippo Tajani nel «Corriere della Sera» del 22 giugno 1928 ha scritto che il Rotary è fra «le istituzioni internazionali che tendono, sebbene per vie amichevoli, alla soluzione dei problemi economici e industriali comuni». Su 2639 clubs rotariani esistenti (al momento dell’articolo), 2088 erano negli Stati Uniti, 254 nell’Inghilterra, 85 nel Canadà, 18 in Italia, 13 in Francia, 1 in Germania, 13 In Ispagna, 10 in Isvizzera, 20 a Cuba, 15 nell’Australia, 19 nel Messico e molto meno in altri paesi. (Il Rotary Club non può essere confuso con la Massoneria tradizionale, specialmente con quella dei paesi latini. È un superamento organico della Massoneria e rappresenta interessi più concreti e precisi. Carattere fondamentale della Massoneria è la democrazia piccolo‑borghese, il laicismo, l’anticlericalismo ecc. Il Rotary è organizzazione di classi alte, e non si rivolge al popolo, altro che indirettamente. È un tipo di organizzazione essenzialmente moderna. Che ci siano interferenze tra la Massoneria e il Rotary è possibile e probabile, ma non è essenziale: il Rotary, sviluppandosi, cercherà di dominare tutte le altre organizzazioni e anche la Chiesa cattolica così come in America domina certamente tutte le Chiese protestanti. Certo la Chiesa cattolica non potrà vedere di buon grado «ufficialmente» il Rotary, ma pare difficile che assuma nei suoi riguardi un atteggiamento come quello contro la Massoneria: dovrebbe allora atteggiarsi contro il capitalismo ecc. Lo sviluppo del Rotary è interessante sotto molti aspetti: ideologici, pratici, organizzativi ecc. Bisognerà vedere però se la depressione economica americana e mondiale non darà un colpo al prestigio dell’americanismo e quindi al Rotary).

Q5 §3 Owen, Saint‑Simon e le scuole infantili di Ferrante Aporti. Da un articolo La questione delle scuole infantili e dell’abate Aporti secondo nuovi documenti («Civiltà Cattolica» del 4 agosto 1928) appare che i gesuiti e il Vaticano nel 1836 erano contrari all’apertura di asili infantili a Bologna del tipo sostenuto da F. Aporti perché tra i sostenitori c’era «un certo Dottor Rossi», «in fama di essere fautore del sansimonismo, allora molto rumoroso in Francia e assai temuto pure in Italia, forse anche più di quanto si meritava» (p. 221). L’arcivescovo di Bologna, richiamando l’attenzione della Santa Sede sulla propaganda e distribuzione di opuscoli che si faceva per gli asili infantili, scriveva: «in sé stessa l’opera potrebbe essere buona, ma che temeva assai per certe persone che sono a capo dell’impresa e per il grande impegno che mostrano... che l’autore di queste scuole è un certo Roberto Owen protestante, come v’era riferito nella “Guida dell’educatore” del prof. Lambruschini che stampasi a Firenze, nel n. 2 febbraio 1836, pag. 66» (p. 224).

Il consultore del Santo Uffizio, P. Cornelio Everboeck, gesuita, nel febbraio 1837 diede il suo parere sugli asili all’assessore del Santo Uffizio, Mons. Cattani: è uno studio di 48 grandi e fitte pagine, dove si comincia esaminando la dottrina e il metodo dei sansimoniani e conclude che il metodo delle nuove scuole è infetto, o almeno sospettosissimo, della dottrina e della massima di panteismo e sansimonismo, ne consiglia la condanna e propone un’Enciclica contro la setta e la dottrina dei sansimonisti (p. 227). Lo scrittore della «Civiltà Cattolica» riconosce che mentre la prima parte del parere, contro il sansimonismo in generale come dottrina, mostra «lo studio e l’erudizione del consultore», la seconda parte invece, che dovrebbe dimostrare l’infiltrazione del sansimonismo nella nuova forma di scuole, è molto più breve e più debole, «manifestamente inspirata e in parte sviata dalla notizia e dalla persuasione» degli informatori di Bologna che vi avevano visto e denunziato i metodi, lo spirito o il pericolo del sansimonismo francese. La Congregazione del Santo Uffizio non insistette sul pericolo del sansimonismo ma proibì gli opuscoli e le scuole con quel metodo. Quattro consultori ancora consigliarono l’Enciclica contro il sansimonismo.

Q5 §4 Sansimonismo, Massoneria, Rotary Club. Sarebbe interessante una ricerca su questi nessi ideologici: le dottrine dell’americanismo e il sansimonismo hanno molti punti di contatto, indubbiamente, mentre invece il sansimonismo mi pare abbia influito poco sulla massoneria, almeno per ciò che riguarda il nucleo più importante delle sue concezioni: poiché il positivismo è derivato dal sansimonismo e il positivismo è stato un momento dello spirito massonico, si troverebbe un contatto indiretto. Il Rotarismo sarebbe un sansimonismo di destra moderno.

Q5 §5 Azione sociale cattolica. Nella Relazione presentata da Albert Thomas alla Conferenza Internazionale del lavoro (l’undecima) del 1928, è contenuta una esposizione delle manifestazioni fatte dall’episcopato e da altre autorità cattoliche sulla quistione operaia. Deve essere interessante come breve sommario di storia di questa particolare attività cattolica. La «Civiltà Cattolica» (4 agosto 1928) nell’articolo La conferenza internazionale del lavoro (del Brucculeri) è entusiasta del Thomas.

Q5 §6 Passato e presente. Articoli del 1926 del conte Carlo Lovera di Castiglione nel «Corriere» di Torino; risposte fulminanti del «Corriere d’Italia» di Roma. È da notare che gli articoli del Lovera di Castiglione, pur essendo molto arditi, non erano tuttavia paragonabili al contenuto del libro Storia di un’idea, perché i cattolici non reagirono così energicamente contro il libro, mentre furono feroci col Lovera? Vedere la produzione letteraria del Lovera: collaboratore delle riviste del Gobetti e del «Davide» di Gorgerino: articoli nel «Corriere» di Torino. È un vecchio aristocratico, credo discendente di Solaro della Margarita. È interessante notare che è amico degli scrittori della «Civiltà Cattolica» e che ha messo a loro disposizione l’archivio del Solaro.

Q5 §7 Sul «pensiero sociale» dei cattolici mi pare si possa fare questa osservazione critica preliminare: che non si tratta di un programma politico obbligatorio per tutti i cattolici, al cui raggiungimento sono rivolte le forze organizzate che i cattolici posseggono, ma si tratta puramente e semplicemente di un «complesso di argomentazioni polemiche» positive e negative senza concretezza politica. Ciò sia detto senza entrare nelle quistioni di merito, cioè nell’esame del valore intrinseco delle misure di carattere economico‑sociale che i cattolici pongono alla base di tali argomentazioni.

In realtà la Chiesa non vuole compromettersi nella vita pratica economica e non si impegna a fondo, né per attuare i principi sociali che afferma e che non sono attuati, né per difendere, mantenere o restaurare quelle situazioni in cui una parte di quei principi era già attuata e che sono state distrutte. Per comprendere bene la posizione della Chiesa nella società moderna, occorre comprendere che essa è disposta a lottare solo per difendere le sue particolari libertà corporative (di Chiesa come Chiesa, organizzazione ecclesiastica), cioè i privilegi che proclama legati alla propria essenza divina: per questa difesa la Chiesa non esclude nessun mezzo, né l’insurrezione armata, né l’attentato individuale, né l’appello all’invasione straniera. Tutto il resto è trascurabile relativamente, a meno che non sia legato alle condizioni esistenziali proprie. Per «dispotismo» la Chiesa intende l’intervento dell’autorità statale laica nel limitare o sopprimere i suoi privilegi, non molto di più: essa riconosce qualsiasi potestà di fatto, e purché non tocchi i suoi privilegi, la legittima; se poi accresce i privilegi, la esalta e la proclama provvidenziale.

Date queste premesse, il «pensiero sociale» cattolico ha un puro valore accademico: occorre studiarlo e analizzarlo in quanto elemento ideologico oppiaceo, tendente a mantenere determinati stati d’animo di aspettazione passiva di tipo religioso, ma non come elemento di vita politica e storica direttamente attivo. Esso è certamente un elemento politico e storico, ma di un carattere assolutamente particolare: è un elemento di riserva, non di prima linea, e perciò può essere in ogni momento «dimenticato» praticamente e «taciuto», pur senza rinunziarvi completamente, perché potrebbe ripresentarsi l’occasione in cui sarà ripresentato. I cattolici sono molto furbi, ma mi pare che in questo caso siano troppo furbi.

Sul «pensiero sociale» cattolico è da tener presente il libro del padre gesuita Albert Muller, professore alla scuola superiore commerciale di S. Ignazio in Anversa – s d’économie politique, Première Série, «Èditions Spes», Parigi, 1927, pp. 428, Fr. 8 – di cui vedi la recensione nella «Civiltà Cattolica» del 1° settembre 1928, Pensiero e attività sociali (di A. Brucculeri); il Muller mi pare esponga il punto di vista più radicale cui possono giungere i gesuiti in questa materia (salario famigliare, compartecipazione, controllo, co‑gestione, ecc.).

Q5 §8 L’America e il Mediterraneo. Libro del professor G. Frisella Vella, Il tragico fra l’America e l’Oriente attraverso il Mediterraneo, Sandron, Palermo, 1928, pp. XV‑215, L. 15. Il punto di partenza del Frisella Vella è quello «siciliano». Poiché l’Asia è il terreno più acconcio per l’espansione economica americana e l’America comunica con l’Asia attraverso il Pacifico e attraverso il Mediterraneo, l’Europa non deve opporre resistenze a che il Mediterraneo diventi una grande arteria del commercio America‑Asia. La Sicilia ritrarrebbe grandi benefici da questo traffico, diventando intermediaria del commercio americano‑ asiatico ecc. Il Frisella Vella è persuaso della fatale egemonia mondiale dell’America ecc.

Q5 §9 Lucien Romier e l’Azione Cattolica francese. Il Romier è stato relatore alla Settimana sociale di Nancy del 1927: vi ha parlato della «deproletarizzazione delle moltitudini», argomento che solo indirettamente toccava l’argomento trattato dalla Settimana sociale, che era dedicata alla «Donna nella Società». Così il padre Danset vi parlò della Razionalizzazione sotto il rispetto sociale e morale.

Ma il Romier è elemento attivo dell’Azione Cattolica francese, o solo incidentalmente ha partecipato a questa riunione?

La Settimana sociale di Nancy del 1927 è molto importante per la storia della dottrina politico‑sociale dell’Azione Cattolica. Le sue conclusioni, favorevoli alla più larga partecipazione femminile alla vita politica, sono state approvate dal Card. Gasparri a nome di Pio XI. Il resoconto ne è stato pubblicato nel 1928 Semaines sociales de France, La femme dans la société, Parigi, Gabalda, pp. 564 in 8°. È indispensabile per lo studio della vita politica francese.

Q5 §10 L’Azione Cattolica nel Belgio. Cfr l’opuscolo del gesuita E. de Moreau, Le Catholicisme en Belgique, Ed. La pensée catholique, Liegi, (1928). Qualche cifra: l’Association catholique de la jeunesse belge raccolse nel congresso di Liegi 60 000 giovani (per i giovani di lingua francese). È divisa in sezioni: (operai, studenti medi, studenti universitari, agricoltori ecc.). La Jeunesse Ouvrière Chrétienne ha 18 000 soci divisi in 374 sezioni locali e 16 federazioni regionali. La Confédération des syndicats ouvrièrs chrétiens de Belgique ha 110 000 membri. Les ligues féminines ouvrières hanno 70 000 socie. L’Alliance nationale des fédérations mutualistes chrétiennes de Belgique ha 250 000 membri e con le famiglie loro serve a 650 000 persone. La Coopérative Belge Bien‑Être ha 300 magazzini cooperativi. La Banque centrale ouvrière, ecc. Il Boerenbond (lega di contadini fiamminghi) ha 1175 gilde con 112 686 membri, tutti capi famiglia (nel 1926). Movimento femminile a parte ecc.

Q5 §11 Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. «Fede e ragione» pare sia oggi la rivista più importante dei cattolici integrali. Vedere dove esce, da chi è diretta e quali ne sono i principali collaboratori. Vedere in quali punti si pone in contrasto coi gesuiti: se in punti riguardanti la fede, la morale e anche la politica. C’è qualche ordine religioso che nel complesso ha la posizione «integrale»? oppure che simpatizza in modo particolare ecc? (Vedere i domenicani o i francescani).

Q5 §12 Il Risorgimento. Solaro della Margarita. Il Memorandum del Solaro della Margarita va integrato con l’articolo Visita del Solaro della Margarita a Pio IX nel 1846 con documenti inediti (tratti dagli Archivi Vaticani e dall’Archivio Solaro) nella «Civiltà Cattolica» del 15 settembre 1928. La conoscenza della personalità politica di Solaro della Margarita è indispensabile per ricostruire il «nodo storico 48‑49». Bisogna porre bene la quistione: Solaro della Margarita era un reazionario piemontese, fortemente legato alla dinastia: l’accusa di «austriacante» è puramente arbitraria, nel senso volgare della parola. Solaro avrebbe voluto l’egemonia piemontese in Italia e la cacciata degli Austriaci dall’Italia, ma solo con mezzi diplomatici normali, senza guerra e specialmente senza rivoluzione popolare. Contro i liberali voleva l’alleanza con l’Austria, si capisce. L’articolo della «Civiltà Cattolica» serve anche per giudicare la politica di Pio IX fino al 48. In questo articolo c’è qualche indicazione bibliografica sul Solaro.

(Bisogna ricordare il fatto che il governo piemontese dette armi ai cattolici del Sonderbund insorto, svuotando i magazzini militari, nonostante che si preparasse il 48. Solaro voleva che il Piemonte estendesse la sua influenza in Isvizzera, cioè voleva spostare l’asse della politica italiana).

Q5 §13 Azione Cattolica. La dottrina sociale cattolica nei documenti di papa Leone XIII, Roma, Via della Scrofa 70, 1928, in 16°, pp. 348, L. 7,50.

Q5 §14 Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. L’articolo L’equilibrio della verità fra gli estremi dell’errore nella «Civiltà Cattolica» del 3 novembre 1928 prende lo spunto dalla pubblicazione di Nicolas Fontaine: Saint‑Siège, «Action Française», et «Catholiques intégraux», Parigi, Gamber, 1928, di cui in nota dà questo giudizio: «L’autore è dominato da pregiudizi politici e liberali, massime quando vede la politica nella condanna dell’Action Française; ma i fatti e i documenti, da lui allegati, sul famoso “Sodalizio”, non furono smentiti». Ora il Fontaine (a quanto mi pare di ricordare) non ha pubblicato nulla di completamente inedito: perché dunque i gesuiti non si sono serviti prima di questi documenti? La quistione è importante e mi pare possa essere risolta così: l’azione pontificia contro l’Action Française è l’aspetto appariscente di un’azione più vasta per liquidare una serie di conseguenze della politica di Pio X, cioè Pio XI vuole togliere ogni importanza ai «cattolici integrali», senza però attaccarli di fronte: la lotta contro il modernismo aveva squilibrato troppo a destra il cattolicismo, occorre nuovamente «incentrarlo» nei gesuiti, cioè dargli una forma politica duttile, senza irrigidimenti dottrinali, una grande libertà di manovra ecc. Pio XI è veramente il papa dei gesuiti.

Ma lottare contro i «cattolici integrali» è molto più difficile che lottare contro i modernisti. La lotta contro l’Action Française offre un terreno ottimo: i cattolici integrali sono combattuti non per sé, ma in quanto sostenitori di Maurras, cioè sono prese di mira le singole persone in quanto disubbidiscono al papa, non il complesso del movimento che ufficialmente è ignorato o quasi. Ecco l’importanza capitale del libro del Fontaine: ma come il Fontaine ha pensato di unire Maurras agli «integrali»? È una sua «intuizione» o gli fu suggerito dagli stessi gesuiti? (Studiare bene il libro del Fontaine da questo punto di vista – e vedere se il Fontaine è uno specialista di studi politico‑cattolici).

Questo articolo della «Civiltà Cattolica», scritto indubbiamente dal padre Rosa, è molto cauto nell’uso dei documenti del Fontaine: evita di analizzare quelli che non solo screditano gli «integrali», ma gettano un’ombra di comicità e di discredito su tutta la chiesa. (Gli «integrali» avevano organizzato una vera «cospirazione» a colori romanzeschi).

Dall’articolo della «Civiltà Cattolica» traggo qualche spunto. Si accenna che anche in Italia Maurras ha trovato difensori tra i cattolici: si parla di «imitatori o fautori, palesi od occulti, ma del pari aberranti dalla pienezza della fede e della morale cattolica, o nella teoria o nella pratica, pure gridando e anche illudendosi di volerle difendere integralmente e meglio di qualsiasi altro». L’Action Française «avventò contro chi scrive queste righe, un cumulo di vilipendii e di calunnie incredibili (?), fino a quelle insinuate ripetutamente di assassinii ed esecuzioni spietate di confratelli!». (Vedere quando queste accuse furono fatte al padre Rosa: tra i gesuiti c’era l’ala integralista e favorevole al Maurras: vedi il caso del cardinale Billot, gesuita, che si dimise – mi pare – dalla sua carica, dimissioni rarissime nella storia della Chiesa e che dimostrano da una parte l’ostinata pervicacia del Billot e la volontà intransigente del papa di superare ogni ostacolo nella lotta contro Maurras).

L’Abate Boulin, direttore della «Revue internationale des sociétés secrètes», «integrale», collegato a Benigni‑Mataloni; il Boulin si serve di pseudonimi (Roger Duguet); accanito antigesuita. L’Action Française e gli «integrali» si attaccano disperatamente a Pio X e pretendono di restare fedeli ai suoi insegnamenti. (Gli «integrali» vogliono rimettere in onore il Sillabo di Pio IX: nella proposta dell’Action Française di avere un ecclesiastico per la cattedra del Sillabo nelle sue scuole, era contenuta un’abile provocazione).

Questo articolo della «Civiltà Cattolica» è veramente importante e bisognerà rivederlo, in caso di stesura di studio su questo argomento. Bisognerà vedere tutte le sfumature dei «distinguo» a proposito della massoneria, dell’antisemitismo, del nazionalismo, della democrazia, ecc. Anche per i modernisti si distingue tra illusi, ecc., e si prende posizione contro l’antimodernismo del Benigni, ecc.: «Tanto più che era da temere, e non mancammo di farlo notare fino da quegli anni a chi di dovere, che siffatti metodi avrebbero fatto il gioco dei modernisti veri, preparando in futuro gravi danni alla Chiesa. Il che si vide poi, ed anche al presente si vede, nello spirito cattivo di reazione, non del vecchio modernismo solamente e del liberalismo, ma del nuovo altresì, e dell’integralismo stesso. Questo mostrava allora di volersi opporre ad ogni forma o parvenza di modernismo, anzi presumeva essere, come suol dirsi, più papale del Papa, ed invece ora con grave scandalo o gli resiste ipocritamente, o apertamente lo combatte, come avviene tra i fautori rumorosi dell’Action Française in Francia e i silenziosi loro complici in Italia».

Gli integrali chiamano i gesuiti «modernizzanti» e «modernizzantismo» la loro tendenza. Divisero i cattolici in «integrali» e «non integrali», cioè «papali» ed «episcopali». (Pare che l’enciclica di Benedetto XV Ad beatissimi notasse, biasimandola, questa tendenza a introdurre tali distinzioni tra i cattolici, che ledevano la carità e l’unità dei fedeli. Vedere la «Civiltà Cattolica» che stampò questa enciclica).

La «Sapinière», associazione segreta, presentata al pubblico col nome di «Sodalizio Piano», organizzò la lotta contro i gesuiti «modernizzanti», «in tutto contrariamente alla prima idea ed al programma officiale proposto al Santo Pontefice Pio X, indi approvato dal Segretario della Concistoriale, non certamente perché servisse allo sfogo di passioni private, alla denunzia e diffamazione di integerrimi ed anche eminenti personaggi, di Vescovi o d’interi Ordini religiosi, nominatamente del nostro, che mai finora erasi veduto in balia a siffatte calunnie, neppure ai tempi della sua soppressione. Da ultimo poi, finita la guerra e molto più dopo lo scioglimento del «Sodalizio Piano» – decretato dalla Sacra Congregazione del Concilio, non certo a titolo di lode, ma di proibizione e di biasimo – fu promossa tutta a spese di un noto e ricchissimo finanziere Simon di Parigi e della sua larga consorteria, la pubblicazione e la prodiga diffusione gratuita di libelli i più ignominiosi e criticamente insipienti contro la Compagnia di Gesù, i suoi Santi, i suoi dottori e maestri, le sue opere e le sue costituzioni, pure solennemente approvate dalla Chiesa. È la nota collezione dei così detti «Récalde», cresciuta già ad oltre una dozzina di libelli, alcuni di più volumi, in cui è troppo riconosciuta e non meno retribuita la parte dei complici romani. Essa viene ora rinforzata dalla pubblicazione sorella di foglietti diffamatori, i più farneticanti, sotto il titolo complessivo ed antifrastico di «Vérités», emuli dei fogli gemelli dell’Agenzia Urbs, ovvero Romana, i cui articoli ritornano poi talora, quasi a verbo, in altri fogli “periodici”».

Gli «integrali» sparsero «le peggiori calunnie» contro Benedetto XV, come si può vedere dall’articolo comparso alla morte di questo papa nella «Vieille France» (di Urbain Gohier, credo) e nella «Ronda» (febbraio 1922), «anche questo (periodico) tutt’altro che cattolico e morale, ma onorato tuttavia dalla collaborazione di Umberto Benigni, il cui nome si trovava registrato nella bella compagnia di quei giovani più o meno scapestrati». «Lo stesso spirito di diffamazione, continuato sotto il presente Pontificato, in mezzo alle file medesime dei cattolici, dei religiosi e del clero, non si può dire quanto abbia fatto di male nelle coscienze, quanto scandalo portatovi e quanta alienazione di animi, in Francia sopra tutto. Quivi infatti la passione politica induceva a credere più facilmente le calunnie, mandate spesso da Roma, dopo che i ricchi Simon e altri compari, di spirito gallicano e giornalistico (sic), ne spesarono gli autori e procurarono la diffusione gratuita dei loro libelli, massime degli antigesuitici sopra menzionati, nei seminari, nelle canoniche, nelle curie ecclesiastiche, ovunque fosse qualche probabilità o verosimiglianza che la calunnia potesse attecchire; ed anche fra laici, massime giovani, e degli stessi licei governativi, con una prodigalità senza esempio». Gli autori già sospetti si servono dell’anonimo o di pseudonimi. «È notorio, tra i giornalisti specialmente, quanto poco meriti qualsiasi titolo di onore un siffatto gruppo col suo principale ispiratore, il più astuto a nascondersi ma il più colpevole e il più interessato nell’intrigo» (a chi si allude? Al Benigni o a qualche altro pezzo grosso del Vaticano?)

Secondo l’articolista tra Action Française e «integrali» non c’era inizialmente «accordo», ma esso si è venuto formando dopo il 26; ma questa mi pare una dichiarazione fatta ad arte, per escludere ogni movente politico (lotta contro gli ultra reazionari) dalla quistione contro l’Action Française. (In nota si dice, – nell’ultima nota –: «Non si deve tuttavia confondere l’uno con l’altro partito, come taluno ha fatto, per es., Nicolas Fontaine, nell’opera citata Saint‑Siège, “Action française” et “Catholiques intégraux”. Questo autore, come notammo, è più che liberale, ma purtroppo informatissimo dei casi niente edificanti della menzionata società clandestina, detta della “Sapinière”, e dei suoi fautori francesi ed italiani, ed in ciò è ridicolo rinfacciare il suo liberalismo: occorre smentire i fatti su cui riparleremo a suo tempo». Strano, quel «purtroppo informatissimo» perché, come ho notato, il Fontaine si è servito di documenti di dominio pubblico (vedere). Fino ad oggi (ottobre 1930) il padre Rosa nella «Civiltà Cattolica» non ha poi «riparlato» della «Sapinière».

L’articolo conclude: «Ma la verità non ha da temere: e per parte nostra, noi siamo ben risoluti a difenderla senza paura né trepidazione od esitanza, anche contro i nemici interni, siano pure ecclesiastici facoltosi e potenti, che hanno fuorviato i laici per trarli ai loro disegni e interessi». In fondo alla nota si riporta poi qualcuno dei nomi del lungo catalogo dei «denunziati» dal «Sodalizio Piano» (tra gli altri i Cardinali Amette di Parigi, Piffl di Vienna, Mercier, Van Rossum, ecc.).

Ricorda poi un viaggio del Benigni in America (di cui parlò la «Civiltà Cattolica», 1927, IV, p. 399) dove distribuì i libelli antigesuitici; a Roma ci sarebbe un deposito di più decine di migliaia di copie di tali libelli.

Q5 §15 Lucien Romier e l’Azione Cattolica francese. Ricordare che nel 1925 il Romier aveva accettato di entrare a far parte del gabinetto di concentrazione nazionale di Herriot: aveva anche accettato di collaborare con Herriot il capo del gruppo cattolico parlamentare francese formatosi poco prima. Il Romier non era né deputato né senatore; era redattore politico del «Figaro». Dopo questa sua accettazione di entrare in un gabinetto Herriot, dovette lasciare il «Figaro». Il Romier si era fatto un nome con le sue pubblicazioni di carattere industriale‑sociale. Credo che il Romier sia stato redattore dell’organo tecnico degli industriali francesi «La journée industrielle».

Q5 §16 Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. L’«Action Française» aveva a Roma un suo redattore, Havard de la Montagne, che dirigeva il settimanale in lingua francese «Rome», destinato ai cattolici francesi, preti, religiosi o laici, residenti o di passaggio a Roma. Questo settimanale doveva essere e sarà ancora il portavoce degli «integrali» e dei maurrassiani.

Q5 §17 Movimento pancristiano. La XV settimana sociale di Milano settembre 1928 trattò la quistione: «La vera unità religiosa», e il volume degli atti è uscito con questo titolo presso la Società editrice «Vita e pensiero» (Milano, 1928, L. 15). L’argomento è stato trattato dal punto di vista del Vaticano, secondo le direttive date dall’Enciclica Mortalium animos del gennaio 1928, e contro il movimento pancristiano dei protestanti, che vorrebbero creare una specie di federazione delle diverse sette cristiane, con eguaglianza di diritti.

È questa un’offensiva protestante contro il cattolicismo che presenta due momenti essenziali: 1) le Chiese protestanti tendono a frenare il movimento disgregatore nelle loro file (che dà luogo continuamente a nuove sette); 2) si alleano tra loro e ottenendo un certo consenso da parte degli ortodossi, pongono l’assedio al Cattolicismo per fargli rinunziare al suo primato e per offrire nella lotta un fronte unico protestante imponente, invece che una moltitudine di chiese, sette, tendenze di diversa importanza e che una per una più difficilmente potrebbero resistere alla tenace e unificata iniziativa missionaria cattolica. La quistione dell’unità delle chiese cristiane è un formidabile fenomeno del dopoguerra ed è degno della massima attenzione e di studio accurato.

Q5 §18 Il pensiero sociale dei cattolici. Un articolo da ricordare, per comprendere l’atteggiamento della Chiesa dinanzi ai diversi regimi politico‑statali, è Autorità e «opportunismo politico» nella «Civiltà Cattolica» del 1° dicembre1928. Potrebbe dare qualche spunto per la rubrica passato e presente. Sarà da confrontare con i punti corrispondenti del Codice Sociale.

La quistione si pose al tempo di Leone XIII e del ralliement di una parte dei cattolici alla repubblica francese e fu risolta dal papa con questi punti essenziali: 1) accettazione, ossia riconoscimento del potere costituito; 2) rispetto ad esso prestato come a rappresentanza di un’autorità venuta da Dio; 3) obbedienza a tutte le leggi giuste da tale autorità promulgate, ma resistenza alle leggi ingiuste con lo sforzo concorde di emendare la legislazione e cristianeggiare la società.

Per la «Civiltà Cattolica» questo non sarebbe «opportunismo», ma tale sarebbe solo l’atteggiamento servile ed esaltatorio in blocco di autorità che sono tali di fatto e non di diritto (l’espressione «diritto» ha un valore particolare per i cattolici).

I cattolici devono distinguere tra «funzione dell’autorità» che è diritto inalienabile della società, che non può vivere senza un ordine, e «persona» che esercita tale funzione e che può essere un tiranno, un despota, un usurpatore, ecc. I cattolici si sottomettono alla «funzione» non alla persona. Ma Napoleone III fu chiamato uomo provvidenziale dopo il colpo di stato del 2 dicembre, ciò che significa che il vocabolario politico dei cattolici è diverso da quello comune.

Q5 §19 Azione cattolica italiana. Per la storia dell’Azione Cattolica italiana è indispensabile l’articolo Precisazioni, pubblicato dall’«Osservatore Romano» del 17 novembre 1928 e riassunto dalla «Civiltà Cattolica» del 1° dicembre successivo a p. 468.

Q5 §20 Machiavelli ed Emanuele Filiberto. Un articolo della «Civiltà Cattolica» del 15 dicembre 1928 (Emanuele Filiberto di Savoia nel IV Centenario della nascita) si inizia così: «La coincidenza della morte del Machiavelli con la nascita di Emanuele Filiberto, non è senza ammaestramento. È piena di alto significato l’antitesi rappresentata dai due personaggi, l’uno dei quali scompare dalla scena del mondo, amareggiato e deluso, mentre l’altro sta per affacciarsi alla vita, ancora circondata di mistero, in quegli anni appunto che possiamo considerare come la linea di distacco tra l’età del Rinascimento e la Riforma cattolica. Machiavelli ed Emanuele Filiberto: chi può meglio personificare i due volti diversi, le due correnti opposte che si contendono il dominio del secolo XVI? Avrebbe mai immaginato il Segretario Fiorentino che proprio quel secolo, al quale aveva auspicato un Principe, in sostanza, pagano nel pensiero e nell’opera, avrebbe invece veduto il monarca che più si avvicinò all’ideale del perfetto principe cristiano?».

Le cose sono molto diverse da quelle che paiono allo scrittore della «Civiltà Cattolica», ed Emanuele Filiberto continua e realizza Machiavelli più di quanto non possa sembrare: per esempio nell’ordinamento delle milizie nazionali. D’altronde Emanuele Filiberto per altre cose poteva richiamarsi al Machiavelli; egli non rifuggiva anche dal far sopprimere con la violenza e con la frode i suoi nemici.

Questo articolo della «Civiltà Cattolica» interessa per i rapporti tra Emanuele Filiberto e i gesuiti e per la parte presa da questi nella lotta contro i Valdesi.

Q5 §21 Per la storia del movimento operaio italiano. Vedere: Agostino Gori, Ricordo, con una nota bibliografica. Sotto gli auspici e a spese del Comune di Firenze. Firenze, Tip. M. Ricci, 1927, in 8Q5 §, pp. 44. Il Gori è morto nel 26, ha scritto sul movimento operaio qualche saggio di storia. Nella bibliografia dei suoi scritti compilata in questa pubblicazione commemorativa da Ersilio Michel, si potranno trovare le indicazioni.

Q5 §22 Azione Cattolica in Germania. Die Katholische Aktion. Materialien und Akten, von Dr. Erhard Schlund, O.P.M. ‑ Verlag Josef Kosel & Friedrich Pustet, München, 1928.

È una rassegna dell’Azione Cattolica nei principali paesi e un’esposizione delle dottrine papali in proposito. In Germania non esiste l’Azione Cattolica del tipo comune, ma viene considerata tale l’insieme dell’organizzazione cattolica. (Ciò significa che in Germania il cattolicismo è dominato dal protestantesimo e non osa attaccarlo con una propaganda intensa). Su questa base sarebbe da studiare come si spieghi la base politica del «Centro». (Cfr anche il libro di Monsignor Kaller, Unser Laienapostolat, 2a ediz., vol. I, pp. 320, Leusterdorf am Rhein, Verlag des Johannesbund, 1927).

Il libro dello Schlund tende a introdurre e popolarizzare in Germania l’Azione Cattolica di tipo italiano, e certo Pio XI deve spingere in tal senso (forse però con cautela, perché una accentuata attività potrebbe risvegliare vecchi rancori e vecchie lotte).

Q5 §23 relle sulla cultura cinese. 1) La posizione dei gruppi intellettuali in Cina è «determinata» dalle forme pratiche che l’organizzazione materiale della cultura vi ha assunto storicamente. Il primo elemento di questa specie è il sistema di scrittura, quella ideografica. Il sistema di scrittura è ancor più difficile di quanto volgarmente si supponga, perché la difficoltà non è solo data dall’enorme quantità di segni materiali, ma questa quantità è ancora complicata dalle «funzioni» dei singoli segni a seconda del posto che occupano. Inoltre l’ideogramma non è organicamente legato a una determinata lingua, ma serve a tutta quella serie di lingue che sono parlate dai cinesi colti, cioè l’ideogramma ha un valore «esperantistico»: è un sistema di scrittura «universale» (entro un certo mondo culturale) e tenuto conto che le lingue cinesi hanno un’origine comune. Questo fenomeno deve essere studiato accuratamente, perché può servire contro le infatuazioni «esperantistiche»: cioè serve a dimostrare come le così dette lingue universali convenzionali, in quanto non sono l’espressione storica di condizioni adeguate e necessarie, diventano elemento di stratificazione sociale e di fossilizzazione di alcuni strati. In queste condizioni non può esistere in Cina una cultura popolare di larga diffusione: l’oratoria, la conversazione rimangono la forma più popolare di diffusione della cultura. Bisognerà, ad un certo punto, introdurre l’alfabeto sillabico: questo fatto presenta una serie di difficoltà: prima, la scelta dell’alfabeto stesso: quello russo o quello inglese (intendo per «alfabeto inglese» non solo la pura notazione dei segni fondamentali, uguale per l’inglese e le altre lingue ad alfabeto latino, ma il nesso diacritico di consonanti e vocali che danno la notazione dei suoni effettivi, come sh per š, j per g italiano, ecc.): certo che l’alfabeto inglese avrà il sopravvento in caso di scelta e ciò sarà legato a conseguenze di carattere internazionale: una certa cultura avrà il sopravvento, cioè.

2) L’introduzione dell’alfabeto sillabico avrà conseguenze di grande portata sulla struttura culturale cinese: sparita la scrittura «universale», affioreranno le lingue popolari e quindi nuovi gruppi di intellettuali su questa nuova base. Cioè si romperebbe l’unità attuale di tipo «cosmopolitico» e ci sarebbe un pullulare di forze «nazionali» in senso stretto. Per alcuni aspetti la situazione cinese può essere paragonata a quella dell’Europa occidentale e centrale nel Medio Evo, al «cosmopolitismo cattolico» cioè, quando il «mediolatino» era la lingua delle classi dominanti e dei loro intellettuali: in Cina la funzione del «mediolatino» è svolta dal «sistema di scrittura», proprio delle classi dominanti e dei loro intellettuali. La differenza fondamentale è data da ciò: che il pericolo che teneva unita l’Europa medioevale, pericolo mussulmano in generale – arabi, a Sud, Tartari e poi Turchi a Oriente e Sud‑Est – non può essere neanche lontanamente paragonato ai pericoli che minacciano l’autonomia cinese nel periodo contemporaneo. Arabi, Tartari, Turchi erano relativamente «meno» organizzati e sviluppati dell’Europa di quel tempo e il pericolo era «meramente» o quasi tecnico‑militare. Invece l’Inghilterra, l’America, il Giappone sono superiori alla Cina non solo «militarmente» ma economicamente, culturalmente, su tutta l’area sociale, insomma. Solo l’unità «cosmopolitica» attuale, di centinaia di milioni di uomini, col suo particolare nazionalismo di «razza» – xenofobia – permette al governo centrale cinese di avere la disponibilità finanziaria e militare minima per resistere alla pressione dei rapporti internazionali, e per tenere disuniti i suoi avversari.

La politica dei successori di destra di Sun Yat‑Sen deve essere esaminata da questo punto di vista. Il tratto caratteristico di questa politica è rappresentato dalla «non volontà» di preparare, organizzare e convocare una Convenzione pancinese a mezzo del suffragio popolare (secondo i principi di Sun) ma nel voler conservare la struttura burocratico‑militare dello Stato: la paura cioè di abbandonare le forme tradizionali di unità cinese e di scatenare le masse popolari. Non bisogna dimenticare che il movimento storico cinese è localizzato lungo le coste del Pacifico e dei grandi fiumi che vi sboccano: la grande massa popolare dell’hinterland è più o meno passiva. La convocazione di una Convenzione pancinese darebbe il terreno per un grande movimento anche di queste masse e per l’affiorare, attraverso i deputati eletti, delle configurazioni nazionali in senso stretto esistenti nella cosmopoli cinese, renderebbe difficile l’egemonia degli attuali gruppi dirigenti senza la realizzazione di un programma di riforme popolari e costringerebbe a cercare l’unità in una unione federale e non nell’apparato burocratico‑militare. Ma questa è la linea di sviluppo. La guerra incessante dei generali è una forma primitiva di manifestarsi del nazionalismo contro il cosmopolitismo: essa non sarà superata, cioè non avrà termine il caos militare‑burocratico senza l’intervento organizzato del popolo nella forma storica di una Convenzione pancinese.

(Sulla quistione degli intellettuali cinesi occorre raccogliere e organizzare molto materiale per elaborare un paragrafo sistematico della rubrica sugli intellettuali: il processo di formazione e il modo di funzionare sociale degli intellettuali cinesi ha caratteri proprii e originali, degni di molta attenzione).

Rapporti della cultura cinese con l’Europa. Prime notizie sulla cultura cinese sono date dai missionari, specialmente gesuiti, nei secoli XVII‑XVIII. Intorcetta, Herdrich, Rougemont, Couplet, rivelano all’Occidente l’universalismo confuciano; du Halde (1736) scrive la Description de l’Empire de la Chine; Fourmont (1742), da Glemona, Prémare.

Nel 1815, con la formazione nel Collège de France della prima cattedra di lingua e letteratura cinese, la cultura cinese viene studiata dai laici (per fini e con metodi scientifici e non di apostolato cattolico com’era il caso dei gesuiti); questa cattedra è tenuta da Abel Rémusat, considerato oggi come il fondatore della sinologia europea. Discepolo del Rémusat fu Stanislas Julien, che è considerato come il primo sinologo del suo tempo; tradusse un’enorme massa di testi cinesi, romanzi, commedie, libri di viaggi e opere di filosofia e infine riassunse la sua esperienza filologica nella Syntaxe nouvelle de la langue chinoise. L’importanza scientifica del Julien è data dal fatto che egli riuscì a penetrare il carattere della lingua cinese e le ragioni della sua difficoltà per gli europei, abituati alle lingue flessive. Anche per un cinese lo studio della sua lingua è più difficile di ciò che non sia per un europeo lo studio della propria: occorre un doppio sforzo, di memoria e d’intelligenza, di memoria per ricordare i molteplici significati di un ideogramma, di intelligenza per collegare questi in modo da trovare in ognuno di essi la parte, per così dire, connettiva che permette di trarre dal nesso delle frasi un senso logico ed accettabile. Più il testo è denso ed elevato (nel senso dell’astrazione) e più difficile è tradurlo: anche il più esperto letterato cinese deve sempre far precedere un lavorio d’analisi, più o meno rapido, all’interpretazione del testo che legge. L’esperienza ha nel cinese un valore più grande che in altre lingue, dove base prima all’intelligenza è la morfologia che in cinese non esiste. (Mi pare difficile accettare che in cinese non esista assolutamente la morfologia: nelle descrizioni della lingua cinese fatte da europei bisogna tener conto del fatto che il «sistema di scrittura» prende necessariamente il primo posto nell’importanza: ma il «sistema di scrittura» coincide perfettamente con la lingua parlata che è la «lingua reale»? è possibile che la funzione morfologica in cinese sia più legata alla fonetica e alla sintassi, cioè al tono dei singoli suoni e al ritmo musicale del periodo, cosa che non potrebbe apparire nella scrittura se non sotto forma di notazione musicale, ma anche in questo caso mi pare difficile escludere una qualche funzione morfologica autonoma: bisognerebbe vedere il libretto del Finck sui tipi principali di lingue. Ricordare ancora che la funzione morfologica anche nelle lingue flessive ha come origine parole indipendenti divenute suffissi, eccetera: questa traccia forse può servire per identificare la morfologia del cinese, che rappresenta una fase linguistica forse più antica delle più antiche lingue di cui si è conservata la documentazione storica. Le notizie che qui riassumo sono prese da un articolo di Alberto Castellani, Prima sinologia, nel «Marzocco» del 24 febbraio 1929).

Nel cinese «chi più legge più sa»: infatti, tutto riducendosi a sintassi, solo una lunga pratica con i modi, le clausole della lingua può essere di certo indirizzo alla intelligenza del testo. Tra il vago valore degli ideogrammi e la comprensione integrale del testo ci deve essere un esercizio dell’intelligenza che, nella necessità di adattamento logico, non ha quasi limite in paragone alle lingue flessive.

Un libro sulla cultura cinese. Eduard Erkes, Chinesische Literatur, Ferdinand Hirt, Breslau, 1926.

È un volumetto di meno che cento pagine in cui, secondo Alberto Castellani, mirabilmente si condensa tutto il ciclo culturale cinese, dalla più antica età fino ai giorni nostri. Non si può comprendere il presente cinese senza conoscerne il passato, senza una informazione demopsicologica: questo è giusto, ma è esagerata, almeno nella forma data, questa affermazione: «La conoscenza del passato dimostra che la gente cinese è già da diverse diecine di secoli, confucianamente comunista: tanto che certi recenti tentativi d’innesto eurasiatico ci ricordano il portar nottole ad Atene». Questa affermazione si può fare per ogni popolo arretrato di fronte all’industrialismo moderno e poiché si può fare per molti popoli, ha un valore primitivo: tuttavia la conoscenza della reale psicologia delle masse popolari, da questo punto di vista o come si può ricostruire attraverso la letteratura, ha grande importanza. La letteratura cinese è d’impronta genuinamente religioso‑statale. L’Erkes tenta una ricostruzione critico‑sintetica dei diversi momenti della letteratura cinese, attraverso le epoche più significative, per dare a questi momenti maggior rilievo di necessità storica. (Non è cioè una storia della letteratura in senso erudito e descrittivo, ma una storia della cultura). Tratteggia la figura e l’opera di Chu Hsi (1130-1200) che pochi occidentali sanno essere stata la personalità più significativa della Cina, dopo Confucio, grazie ai meditati silenzi dei missionari che hanno visto in questo riplasmatore della moderna coscienza cinese l’ostacolo più grande ai loro sforzi di propaganda.

Libro del Wiegor, La Chine à travers les Ages. L’Erkes arriva fino alla fase recente della Cina europeizzante e informa anche sullo svolgimento che si sta compiendo anche a proposito della lingua e dell’educazione.

Nel «Marzocco» del 23 ottobre 1927 Alberto Castellani dà notizia del libro di Alfredo Forke: Die Gedankenwelt des chinesischen Kulturkreises, München‑Berlin, 1927 (Filosofia cinese in veste europea e... giapponese). Il Forke è professore di lingua e di civiltà della Cina all’Università di Amburgo ed è noto come specialista dello studio della filosofia cinese. Lo studio del pensiero cinese è difficile per un occidentale per varie ragioni: 1) i filosofi cinesi non hanno scritto trattati sistematici del loro pensiero: furono i discepoli a raccogliere le parole dei maestri, non i maestri a scriverle per gli eventuali discepoli; 2) la filosofia vera e propria era intrecciata e come soffocata nelle tre grandi correnti religiose, Confucianismo, Taoismo, Buddismo; così i Cinesi passarono spesso agli occhi dell’europeo non specialista o come privi di filosofia vera e propria o come aventi tre religioni filosofiche (questo fatto però, che la filosofia sia stata intrecciata alla religione ha un significato dal punto di vista della cultura e caratterizza la posizione storica degli intellettuali cinesi). Il Forke appunto ha cercato di presentare il pensiero cinese secondo le forme europee, ha cioè liberato la filosofia vera e propria dai miscugli e dalle promiscuità eterogenee; quindi ha reso possibile qualche parallelo tra il pensiero europeo e quello cinese. L’Etica è la parte più rigogliosa di questa ricostruzione: la Logica è meno importante «perché anche i Cinesi stessi ne hanno avuto sempre, più un senso istintivo, come intuizione, che non un concetto esatto, come scienza». (Questo punto è molto importante, come momento culturale). Solo alcuni anni fa, uno scrittore cinese, il prof. Hu Shi, nella sua Storia della Filosofia Cinese (Scianghai, 1919) assegna alla Logica un posto eminente, ridisseppellendola dagli antichi testi classici, di cui, non senza qualche sforzo, tenta di rivelare il magistero. Forse il rapido invadere del Confucianismo, del Taoismo e del Buddismo, che non hanno interesse per i problemi della Logica, può avere intralciato il suo divenire come scienza. «Sta di fatto che i Cinesi non hanno mai avuto un’opera come il Nyàya di Gautama e come l’Organon di Aristotile». Così manca in Cina una disciplina filosofica sulla «conoscenza» (Erkenntnistheorie). Il Forke non vi trova che tendenze.

Il Forke esamina inoltre le diramazioni della filosofia cinese fuori della Cina, specialmente nel Giappone. Il Giappone ha preso dalla Cina insieme alle altre forme di cultura anche la filosofia, pur dandole un certo carattere proprio. Il Giapponese non ha tendenze metafisiche e speculative come il cinese (è «pragmatista» ed empirista). I filosofi cinesi tradotti in giapponese, acquistano però una maggiore perspicuità. (Ciò significa che i giapponesi hanno preso dal pensiero cinese ciò che era utile per la loro cultura, un po’ come i romani hanno fatto coi greci).

Il Castellani ha recentemente pubblicato: La dottrina del Tao ricostruita sui testi ed esposta integralmente, Bologna, Zanichelli, e La regola celeste di Lao‑Tse, Firenze, Sansoni, 1927. Il Castellani fa un paragone tra Lao‑Tse e Confucio (non so in quale di questi due libri): «Confucio è il Cinese del Settentrione, nobile, colto, speculativo; Lao‑Tse, 50 anni più vecchio di lui, è il Cinese del mezzogiorno, popolare, audace, fantasioso. Confucio è uomo di Stato; Lao-Tse sconsiglia l’attività pubblica: quegli non può vivere se non a contatto col governo, questi fugge il consorzio civile e non partecipa alle sue vicende. Confucio si contenta di richiamare i regnanti e il popolo agli esempi del buon tempo antico; Lao‑Tse sogna senz’altro l’era dell’innocenza universale e lo stato virgineo di natura; quegli è l’uomo di corte e dell’etichetta, questi l’uomo della solitudine e della parola brusca. Per Confucio, riboccante di forme, di regole, di rituali, la volontà dell’uomo entra in maniera essenziale nella produzione e determinazione del fatto politico; Lao‑Tse invece crede che i fatti tutti, senza eccezione, si facciano da sé, oltre e senza la nostra volontà; ch’essi abbiano tutti in se stessi un ritmo inalterato e inalterabile da qualunque nostro intervento. Nulla per lui di più ridicolo dell’ometto confuciano, faccendiero e ficcanaso, che crede all’importanza e quasi al peso specifico di ogni suo gesto; nulla di più meschino di quest’animula miope e presuntuosa, lontana dal Tao, che crede di dirigere ed è diretta, crede di tenere ed è tenuta». (Questo brano è tolto da un articolo di A. Faggi nel «Marzocco» del 12 giugno 1927, Sapere cinese). Il «non fare» è il principio del Taoismo, è appunto il «Tao», la «strada».

La forma statale cinese. La monarchia assoluta è fondata in Cina nell’anno 221 avanti Cristo e dura fino al 1912, nonostante il mutare di dinastie, le invasioni straniere, ecc. Questo è il punto interessante; ogni nuovo padrone trova l’organismo bello e fatto, di cui si impadronisce impadronendosi del potere centrale. La continuità è così un fenomeno di morte e di passività del popolo cinese. Evidentemente anche dopo il 1912 la situazione è rimasta ancora relativamente stazionaria, nel senso che l’apparato generale è rimasto quasi intatto: i militari tuciun si sono sostituiti ai mandarini e uno di essi, volta a volta, tenta di rifare l’unità formale, impadronendosi del centro. L’importanza del Kuomintang, sarebbe stata ben più grande se avesse posto realmente la quistione della Convenzione pancinese. Ma ora che il movimento è scatenato, mi pare difficile che senza una profonda rivoluzione nazionale di massa, si possa ricostituire un ordine duraturo.

Q5 §24 Passato e presente. Il rispetto del patrimonio artistico nazionale. È molto interessante a questo proposito l’articolo di Luca Beltrami: Difese d’arte in luoghi sacri e profani, nel «Marzocco» del 15 maggio 1927. Gli aneddoti riportati dal Beltrami dalla stampa quotidiana sono molto interessanti ed edificanti. Poiché questo punto è sempre messo innanzi per ragioni di polemica culturale, sarà bene ricordare questi episodi di volgare trimalcionismo delle cosidette classi colte.

Q5 §25 Machiavelli e Manzoni. Qualche accenno al Machiavelli del Manzoni si può trovare nei Colloqui col Manzoni di N. Tommaseo, pubblicati per la prima volta e annotati da Teresa Lodi, Firenze, G. C. Sansoni, 1929. Da un articolo di G. S. Gargano nel «Marzocco» del 3 febbraio 1929 (Manzoni in Tommaseo) riporto questo brano: «E pur attribuito al Manzoni è il giudizio sul Machiavelli, la cui autorità empì di pregiudizi le teste italiane e le cui massime alcuni ripetevano senza osare adoperarle e alcuni operavano senza osare dirle; “e sono i liberali che le cantano e i re che le fanno”; commento quest’ultimo che è forse del trascrittore, il quale aggiunge che il Manzoni aveva pochissima fede nelle guarantigie degli Statuti e nella potenza dei Parlamenti e che l’unico suo desiderio era per allora di fare la nazione una e potente anche a costo della libertà, “quando pure l’idea della libertà fosse in tutti i cervelli vera e uno il sentimento di lei in tutti i cuori”».

Q5 §26 I nipotini di padre Bresciani. Alfredo Panzini. La traduzione delle Opere e i Giorni di Esiodo, stampata dal Panzini nel 1928 (prima nella Nuova Antologia poi in volumetto Treves), è esaminata nel «Marzocco» del 3 febbraio 1929 da Angiolo Orvieto (Da Esiodo al Panzini). La traduzione tecnicamente è molto imperfetta. Per ogni parola del testo il Panzini ne adopera due o tre delle sue; si tratta più di una traduzione commento che di una traduzione, alla quale manca «il colorito particolarissimo dell’originale, salvo quella certa solennità maestosa ch’egli in più luoghi è riuscito a conservare». L’Orvieto cita alcuni gravi spropositi del Panzini: invece d’«infermità che portano la vecchiezza all’uomo» il Panzini traduce «infermità che la vecchiezza porta agli uomini». Esiodo parla della «quercia che porta in vetta le ghiande e in mezzo (nel tronco) le api» e il Panzini traduce comicamente «le querce montane (!) maturano le ghiande, e quelle delle convalli (!) accolgono le api nel loro tronco», distinguendo due famiglie di querce ecc. (un alunno di liceo sarebbe stato bocciato per un tale sproposito). Per Esiodo le Muse sono «donatrici di gloria coi carmi», per Panzini «gloriose nell’arte del canto». Altri esempi porta l’Orvieto in cui appare che oltre alla conoscenza superficiale del greco, gli spropositi del Panzini siano anche dovuti al pregiudizio politico (caso tipico di Brescianesimo) come là dove muta il testo per far partecipare Esiodo alla campagna demografica.

Sarà da vedere se le riviste di filologia classica si sono occupate della traduzione del Panzini: in ogni modo l’articolo dell’Orvieto mi pare sufficiente per il mio scopo (bisogna rivederlo perché in questo momento me ne manca una parte).

Q5 §27 I nipotini di padre Bresciani. Enrico Corradini. È stata ristampata nel 1928 nella Collezione teatrale Barbera la Carlotta Corday di E. Corradini, che nel 1907 o 8, quando fu scritta, ebbe accoglienze disastrose e fu ritirata dalle scene. Il Corradini stampò il dramma con una prefazione (anch’essa ristampata nella ed. Barbera) in cui accusava del disastro un articolo dell’«Avanti!» che aveva sostenuto il Corradini aver voluto diffamare la rivoluzione francese. La prefazione del Corradini deve essere interessante anche dal punto di vista teorico, per la compilazione di questa rubrica del Brescianesimo, perché il Corradini sembra far distinzione fra «piccola politica» e «grande politica» nelle «tesi» contenute nei lavori d’arte. Naturalmente per il Corradini, la sua essendo «grande politica», l’accusa di «politicantismo» in sede artistica non potrebbe essere elevata contro di lui. Ma la quistione è un’altra: nelle opere d’arte si tratta di vedere se c’è intrusione di elementi extra-artistici, siano questi di alto o di basso carattere, cioè se si tratta di «arte» o di oratoria a fini pratici. E tutta l’opera del Corradini è di questo tipo: non arte e anche cattiva politica, cioè semplice rettorica ideologica.

Q5 §28 Ideologia, psicologismo, positivismo. Studiare questo passaggio nelle correnti culturali dell’800: il sensismo + l’ambiente danno lo psicologismo: la dottrina dell’ambiente è offerta dal positivismo. Brandes, Taine nella letteratura ecc.

Q5 §29 Oriente‑Occidente . In una conferenza, pubblicata nel volume L’énergie spirituelle (Parigi, 1920), Bergson cerca di risolvere il problema: che cosa sarebbe avvenuto se l’umanità avesse rivolto il proprio interesse e la propria indagine ai problemi della vita interiore anziché a quelli del mondo materiale. Il regno del mistero sarebbe stato la materia e non più lo spirito, egli dice.

Questa conferenza bisognerà leggerla. In realtà «umanità» significa Occidente, perché l’Oriente si è proprio fermato alla fase dell’indagine rivolta solo al mondo interiore. La quistione sarebbe questa, da porre in base allo studio della conferenza di Bergson: se non è proprio lo studio della materia – e cioè il grande sviluppo delle scienze intese come teoria e come applicazione industriale – che ha fatto nascere il punto di vista che lo spirito sia un «mistero», in quanto ha impresso al pensiero un ritmo accelerato di movimento, facendo pensare a ciò che potrà essere «l’avvenire dello spirito» (problema che non si pone quando la storia è stagnante) e facendo quindi vedere lo spirito come una entità misteriosa che si rivela un po’ capricciosamente ecc.

Q5 §30 Funzione internazionale degli intellettuali italiani. Nel «Bollettino storico lucchese» del 1929 o degli inizi del 1930 è apparso uno studio di Eugenio Lazzareschi sui rapporti colla Francia dei mercanti lucchesi nel Medio Evo. I lucchesi, frequentando ininterrottamente dal sec. XII i grandi mercati delle città e le famose fiere della Fiandra e della Francia, erano divenuti proprietari di larghi fondi, agenti commerciali o fornitori delle Corone di Francia e di Borgogna, funzionari ed appaltatori nelle amministrazioni civili e finanziarie: avevano contratto parentadi illustri e s’erano così bene acclimatati in Francia che potevano ormai dire di avere due patrie: Lucca e la Francia. Perciò uno di loro, Galvano Trenta, all’inizio del 1411 scriveva a Paolo Guinigi di pregare il nuovo Papa, non appena eletto, che richiedesse al re di Francia che ogni lucchese fosse riconosciuto «borghese» di Parigi.

Q5 §31 Sulla tradizione nazionale italiana. Cfr articolo di B. Barbadoro nel «Marzocco» del 26 settembre 1926: a proposito della Seconda lega lombarda e della sua esaltazione come «primo conato per la indipendenza della stirpe dalla straniera oppressione che prepara i fasti del Risorgimento», il Barbadoro metteva in guardia contro questa interpretazione e osservava che «la stessa fisionomia storica di Federico II è ben diversa da quella del Barbarossa, ed altra è la politica italiana del secondo Svevo: padrone di quel Mezzogiorno d’Italia, la cui storia era disgiunta da secoli da quella della restante penisola, parve in un certo momento che la restaurazione dell’autorità imperiale nel centro e nel settentrione portasse finalmente alla costituzione di una forte monarchia nazionale».

Nel «Marzocco» del 16 dicembre 1928 il Barbadoro, in una breve nota, ricorda questa sua affermazione a proposito di un ampio studio di Michelangelo Schipa pubblicato nell’Archivio storico per le province napoletane in cui lo spunto è ampiamente dimostrato.

Questa corrente di studi è molto interessante per comprendere la funzione storica dei Comuni e della prima borghesia italiana che fu disgregatrice dell’unità esistente, senza sapere o poter sostituire una nuova propria unità: il problema dell’unità territoriale, non fu neanche posto o sospettato e questa fioritura borghese non ebbe seguito: fu interrotta dalle invasioni straniere. Il problema è molto interessante dal punto di vista del materialismo storico e mi pare possa collegarsi con quello della funzione internazionale degli intellettuali italiani. Perché i nuclei borghesi formatisi in Italia, che pure raggiunsero la completa autonomia politica, non ebbero la stessa iniziativa degli Stati assoluti nella conquista dell’America e nell’apertura di nuovi sbocchi? Si dice che un elemento della decadenza delle repubbliche italiane è stata l’invasione turca che interruppe o almeno disorganizzò il commercio col levante e lo spostarsi dell’asse storico mondiale dal Mediterraneo all’Atlantico per la scoperta dell’America e la circumnavigazione dell’Africa. Ma perché Cristoforo Colombo servì la Spagna e non una repubblica italiana? Perché i grandi navigatori italiani servirono altri paesi? La ragione di tutto questo è da ricercare in Italia stessa, e non nei turchi o in America. La borghesia si sviluppò meglio, in questo periodo, con gli Stati assoluti, cioè con un potere indiretto che non avendo tutto il potere. Ecco il problema, che deve essere collegato con quello degli intellettuali: i nuclei borghesi italiani, di carattere comunale, furono in grado di elaborare una propria categoria di intellettuali immediati, ma non di assimilare le categorie tradizionali di intellettuali (specialmente il clero) che invece mantennero ed accrebbero il loro carattere cosmopolitico. Mentre i gruppi borghesi non italiani, attraverso lo Stato assoluto, ottennero questo scopo molto facilmente poiché assorbirono gli stessi intellettuali italiani. Forse questa tradizione storica spiega il carattere monarchico della borghesia moderna italiana e può servire a comprendere meglio il Risorgimento.

Q5 §32 Ugo Foscolo e la retorica letteraria italiana. I Sepolcri devono essere considerati come la maggiore «fonte» della tradizione culturale retorica che vede nei monumenti un motivo di esaltazione delle glorie nazionali. La «nazione» non è il popolo, o il passato che continua nel «popolo», ma è invece l’insieme delle cose materiali che ricordano il passato: strana deformazione che poteva spiegarsi ai primi dell’800 quando si trattava di svegliare delle energie latenti e di entusiasmare la gioventù, ma che è appunto «deformazione» perché è diventato puro motivo decorativo, esteriore, retorico (l’ispirazione dei sepolcri non è nel Foscolo simile a quella della così detta poesia sepolcrale: è un’ispirazione «politica», come egli stesso scrive nella lettera al Guillon).

Q5 §33 M. Iskowicz, La Littérature à la lumière du matérialisme historique, 1929, 30 franchi (annunziato nel bollettino del 1° febbraio 1929, «Nouveautés», Listes mensuelles de la M.L.F.).

Q5 §34 Passato e presente. Sul movimento della «Voce» di Prezzolini, che aveva certamente uno spiccato carattere di campagna per un rinnovamento morale e intellettuale della vita italiana (in ciò poi, continuava, con più maturità, il «Leonardo», e si distinse poi da «Lacerba» di Papini e dall’«Unità» di Salvemini, ma più da «Lacerba» che dall’«Unità»), cfr il libro di Giani Stuparich su Scipio Slataper, edito nel 1922 dalla «Casa Ed. La Voce».

Q5 §35 Risorgimento. Il trasporto della capitale da Torino a Firenze e le stragi di settembre. Cfr il volume Confidenze di Massimo d’Azeglio a cura di Marcus de Rubris (Mondadori, Milano, 1930): si tratta del carteggio di Massimo d’Azeglio con Teresa Targioni Tozzetti. Il carattere del d’Azeglio vi appare in rilievo, coi suoi livori, il suo scetticismo, il suo piemontesismo. Alcune osservazioni che fa sui fatti del settembre sono però utili e interessanti.

Q5 §36 Passato e presente. Sull’impressione reale che ha fatto l’inizio d’attività dell’Accademia d’Italia cfr l’«Italia letteraria» del 15 giugno 1930, La prima seduta pubblica dell’Accademia d’Italia. In un articolo editoriale si critica acerbamente il modo con cui l’Accademia d’Italia ha distribuito la somma di un milione che era a sua disposizione per aiutare le patrie lettere, in 150 premiati: la distribuzione pare abbia assunto l’aspetto di una elargizione tipo minestra da convento; un altro pezzo Cronaca per la Storia di Antonio Aniante presenta la seduta come se fosse l’assemblea di un Consiglio Comunale di città provinciale.

Q5 §37 La funzione cosmopolita degli intellettuali italiani. «Pour Nietzsche, l’intellectuel est “chez lui”, non pas là où il est né (la naissance, c’est de l’“histoire”), mais là où lui‑même engendre et met au monde: Ubi pater sum, ibi patria, “Là où je suis père, où j’engendre, là est ma patrie”; et non pas, où il fut engendré». Stefan Zweig, Influence du Sud sur Nietzsche, «Nouvelles Littéraires», 19 luglio 1930 (è forse il capitolo di un libro tradotto da Alzir Hella et Olivier Bournac).

Q5 §38 Carattere della letteratura italiana non nazionale‑popolare. Articolo di Orazio Pedrazzi nell’«Italia letteraria» del 4 agosto 1929: Le tradizioni antiletterarie della burocrazia italiana. Il Pedrazzi non fa alcune distinzioni necessarie. Non è vero che la burocrazia italiana sia così «antiletteraria» come sostiene il Pedrazzi, mentre è vero che la burocrazia (e si vuol dire l’alta burocrazia) non scrive della sua propria attività. Le due cose sono diverse: credo anzi che ci sia una mania letteraria propria della burocrazia, ma riguarda il «bello scrivere», «l’arte», ecc.: forse si potrebbe trovare che la grande massa della paccottiglia letteraria è dovuta a burocrati. Invece è vero che non esiste in Italia (come in Francia e altrove) una letteratura dovuta ai funzionari statali (militari e civili) di valore e che riguardi l’attività svolta, all’estero, dal personale diplomatico, al fronte, dagli ufficiali, ecc.; quella che c’è, per lo più è «apologetica». «In Francia, in Inghilterra, generali ed ammiragli scrivono per il loro popolo, da noi scrivono solo per i loro superiori». La burocrazia cioè non ha un carattere nazionale, ma di casta.

Q5 §39 Scetticismo. L’obbiezione di senso comune che si può fare allo scetticismo è questa: che per essere coerente a se stesso, lo scettico non dovrebbe fare altro che vivere come un vegetale, senza intrigarsi negli affari della vita comune. Se lo scettico interviene nella discussione, significa che egli crede di poter convincere, cioè non è più scettico, ma rappresenta una determinata opinione positiva, che di solito è cattiva e può trionfare solo convincendo la comunità che le altre sono anche peggiori, in quanto sono inutili. Lo scetticismo è collegato col materialismo volgare e col positivismo: è interessante un brano di Roberto Ardigò, in cui si dice che occorre lodare il Bergson per il suo volontarismo. Ma che significa ciò? Non è una confessione della impotenza della propria filosofia a spiegare il mondo, se occorre rivolgersi a un sistema opposto per trovare l’elemento necessario per la vita pratica? Questo punto di Ardigò (contenuto negli Scritti vari raccolti e ordinati da G. Marchesini, Firenze, Le Monnier, 1922) deve essere messo in rapporto con le tesi su Feuerbach di Marx e dimostra appunto di quanto Marx avesse superato la posizione filosofica del materialismo volgare.

Q5 §40 Pirandello. Sulla concezione del mondo implicita nei drammi di Pirandello occorre leggere la prefazione di Benjamin Crémieux alla traduzione francese di Enrico IV (Éditions de la «N.R.F.»).

Q5 §41 L’orientazione professionale. Cfr lo studio del padre Brucculeri nella «Civiltà Cattolica» del 6 ottobre, 3 novembre, 17 novembre 1928: vi si può trovare il primo materiale per una prima impostazione delle ricerche in proposito. Lo studio della quistione è complesso: 1) perché nella situazione attuale di divisione sociale delle funzioni, certi gruppi sono limitati nella loro scelta professionale (intesa in senso largo) da diverse condizioni, economiche (non poter attendere) e tecniche (ogni anno di più di scuola modifica le disposizioni generali in chi deve scegliere la professione); 2) perché deve sempre esser tenuto presente il pericolo che gli istituti chiamati a giudicare sulle disposizioni del soggetto, lo indichino come capace di fare un certo lavoro anche quando egli non voglia accettare (questo caso è da tener presente dopo l’introduzione della razionalizzazione ecc.; la quistione non è puramente tecnica, è anche salariale. L’industria americana si è servita degli alti salari per «selezionare» gli operai dell’industria razionalizzata, almeno entro una certa misura: altre industrie invece, ponendo avanti questi schemi scientifici o pseudoscientifici, possono tendere a «costringere» tutte le maestranze tradizionali a lasciarsi razionalizzare senza avere ottenuto le possibilità salariali per un sistema di vita appropriato, che permetta di reintegrare le maggiori energie nervose consumate. Ci si può trovare dinanzi a un vero pericolo sociale: il regime salariale attuale è basato specialmente sulla reintegrazione di forze muscolari. L’introduzione della razionalizzazione senza un cambiamento di sistema di vita, può portare a un rapido logoramento nervoso e determinare una crisi di morbosità inaudita). Lo studio della quistione deve poi esser fatto dal punto di vista della scuola unica del lavoro.

Q5 §42 La tradizione di Roma. Registrare le diverse reazioni (e il diverso carattere di queste) all’ideologia legata alla tradizione di Roma. Il futurismo fu in Italia una forma di questa reazione, in quanto contro la retorica tradizionale e accademica, e questa in Italia era strettamente legata alla tradizione di Roma (La terra dei morti del Giusti: «noi eravamo grandi e là non eran nati»; «tutto che al mondo è civile, ‑ grande, augusto, egli è romano ancora» del Carducci, dipendenti dai Sepolcri di Foscolo, come momento «moderno» di questa retorica). Questa reazione ha vari aspetti, oltre che diversi caratteri. Tende, per esempio, a contestare che l’Italia moderna sia erede della tradizione romana (l’espressione del Lessing sui «vermi usciti dalla decomposizione della carogna romana») o a contestare l’importanza stessa di tale tradizione. Nel libro dello Wells Breve storia del mondo (ed. Laterza, con postilla polemica del traduttore Lorizio), questa reazione assume diversi aspetti: 1) nega che la storia mondiale antica si unifichi nell’impero romano, allargando la visione storica mondiale con la storia della Cina, dell’India e dei Mongoli; 2) tende a svalutare in sé la grandezza della storia romana e della sua tradizione, sia come tendenza politica (Sacro Romano Impero), sia come tendenza culturale (Chiesa cattolica), Nel libro dello Wells, se è esatto il primo punto, il secondo soffre di nuova intrusione di elementi ideologici ed è moralistico.

Altro aspetto da osservare è la valorizzazione dell’elemento non romano nella formazione delle nazioni moderne: elemento germanico nella formazione degli stati romano-germanici: questo aspetto è coltivato dai tedeschi e continua nella polemica sull’importanza della Riforma come premessa della modernità. Ma nella formazione degli Stati romano‑germanici, oltre all’elemento romano e a quello germanico, c’è un terzo e anche talvolta un quarto elemento; in Francia, oltre all’elemento romano e a quello franco, c’è l’elemento celtico, dato dalla autoctona popolazione gallica; in Ispagna c’è ancora, in più, l’elemento arabo con la sua influenza scientifica nel Medio Evo. A proposito dell’elemento gallico nella formazione della civiltà francese, c’è sempre stata tutta una letteratura, di carattere misto storico e popolare. Nel tempo più recente è da vedere l’Histoire de la Gaule di Camille Jullian, dove (nell’VIII vol., p. 311) si può leggere che è tempo di farla finita colla «ossessione della storia imperiale» e che «è necessario che noi sappiamo sbarazzarci dei modi di sentire e di ragionare che sono l’eredità dell’impero romano. I pregiudizi quasi invincibili coi quali noi siamo usciti dall’educazione classica, lo storico deve saperli vincere». Dall’articolo La figura di Roma in uno storico celtista di Piero Baroncelli nella Nuova Antologia del 16 marzo 1929 pare che il Jullian a questi pregiudizi ne abbia sostituito degli altri (la celtomania), ma in ogni caso è notevole il fatto che uno storico accreditato come il Jullian, membro dell’Accademia, abbia dedicato un tale scritto monumentale a sostegno della sua tesi e abbia avuto il premio dell’Accademia. Il Baroncelli ritiene che: «La gelosia, con cui oggi si guarda quasi dappertutto al nostro Paese, si rivela anche nel favore col quale sono accolte all’estero le pubblicazioni che, per un verso o per l’altro, cercano di sfatare il nome di Roma e dell’Italia. Di questa indole è appunto la citata Histoire de la Gaule, opera fortunata per diffusione, imponente per mole, autorevole per il nome dello scrittore», e che: «Quanto agli sfregi che oggi si tentano sulla figura di Roma antica, ben sappiamo che la Roma signora e maestra di popoli ha in sé, per taluni, una grave colpa: Roma, fino da’ suoi inizi, fu sempre Italia». Ai pregiudizi storici che combatte, il Baroncelli ne sostituisce anch’egli dei suoi propri, e, ciò che è più importante, dà loro una veste politica. L’argomento sarebbe da studiare con spregiudicatezza: cosa rimane ancora oggi, di proprio e inconfondibile, della tradizione romana? Concretamente molto poco: l’attività più spiccata, moderna, è quella economica, sia teorica che pratica, e quella scientifica, e di esse nulla continua il mondo romano. Ma anche nel campo del diritto, in che rapporto esatto si trova il romanesimo con gli apporti del germanesimo e quelli più recenti anglosassoni e qual è l’area geografica in cui il diritto romano ha più diffusione? Sarebbe ancora da notare che nella forma in cui è diventato tradizionale, il diritto romano è stato elaborato a Costantinopoli, dopo la caduta di Roma. Quanto alla tradizione statale romana è vero che l’Italia, come tale (cioè nella figura che oggi ha assunto) non l’ha continuata (osservazione del Sorel), ecc. Seguire le pubblicazioni di Ezio Levi sull’arabismo spagnolo e sulla sua importanza per la civiltà moderna.

Q5 §43 L’episodio dell’arresto dei fratelli La Gala nel 1863. Nell’articolo Ricordi personali di politica interna («Nuova Antologia», 1° aprile 1929) Tommaso Tittoni dà alcuni particolari inediti sull’arresto dei La Gala a Genova. I La Gala, rifugiatisi negli Stati Pontifici, si erano stabiliti a Oriolo Romano, paesello prossimo a Manziana dove era nato Vincenzo Tittoni (padre di Tommaso). Un amico di Vincenzo e corrispondente del Comitato Nazionale romano avvertì il Comitato stesso che i La Gala si erano imbarcati a Civitavecchia sul vapore francese «Aunis» che si recava a Marsiglia facendo scalo a Livorno e a Genova. Il Comitato avvertì a Livorno Vincenzo Tittoni al quale la notizia pervenne mentre l’«Aunis» salpava per Genova. Il Tittoni corse dal prefetto e lo indusse a telegrafare al prefetto di Genova, il quale, senza attendere le istruzioni del ministero, prese su di sé la responsabilità di arrestare i La Gala a bordo dell’«Aunis». Sull’affare La Gala cfr Isaia Ghiron Annali d’Italia in continuazione al Muratori e al Coppi («Rassegna storica del Risorgimento», 1927, fasc. 1°) e cfr specialmente la «Civiltà Cattolica» del 1863 (i La Gala furono arrestati nel luglio 1863).

Q5 §44 T. Tittoni, Ricordi personali di politica interna, Nuova Antologia, 1° aprile ‑ 16 aprile 1929. Il Tittoni ha scritto queste sue memorie subito dopo la Conciliazione, per dimostrare come questo evento abbia corrisposto a tutta l’attività politica della sua carriera di liberale moderato ossia di conservatore clericale. L’interesse dei Ricordi è tutto qui, si può dire: nel cercare di ricostruire la storia italiana dal 70 ad oggi come una lotta tra conservatori clericali e democrazia o demagogia, per il ripristino dell’influsso clericale nella vita del paese, ponendo pertanto in luce l’attività della corrente conservatrice in quanto rappresentata da Tittoni. Annoto qualcuno degli spunti offerti dal Tittoni:

Per la storia dell’Azione Cattolica. Nel novembre 1871 l’Unione Romana per le elezioni amministrative coll’assenso di Pio IX, per il quale la partecipazione dei cattolici all’amministrazione comunale e provinciale era compatibile coll’ossequio alla Santa Sede. Cfr Paolo Campello della Spina, Ricordi di più che cinquant’anni, Roma, Loescher, 1910. Vi si legge: «Pio IX, a quel gruppo di visitatori che usava andare alla sua udienza del mattino e lo accompagnava talvolta alla passeggiata nei giardini, disse: “Ma sì, ma sì, non l’hanno capito e pure l’ho detto tante volte, che mi fa piacere che vadano alle elezioni amministrative”». Notizie intorno al tentativo, fatto da Roberto Stuart e da altri, di creare un partito conservatore cattolico e quindi di un gruppo cattolico alla Camera, tentativo stroncato dal Vaticano (che tuttavia lasciò fare per qualche tempo, il che è da notare).

Positivismo e reazione. Dice Tittoni: «Per molto tempo il Cours de philosophie positive di Augusto Comte è stato il mio breviario filosofico e politico. A mio avviso nessuno meglio di Comte ha risolto il preteso conflitto tra la scienza e la religione, assegnando la prima alla ragione e la seconda al sentimento, e separando nettamente il campo del libero esame da quello riservato alla fede. Comte considerava il Papato come un grande elemento conservatore della società. Egli aveva immaginato negli ultimi anni della sua vita una lega di difesa religiosa e sociale presieduta dal Pontefice. A questa epoca appartiene il volumetto Catechisme positiviste. In un esemplare che io comprai in Roma da un venditore ambulante di libri, trovai la seguente dedica: “À Monsieur Bex, Général des Jésuites, offert par l’auteur Auguste Comte, Paris le 10 aristote 69”. Littré, al quale scrissi, inviandogli il facsimile dell’autografo mi rispose garantendone l’autenticità. Il padre Bex non aveva tenuto alcun conto del volumetto poiché i fogli non ne erano stati nemmeno tagliati». (Ma poteva averlo già letto in altro esemplare).

Intorno ai fatti del 98. Sistemi elettorali escogitati: da un brano di memorie dell’on. Gianforte Suardi riportato dal Tittoni risulta che quando il gabinetto Rudin’‑Pelloux mutò la legge elettorale, l’obbligo di votare nel comune di origine fu escogitato «per impedire il voto di artificiali (!) aggruppamenti come quelli di Torino, ove per le officine delle ferrovie si trovava concentrato un gran numero di ferrovieri, tale da costituire un’artificiosa maggioranza fortuita (!) di operai di Romagna e di altre parti d’Italia all’infuori di Torino». Nelle memorie di Tittoni si potrebbero spigolare vari episodi di simili pastette politiche, in cui hanno sempre avuto incontestabile eccellenza i reazionari.

Tittoni prefetto di Napoli, dal 900 al 903. Idillio: non parla dei fatti concreti di cui fu accusato. Cfr gli Atti parlamentari del 1903: nella seduta del 2 dicembre Tittoni fu attaccato da Barzilai e Bissolati il quale riportò le accuse della «Propaganda».

Fatti del 1904. Ho già annotato l’azione svolta da Tittoni nel 1904 riassumendo un articolo di Gianforte Suardi nell’«Antologia» del 1° novembre 1927: Tittoni è più diffuso.

Tittoni e Giolitti. Tittoni non spiega con molta chiarezza i suoi rapporti politici con Giolitti, del quale fu intimo collaboratore: è vero che tale collaborazione è significativa anche per giudicare la politica dello stesso Giolitti. Impacciati e reticenti sono anche gli accenni di Tittoni a Sonnino e a Rudin.

Ondata anticlericale del 1907. Nel luglio 1907 scandalo Fumagalli ‑ don Riva, e fatti di Alassio. Tittoni clericaleggiante.

Tittoni propugnatore della guerra civile. Tittoni era rimasto colpito dal fatto che per riunire la forza pubblica necessaria a fronteggiare i tumulti scoppiati in una località, occorreva sguarnire altre regioni: durante la settimana rossa del giugno 14, per reprimere i moti di Ancona si era sguarnita Ravenna, dove poi il prefetto, privato della forza pubblica dovette chiudersi nella Prefettura abbandonando la città ai rivoltosi. «Più volte io ebbi a domandarmi, che cosa avrebbe potuto fare il Governo se un movimento di rivolta fosse scoppiato contemporaneamente in tutta la penisola». Tittoni propose al Governo l’arruolamento dei «volontari dell’ordine», ex combattenti inquadrati da ufficiali in congedo. Il progetto di Tittoni parve degno di considerazione, ma non ebbe seguito.

Il Partito Popolare. Tittoni aveva riposto molte speranze nel Partito Popolare fosse stato diverso da quello che era stato il primo movimento cattolico politico. Contro Miglioli, ma anche contro Meda e Rodinò.

Q5 §45 Enrico Catellani, La libertà del mare, Nuova Antologia del 1° aprile 1929.

Q5 §46 Claudio Faina, Il carburante nazionale, Nuova Antologia del 16 aprile 1929 (continua l’articolo dello stesso Faina pubblicato precedentemente dalla Nuova Antologia e rubricato altrove).

Q5 §47 Azione Cattolica. Gianforte Suardi nella «Nuova Antologia» del 1° maggio 1929 (Costantino Nigra e il XX settembre 1870) aggiunge un particolare alla sua narrazione del 1° novembre 1927 sulla partecipazione dei cattolici alle elezioni del 1904 col consenso di Pio X, particolare che aveva omesso per riserbo prima della Conciliazione. Pio X, salutando i bergamaschi (Paolo Bonomi ecc.), avrebbe aggiunto: «Ripetete a Rezzara – (che non aveva preso parte all’udienza e che, come è noto, era uno dei più autorevoli capi dell’organizzazione cattolica) – qual è la risposta che vi ho dato e ditegli che il Papa tacerà». Il sottolineato è appunto il particolare prima omesso. Una bellissima cosa, come si vede, e di altissima portata morale.

Q5 §48 Domenico Spadoni, Le Società segrete nella Rivoluzione milanese dell’aprile 1814, Nuova Antologia del 16 maggio 1929. Intervento della massoneria in quel movimento (culminato nell’uccisione del ministro Prina) secondo gli atti di un processo per complotto militare, trovati dallo Spadoni. Qualche particolare nuovo, ma non gran cosa.

Q5 §49 Bernardo Sanvisenti, La questione delle Antille, «Nuova Antologia», 1° giugno 1929. Sulla dottrina di Monroe, sui rapporti tra Stati Uniti e America Spagnola ecc. Contiene citazioni bibliografiche su questi argomenti di libri di scrittori sudamericani e riporta notizie su movimenti culturali legati al predominio degli Stati Uniti che possono essere utili.

Q5 §50 relle sulla cultura giapponese. Nella «Nuova Antologia» del 1° giugno 1929 è pubblicata l’introduzione (La religione nazionale del Giappone e la politica religiosa dello Stato giapponese) al volume su La Mitologia Giapponese che Raffaele Pettazzoni ha pubblicato nella collana di «Testi e Documenti per la Storia della Religione» editi dalla Zanichelli di Bologna. Perché il Pettazzoni ha intitolato il suo libro Mitologia? C’è una certa differenza tra «Religione» e «Mitologia» e sarebbe bene tenere ben distinte le due parole. La religione è diventata nel Giappone una semplice «mitologia» cioè un elemento puramente «artistico» o di «folklore» oppure ha ancora il valore di una concezione del mondo ancora viva e operante? Poiché pare dall’introduzione che sia quest’ultimo il valore che il Pettazzoni dà alla religione giapponese, il titolo è equivoco. Da questa introduzione noto alcuni elementi che potranno essere utili per studiare un paragrafo «giapponese» alla rubrica degli «intellettuali»:

Introduzione del Buddismo nel Giappone, avvenuta nel 552 d. C. Fino allora il Giappone aveva conosciuto una sola religione, la sua religione nazionale. Dal 552 ad oggi la storia religiosa del Giappone è stata determinata dai rapporti e dalle interferenze fra questa religione nazionale e il Buddismo (tipo di religione extranazionale e supernazionale come il cristianesimo e l’islamismo); il cristianesimo, introdotto nel Giappone nel 1549 dai gesuiti (Francesco Saverio), fu sradicato con la violenza nei primi decenni del secolo XVII; reintrodotto dai missionari protestanti e cattolici nella seconda metà del secolo XIX, non ha avuto grande importanza complessivamente. Dopo l’introduzione del Buddismo, la religione nazionale fu chiamata con parola sino‑giapponese Shinto cioè «via (cinese: tao) degli dei (cinese: Shen)» mentre butsu‑do indicò il Buddismo («do»‑via, «butsu»-Budda). In giapponese Shinto si dice Kami‑no‑michi (Kami-divinità). Kami non significa «dio» nel senso occidentale, ma più genericamente «esseri divini» compresi anche gli antenati divinizzati. (Dalla Cina fu introdotto nel Giappone non solo il Buddismo, ma anche il culto degli antenati, che, a quanto pare, si incorporò più intimamente nella religione nazionale). Lo Shintoismo è però fondamentalmente una religione naturistica, un culto di divinità (Kami) della natura, tra cui primeggiano la dea del sole Amaterasu, il dio degli uragani Susanowo, la coppia Cielo e Terra, cioè Izanagi e Izanami ecc. È interessante il fatto che lo Shintoismo rappresenta un tipo di religione che è scomparso del tutto nel mondo moderno occidentale, ma che era frequente presso i popoli civili dell’antichità (religioni nazionali e politeistiche degli Egiziani, dei Babilonesi, degli Indiani, dei Greci, dei Romani, ecc.). Amaterasu è una divinità come Osiride, o Apollo o Artemide; è interessante che un popolo civile moderno come il giapponese, creda e adori una tale divinità. (Forse però le cose non sono così semplici come può apparire). Tuttavia accanto a questa religione nazionale sussiste il Buddismo, tipo di religione supernazionale, per cui si può dire che anche in Giappone si è avuto fondamentalmente lo stesso sviluppo religioso che nell’Occidente (col Cristianesimo). Anzi Cristianesimo e Buddismo si diffondono nelle rispettive zone sincronicamente e ancora: il Cristianesimo che si diffonde in Europa non è quello della Palestina, ma quello di Roma o di Bisanzio (con la lingua latina o greca per la liturgia) così come il Buddismo che si diffonde nel Giappone non è quello dell’India, ma quello cinese, con la lingua cinese per la liturgia. Ma a differenza del Cristianesimo, il Buddismo lasciò sussistere le religioni nazionali preesistenti (in Europa le tendenze nazionali si manifestarono in seno al Cristianesimo).

All’inizio il Buddismo fu accolto nel Giappone dalle classi colte, insieme alla civiltà cinese (ma la civiltà cinese portò solo il Buddismo?) Successe un sincretismo religioso: Buddismo‑Shintoismo. Elementi di confucianismo. Nel secolo XVIII ci fu una reazione al sincretismo in nome della religione nazionale che culminò nel 1868 con l’avvento del Giappone moderno. Lo Shintoismo dichiarato religione di Stato. Persecuzione del Buddismo. Ma per breve tempo. Nel 1872 il Buddismo fu riconosciuto ufficialmente e parificato allo Shintoismo tanto nelle funzioni, tra cui principalmente quella pedagogica di educare il popolo ai sentimenti e ai principii del patriottismo, del civismo, e del lealismo, quanto nei diritti con la soppressione dell’«Ufficio dello Shinto» e la istituzione di un Ministero della religione, avente giurisdizione tanto sullo Shintoismo che sul Buddismo. Ma nel 1875 il governo mutò ancora la politica: le due religioni furono separate e lo Shintoismo andò assumendo una posizione speciale e unica. Provvedimenti burocratici vari andarono succedendosi che culminarono nella elevazione dello Shintoismo a istituzione patriottica e nazionale, con la rinunzia ufficiale al suo carattere religioso (divenne una istituzione – mi pare – del tipo di quella romana del culto dell’Imperatore, ma senza carattere religioso in senso stretto, per cui anche un Cristiano può esercitarlo). I Giapponesi possono appartenere a qualsiasi religione, ma devono inchinarsi dinanzi all’immagine dell’Imperatore. Così lo Shinto di Stato si è separato dallo Shinto delle sette religiose. Anche burocraticamente si ebbe una sanzione: esiste oggi un «Ufficio delle religioni» presso il Ministero dell’Educazione, per le varie chiese dello Shintoismo popolare, per le varie chiese buddistiche e cristiane e un «Ufficio dei santuari» per lo Shintoismo di Stato presso il Ministero dell’Interno. Secondo il Pettazzoni questa riforma fu dovuta all’applicazione meccanica delle Costituzioni occidentali al Giappone: per affermare cioè il principio della libertà religiosa e della uguaglianza di tutte le religioni dinanzi allo Stato e per togliere il Giappone dallo stato di inferiorità e arretratezza che lo Shintoismo, come religione, gli conferiva in confronto col tipo di religione vigente in Occidente.

Mi pare artificiale la critica del Pettazzoni (vedere anche in Cina quel che avviene a proposito di Sun Yat Sen e dei tre principi: si sta formando un tipo di culto di Stato, areligioso: mi pare che l’immagine di Sun abbia un culto come quello dell’Imperatore vivente in Giappone). Nel popolo e anche nelle persone colte rimane però viva la coscienza e il sentimento dello Shinto come religione (ciò è naturale, ma mi pare innegabile l’importanza della Riforma, che tende, coscientemente o no, alla formazione di una coscienza laica, in forme paradossali quanto si vuole). (Questa discussione, se lo Shinto di Stato sia una religione o no mi pare la parte più importante del problema culturale giapponese: ma tale discussione non si può fare per il Cristianesimo, certamente).

Q5 §51 relle di cultura cinese. Dall’articolo Il riformatore cinese Suen Uen e le sue teorie politiche e sociali, nella «Civiltà Cattolica» del 4 maggio e del 18 maggio 1929. «Il partito nazionalista ha promulgato decreti su decreti per onorare Suen Uen. Il più importante è quello che prescrive la “cerimonia del lunedì”. In tutte le scuole, uffici, posti militari, in qualsiasi istituzione appartenente in qualche modo al partito nazionalista, ogni lunedì, tutti si aduneranno innanzi al ritratto del “Padre della patria” e gli faranno, tutti insieme, il triplice inchino della testa. Indi si leggerà il suo “Testamento politico”, che contiene la quintessenza delle sue dottrine, e seguiranno tre minuti di silenzio per meditarne i grandi principii. Questa cerimonia sarà fatta in ogni adunanza importante». A tutte le scuole è fatto obbligo di studiare il Sen Min‑ciu‑i (triplice demismo), anche alle scuole dei cattolici e di qualsiasi confessione religiosa, come conditio sine qua non per la loro esistenza legale. Il delegato apostolico della Cina, mons. Celso Costantini, in una lettera al padre Pasquale d’Elia S. J., missionario italiano e membro dell’Ufficio Sinologico di Zi‑Ka-Wei, ha preso posizione su questi obblighi legali. La lettera è pubblicata al principio dell’opera: Le triple démisme de Sun Wen, traduit, annoté et apprécié par Pascal M. D’Elia S. J., Bureau Sinologique de Zi‑Ka‑Wei, Imprimérie de T’ou‑Sè‑Wè, Chang‑Hai 1929, in 8° pp. CLVIII‑530, 4 dollari cinesi.

Il Costantini non crede che Sun sia stato «divinizzato»: «Quanto agli inchini del capo innanzi al ritratto di Sun Yat-Sen, gli scolari cristiani non sono da inquietarsi. Per sé e di sua natura l’inchino del capo non ha senso superstizioso. Secondo l’intenzione del governo questa cerimonia non è altro che un ossequio meramente civile ad un uomo considerato quale Padre della Patria. Potrà essere eccessivo, ma non è in nessun modo idolatrico (il Governo per sé è ateo) e non vi è legato nessun sacrifizio. Se in qualche luogo per abuso si facessero dei sacrifizi, ciò dovrà ritenersi superstizioso e i cristiani non vi potrebbero assistere in niun modo. Non è nostro ufficio creare una coscienza erronea, ma illuminare gli alunni dove fosse qualche dubbio sul significato di tali cerimonie civili». Quanto all’insegnamento obbligatorio del triplice demismo, il Costantini scrive: «Secondo il mio giudizio personale, è lecito, se non insegnare, almeno spiegare nelle scuole pubbliche i principii del triplice demismo del Dr. Sun Yat Sen. Trattasi di materia non libera, ma imposta dal Governo, come condizione sine qua non. Parecchie cose, nel triplice demismo, sono buone, o almeno non cattive, e corrispondono più o meno o possono accomodarsi con la sociologia cattolica (Rerum novarum, Immortale Dei, Codice Sociale). Si deve procurare, nelle nostre scuole, di deputare alla spiegazione di questa materia, dei maestri cattolici ben formati nella dottrina e nella sociologia cristiana. Alcune cose devono essere spiegate e corrette...»

L’articolo della «Civiltà Cattolica» riassume la posizione dei Cattolici verso le dottrine del nazionalismo cinese, posizione attiva, come si vede, perché tende a creare una tendenza «nazionalistica cattolica» con una interpretazione particolare delle dottrine stesse. Dal punto di vista storico politico sarebbe bene vedere come i gesuiti sono giunti a questo risultato, rivedendo tutte le pubblicazioni della «Civiltà Cattolica» sugli avvenimenti cinesi dal 25 in poi. Nel suo libro il padre d’Elia, prevedendo l’obiezione che potrebbe venirgli da parte di alcuni dei suoi lettori i quali avrebbero consigliato piuttosto il silenzio che la pubblicità di queste idee nuove «con ragione ... risponde: “Non parlare di queste questioni, non vuol dire risolverle. Si voglia o non si voglia, i nostri Cattolici Cinesi le conosceranno per mezzo di commentari tendenziosi e ostili. Sembra che vi sia meno pericolo d’istruirli noi stessi, proponendo loro direttamente la dottrina di Suen Uen. Sforziamoci di far vedere come i cinesi possono essere buoni cattolici, non solo restando cinesi, ma anche tenendo conto di alcune teorie di Suen Uen”».

Q5 §52 Domenico Meneghini, Industrie chimiche italiane, «Nuova Antologia», 16 giugno 1929.

Q5 §53 Riforma e Rinascimento. Nicola Cusano. Nella «Nuova Antologia» del 16 giugno 1929 è pubblicata una nota di L. von Bertalanffy su Un Cardinale germanico (Nicolaus Cusanus) curiosa in se stessa e per la rella che la redazione della «Nuova Antologia» le fa seguire. Il Bertalanffy espone sul Cusano l’opinione tedesco‑protestante, sinteticamente, senza apparato critico‑bibliografico; la Nuova Antologia fa osservare meschinamente che il Bertalanffy non ha parlato degli «studi numerosi e importanti che anche in Italia furono dedicati al Cusano in questi ultimi decenni» e ne dà una sfilza fino al Rotta. L’unico cenno di merito è nelle ultime linee: «Il Bertalanffy vede nel Cusano un precursore del pensiero liberale e scientifico moderno, il Rotta invece opina che il Vescovo di Bressanone “per quello che è lo spirito, se non la forma della sua speculazione, è tutto nell’orbita del pensiero medioevale”. La verità non è mai tutta da una parte». Cosa vuol dire?

È certo che il Cusano è un riformatore del pensiero medioevale e uno degli iniziatori del pensiero moderno; lo prova il fatto stesso che la Chiesa lo dimenticò e il suo pensiero fu studiato dai filosofi laici che vi avevano ritrovato uno dei precursori della filosofia classica moderna.

Importanza dell’azione pratica del Cusano per la storia della Riforma protestante. Al Concilio (di Costanza?) fu contro il papa per i diritti del Concilio. Si riconciliò col papa. Al Concilio di Basilea sostenne la riforma della Chiesa. Tentò di conciliare Roma con gli hussiti: di riunire Oriente e Occidente e persino pensò di preparare la conversione dei Turchi, rilevando il nucleo comune nel Corano e nell’Evangelo. Docta ignorantia e coincidentia oppositorum. Per primo concepì l’idea dell’infinito, precorrendo Giordano Bruno e gli astronomi moderni.

Si può dire che la Riforma luterana scoppiò perché fallì l’attività riformatrice del Cusano, cioè perché la Chiesa non seppe riformarsi dall’interno. Per la tolleranza religiosa, ecc. (Nato nel 1401 ‑ morto nel 1464).

Michele Losacco, La dialettica del Cusano, nota di 38 pp. presentata dal socio Luigi Credaro nell’adunanza del 17 giugno di una istituzione che la Nuova Antologia dimentica di indicare (forse i Lincei?).

Q5 §54 I nipotini di padre Bresciani. Letteratura popolare‑nazionale. Bisognerà fissare bene ciò che deve intendersi per «interessante» nell’arte in generale e specialmente nella letteratura narrativa e nel teatro. L’elemento «interessante» muta secondo gli individui o i gruppi sociali o la folla in generale: è quindi un elemento della cultura, non dell’arte, ecc. Ma è perciò un fatto completamente estraneo e separato dall’arte? Intanto l’arte stessa interessa, è interessante cioè per se stessa, in quanto soddisfa una esigenza della vita. Ancora: oltre questo carattere più intimo all’arte di essere interessante per se stessa, quali altri elementi di «interesse» può presentare un’opera d’arte, per esempio un romanzo o un poema o un dramma? Teoricamente infinito. Ma quelli che «interessano» non sono infiniti: sono precisamente solo gli elementi che si ritiene contribuiscano più direttamente alla «fortuna» immediata o mediata (in primo grado) del romanzo, del poema, del dramma. Un grammatico si può interessare ad un dramma di Pirandello perché vuol sapere quanti elementi lessicali, morfologici e sintattici di marca siciliana il Pirandello introduce o può introdurre nella lingua italiana letteraria: ecco un elemento «interessante» che non contribuirà molto alla diffusione del dramma in parola. I «metri barbari» del Carducci erano un elemento «interessante» per una cerchia più vasta, per la corporazione dei letterati di professione, e per quelli che intendevano diventarlo: furono dunque un elemento di «fortuna» immediata già notevole, contribuirono a diffondere qualche migliaia di copie dei versi scritti in metri barbari. Questi elementi «interessanti» variano secondo i tempi, i climi culturali e secondo le idiosincrasie personali.

L’elemento più stabile di «interesse» è certamente l’interesse «morale» positivo o negativo, cioè per adesione o per contraddizione: «stabile» in un certo senso, cioè nel senso della «categoria morale», non del contenuto concreto morale. Strettamente legato a questo è l’elemento «tecnico» in un certo senso particolare, cioè «tecnico» come modo di far capire nel modo più immediato e più drammatico il contenuto morale, il contrasto morale del romanzo, del poema, del dramma: così abbiamo nel dramma i «colpi» di scena, nel romanzo l’«intrigo» prevalente, ecc. Tutti questi elementi non sono necessariamente «artistici», ma non sono neanche necessariamente non artistici. Dal punto di vista dell’arte essi sono in un certo senso «indifferenti», cioè extra‑artistici: sono dati di storia della cultura e da questo punto di vista devono essere valutati.

Che ciò avvenga, che così sia, è appunto provato dalla così detta letteratura mercantile, che è una sezione della letteratura popolare‑nazionale: il carattere «mercantile» è dato dal fatto che l’elemento «interessante» non è «ingenuo», «spontaneo», intimamente fuso nella concezione artistica, ma ricercato dall’esterno, meccanicamente, dosato industrialmente come elemento certo di «fortuna» immediata. Ciò significa, in ogni caso, però, che anche la letteratura commerciale non dev’essere trascurata nella storia della cultura: essa anzi ha un valore grandissimo proprio da questo punto di vista, perché il successo di un libro di letteratura commerciale indica (e spesso è il solo indicatore esistente) quale sia la «filosofia dell’epoca», cioè quale massa di sentimenti e di concezioni del mondo predomini nella moltitudine «silenziosa». Questa letteratura è uno «stupefacente» popolare, è un «oppio». (Da questo punto di vista si potrebbe fare un’analisi del Conte di Montecristo di A. Dumas, che è forse il più «oppiaceo» dei romanzi popolari: quale uomo del popolo non crede di aver subito un’ingiustizia dai potenti e non fantastica sulla «punizione» da infliggere loro? Edmondo Dantès gli offre il modello, lo «ubbriaca» di esaltazione, sostituisce il credo di una giustizia trascendente in cui non crede più «sistematicamente»).

Q5 §55 La Romagna e la sua funzione nella storia italiana. Cfr l’articolo di Luigi Cavina, Fiorentini e Veneziani in Romagna, nella Nuova Antologia del 16 giugno 1929. Tratta la quistione specialmente nel periodo immediatamente precedente alla lega di Cambrai contro i Veneziani, dopo la morte di Alessandro VI Borgia e la malattia del Valentino. La Romagna era elemento essenziale dell’equilibrio interno italiano, specialmente dell’equilibrio tra Venezia e Firenze e tra Venezia e il Papa: tanto Firenze che il Papa non potevano sopportare un’egemonia veneziana sulla Romagna. (Machiavelli e il Valentino, durante la campagna di questi per la conquista della Romagna: Machiavelli e il Valentino dopo la morte di Alessandro VI, durante il Conclave e nei primi tempi di Giulio II: al Valentino era venuta a mancare la base statale: tutta la sua figura politica e anche la «capacità» politico‑militare crolla; egli è diventato un comune «capitano di ventura» e, ancora, in cattive acque).

In questo articolo del Cavina c’è uno spunto «curioso». Egli cita il principio del Machiavelli: «Alcuna provincia non fu mai unita e felice, se la non viene tutta alla obedienza d’una repubblica o d’uno principe, come è avvenuto alla Francia ed alla Spagna» e continua: «E che questo non sia avvenuto all’Italia è bensì da imputarsi, con giudizio empirico, specialmente alla Chiesa – che non fu mai tanto forte da potere occupare essa tutta la penisola, né mai tanto debole da dover permettere che un altro l’occupasse, come dice il Machiavelli – e in parte anche agli altri Stati; ma è soprattutto da imputarsi al sistema dell’equilibrio delle potenze italiane. Qui è da vedersi la ragione storica e nazionale della mancata unione della patria, in quanto essa derivava non già da un pensiero individuale, ma da un effettivo pensiero universale, tramandatosi da generazione a generazione, lungo secoli, e rispondente dunque al genio nazionale». Cosa vuol dire tutto ciò? Che il «genio nazionale» consisteva nel non essere «nazionale»? E il «sistema di equilibrio» delle potenze italiane non era in gran parte determinato dalle necessità di esistenza dello Stato pontificio, che era potenza mondiale e italiana nello stesso tempo? Una grande confusione viene in questa serie di problemi dal fatto che si cercano le cause del perché un certo evento storico (unità territoriale‑politica della penisola italiana) non si è verificato prima del 1870. Ora se è difficile trovare e mettersi d’accordo sulle cause di un evento determinato, è certo molto difficile e quasi assurdo voler trovare le cause del perché la storia si sia sviluppata in un senso piuttosto che in un altro. In realtà non si tratta di un problema storico, ma di una necessità di carattere sentimentale e politico. Si parte dal presupposto (di carattere sentimentale e pratico immediato) che la nazione italiana sia sempre stata una nazione nei quadri attuali geografici ed ecco che allora ci si domanda perché non ha conseguito prima l’unità politica territoriale, come la Francia o la Spagna ecc.

Tuttavia il problema non è completamente assurdo, purché sia inteso e circoscritto esattamente nel suo carattere politico‑attuale, cioè per spiegare certi sviluppi storici legati alla vita moderna, o come elemento per studiare determinati criteri di metodo. L’accenno del Cavina all’«effettivo pensiero universale» è uno spunto interessante, se precisato e svolto nel senso che io ho fatto in altre . Cioè, l’Italia, per la sua funzione «cosmopolita», durante il periodo dell’Impero Romano e durante il Medio Evo subì passivamente i rapporti internazionali; cioè nello sviluppo della sua storia i rapporti internazionali prevalsero sui rapporti nazionali. Ma il Papato appunto è l’espressione di questo fatto; dato il carattere duplice del regno papale, di essere sede di una monarchia spirituale universale e di un principato temporale, è certo che la sua potenza terrena doveva essere limitata (il Machiavelli vide benissimo ciò, come si rileva dal III capitolo del Principe e da ciò che egli riporta d’aver detto al cardinale di Roano; il Roano, al tempo in cui il Valentino veniva occupando la Romagna, gli aveva detto che gli italiani non si intendevano di guerra, ed egli rispose che i francesi non si intendevano di Stato – di politica –, «perché se se n’intendessino, non lascerebbano venire la Chiesa in tanta grandezza», ecc. ecc.). È certo che se la Chiesa avesse avuto come principato terreno tutta la penisola, l’indipendenza degli Stati europei avrebbe corso serio pericolo: il potere spirituale può essere rispettato finché non rappresenta una egemonia politica e tutto il Medio Evo è pieno delle lotte contro il potere politico del Papa.

È vero dunque che negli italiani la tradizione dell’universalità romana e medioevale impedì lo sviluppo delle forze nazionali (borghesi) oltre il campo puramente economico-municipale, cioè le «forze» nazionali non divennero «forza» nazionale che dopo la Rivoluzione francese e la nuova posizione che il papato ebbe ad occupare in Europa, posizione irrimediabilmente subordinata, perché limitata e contesa nel campo spirituale dal laicismo trionfante. Tuttavia questi elementi internazionali «passivamente» prementi sulla vita italiana continuarono a operare fino al 1914 e anche (sempre meno forti) fino alla Conciliazione del febbraio 1929 e continuano anche oggi in una certa misura, determinando i rapporti esterni tra Stato italiano e Pontefice, costringendo a un certo linguaggio ecc.

(Bisognerebbe poter fare, per comprendere esattamente il grado di sviluppo raggiunto dalle forze nazionali in Italia nel periodo che va dal nascere dei Comuni al sopravvento del dominio straniero, una ricerca del tipo di quella del Groethuysen nelle Origines de l’esprit bourgeois en France. Bisognerebbe ricercare questi elementi nelle «Cronache», negli «Epistolari», nei libri di politica, nella letteratura amena, e nei libri dei pedagogisti o dei trattatisti di morale ecc. Un libro molto interessante è quello di Leon Battista Alberti, per esempio. Si potrebbe vedere per la bibliografia le storie della pedagogia in Italia ecc. Il Cortegiano di B. Castiglione indica già il prevalere di un altro tipo sociale, come modello, che non sia il borghese delle Repubbliche comunali ecc. Un posto a parte i grandi scrittori di politica, come il Machiavelli e il Guicciardini. Così un posto a parte gli scritti religiosi, prediche, trattati, ecc.).

Q5 §56 Azione Cattolica. La pace industriale (di A. Brucculeri) nella «Civiltà Cattolica» del 5 gennaio 1929. (Annota i tentativi fatti in Inghilterra per la pace industriale, le tendenze collaborazioniste del bit, i comitati paritetici di fabbrica, la legislazione del lavoro, gli alti salari in America, ecc.). Questa serie di articoli del Brucculeri sulle quistioni industriali è stata poi raccolta in volume. Il Brucculeri fa parte (o ha fatto parte) dell’Ufficio di Malines che ha compilato il Codice Sociale.

Q5 §57 L’Azione Cattolica negli Stati Uniti. Articolo della «Civiltà Cattolica» del 5 gennaio 1929 su La Campagna elettorale degli Stati Uniti e le sue lezioni. A proposito della candidatura Smith alla presidenza della Repubblica.

La «Civiltà Cattolica» registra l’accanita resistenza delle Chiese protestanti contro Smith e parla di «guerra di religione». Non c’è accenno alla posizione assunta dallo Smith verso il Papa nella sua famosa lettera (cfr libro del Fontaine sulla Santa Sede ecc.), che è un elemento di americanismo cattolico. (Posizione dei cattolici contro il proibizionismo e a favore dei farmers). Si vede che ogni azione concentrata dei cattolici provoca una tale reazione che i risultati sono inferiori alla forza che i cattolici dicono di possedere, quindi pericoli di azione su scala nazionale concentrata: è stato un errore per i cattolici fondarsi su un partito tradizionale come quello democratico? mostrare la religione come legata a un determinato partito? d’altronde potrebbero, nel sistema attuale americano, fondare un proprio partito? L’America è un terreno interessante per studiare la fase attuale del cattolicismo sia come elemento culturale che come elemento politico.

Q5 §58 L’Azione Cattolica. Una delle misure più importanti escogitate dalla Chiesa per rafforzare la sua compagine nei tempi moderni è l’obbligo fatto alle famiglie di far fare la prima comunione ai sette anni. Si capisce l’effetto psicologico che deve fare sui bambini di sette anni l’apparato cerimoniale della prima comunione, sia come avvenimento familiare individuale, sia come avvenimento collettivo: e quale fonte di terrori divenga e quindi di attaccamento alla Chiesa. Si tratta di «compromettere» lo spirito infantile appena incomincia a riflettere. Si capisce perciò la resistenza che la misura ha trovato nelle famiglie, preoccupate dagli effetti deleteri sullo spirito infantile di questo misticismo precoce e la lotta della Chiesa per vincere questa opposizione. (Ricordare nel Piccolo Mondo Antico di Fogazzaro la lotta tra Franco Maironi e la moglie quando si tratta di condurre la bimbetta in barca, in una notte tempestosa, ad assistere alla messa di Natale. Francoa Maironi vuol creare nella bimba dei «ricordi» incancellabili, delle «impressioni» decisive; la moglie non vuole turbare lo sviluppo normale dello spirito della figlia, ecc.). La misura è stata decretata da Pio X nel 1910. Nel 1928 l’editore Pustet di Roma ne ha ripubblicato il decreto con prefazione del cardinal Gasparri e commento di monsignor Jorio, dando luogo a una nuova campagna di stampa.

Q5 §59 L’Azione Cattolica in Germania. I Cattolici tedeschi per iniziativa dell’Episcopato hanno, già dal 1919, fondato una «Lega di Pace dei Cattolici tedeschi». Su questa Lega, sulle iniziative successive per svilupparla e sul suo programma confrontare la «Civiltà Cattolica» del 19 gennaio 1929.

In questo stesso fascicolo vedi la lettera di Pio XI al cardinal Bertram, arcivescovo di Breslavia, a proposito dell’Azione Cattolica in Germania, e che deve considerarsi come un intervento personale del Papa per dare un maggiore impulso al movimento dell’Azione Cattolica che in Germania pare non trovi caldi organizzatori: la lettera del Papa è un vero programma teorico‑pratico ed è interessante in generale, oltre che per la Germania. La «Civiltà Cattolica» commenta a lungo la lettera e si capisce che il commento serve anche per altri paesi.

Q5 §60 La schiavitù del lavoro indigeno (di A. Brucculeri) nella «Civiltà Cattolica» del 2 febbraio 1929. Riassume le quistioni che si riferiscono allo stato di schiavitù ancora esistente in parecchi paesi (Abissinia, Nepal, Tibet, Heggiaz, ecc.): alla condizione schiavile delle donne nei paesi a poligamia; al lavoro forzato cui sono sottoposti gli indigeni in molte colonie (per es. nell’Africa centrale francese); alle forme di schiavitù o servitù della gleba determinate in molti paesi dai debiti e dall’usura (in America il peonaggio; America centrale e meridionale; in India). (Questo fatto avveniva, e forse avverrà ancora, anche per gli emigranti italiani nell’America Meridionale: per avere il viaggio pagato, di poche centinaia di lire, l’emigrato lavora gratis per un certo tempo). Nei casi di usura premeditata, il debito non si estingue mai e la servitù si tramanda anche di generazione in generazione. Lavoro dei bambini e delle donne nelle fabbriche cinesi. Nell’articolo c’è una certa bibliografia specialmente per la schiavitù.

Q5 §61 Rotary Club. Confrontare nella «Civiltà Cattolica» del 16 febbraio 1929 l’articolo Ancora Rotary Club e Massoneria. Gli argomenti dei gesuiti per mettere in guardia contro il carattere massonico del Rotary vi sono esauriti. Il «sospetto» è di due gradi: 1) che il Rotary sia una vera e propria emanazione della massoneria tradizionale; 2) che il Rotary sia un nuovo tipo di massoneria. A questi due motivi si intrecciano altri di carattere subordinato: 1) che in ogni caso la massoneria tradizionale se ne serva astutamente approfittando dell’«ingenuità» e dell’agnosticismo dei rotariani; 2) il carattere «agnostico», di indifferenza o di tolleranza religiosa, del Rotary è per i gesuiti un tal difetto capitale da indurli a una levata di scudi e a prendere atteggiamenti di sospetto e di polemica (stadio preparatorio che potrebbe concludersi con la condanna del Rotary da parte della Chiesa). Questo secondo motivo non dà luogo ancora a una campagna a fondo, preludio di una «scomunica», perché i gesuiti devono distinguere tra paesi a maggioranza cattolica e paesi a maggioranza acattolica. In questi ultimi essi domandano la tolleranza religiosa, senza cui non potrebbero diffondersi: la loro posizione «offensiva» richiede anzi l’esistenza di istituzioni amorfe in cui inserirsi per procederne alla conquista. Nei paesi cattolici, la posizione «difensiva» domanda invece la lotta a fondo contro le istituzioni amorfe che offrono terreno favorevole agli acattolici in generale.

La fase attuale dell’atteggiamento verso il Rotary è: di offensiva ideologica senza sanzioni pratiche di carattere universale (scomunica o altra forma attenuata di proibizione) e neanche nazionale, ma solo di carattere vescovile (in qualche diocesi, spagnola per esempio, il vescovo ha preso atteggiamento contro il Rotary). L’offensiva ideologica si basa su questi punti: 1) il Rotary ha origini massoniche; 2) in molti paesi si trova nelle migliori relazioni con la massoneria; 3) in qualche luogo ha assunto un atteggiamento apertamente ostile al cattolicismo; 4) la morale rotariana non è se non un travestimento della morale laica massonica.

Il problema dell’atteggiamento dei gesuiti verso il Rotary è complicato dalle condizioni italiane: il Rotary è permesso in Italia, mentre la massoneria è illegale; sostenere in forma tassativa che il Rotary è un travestimento della massoneria o un suo strumento, porterebbe a conseguenze di carattere giudiziario. Inoltre i rotariani hanno iniziato la loro vita italiana sotto auspici eminenti: uno dei primi rotariani è stato il principe ereditario, noto per le sue tendenze cattoliche e devote. In ogni caso, poi, per riconoscimento dei rotariani stranieri, il Rotary italiano ha un suo particolare carattere, legato alla situazione locale. La «Civiltà Cattolica» riporta alcuni brani di una relazione di Stanley Leverton, pubblicata dopo una visita ai clubs d’Italia per incarico del Rotary Internazionale, in «The Rotary Wheel», organo ufficiale del Rotary Britannico, e riportata nel fascicolo di agosto 1928, p. 317, dell’organo italiano «Il Rotary»: «si ha l’impressione che in Italia il Rotary non tiri la nostra stessa barca»; «il loro Rotary è il solo Rotary possibile in Italia», «appare un po’ diverso, piuttosto un primo cugino che un fratello»; «il loro presente regime dirige le loro attività con larghezza di propositi (eh eh!!! – esclama lo scrittore della “Civiltà Cattolica” ma il loro fine è uguale al nostro...»; «per quanto possa sembrare inconsueto e diverso, vi è sempre una buona ragione perché esso sia così». «Ad ogni modo il signor Leverton ha l’impressione che i Rotariani italiani», per quanto ecc. ecc., «sono gli uomini che stanno facendo l’Italia moderna».

Q5 §62 Redazione della «Civiltà Cattolica». Gli articoli sulla massoneria sono scritti dal padre Pietro Pirri (è probabile che il Pirri abbia scritto quindi gli articoli sul Rotary). Gli articoli d’arte dal padre Carlo Bricarelli (che di solito firma). Gli articoli sull’unità delle Chiese dal padre Celi; sulla scienza naturale (quistioni dell’evoluzionismo e del trasformismo) dal padre Gaya; sulla letteratura (specialmente su Dante) dal Busnelli, ecc. Il padre Brucculeri scrive sulle quistioni economiche e industriali. Sotto il titolo Problemi odierni del lavoro ha raccolto (in un volume in 8° di pp. 145, L. 8) i seguenti articoli già apparsi nella «Civiltà Cattolica» anonimi: 1) L’organizzazione internazionale; 2) L’organizzazione scientifica; 3) L’orientazione professionale; 4) Verso la pace industriale; 5) La schiavitù del lavoro indigeno. Del padre Brucculeri erano già uscite presso l’Amministrazione della «Civiltà Cattolica» le seguenti pubblicazioni (certamente estratte dalla rivista): 1) Salariato e compartecipazione, in 16°, di pp. 70, L. 2,50; 2) Il problema della terra, IIa ed., in 16°, pp. 162, L. 3,50; 3) Lo sciopero nella storia, nella morale, nell’economia, IIa ed., in 16°, pp. 136, L. 5,00; 4) La limitazione della giornata di lavoro e il principio delle otto ore, IIa ed., in 16°, pp. 50 5 lire; 5) Sul problema di Malthus. Rilievi, L. 7,50.

Q5 §63 I nipotini di padre Bresciani. Scrittori «tecnicamente» brescianeschi. Per questi scrittori occorre vedere: Giovanni Casati, Scrittori cattolici italiani viventi. Dizionario biobibliografico ed indice analitico delle opere, con prefazione di Filippo Meda, Milano, Romolo Ghirlanda editore, Via Unione 7, in 8°, pp. VIII‑112, L. 15,00. Di questo dizionario occorrerà vedere anche le possibili successive edizioni e confrontarle tra loro, per controllare le aggiunte o le omissioni volute.

Don Giovanni Casati è lo specialista cattolico in bio‑bibliografia. Dirige la «Rivista di Letture» che consiglia e sconsiglia i libri da leggere e da acquistare per i privati e per le biblioteche cattoliche; sta compilando un repertorio Scrittori d’Italia dalle origini fino ai viventi in ordine alfabetico (secondo l’articolo della «Civiltà Cattolica» del 2 marzo 1929 da cui tolgo queste notizie, sono comparsi finora quelli delle lettere A‑B); ha scritto un volume di Saggi di libri letterari condannati dall’Indice.

Nel dizionario degli Scrittori cattolici italiani viventi ne sono registrati 591. Alcuni non risposero all’appello; il Casati, nel caso di scrittori che pubblicano libri presso librerie non cattoliche, ne ha interpretato il silenzio «come tacita preghiera di non farli figurare nel dizionario». Bisognerebbe vedere perché sono stati richiesti: perché «battezzati» o perché nei loro libri appariva un carattere strettamente e confessatamente «cattolico»? Dice la «Civiltà Cattolica» che nel Dizionario mancano, per esempio, Gaetano De Sanctis, Pietro Fedele e «non pochi altri professori d’Università e scrittori di vaglia». Il De Sanctis è certamente uno scrittore «cattolico», volutamente, confessatamente cattolico: ma Pietro Fedele? Lo sarà diventato negli ultimi anni; non lo fu certamente almeno fino al 1924. Appare dunque che il criterio nel fissare la «cattolicità» non è stato molto rigoroso e che si è voluto confondere tra «cattolici» scrittori e scrittori «cattolici».

Nel Dizionario non sono inclusi i giornalisti e pubblicisti che non hanno pubblicato qualche libro: così non appare il conte Della Torre, direttore dell’«Osservatore Romano» e il Calligari (Mikros) direttore dell’«Unità Cattolica» (morto recentemente). Alcuni si scusano «per modestia».

Chi sono i «convertiti» compresi nel Dizionario? (Tipi: Papini, Giuliotti, Mignosi, ecc.). Dice la «Civiltà Cattolica»: «Dalla guerra in qua si nota un certo ridestarsi della coscienza religiosa negli scrittori contemporanei, un interessamento insolito per i problemi religiosi, un orientarsi più di frequente verso la Chiesa Cattolica, al quale (orientarsi) avranno certamente non poco contribuito i convertiti compresi nel dizionario del Casati».

Dei 591 scrittori cattolici italiani viventi, 374 («salvo errore», scrive la «Civiltà Cattolica») sono uomini di Chiesa, sacerdoti e religiosi, tra cui tre cardinali, nove vescovi, tre o quattro abati (senza contare Pio XI); 217 sono laici, tra cui 49 donne: una sola donna è religiosa.

La «Civiltà Cattolica» nota qualche errore. Esiste un Katholischer Literaturkalender (ed. Herder, Freiburg i. B., 1926) che registra 5313 scrittori cattolici tedeschi. Per la Francia, l’Almanach Catholique Français (pubblicato da Bloud et Gay, Parigi, fin dal 1920) pubblica un piccolo dizionario delle «principales personnalités catholiques». Per l’Inghilterra, The Catholic Who’s Who, 1928 (Londra, Burns Oates and Washbourne).

La «Civiltà Cattolica» si augura che, allargati i quadri (inclusione giornalisti e pubblicisti) e vinta la ritrosia dei «modesti», l’elenco italiano si raddoppi, il che sarebbe sempre ben poco. Il curioso è che la «Civiltà Cattolica» parli di «snidare alcuni dalla propria modestia» e accenna all’«orientalista prof. P. S. Rivetta», il quale se è modesto come «orientalista» e come «prof. P. S. Rivetta», non è certo modesto come «Toddi», freddurista del «Travaso delle Idee», e redattore del foglio «Via Vittorio Veneto» per le garçonnes e per i frequentatori dei caffè di lusso e per tutti gli snobs.

Q5 §64 Chiesa e Stato in Italia prima della Conciliazione. È da rivedere a questo proposito l’articolo La Conciliazione fra lo Stato italiano e la Chiesa (Cenni cronistorici) nella «Civiltà Cattolica» del 2 marzo 1929 (la rubrica continua nei fascicoli successivi ed è da rivedere), per alcuni accenni interessanti (– interessanti anche perché avere accennato, a certi fatti indica che ad essi, quando avvennero, si dava una certa importanza –). Così si fa un cenno speciale alla «Settimana Sociale» di Venezia del 1912, presieduta dal Marchese Sassoli de Bianchi e alla «Settimana sociale» di Milano del 1913 che trattò delle «libertà civili dei cattolici»; perché proprio nel 1912 e 1913 i cattolici come organizzazione di massa trattarono della Quistione romana e ne determinarono i punti fondamentali da superare per la sua soluzione? Basta pensare alla guerra libica, e al fatto che in ogni periodo di guerra lo Stato ha bisogno della massima pace e unità morale e civile.

In questo articolo sono riportati brani di articoli d’occasione pubblicati al momento della conciliazione. Così il sen. Petrillo (nel «Popolo d’Italia» del 17 febbraio 1929) ricorda ciò che avvenne nei circoli governativi e parlamentari italiani alla morte di Benedetto XV. (Il governo Bonomi voleva evitare una commemorazione in Parlamento di Benedetto XV, ciò che avrebbe costretto il governo a intervenire ed esso non voleva fare nessuna manifestazione politica né in un senso né in un altro. Bonomi era appoggiato dai popolari e aveva ministri popolari nel gabinetto; ricordare che io mi trovavo a Roma in quei giorni e mi recai da Bevione – sottosegretario alla presidenza – in compagnia di Bombacci per avere un passaporto: Bevione era impaziente e voleva assicurarsi che nessun gruppo avrebbe preso un’iniziativa che potesse trascinare altri gruppi e mettere il governo nella necessità di intervenire. In realtà nessuno parlò, ma Petrillo si guarda bene dallo spiegare perché, proprio nessuno, nessuno, abbia parlato. Sarebbe stato bene, da certi punti di vista, che avesse parlato Salandra, si può concedere; ma perché, avendo rifiutato Salandra di parlare, nessun altro parlò? e perché solo Salandra deve essere rimproverato?).

Q5 §65 Risorgimento. Il nodo storico 1848‑49. L’ultimo paragrafo di un lungo articolo della «Civiltà Cattolica» (2 marzo ‑ 16 marzo 1929), Il P. Saverio Bettinelli e l’abbate Vincenzo Gioberti, può essere interessante come spunto. Sempre in polemica col Gioberti, la «Civiltà Cattolica», ancora una volta, dice di voler smentire l’affermazione che i gesuiti del secolo XIX siano stati avversari dell’Italia e anzi cospiranti coll’Austria. Secondo la «Civiltà Cattolica»: «Cominciando da Pio IX fino al più semplice prete di contado, l’unità italiana non era avversata da nessuno. Si potrebbe anche dimostrare ... che all’invito di Pio IX, nel 1848, per una lega italiana e per l’unione politica dell’Italia, chi si oppose fu il solo ministero piemontese. Il clero italiano, e ciò è da porsi fuori di ogni dubbio, chi non voglia negare la luce meridiana, non si oppose all’unità ma la voleva in modo diverso in quanto all’esecuzione. Questa era l’idea di Pio IX, dell’alta gerarchia de’cardinali, e dello stesso antico partito conservatore piemontese, capitanato dal conte Solaro della Margarita». Difende specificatamente i gesuiti dall’accusa di antiunitarismo e austriacantismo contro un articolo di Antonio Bruers pubblicato nella «Stirpe» dell’agosto 1928: il Bruers recensisce sfavorevolmente il libro del prof. U. A. Padovani della Università del Sacro Cuore, Vincenzo Gioberti e il Cattolicesimo, Milano, Soc. Ed. «Vita e Pensiero», 1927, che appunto deve polemizzare col Gioberti per il suo antigesuitismo. Scrive la «Civiltà Cattolica»: «In sentenza definitiva, accertiamo che i gesuiti, come Pio IX, e tutto in generale il clero italiano e l’intero partito conservatore laicale che non era poco, non combatterono mai l’unità in se stessa, ma l’unità violenta come si andava praticando, ossia il modo di attuare quell’unità che era nel desiderio comune. Oh che non si può amare la patria se non alla stregua altrui?» Ricorda poi che «a far porre nell’Indice dei libri proibiti le opere del Gioberti, fu lo stesso re Carlo Alberto» e nota gesuitescamente «dunque il re Carlo Alberto avrebbe condannato la politica del Gioberti, cioè la propria!»; ma probabilmente nel momento in cui Carlo Alberto domandava i rigori della Chiesa contro Gioberti, la sua politica era quella di Solaro della Margarita. In ogni modo è bellissimo il fatto paradossale che oggi i gesuiti possano mettere nel sacco questi scrittorelli tipo Bruers.

Q5 §66 I nipotini di padre Bresciani. Ugo Ojetti e i gesuiti. La Lettera al Rev. Padre Enrico Rosa di U. Ojetti è stata pubblicata nel «Pégaso» del marzo 1929 e riportata nella «Civiltà Cattolica» del 6 aprile successivo con la lunga postilla del p. Rosa stesso. La lettera dell’Ojetti è raffinatamente gesuitica. Comincia così: «Rev.do Padre, tanta è dall’11 febbraio la calca dei convertiti a un cattolicesimo di convenienza e di moda che Ella permetterà ad un romano, di famiglia, come si diceva una volta, papalina, battezzato in S. Maria in Via ed educato alla religione proprio in S. Ignazio di Roma e da loro gesuiti, d’intrattenersi mezz’ora con Lei, di riposarsi cioè dal gran bailamme considerando un uomo come lei, integro e giudizioso, che era ieri quel ch’è oggi e quello che sarà domani». Più oltre, ricordando i suoi primi maestri gesuiti: «Ed eran tempi difficili, ché fuori a dir Gesuita era come dire subdola potenza o fosca nequizia, mentre là dentro, all’ultimo piano del Collegio Romano sotto i tetti (– dove era posta la scuola – di religione – gesuita dove l’Ojetti fu educato –), tutto era ordine, fiducia, ilare benevolenza e, anche in politica, tolleranza e mai una parola contro l’Italia, e mai, come purtroppo accadeva nelle scuole di Stato, il basso ossequio alla supremazia vera o immaginaria di questa o di quella cultura straniera sulla nostra cultura». Ancora: ricorda di essere «vecchio abbonato della “Civiltà Cattolica”» e «fedele lettore degli articoli ch’Ella vi pubblica» e perciò «io scrittore mi dirigo a lei scrittore, e le dichiaro il mio caso di coscienza». C’è tutto: la famiglia papalina, il battesimo nella chiesa gesuitica, l’educazione gesuitica, l’idillio culturale di queste scuole, i gesuiti soli o quasi soli rappresentanti della cultura nazionale, la lettura della «Civiltà Cattolica», il padre Rosa come vecchia guida spirituale dell’Ojetti, il ricorso dell’Ojetti oggi alla sua guida per un caso di coscienza.

L’Ojetti dunque non è un cattolico di oggi, un cattolico dell’11 febbraio, per convenienza o per moda; egli è un gesuita tradizionale, la sua vita è un «esempio» da portare nelle prediche ecc. L’Ojetti non è mai stato «made in Paris», non è mai stato un dilettante dello scetticismo e dell’agnosticismo, non è mai stato voltairriano, non ha mai considerato il cattolicesimo tutto al più come un puro contenuto sentimentale delle arti figurative. Perciò l’11 febbraio l’ha trovato preparato ad accogliere la Conciliazione con «ilare benevolenza»; egli non pensa neppure (dio liberi) che si possa trattare di un instrumentum regni perché egli stesso ha sentito «che forza sia nell’animo degli adolescenti il fervore religioso, e come, una volta acceso, esso porti il suo calore in tutti gli altri sentimenti, dall’amore per la patria e per la famiglia fino alla dedizione verso i capi, dando alla formazione morale del carattere addirittura un premio e una sanzione divina». Non è questa, in compendio, la biografia, anzi l’autobiografia dell’Ojetti? Però, però: «E la poesia? E l’arte? E il giudizio critico? E il giudizio morale? Tornerete tutti a obbedire ai gesuiti?» domanda uno spiritello all’Ojetti, nella persona di «un poeta francese, che è davvero un poeta»-

L’Ojetti non per nulla è stato alla scuola dei gesuiti: a queste domande ha trovato una soluzione squisitamente gesuitica, salvo che in un aspetto: nell’averla divulgata e resa aperta. L’Ojetti dovrebbe ancora migliorare la sua «formazione morale del carattere» con sanzione e premio divino: queste sono cose che si fanno e non si dicono: Ecco infatti la soluzione dell’Ojetti: «... la Chiesa, fermi i suoi dogmi, sa indulgere ai tempi e ben l’ha dimostrato nel Rinascimento (ma dopo il Rinascimento c’è stata la Controriforma, di cui i gesuiti sono appunto campioni e rappresentanti) e Pio undecimo, umanista, sa di quant’aria abbisogni la poesia per respirare; e che ormai da molti anni, senza aspettare la Conciliazione, anche in Italia la cultura laica e quella religiosa collaborano cordialmente nella scienza e nella storia». «Conciliazione non è confusione. Il Papato condannerà com’è suo diritto; il Governo d’Italia permetterà com’è suo dovere. E Lei, se lo crederà opportuno, spiegherà sulla “Civiltà Cattolica” i motivi della condanna e difenderà le ragioni della fede; e noi qui, senza ira, difenderemo le ragioni dell’arte, se proprio ne saremo convinti, perché potrà darsi, come spesso è avvenuto da Dante al Manzoni, da Raffaello al Canova, che anche a noi fede e bellezza sembrino due lati dello stesso volto, due raggi della stessa luce. E talvolta ci sarà caro educatamente discutere. Baudelaire, ad esempio, è o non è un poeta cattolico?» «Il fatto è che oggi il conflitto pratico e storico è risolto. Ma quell’altro – tra assoluto e relativo, tra spirito e corpo, eterno contrasto che è nella coscienza di ciascuno di noi, dice Ojetti, cosa per cui B. Croce e G. Gentile, non cattolici, furono contro il modernismo (?), soddisfatti (?) di vederlo sconfitto perché (?) sarebbe stato la cattiva (?) Conciliazione, il subdolo equivoco fatto sacra dottrina – che è intimo ed eterno (e se è eterno come può essere conciliato?) non lo è, non può esserlo; e l’aiuto che a ciascuno può dare e dà quotidianamente la religione per risolverlo, a noi cattolici (come si può essere cattolici col “contrasto eterno”? si può essere tutt’al più gesuiti!) la religione lo dava anche prima. Pochezza nostra se non siamo riusciti ancora con quell’aiuto a risolverlo una volta per sempre (!?); ma Ella sa che proprio dal continuo risorgere, rinnovarsi e rinfocarsi di quell’eterno conflitto sprizzano e sfavillano poesia ed arte».

Documento stupefacente davvero digesuitismo e di bassezza morale. L’Ojetti può creare una nuova setta supergesuitica: un modernismo estetizzante gesuitico.

La risposta del p. Rosa è meno interessante perché gesuiticamente più anodina: il Rosa si guarda bene dal guardare per il sottile nel cattolicismo di Ojetti e in quello dei neo convertiti. Troppo presto: è bene che Ojetti e C. si dicano cattolici e si strofinino ai gesuiti, forse anzi da loro non si domanderà di più. Dice bene il Rosa: «convenienza o moda tuttavia – diciamolo tra noi in confidenza e di passaggio – che è forse un minor male e quindi un certo bene, rispetto a quella convenienza o moda antecedente, di futile anticlericalismo e di gretto materialismo, per cui molti (...) si tenevano lontani dalla professione della fede che pure serbavano ancora in fondo all’anima “naturalmente cristiana”».

Q5 §67 Azione Cattolica. Ricordare, per uno studio della struttura mondiale del Cattolicesimo, l’«Annuario Pontificio», che si pubblica in grossi volumi di circa 1000 pp. a Roma presso la Tipografia Poliglotta Vaticana.

Per l’Azione Cattolica italiana in senso stretto (laico) vedere gli Almanacchi Cattolici pubblicati ora da «Vita e Pensiero»: il più interessante e di maggiore valore storico è l’Almanacco Cattolico per il 1922 che registra la situazione cattolica nel primo periodo del dopoguerra.

Q5 §68 Mons. Francesco Lanzoni, Le Diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII (anno 604), Studio critico, Faenza, Stab. Graf. F. Lega, 1927, «Studi e Testi», n. 35, pp. XVI‑1122, L. 125 (in appendice un Excursus sui Santi africani venerati in Italia). Opera fondamentale per lo studio sulla vita storica locale in Italia in questi secoli: risponde alla domanda: come vennero formandosi i raggruppamenti culturali religiosi durante il tramonto dell’Impero romano e l’inizio del Medio Evo) Evidentemente questo raggrupparsi non può essere separato dalla vita economica e sociale e dà indicazioni per la storia del nascere dei Comuni. Per l’origine delle città mercantili. Un’importante sede vescovile non poteva mancare di certi servizi ecc. (vettovagliamento, difesa militare ecc.) che determinavano un raggruppamento di elementi laici intorno a quelli religiosi (questa origine «religiosa» d’una serie di città medioevali, non è studiata dal Pirenne, almeno nel libretto da me posseduto; vedere nella bibliografia delle sue opere complete): la stessa scelta della sede vescovile è un’indicazione di valore storico, perché sottintende una funzione organizzativa e centralizzatrice del luogo scelto. Dal libro del Lanzoni sarà possibile ricostruire le quistioni più importanti di metodo nella critica di questa ricerca in parte di carattere deduttivo e la bibliografia.

Sono importanti anche gli studi del Duchesne sul cristianesimo primitivo (per l’Italia: Les évêchés d’Italie et l’invasion Lombarde, e Le sedi episcopali dell’antico Ducato di Roma) e sulle antiche diocesi della Gallia, e gli studi dello Harnack sulle origini cristiane, specialmente Die Mission und Ausbreitung des Christentums. Oltre che per l’origine dei centri di civiltà medioevali tali ricerche sono interessanti per la storia reale del Cristianesimo, naturalmente.

Q5 §69 Nozioni enciclopediche. Nella polemica sulle funzioni dello Stato, lo Stato «guardiano notturno» (veilleur de nuit) corrisponde all’italiano «lo Stato carabiniere» cioè lo Stato le cui funzioni sono limitate alla sicurezza pubblica e al rispetto delle leggi, mentre lo sviluppo civile è lasciato alle forze private, della società civile. Pare che l’espressione «veilleur de nuit» che ha un valore più sarcastico che non «Stato carabiniere» o «Stato poliziotto», sia di Lassalle. Il suo opposto è lo «Stato etico» o lo «Stato intervenzionista» in generale: ma ci sono differenze tra una e altra espressione: «Stato etico» è di origine filosofica (Hegel) e si riferisce piuttosto all’attività educativa e morale dello Stato; «Stato intervenzionista» è di origine economica ed è legato alle correnti protezionistiche o di nazionalismo economico. Le due correnti tendono a fondersi, ma la cosa non è necessaria. Naturalmente i liberali sono per lo Stato veilleur de nuit in maggiore o minore misura: gli «economisti» totalmente, i filosofi con distinzioni molto importanti, perché presuppongono la lotta del laicismo contro le religioni positive nella società civile. I cattolici realmente sono agnostici: essi vorrebbero lo Stato intervenzionista a loro favore; in assenza di ciò, lo Stato indifferente, perché se lo Stato non è favorevole, potrebbe aiutare i loro nemici: in realtà i cattolici vogliono tutto per loro.

Q5 §70 Stato è Chiesa. La circolare ministeriale su cui insiste «Ignotus» nel suo libretto Stato fascista, Chiesa e Scuola (Libreria del Littorio, Roma, 1929), dicendo che «non viene da molti giudicata un monumento di prudenza politica, in quanto si esprimerebbe con eccessivo zelo, con quello zelo che Napoleone (vorrà dire Talleyrand) non voleva assolutamente, con uno zelo che potrebbe sembrare eccessivo se il documento anziché da un Ministero civile, fosse stato diramato dalla stessa amministrazione ecclesiastica» è firmata dal ministro Belluzzo e inviata il 28 marzo 1929 ai Provveditori (Circolare n. 54 pubblicata nel «Bollettino Ufficiale» del Ministero dell’Educazione Nazionale il 16 aprile 1929, riportata integralmente nella «Civiltà Cattolica» del 18 maggio successivo). Secondo «Ignotus» questa circolare avrebbe facilitato ai cattolici un’interpretazione estensiva dell’articolo 36 del Concordato. Ma è poi vero? «Ignotus» scrive che l’Italia con l’art. 36 del Concordato non riconoscerebbe ma appena (!?) considererebbe «fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della Dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica». Ma è logica questa restrizione di «Ignotus» e questa interpretazione cavillosa del verbo «considerare»? La quistione certo è grave e probabilmente i compilatori dei documenti non pensarono a tempo alla portata delle loro concessioni, quindi questo brusco arretramento. (È da pensare che il cambiamento di nome del Ministero, da «Istruzione pubblica» in «Educazione nazionale», sia legato a questa necessità di interpretazione restrittiva dell’articolo 36 del Concordato, volendo poter affermare che altro è «istruzione», momento «informativo», ancora elementare e preparatorio, e altro è «educazione», momento «formativo», coronamento del processo educativo, secondo la pedagogia del Gentile).

Le parole «fondamento e coronamento» del Concordato ripetono l’espressione del R. Decreto 1° ottobre 1923 n. 2185 sull’Ordinamento dei gradi scolastici e dei programmi didattici dell’istruzione elementare: «A fondamento e coronamento della istruzione elementare in ogni suo grado è posto l’insegnamento della dottrina cristiana, secondo la forma ricevuta nella tradizione cattolica». Il 21 marzo 1929 la «Tribuna» in un articolo, L’insegnamento religioso nelle scuole medie, ritenuto di carattere ufficioso, scrisse: «Lo Stato fascista ha disposto che la religione cattolica, base dell’unità intellettuale e morale del nostro popolo, fosse insegnata non soltanto nella scuola dei fanciulli, ma anche in quella dei giovani».

I cattolici, naturalmente, mettono in relazione tutto ciò col 1° articolo dello Statuto, riconfermato nel 1° articolo del Trattato con la Santa Sede interpretando che lo Stato, in quanto tale, professa la religione cattolica e non già solo che lo Stato, in quanto, nella sua attività, ha bisogno di cerimonie religiose, determina che esse devono essere «cattoliche». Confrontare sul punto di vista cattolico per la scuola pubblica l’articolo (del padre M. Barbera) Religione e filosofia nelle scuole medie, nella «Civiltà Cattolica» del 1° giugno 1929.

Q5 §71 Natura dei Concordati. Nella sua lettera al cardinal Gasparri del 30 maggio 1929, Pio XI scrive: «Anche nel Concordato sono in presenza, se non due Stati, certissimamente due sovranità pienamente tali, cioè pienamente perfette, ciascuna nel suo ordine, ordine necessariamente determinato dal rispettivo fine, dove è appena d’uopo soggiungere che la oggettiva dignità dei fini, determina non meno oggettivamente e necessariamente l’assoluta superiorità della Chiesa».

Questo è il terreno della Chiesa: avendo accettato due strumenti distinti nello stabilire i rapporti tra Stato e Chiesa, il Trattato e il Concordato, si è accettato questo terreno necessariamente: il Trattato determina questo rapporto tra due Stati, il Concordato determina i rapporti tra due sovranità nello «stesso Stato», cioè si ammette che nello stesso Stato ci sono due sovranità uguali, poiché trattano a parità di condizioni (ognuna nel suo ordine). Naturalmente anche la Chiesa sostiene che non c’è confusione di sovranità, ma perché sostiene che nello «spirituale» allo Stato non compete sovranità e se lo Stato se l’arroga, commette usurpazione. Anche la Chiesa sostiene inoltre che non ci può essere duplice sovranità nello stesso ordine di fini, ma appunto perché sostiene la distinzione dei fini e si dichiara unica sovrana nel terreno dello spirituale.

Q5 §72 Passato e presente. Articolo dell’«Osservatore Romano» dell’11‑12 marzo, riportato (alcuni brani) dalla «Civiltà Cattolica» del 6 aprile 1929: «Così come non desta più l’impressione funesta, che sembra indurre in altri, la parola “rivoluzione”, allorché vuole indicare un programma e un moto che si svolge nell’ambito degli istituti fondamentali dello Stato, lasciando al loro posto il Monarca e la Monarchia: vale a dire gli esponenti maggiori e più sintetici dell’Autorità politica del Paese; senza sedizione cioè né insurrezione, da cui non sembravano poter prescindere fin qui il senso ed i mezzi di una rivoluzione».

Q5 §73 Direzione politico‑militare della guerra. Nella «Nuova Antologia» del 16 giugno 1929 è pubblicata una piccola nota a firma G. S. (o non era forse C. S., cioè Cesare Spellanzon? Sarebbe grossa!) Beneš l’immemore, abbastanza curiosa perché si afferma che la «politica delle nazionalità» fu voluta dai nostri più avveduti uomini politici, caldeggiata con pronto intuito dai maggiori giornali dell’interventismo, adottata spontaneamente dal governo italiano. È vero che G. S. scrive che questa politica si precisava sin d’allora «nei suoi veri termini», cioè favorevole specialmente all’Italia, ma non è neppure vero in questo senso ristretto, perché la politica delle nazionalità si «impose» solo dopo l’ottobre 1917. Ora G. S. si lamenta che Beneš nei suoi Souvenirs de guerre et de révolution (Ernest Leroux, Parigi) attenui i ricordi dell’amicizia «bellica» e giunga alla conclusione che tutti i guai dell’Italia durante e dopo la guerra siano da attribuirsi alla mancanza di chiarezza e di decisione della politica di guerra del paese.

Q5 §74 Funzione cosmopolitica degli intellettuali italiani. Alto medioevo (fase culturale dell’avvento del Medio Latino). Confrontare la Storia della letteratura latina cristiana di A. G. Amatucci (Bari, Laterza). A pp. 343‑44 l’Amatucci scrivendo di Cassiodoro dice: «... senza scoprirvi nulla, ché non era talento da far scoperte, ma dando uno sguardo al passato, in mezzo a cui ergevasi gigantesca la figura di Gerolamo», Cassiodoro «affermò che la cultura classica, la quale per lui voleva dire cultura romana, doveva essere il fondamento di quella sacra, e questa avrebbe dovuto acquistarsi in pubbliche scuole». Papa Agapito (535‑36) avrebbe attuato questo programma se non ne avesse avuto impedimento dalle guerre e dalle lotte di fazione che devastavano l’Italia. Cassiodoro fece conoscere questo programma nei due libri di Institutiones e lo attuò nel «Vivarium», il cenobio da lui fondato presso Squillace.

Un altro punto da studiare è l’importanza avuta dal monachesimo nella creazione del feudalesimo. Nel suo volume S. Benedetto e l’Italia del suo tempo (Laterza, Bari, a pp. 170‑71) Luigi Salvatorelli scrive: «Una comunità, e per giunta una comunità religiosa, guidata dallo spirito benedettino, era un padrone assai più umano del proprietario singolo, col suo egoismo personale, il suo orgoglio di casta, le tradizioni di abusi secolari. E il prestigio del monastero, anche prima di concentrarsi in privilegi legali, proteggeva in una certa misura i coloni contro la rapacità del fisco e le incursioni delle bande armate legali ed illegali. Lontano dalle città in piena decadenza, in mezzo alle campagne corse e spremute che minacciavano di tramutarsi in deserto, il monastero sorgeva, nuovo nucleo sociale traente il suo essere dal nuovo principio cristiano, fuori di ogni mescolanza col decrepito mondo che si ostinava a chiamarsi dal gran nome di Roma. Così san Benedetto, senza proporselo direttamente, fece opera di riforma sociale e di vera creazione. Ancor meno premeditata fu la sua opera di cultura». Mi pare che in questo brano del Salvatorelli ci siano tutti o quasi gli elementi fondamentali, negativi e positivi, per spiegare storicamente il feudalismo.

Meno importante, ai fini della mia ricerca, è la quistione dell’importanza di S. Benedetto o di Cassiodoro nell’innovazione culturale di questo periodo.

Su questo nesso di quistioni oltre al Salvatorelli è da vedere il volumetto di Filippo Ermini Benedetto da Norcia nei «Profili» di Formiggini, in cui (si trova una) bibliografia dell’argomento. Secondo l’Ermini: «... le case benedettine diverranno veramente asilo del sapere; e, più che il castello, il monastero sarà il focolare d’ogni scienza. Ivi la biblioteca conserverà ai posteri gli scritti degli autori classici e cristiani... Il disegno di Benedetto si compie; l’orbis latinus, spezzato dalla ferocia degli invasori, si ricompone in unità e s’inizia con l’opera dell’ingegno e della mano, soprattutto dei suoi seguaci, la mirabile civiltà del Medio Evo».

Q5 §75 Maggiorino Ferraris e la vita italiana dal 1882 al 1926. Nella «Nuova Antologia» del 1° luglio 1929 è pubblicata la lista degli articoli pubblicati da Maggiorino Ferraris nella rivista stessa dal gennaio 1882 al 21 aprile 1926 (il Ferraris è morto nel giugno 1929 ed è stato direttore della Nuova Antologia dal 90 circa fino al 1926). Il Ferraris era un uomo mediocre, di tendenze liberali moderate con una punta verso il giolittismo e verso il nittismo, ma appunto perciò i suoi articoli hanno un interesse generale di sintomo. Era un pubblicista accurato nell’informarsi degli elementi tecnici dei problemi trattati, cosa non molto comune in Italia. Scrisse molto sui problemi agrari anche meridionali e su altri problemi di carattere tecnico economico (comunicazioni – ferrovie, telegrafo, navigazione –, tariffe doganali e dazii, cambi ecc.): alcune di queste serie di articoli sono da rivedere e studiare. Il Ferraris era piemontese (di Acqui).

Q5 §76 Sulla crisi del 98. Del Ferraris cfr Il rincaro del pane (16 agosto 1897), L’ora presente (16 maggio 1898), Il nuovo rincaro del pane (1° febbraio 1898), Politica di lavoro (16.VI. 98).

Q5 §77 Il passaggio di Garibaldi in Calabria nel 1860. Ricordare la quistione sull’atteggiamento di Vittorio Emanuele in questo momento e il biglietto riservato che avrebbe mandato a Garibaldi. Il Ferraris, nella Nuova Antologia del 1° gennaio 1912 ha scritto un articolo Vittorio Emanuele e Garibaldi ed il passaggio del Faro nel 1860. Da documenti storici.

Q5 §78 Monachesimo e regime feudale. Sviluppo pratico della regola benedettina e del principio «ora et labora». Il «labora» era già sottomesso all’«ora», cioè evidentemente lo scopo principale era il servizio divino. Ecco che ai monaci‑contadini si sostituiscono i coloni, perché i monaci possano in ogni ora trovarsi nel convento per adempiere ai riti. I monaci nel convento cambiano di «lavoro»; lavoro industriale (artigiano) e lavoro intellettuale (che contiene una parte manuale, la copisteria). Il rapporto tra coloni e convento è quello feudale, a concessioni livellarie, ed è legato oltre all’elaborazione interna che avviene nel lavoro dei monaci, anche all’ingrandirsi della proprietà fondiaria del monastero. Altro sviluppo è dato dal sacerdozio: i monaci servono come sacerdoti il territorio circonvicino e la loro specializzazione aumenta: sacerdoti, intellettuali di concetto, copisti, operai industriali‑artigiani. Il convento è la «corte» di un territorio feudale, difeso più che dalle armi, dal rispetto religioso ecc. Esso riproduce e sviluppa il regime della «villa» romana patrizia. Per il regime interno del Monastero fu sviluppato e interpretato un principio della Regola, ove è detto che nella elezione dell’abate debba prevalere il voto di coloro che si stimano più savi e prudenti e che del consiglio di costoro debba l’abate munirsi quando debba decidere affari gravi, non tali tuttavia che convenga consultare l’intera congregazione; vennero così distinguendosi i monaci sacerdoti, che si dedicavano agli uffici corrispondenti al fine dell’istituzione, dagli altri che continuavano ad attendere ai servizi della casa.

Q5 §79 A. G. Bianchi, I clubs rossi durante l’assedio di Parigi, «Nuova Antologia», 1° luglio 1929. Riassume un opuscolo, pubblicato nel 1871, di M. G. Molinari, Les clubs rouges pendant le siège de Paris. È una raccolta di cronache pubblicate prima nel «Journal des Débats» sulle riunioni dei clubs durante l’assedio (forse si tratta dello stesso De Molinari, il noto scrittore liberista e direttore dei «Débats»; ma il Bianchi scrive che è «un modesto ma diligente giornalista»). L’opuscolo è interessante perché registra tutte le proposte strampalate che venivano fatte dai frequentatori di questi circoli popolari. Perciò sarebbe interessante leggerlo e trarne materiale per sostenere la necessità dell’ordine intellettuale e della «sobrietà» morale nel popolo. Può servire anche per studiare come fino al 70 Parigi sia rimasta sotto l’incanto delle forme politiche create dalla Rivoluzione del 1789, di cui i clubs furono la manifestazione più appariscente ecc. (Non potendo leggere l’opuscolo originale del Molinari, si può ricorrere a questo articolo del Bianchi).

Q5 §80 Sorel e i giacobini. Nell’articolo riferito nella nota precedente è riportato questo giudizio di Proudhon sui giacobini: Il giacobinismo è «l’applicazione dell’assolutismo di diritto divino alla sovranità popolare». «Il giacobinismo si preoccupa poco del diritto: procede volentieri per mezzi violenti, esecuzioni sommarie. La rivoluzione per esso sono i colpi di folgore, le razzie, le requisizioni, il prestito forzato, l’epurazione, il terrore. Diffidente, ostile alle idee, si rifugia nell’ipocrisia e nel machiavellismo: i giacobini sono i gesuiti della rivoluzione». Queste definizioni sono estratte dal libro: La justice dans la révolution. L’atteggiamento di Sorel contro i giacobini è preso da Proudhon.

Q5 §81 Passato e presente. Distribuzione territoriale della popolazione italiana. Secondo il censimento del 1921 su ogni 1000 abitanti, 258 vivevano in case sparse e 262 in centri con meno di 2000 abitanti (questa può dirsi tutta popolazione rurale), 125 nei centri con 2000‑5000 abitanti, 134 nei centri con 5 000‑20 000 abitanti (piccole città), 102 nei centri con 20 000 ‑ 100 000 (medie città), 119 nelle grandi città con più di 100 000 abitanti (cfr Giorgio Mortara, Natalità e urbanesimo in Italia nella Nuova Antologia del 1° luglio 1929). Cfr con lo spostamento delle categorie dei centri abitati dovuto alle aggregazioni di vari comuni dopo il 1927 che ha aumentato il numero delle grandi e medie città specialmente (ma anche delle piccole, forse anche in maggior proporzione), senza però mutarne la struttura sociale. Secondo (sempre) il Mortara nel 1928 la popolazione dei venti comuni con oltre 100 000 abitanti (comuni e non soltanto centri, perché dopo le aggregazioni) supera di poco 17 milioni, cioè corrisponde al 173 per mille della popolazione nazionale; in Francia la proporzione è 160 per mille, in Germania 270 per mille, in Gran Bretagna circa 400 per mille, nel Giappone 150 per mille. Cent’anni fa i comuni con oltre 100 000 abitanti comprendevano 68 su mille abitanti e cinquant’anni or sono 86 per mille, oggi 173 per mille.

Q5 §82 Funzione cosmopolita degli intellettuali italiani. In che misura lo sciamare in tutta Europa di eminenti e mediocri personalità italiane (ma di un certo vigore di carattere) fu dovuto ai risultati delle lotte interne delle fazioni comunali, al fuoruscitismo politico cioè? Questo fenomeno fu persistente dopo la seconda metà del secolo XIII: lotte comunali con dispersione delle fazioni vinte, lotte contro i principati, elementi di protestantesimo ecc. fino al 1848; nel secolo XIX il fuoruscitismo muta di carattere, perché gli esiliati sono nazionalisti e non si lasciano assorbire dai paesi di immigrazione (non tutti però: vedi Antonio Panizzi divenuto direttore del British Museum e baronetto inglese). Di questo elemento occorre tener conto, ma non è certo quello prevalente nel fenomeno generale. Così in un certo periodo occorre tener conto del fatto che i principi italiani sposavano le loro figlie con principi stranieri e ogni nuova regina di origine italiana portava con sé un certo numero di letterati, artisti, scienziati italiani (in Francia con le Medici, in Spagna con le Farnesi, in Ungheria ecc.) oltre a diventare un centro di attrazione dopo la salita al trono.

Tutti questi fenomeni devono essere studiati e la loro importanza relativa fissata esattamente, in modo da dare il proprio valore al fatto fondamentale. Nell’articolo Il Petrarca a Montpellier, nella Nuova Antologia del 16 luglio 1929, Carlo Segrè ricorda come ser Petracco, bandito da Firenze e stabilitosi con la famiglia a Carpentras, volle che suo figlio Francesco frequentasse l’Università di Montpellier per intraprendere l’attività legale. «La scelta poi si mostrava ottima, perché in Italia e nel mezzogiorno della Francia grande era allora la richiesta di giuristi da parte di principi e di governi municipali, che li adoperavano come giudici, magistrati, ambasciatori e consulenti, senza dire che restava loro aperto l’esercizio privato dell’avvocatura, meno onorifico ma sempre vantaggioso per chi non mancasse di sveltezza». L’Università di Montpellier fu fondata nel 1160 dal giureconsulto Piacentino, che si era formato a Bologna e aveva portato in Provenza i metodi dell’insegnamento di Irnerio (questo Piacentino era però italiano? occorre sempre fare delle ricerche perché i nomi italiani possono essere soprannomi o italianizzazioni). Certo che molti italiani furono chiamati dall’estero, per organizzarvi università sul modello bolognese, pavese ecc.

Q5 §83 Funzione cosmopolita degli intellettuali italiani. Articolo di Ferdinando Nunziante Gli italiani in Russia durante il secolo XVIII nella Nuova Antologia del 16 luglio 1929. Articolo mediocre e superficiale, senza indicazioni di fonti per le notizie riportate. Se ne possono trarre spunti e indicazioni generiche. Già l’importanza degli intellettuali italiani era caduta e si apriva l’era degli avventurieri. Scrive il Nunziante per la Russia del 700: «Dalla Germania venivano ingegneri e generali per l’esercito; dall’Inghilterra ammiragli per la flotta; dalla Francia ballerini, parrucchieri e filosofi, cuochi ed enciclopedisti; dall’Italia principalmente pittori, maestri di cappella e cantanti». Ricorda che i Panini d’origine lucchese furono il ceppo della famiglia dei conti Panin, ecc.

Q5 §84 Letteratura popolare. Wells. Cfr l’articolo di Laura Torretta, L’ultima fase di Wells, nella Nuova Antologia del 16 luglio 1929. Interessante e pieno di spunti utili per questa rubrica. Wells dovrà essere considerato come scrittore che ha inventato un nuovo tipo di romanzo di avventure, diverso da quello di Verne. Nel Verne ci troviamo, generalmente, nell’ambito del verosimile, con una antecipazione sul tempo. Nello Wells lo spunto generale è inverosimile, mentre i particolari sono scientificamente esatti o almeno verosimili; Wells è più immaginoso e ingegnoso, Verne più popolare. Ma Wells è scrittore popolare anche in tutto il resto della sua produzione: è scrittore «moralista» e non solo nel senso normale ma anche in quello deteriore. Però non può essere popolare in Italia e in genere nei paesi latini e in Germania: è troppo legato alla mentalità anglosassone.

Q5 §85 Sviluppo dello spirito borghese in Italia. Cfr l’articolo Nel centenario della morte di Albertino Mussato di Manlio Torquato Dazzi nella Nuova Antologia del 16 luglio 1929. Secondo il Dazzi, il Mussato si stacca dalla tradizione della storia teologica per iniziare la storia moderna o umanistica più di qualsiasi altro del suo tempo (vedere i trattati di storia della storiografia, di B. Croce, del Lisio, del Fueter, del Balzani ecc.); appaiono le passioni e i motivi utilitari degli uomini come motivi della storia. A questa trasformazione della concezione del mondo hanno contribuito le lotte feroci delle fazioni comunali e dei primi signorotti. Le sviluppo può essere seguito fino al Machiavelli, al Guicciardini, a L. B. Alberti. La Controriforma soffoca lo sviluppo intellettuale. Mi pare che in questo sviluppo si potrebbero distinguere due correnti principali. Una ha il suo coronamento letterario nell’Alberti: essa rivolge l’attenzione a ciò che è «particulare», al borghese come individuo che si sviluppa nella società civile e che non concepisce società politica oltre l’ambito del suo «particulare»; è legato al guelfismo, che si potrebbe chiamare un sindacalismo teorico medioevale. È federalista senza centro federale. Per le quistioni intellettuali si affida alla Chiesa, che è il centro federale di fatto per la sua egemonia intellettuale e anche politica. È da studiare la costituzione reale dei Comuni, cioè l’atteggiamento concreto che i rappresentanti prendevano verso il governo comunale: il potere durava pochissimo (due mesi soli, spesso) e in questo tempo i membri del governo erano sottoposti a clausura, senza donne; essi erano gente molto rozza, che erano stimolati dagli interessi immediati della loro arte (cfr per la Repubblica Fiorentina il libro di Alfredo Lensi sul Palazzo della Signoria dove dovrebbero essere molti aneddoti su queste riunioni di governo e sulla vita dei signori durante la clausura). L’altra corrente ha il coronamento in Machiavelli e nell’impostazione del problema della Chiesa come problema nazionale negativo. A questa corrente appartiene Dante, che è avversario dell’anarchia comunale e feudale ma ne cerca una soluzione semimedioevale; in ogni caso pone il problema della Chiesa come problema internazionale e rileva la necessità di limitarne il potere e l’attività. Questa corrente è ghibellina in senso largo. Dante è veramente una transizione: c’è affermazione di laicismo ma ancora col linguaggio medioevale.

Q5 §86 Inghilterra. La bilancia commerciale inglese già da circa 50 anni prima della guerra andava modificando la sua struttura interna. La parte costituita dalle esportazioni di merci perdeva relativamente e l’equilibrio si fondava sempre più sulle così dette esportazioni invisibili, cioè gli interessi dei capitali collocati all’estero, i noli della marina mercantile e gli utili realizzati da Londra come centro finanziario internazionale. Dopo la guerra, per la concorrenza degli altri paesi, l’importanza delle esportazioni invisibili è ancora aumentata. Da ciò la cura dei cancellieri dello Scacchiere e della Banca d’Inghilterra di riportare la sterlina alla parità dell’oro e quindi reintegrarla nella sua posizione di moneta internazionale. Questo fine fu raggiunto, ma ha determinato il rincaro del prezzo di costo della produzione industriale, che ha perduto terreno nei mercati stranieri.

Ma è stata questa la causa (almeno l’elemento più importante) della crisi industriale inglese? In che misura il governo sacrificò gli interessi degli industriali a quelli dei finanziari, portatori di prestiti all’estero e organizzatori del mercato finanziario mondiale londinese? Intanto: il ristabilimento del valore della sterlina può aver anticipato la crisi, non averla determinata, poiché tutti i paesi, anche quelli rimasti per qualche tempo a moneta fluttuante e che l’hanno consolidata a un valore più basso dell’originario, hanno subito e subiscono la crisi: si potrebbe dire che avere anticipato la crisi in Inghilterra avrebbe dovuto indurre gli industriali a correre prima ai ripari e a rimettersi quindi prima degli altri paesi, ritrovando così l’egemonia mondiale. D’altronde il ritorno immediato alla parità aurea ha evitato in Inghilterra le crisi sociali determinate dai passaggi di proprietà e dalla decadenza fulminea delle classi medie piccolo- borghesi: in un paese tradizionalista, conservatore, ossificato nella sua struttura sociale, come l’Inghilterra, quali risultati avrebbero avuto i fenomeni di inflazione, di oscillazione, di stabilizzazione in perdita della moneta? Certo molto più gravi che negli altri paesi.

In ogni modo bisognerebbe fissare con esattezza il rapporto tra l’esportazione di merci e le esportazioni invisibili, tra il fatto industriale e quello finanziario: ciò servirebbe a spiegare la relativa scarsa importanza politica degli operai e il carattere ambiguo del partito laburista e la scarsezza di stimoli alla sua differenziazione e al suo sviluppo.

Q5 §87 Direzione politico‑militare della guerra 1914-1918. Confronta l’articolo di Mario Caracciolo (colonnello) Il comando unico e il comando italiano nel 1918 nella «Nuova Antologia» del 16 luglio 1929. Molto interessante e indispensabile per compilare definitivamente questa rubrica. Il Caracciolo è scrittore militare molto serio e che difficilmente si lascia trasportare dalla retorica. Ha scritto un volume nella Collezione Gatti presso Mondadori, Le truppe italiane in Francia.

Per ora mi interessa un particolare (che potrebbe apparire nella rubrica «Passato e presente»), legato alla ripetuta affermazione del Caracciolo della insufficienza dell’apparato industriale italiano: verso il gennaio‑febbraio 1918 (cfr il volume del Caracciolo citato per stabilire esattamente il fatto) l’Italia mandò in Francia 60 000 uomini, lavoratori ausiliari, «che avevamo disponibili perché la nostra industria ancora non aveva potuto darci tutte le armi necessarie per armarli». Questo elemento può dar luogo ad alcune conseguenze: 1) Come sia politicamente erroneo chiamare «imboscati» gli addetti all’industria in tempo di guerra. Erano essi necessari e indispensabili all’attività bellica? Erano tanto necessari che risulta esserci stati troppo pochi «imboscati», tanto da rendere inutilizzabili in Italia 60 000 uomini. Questa propaganda contro i pseudo‑imboscati ebbe conseguenze deplorevoli: già prima dell’armistizio furono mandati a Torino dei reparti d’assalto che incominciarono subito la caccia all’«imboscato»; all’uscita dalle officine gli uomini dal bracciale di esonero, e poi nelle vie centrali, erano aggrediti, bastonati e spesso sfregiati in faccia; gli avvenimenti alla spicciolata culminarono nella notte di capodanno 1919 coi fatti di palazzo Siccardi. La censura non permise di fare neanche un cenno a questi avvenimenti.

2) La contrapposizione di combattenti e di esonerati e imboscati da fatto privato diventò fatto di diritto pubblico e ciò è l’aspetto più grave della quistione, perché lasciò formarsi l’opinione che gli esonerati fossero dei veri «imboscati», non elementi indispensabili per l’attività bellica anche se non combattenti, con sanzione ufficiale. Per legge si deve preferire un ex combattente nelle officine, ecc. (Se nelle officine ci furono degli imboscati veri questi sono da ricercare specialmente nei tecnici di secondo grado: la riduzione al minimo delle operazioni di lavoro determinata dal limitato numero di oggetti fabbricati e dalla loro struttura elementare e il lavoro a serie, avevano ridotto la funzione da quella di maestro d’arte a quella di pura sorveglianza disciplinare: ciò unito all’ampliamento degli impianti dette la possibilità di imboscarsi a molta gente che non aveva mai avuto a che fare coll’industria; questi sono veri imboscati, perché il posto poteva essere assegnato a dipendenti anziani della fabbrica stessa. Così non può parlarsi di imboscati per i contadini che entrarono allora in quantità voli nelle fabbriche, direttamente dalle campagne o comandati dall’autorità militare. A Torino, la manovalanza delle officine era in gran parte costituita da soldati comandati d’origine contadina). In questi regolamenti sulla assunzione dei disoccupati non si fa neanche il caso speciale dei riformati, per i quali non essere stati combattenti è stato ancora più involontario.

In Italia, col ristretto apparato industriale in confronto delle necessità del tempo di guerra, il problema è spinoso: necessariamente, l’industria metallurgica e meccanica, ma parzialmente anche altre industrie (chimiche, del legno, tessili) devono essere mobilitate e siccome la produzione deve essere teoricamente illimitata, anche ampliate: quindi non solo devono rimanere in officina le maestranze vecchie, ma dovranno farsi nuove assunzioni. La composizione dell’esercito sarà perciò in prevalenza contadina, mentre la maggior parte degli operai, o almeno una porzione ragguardevole, dovrà lavorare per l’attrezzamento e il munizionamento. Fare di questa necessità un elemento di agitazione demagogica e sanzionarla di inferiorità per gli addetti all’industria, potrà avere questa conseguenza (in assenza di una soluzione organica che è difficile: rotazione tra officina e fronte, ecc.): che realmente nelle officine vorranno rimanere i panciafichisti e che il problema della produzione subirà una crisi, cioè la guerra potrà essere perduta nelle officine per mancanza di rendimento.

Q5 §88 Sul Risorgimento italiano. Michele Amari e il sicilianismo. Confrontare l’articolo su Michele Amari di Francesco Brandileone nella Nuova Antologia del 1° agosto 1929 che è poi una lunga recensione polemica de Le più belle pagine di Michele Amari scelte da V. E. Orlando, con una prefazione molto interessante per capire l’origine anche dell’attuale «sicilianismo» di cui l’Orlando è un rappresentante (a due facce: una verso il continente velata dei sette veli dell’unitarismo e una verso la Sicilia, più franca: ricordare il discorso di Orlando a Palermo durante le elezioni amministrative del 1925 e il suo elogio indiretto della mafia, presentata nel suo aspetto sicilianista di ogni virtù e generosità popolana).

L’Amari nato nel 1806 a Palermo e cresciuto tra la costituzione del 1812 e la rivoluzione del 1820 quando la costituzione fu abolita, come tanti altri siciliani del suo tempo era persuaso che il bene dell’isola fosse da ricercare nel ristabilimento della Costituzione, ma soprattutto nell’autonomia e nel distacco da Napoli.

«L’aspirazione a costituire uno Stato a sé fu il sentimento dominante fra gli isolani almeno fino al 1848», scrive il Brandileone. L’Amari, come scrisse egli stesso (cfr Alessandro D’Ancona, Carteggio di M. Amari raccolto e pubblicato coll’elogio di lui letto nell’Accademia della Crusca, Torino, 1896‑97, in 3 volumi; cfr vol. II, p. 371) si sentiva italiano (di cultura) ma la vita nazionale italiana gli pareva un bel sogno e nulla più. Volle raccontare gli avvenimenti del 1812‑20 per preparare gli animi a una nuova rivoluzione, ma la ricerca dei nessi storici lo spinse a risalire nel passato della storia costituzionale siciliana e così si fissò sulla costituzione avuta dopo i Vespri, che gli parve «la forma più netta» la più tipica. Ma la ricerca del passato lo portò ancor più in là, fino alla fase musulmana della storia di Sicilia.

L’Orlando, nella sua scelta, ha disposto i brani in ordine cronologico, in modo da dare un racconto abbreviato ma ininterrotto degli avvenimenti siciliani dei cinque secoli, dall’827, inizio della conquista araba, al 1302, pace di Caltabellotta. Nella prefazione (a p. 23) l’Orlando afferma che quei cinque secoli «sembrano costituire un monolitico periodo, durante il quale la storia ha bagliori di epopea» e che essi non sono da riguardare come storia particolare, o locale che dir si voglia, ma come storia universale, perché «se universale è la storia che all’umanità si riferisce come un tutto ideale, sebbene abbia il suo centro vitale solo in un determinato punto dello spazio, come Atene, Roma, Gerusalemme, ecc., non si può negare che in quei cinque secoli la Sicilia fu un nodo centrale, in cui si incontrarono, si urtarono, si elisero e si ricomposero le forze dominatrici del tempo». Per il Brandileone l’Orlando si lascia «guidare un po’ troppo dalla carità del natio loco» (è il modo solito di attutire e interpretare canonicamente i sentimenti politici centrifughi). L’Orlando divide questi cinque secoli in due periodi, dei quali il primo (dominio musulmano e normanno‑svevo sarebbe «statico», poiché in esso solo «venne elaborandosi tutta una civiltà specifica che costituì un’era e culminò nella creazione dello Stato e nella massima potenza di esso» e nel secondo «più dinamico», «di quello Stato avvenne la consacrazione storica e cioè la passione per la difesa dell’indipendenza nel suo più formidabile cimento».

Il Brandileone polemizza sottilmente coll’Orlando e le cose che dice sono molto interessanti per la storia siciliana e meridionale, ma in questa rubrica interessa il punto di vista dell’Orlando in sé e per sé come riflesso del sicilianismo nella forma intellettuale. Realmente l’Orlando è d’accordo coll’Amari, ne sente lo stesso impulso intellettuale e morale, di valorizzare la storia siciliana, di affermare che la Sicilia è stata un momento della storia universale, che il popolo siciliano ha avuto una fase creatrice di Stato, che non può non essere l’espressione di una «nazionalità siciliana» (anche se fino a questa affermazione l’Orlando non voglia arrivare come non arrivava l’Amari, dicendo di essersi sentito italiano anche prima del 48).

Il Brandileone oppone all’Orlando il punto di vista espresso dal Croce nella Storia del Regno di Napoli, cioè che «quella storia nella sua sostanza non è nostra o nostra è soltanto per piccola parte e secondaria», «storia rappresentata nella nostra terra e non generata dalle sue viscere»; è vero che il Croce si riferisce al periodo normanno‑svevo per il Mezzogiorno, ma secondo il Brandileone deve riferirsi anche alla Sicilia. Il punto di vista del Croce genericamente è esatto, ma nel tempo in cui quella storia si svolgeva era essa sentita dal popolo come propria e in che misura? E quale era la parte creativa della popolazione? In ogni modo questi avvenimenti impressero una certa direttiva alla storia del paese, crearono certe condizioni che continuarono e continuano ancora ad operare in certi limiti.

Q5 §89 Gabriele Gabbrielli, India ribelle, nella «Nuova Antologia» del 1° agosto 1929. (Questo signor G. G. è specializzato per scrivere e articoli sulla «Nuova Antologia» e probabilmente in qualche giornale quotidiano, contro l’attività dell’Ispolcom. Si serve del materiale che pubblica a Ginevra l’Entente contre la T. I. specialmente nel suo «Bollettino mensile» ed ha delle simpatie generiche col movimento per la difesa dell’Occidente di Henri Massis: simpatie generiche perché mentre per il Massis l’egemone dell’unione latino‑cattolica non può essere che la Francia, per il Gabbrielli invece deve essere l’Italia; a proposito del Massis e della difesa dell’Occidente è da ricordare che il padre Rosa nella risposta a Ugo Ojetti vi accenna in modo molto brusco; il Rosa vi vede un pericolo di deviazione o una deviazione bell’e buona dall’ortodossia romana).

Quattro milioni e seicento settantacinque mila Km, 319 milioni di abitanti, 247 milioni di abitanti nelle quindici enormi province amministrate direttamente dal governo inglese, che occupano la metà del territorio; l’altra metà è ripartita fra circa 700 Stati tributari. Cinque religioni principali, un’infinità di sette, 150 fra lingue e dialetti; caste; analfabetismo dominante; 80% della popolazione contadini; schiavitù della donna, pauperismo, carestie endemiche. Durante la guerra 985 000 indiani mobilitati.

Rapporti tra Gandhi e Tolstoi nel periodo 1908-1910 (cfr Romain Rolland, Tolstoi e Gandhi, nella rivista «Europe», 1928, nel numero unico tolstoiano). Tutto l’articolo è interessante in mancanza di altre informazioni.

Q5 §90 relle di cultura islamitica. Assenza di un clero regolare che serva di trait‑d’union tra l’Islam teorico e le credenze popolari. Bisognerebbe studiare bene il tipo di organizzazione ecclesiastica dell’Islam e l’importanza culturale delle Università teologiche (come quella del Cairo) e dei dottori. Il distacco tra intellettuali e popolo deve essere molto grande, specialmente in certe zone del mondo musulmano: così è spiegabile che le tendenze politeiste del folklore rinascano e cerchino di adattarsi al quadro generale del moismo maomettano. Cfr l’articolo I santi nell’Islâm di Bruno Ducati nella Nuova Antologia del 1° agosto 1929. Il fenomeno dei santi è specifico dell’Africa settentrionale, ma ha una certa diffusione anche in altre zone. Esso ha la sua ragione di essere nel bisogno (esistente anche nel Cristianesimo) popolare di trovare intermediari tra sé e la divinità. Maometto, come Cristo, fu proclamato, – si proclamò – l’ultimo dei profeti, cioè l’ultimo legame vivente tra la divinità e gli uomini; gli intellettuali (sacerdoti o dottori) avrebbero dovuto mantenere questo legame attraverso i libri sacri; ma una tal forma di organizzazione religiosa tende a diventare razionalistica e intellettualistica (cfr il protestantesimo che ha avuto questa linea di sviluppo), mentre il popolo primitivo tende a un misticismo proprio, rappresentato dall’unione con la divinità con la mediazione dei santi (il protestantesimo non ha e non può avere santi e miracoli); il legame tra gli intellettuali dell’Islâm e il popolo divenne solo il «fanatismo», che non può essere che momentaneo, limitato, ma che accumula masse psichiche di emozioni e di impulsi che si prolungano in tempi anche normali. (Il cattolicesimo agonizza per questa ragione: che non può creare, periodicamente, come nel passato, ondate di fanatismo; negli ultimi anni, dopo la guerra, ha trovato dei sostituti, le cerimonie collettive eucaristiche che si svolgono con splendore fiabesco e suscitano relativamente un certo fanatismo: anche prima della guerra qualcosa di simile suscitavano, ma in piccolo, su scala localissima, le così dette missioni, la cui attività culminava nell’erezione di un’immensa Croce con scene violente di penitenza, ecc.). Questo movimento nuovo dell’Islâm è il sufismo.

I Santi musulmani sono uomini privilegiati che possono, per speciale favore, entrare in contatto con Dio, acquistando una perenne virtù miracolosa e la capacità di risolvere i problemi e i dubbi teologici della ragione e della coscienza. Il sufismo, organizzatosi a sistema ed esternatosi nelle scuole sufiche e nelle confraternite religiose, sviluppò una vera teoria della santità e fissò una vera gerarchia di santi. L’agiografia popolare è più semplice di quella sufica. Sono santi per il popolo i più celebri fondatori o capi di confraternite religiose; ma anche uno sconosciuto, un viandante che si fermi in una località a compier opere di ascetismo e benefici portentosi a favore delle popolazioni circostanti, può essere proclamato santo dalla pubblica opinione. Molti santi ricordano i vecchi iddii delle religioni vinte dall’Islâm.

Il Marabutismo dipende da una fonte della santità musulmana, diversa dal sufismo: Murâbit (marabutto) vuol dire che è nel ribât, cioè nel luogo fortificato della frontiera dal quale irrompere, nella guerra santa, contro gli infedeli. Nel ribât il culto doveva essere più austero, per la funzione di quei soldati presidiari, più fanatici e costituiti spesso di volontari (arditi dell’Islam): quando lo scopo militare perdé d’importanza, rimase un particolare abito religioso e i «santi» più popolari ancora che quelli sufici. Il centro del Marabutismo è il Marocco; verso Est, le tombe di Marabutti vanno sempre più diradandosi.

Il Ducati analizza minutamente questo fenomeno africano, insistendo sull’importanza politica che hanno i Marabutti, che si trovano a capo delle insurrezioni contro gli Europei, che esercitano una funzione di giudici di pace, e che talvolta furono il veicolo di una civiltà superiore. Conclude: «Questo culto (dei santi) per le conseguenze sociali, civilizzatrici e politiche, le quali ne derivano, merita di essere sempre meglio studiato e sempre più attentamente sorvegliato, poiché i Santi costituiscono una potenza, una forza straordinaria, la quale può essere l’ostacolo maggiore alla diffusione della civiltà occidentale, come pure, se abilmente sfruttata, può divenire un’ausiliaria preziosa dell’espansione europea».

Q5 §91 Rinascimento e Riforma. Bisognerà leggere il volume di Fortunato Rizzi, L’anima del Cinquecento e la lirica volgare che, dalle recensioni lette, mi pare più importante come documento della cultura del tempo che per il suo valore intrinseco. (Sul Rizzi ho scritto in altro quaderno una rella, considerandolo come «italiano meschino» a proposito di una sua recensione del libro di un nazionalista francese sul Romanticismo, recensione che dimostrava la sua assoluta inettitudine a orientarsi fra le idee generali e i fatti di cultura). Sul libro del Rizzi occorrerà rileggere l’articolo di Alfredo Galletti La lirica volgare del Cinquecento e l’anima del Rinascimento nella Nuova Antologia del 1° agosto 1929. (Anche sul Galletti occorrerà allargare le proprie informazioni: il Galletti dopo la guerra – per la quale ha lottato strenuamente col Salvemini e col Bissolati, date le sue origini riformistiche, aggiungendo un particolare spirito antigermanico – nel primo, ma specialmente nel secondo dopoguerra, è caduto in uno stato d’animo di esasperazione culturale, di piagnonismo intellettuale, proprio di chi ha avuto «gli ideali infranti»; i suoi scritti sono riboccanti di recriminazioni, di digrignar di denti in sordina, di allusioni critiche sterili nella loro disperazione comica). Nella critica della poesia cinquecentesca italiana prevale questa opinione: che essa sia per quattro quinti artificiosa, convenzionale, priva di intima sincerità. «Ora – osserva il Rizzi con molto buon senso – è sentenza comune che nella poesia lirica si trovi l’espressione più schietta e viva del sentimento di un uomo, di un popolo, di un periodo storico. È egli possibile che ci sia stato un secolo – il Cinquecento appunto – il quale abbia avuto la disgrazia di nascere senza una propria fisonomia spirituale o che di tale fisonomia si sia compiaciuto (?!) a riverberare un’immagine falsa proprio nella poesia lirica? Il più intellettualmente vivace, il più spiritualmente intrepido, il più cinico dei secoli, dicono i suoi tanti avversarî (!!), avrebbe ipocritamente dissimulato il suo vero animo nella studiata armonia dei sonetti e delle canzoni petrarcheggianti; oppure si sarebbe divertito a mistificare i posteri ..., fingendo nei versi un platonico sospiroso idealismo, che poi le novelle, le commedie, le satire, tante altre testimonianze letterarie di quell’età, smentiscono apertamente?». Tutto il problema è falsato a pieno, nella sua impostazione di conflitti e contraddizioni intime.

E perché il Cinquecento non potrebbe essere pieno di contraddizioni? Non è anzi esso proprio il secolo in cui si aggroppano le maggiori contraddizioni della vita italiana, la cui non soluzione ha determinato tutta la storia nazionale fino alla fine del Settecento? Non c’è contraddizione tra l’uomo dell’Alberti e quello di Baldassar Castiglione, tra l’uomo dabbene e il «cortegiano»? Tra il cinismo e il paganesimo dei grandi intellettuali e la loro strenua lotta contro la Riforma e in difesa del Cattolicesimo? Tra il modo di concepire la donna in generale (che poi era la dama alla Castiglione) e il modo di trattar la donna in particolare, cioè la donna del popolo? Le regole della cortesia cavalleresca erano forse applicate alle donne del popolo? La donna in generale era ormai un feticcio, una creazione artificiosa, e artificiosa fu la poesia lirica, amorosa, petrarcheggiante almeno per i quattro quinti. Ciò non vuol dire che il Cinquecento non abbia avuto un’espressione lirica, cioè artistica; l’ha avuta, ma non nella «poesia lirica» propriamente detta.

Il Rizzi pone la quistione delle contraddizioni del Cinquecento nella seconda parte del suo libro, ma non capisce che dall’urto di queste contraddizioni avrebbe potuto nascer la poesia lirica sincera: ciò non fu ed è questa una mera constatazione storica. La controriforma non poteva essere e non fu un superamento di questa crisi, ne fu un soffocamento autoritario e meccanico. Non erano più cristiani, non potevano essere non‑cristiani: dinanzi alla morte tremavano e anche dinanzi alla vecchiaia. Si posero dei problemi più grandi di loro e si avvilirono: d’altronde erano staccati dal popolo.

Q5 §92 Diplomazia italiana. A proposito dell’incidente del Carthage e del Manouba tra Italia e Francia occorre confrontare la versione che sull’origine dei fatti dà Alberto Lumbroso nel secondo volume della sua opera‑zibaldone sulle Origini economiche e diplomatiche della guerra mondiale (Collezione Gatti, ed. Mondadori) col paragrafo di Tittoni (Veracissimus!) dedicato all’incidente stesso nell’articolo I documenti diplomatici francesi (1911‑1912), pubblicato nella «Nuova Antologia» del 16 agosto 1929 e forse ristampato in volume (nelle edizioni Treves dei libri di Tittoni). L’esposizione del Tittoni è evidentemente non chiara e reticente: ora egli era appunto l’ambasciatore italiano a Parigi al quale, secondo il Lumbroso, Poincaré si era rivolto assicurandolo che il Carthage e il Manouba non contenevano contrabbando di guerra e pregandolo di telegrafare a Roma perché i due battelli non fossero fermati. È strano come il Tittoni, che è così sensibile per tutto ciò che riguarda la sua carriera, non accenni al Lumbroso o per smentirlo o per sminuire l’effetto della sua versione. Bisogna però ricordare che il Tittoni pare abbia in disdegno le abborracciature del Lumbroso, e questi gli rimprovera di non tener conto dei documenti tedeschi sulla guerra e quindi di essere perciò tedescofobo (per ciò che riguarda le responsabilità dello scatenamento del conflitto).

Q5 §93 Costumi italiani nel Settecento. Cfr l’articolo di Alessandro Giulini, Una dama avventuriera del settecento, «Nuova Antologia», 16 agosto 1929. (L’Italia ormai dava all’Europa solo avventurieri e anche avventuriere e non più grandi intellettuali. Né la decadenza dei costumi era solo quella che risulta dal Giorno del Parini e dal cicisbeismo: l’aristocrazia creava scrocconi e ladri internazionali accanto ai Casanova e ai Balsamo borghesi).

Q5 §94 Carattere negativo popolare‑nazionale della letteratura italiana. Nel trattare questa quistione ma specialmente nel fare la storia dell’atteggiamento di tutta una serie di letterati e di critici, che sentivano la falsità della tradizione e il suono falso della sua intima retorica, della sua non aderenza con la realtà storica, non bisogna dimenticare Enrico Thovez, il suo libro Il pastore, il gregge, la zampogna. La reazione del Thovez non è stata giusta, ma importa in questo caso che egli abbia reagito, cioè che abbia sentito almeno che qualcosa non andava.

La sua distinzione tra poesia di forma e poesia di contenuto era falsa teoricamente: la poesia così detta di forma è caratterizzata dall’indifferenza del contenuto, cioè dall’indifferenza morale, ma è anche questo un «contenuto», il «vuoto storico e morale dello scrittore». Il Thovez in gran parte si riattaccava al De Sanctis, per il suo aspetto di «innovatore della cultura» italiana ed è da ritenere insieme alla «Voce» una delle forze che lavoravano, caoticamente a dire il vero, per una riforma intellettuale e morale nel periodo prima della guerra.

Sul Thovez bisognerebbe vedere anche le polemiche che suscitò col suo atteggiamento. Nell’articolo Enrico Thovez poeta e il problema della formazione artistica di Alfonso Ricolfi nella «Nuova Antologia» del 16 agosto 1929 c’è qualche spunto utile, ma troppo poco. Bisognerebbe trovare l’articolo di Prezzolini Thovez il precursore.

Q5 §95 L’uomo del Quattrocento e del Cinquecento. Leon Battista Alberti, Baldassarre Castiglione, Machiavelli mi sembrano i tre scrittori più importanti per studiare la vita del Rinascimento nel suo aspetto «uomo» e nelle sue contraddizioni morali e civili. L’Alberti rappresenta il borghese (vedere anche il Pandolfini), Castiglione il nobile cortigiano (vedere anche il Della Casa), Machiavelli rappresenta e cerca di rendere organiche le tendenze politiche dei borghesi (repubbliche) e dei principi, in quanto vogliono, gli uni e gli altri, fondare Stati o ampliarne la potenza territoriale e militare.

Secondo Vittorio Cian (Il conte Baldassar Castiglione (1529‑1929), Nuova Antologia del 16 agosto ‑ 1° settembre 1929) Francesco Sansovino, contemporaneo, là dove informa che Carlo V era assai parco lettore, soggiunge: «Si dilettava di leggere tre libri solamente, li quali esso avea fatti tradurre in lingua sua propria: l’uno per l’instituzione della vita civile, e questo fu il Cortegiano del conte Baldesar da Castiglione, l’altro per le cose di Stato, e questo fu il Principe co’ Discorsi del Machiavelli, et il terzo per l’ordine della milizia, e questo fu la Historia con tutte le altre cose di Polibio». Scrive il Cian: «Non abbastanza è stato avvertito che il Cortegiano, documento storico di primissimo ordine, attesta e illustra luminosamente l’evoluzione della cavalleria medioevale, la quale, attecchita in iscarsa misura, dicono, in Italia, in realtà, differenziatasi, sin dalle origini, da quella d’oltr’Alpi, nel clima italiano della Rinascita diventa una nuova cavalleria, assume il carattere d’una milizia civile, combattente all’insegna di Marte, ma anche di Apollo, di Venere e di tutte le Muse. Evoluzione, dico, e non affatto degenerazione o decadenza, come parve al De Sanctis».

Ma il Cian si basa solo sul Cortegiano, che è un tentativo di organizzare una aristocrazia intorno al «principe» e di differenziarla dalla morale borghese trionfante: che questa cavalleria fosse superficiale è dimostrato dall’Orlando Furioso, che precede il Don Chisciotte e lo prepara. In ogni caso l’articolo del Cian è da rivedere: egli è conoscitore filologicamente perfetto del Cortegiano e bisognerà procurarsi la sua edizione del libro (III ed., editore Sansoni).

Q5 §96 Carattere negativo nazionale‑popolare della letteratura italiana. Nel 1892 l’editore Hoepli indisse un referendum sulla letteratura italiana raccolto in volume, I migliori libri italiani consigliati da cento illustri contemporanei che dev’essere interessante da vedere per questa rubrica, per stabilire quali siano state le opere più apprezzate e da chi e per quali ragioni.

Q5 §97 Gli intellettuali. Nella rubrica «Intellettuali» in altro quaderno, ho accennato alle Accademie italiane e all’utilità di averne una lista ragionata. Nella Nuova Antologia del 1° settembre 1929 (p. 128) è annunziato un libro di E. Salaris Attraverso gli Istituti Culturali italiani, opera di prossima pubblicazione sulle Accademie d’Italia.

Q5 §98 Storia del dopoguerra. Vedi l’articolo di Giovanni Marietti, Il trattato di Versailles e la sua esecuzione, nei fascicoli del 16 settembre e 16 ottobre 1929 della Nuova Antologia. È un riassunto diligente dei principali avvenimenti legati all’esecuzione del trattato di Versailles, una trama schematica che può essere utile come inizio di una ricostruzione analitica o per fissare le concordanze internazionali agli avvenimenti interni dei vari paesi.

Q5 §99 Armamento della Germania al momento dell’armistizio. Al momento dell’armistizio furono consegnati dall’esercito operante: cannoni 5000; mitragliatrici 25 000; bombarde 3000; aeroplani 1700; autocarri 5000; locomotive 5000; carri ferroviari 150 000. La Commissione per il disarmo distrusse nel territorio tedesco: cannoni 39 600; affusti finiti 23 061; fucili e pistole 4 574 000; mitragliatrici 88 000; proietti d’artiglieria 39 254 000; proietti per bombarde 4 028 000; cartucce 500 294 000; bombe a mano 11 530 000; esplosivi 2 131 646 tonnellate (e molte armi non furono consegnate).

Q5 §100 Funzione cosmopolita degli intellettuali italiani. Per il mondo slavo confrontare Ettore Lo Gatto, L’Italia nelle letterature slave, fascicoli 16 settembre, 1° ottobre, 16 ottobre della Nuova Antologia. Oltre ai rapporti puramente letterari, determinati dai libri, ci sono molti accenni all’immigrazione di intellettuali italiani nei diversi paesi slavi, specialmente in Russia e in Polonia, e alla loro importanza come fattori della cultura locale.

Un altro aspetto della funzione cosmopolita degli intellettuali italiani da studiare, o almeno da accennare, è quella svolta in Italia stessa, attirando studenti alle Università e studiosi che volevano perfezionarsi. In questo fenomeno di immigrazione di intellettuali stranieri in Italia occorre distinguere due aspetti: immigrazione per vedere l’Italia come territorio‑museo della storia passata, che è stata permanente e dura ancora con ampiezza maggiore o minore secondo le epoche, e immigrazione per assimilare la cultura vivente sotto la guida degli intellettuali italiani viventi; è questa seconda che interessa per la ricerca in quistione. Come e perché avviene che a un certo punto sono gli italiani ad emigrare all’estero e non gli stranieri a venire in Italia? (con eccezione relativa per gli intellettuali ecclesiastici, il cui insegnamento in Italia continua ad attirare discepoli in Italia fino ad oggi; in questo caso occorre però tener presente che il centro romano è andatosi relativamente internazionalizzando). Questo punto storico è di massima importanza: gli altri paesi acquistano coscienza nazionale e vogliono organizzare una cultura nazionale, la cosmopoli medioevale si sfalda, l’Italia come territorio perde la sua funzione di centro internazionale di cultura, non si nazionalizza per sé, ma i suoi intellettuali continuano la funzione cosmopolita, staccandosi dal territorio e sciamando all’estero.

Q5 §101 I nipotini di padre Bresciani. Filippo Crispolti. Uno dei documenti più brescianeschi del Crispolti è l’articolo La madre di Leopardi nella Nuova Antologia del 16 settembre 1929. Che dei puri eruditi, appassionati anche delle minuzie biografiche dei grandi uomini, come il Ferretti, abbiano cercato di «riabilitare» la madre del Leopardi, non fa meraviglia: ma le allumacature gesuitiche che il Crispolti sbava sullo scritto del Ferretti, fanno ribrezzo. Tutto il tono è ripugnante, intellettualmente e moralmente. Intellettualmente perché il Crispolti interpreta la psicologia del Leopardi con i suoi «grandi dolori» giovanili (certamente suo è il manoscritto inedito di memorie cui si riferisce due volte) per essere povero, cattivo ballerino e noioso conversatore: paragone ripugnante. Moralmente perché il tentativo di giustificare la madre del Leopardi è meschino, cavilloso, gesuitico nel senso tecnico della parola. Davvero che tutte le madri aristocratiche dei primi del secolo XIX erano come Adelaide Antici? Si potrebbero portare documenti in contrario a profusione e anche l’esempio del D’Azeglio non serve, perché la durezza nell’educazione fisica per avere dei soldati, è ben diversa dalla secchezza morale e sentimentale: quando il D’Azeglio bambino si ruppe il braccio e il padre lo indusse a tenere nascosto il male una notte intera per non spaventare la madre, chi non vede quale sostrato affettuoso famigliare è contenuto nell’episodio e come ciò doveva esaltare il bambino e legarlo più intimamente ai genitori? (Questo episodio del D’Azeglio è citato in un altro articolo dello stesso fascicolo della Nuova Antologia, Pellegrinaggio a Recanati, di Alessandro Varaldo). La difesa della madre del Leopardi non è un puro fatto d’erudizione curiosa, è un elemento ideologico, accanto alla riabilitazione dei Borboni, ecc.

Q5 §102 Letteratura italiana. Contributo dei burocratici. Ho scritto già una nota su questo argomento, osservando quanto poco scrivano i funzionari italiani di ogni categoria, intorno a ciò che costituisce la loro specialità e la loro particolare attività (se scrivono lo fanno solo per i superiori non per il popolo‑nazione). Nella Nuova Antologia del 16 settembre 1929, a p. 267 è detto che il libro Nazioni e minoranze etniche (Zanichelli, 2 voll.) è stato scritto «da un giovane gentiluomo romano, che, non volendo confusi i suoi studi giuridici e storici con i suoi uffici diplomatici, ha adottato il nome un poco arcaico di Luca dei Sabelli».

Q5 §103 Letteratura popolare. Teatro. «Il dramma lacrimoso e la commedia sentimentale avevano popolato il palcoscenico di pazzi e di delinquenti di ogni genere e la Rivoluzione francese – tranne pochi lavori d’occasione – niente aveva ispirato agli autori drammatici che segnasse un nuovo indirizzo d’arte e che sviasse il pubblico dai sotterranei misteriosi, dalle foreste perigliose, dai manicomi...» (Alberto Manzi, Il conte Giraud, il Governo italico e la censura nella Nuova Antologia del 1° ottobre 1929).

Il Manzi riporta un brano di un opuscolo dell’avv. Maria Giacomo Boïeldieu, del 1804: «Ai nostri giorni la scena si è trasformata: e non è raro il caso di veder gli assassini nelle loro caverne e i pazzi nel manicomio. Non si può lasciare ai tribunali il compito di punire quei mostri che disonorano il nome di uomo, e ai medici quello di cercar di curare gli sventurati i cui delitti colpiscono penosamente l’umanità, anche se simulati? Quale possente attrattiva, quale soluzione può esercitare sullo spettatore il quadro dei mali che nell’ordine morale e fisico desolano la specie umana, e dai quali da un momento all’altro e per la più piccola scossa dei nostri nervi esauriti, possiamo noi stessi diventare vittime meritevoli di compassione?! Che bisogno c’è di andare al teatro per vedere Briganti (commedia tipo: Robert chef des brigands, di Lamartelière, finito poi impiegato di Stato, e il cui enorme successo, nel 1791, fu determinato dalla frase “guerre aux châteaux, paix aux chaumières”; derivata dai Masnadieri di Schiller) Pazze e Malati d’amore (commedie tipo Nina la pazza per amore, Il cavaliere de la Barre, Il delirio, ecc.)», ecc. ecc. Il Boïeldieu critica «il genere che, in realtà, mi sembra pericoloso e da deplorare».

L’articolo del Manzi contiene qualche spunto sull’atteggiamento della censura napoleonica contro questo tipo di teatro, specialmente quando i casi anormali rappresentati toccavano il principio monarchico.

Q5 §104 Il Cinquecento. Il modo di giudicare la letteratura del Cinquecento secondo determinati canoni stereotipati ha dato luogo in Italia a curiosi giudizi e a limitazioni di attività critica che sono significativi per giudicare il carattere astratto dalla realtà nazionale‑popolare dei nostri intellettuali. Qualcosa ora sta cambiando lentamente, ma il vecchio reagisce. Nel 1928 Emilio Lovarini ha stampato una commedia in 5 atti La Venexiana, commedia di ignoto cinquecentesco (Zanichelli, 1928, n. 1 della «Nuova scelta di curiosità letterarie inedite o rare») che è stata riconosciuta come una bellissima opera d’arte (cfr Benedetto Croce, nella «Critica» del 1930). Ireneo Sanesi (autore del volume La Commedia nella collezione dei Generi letterari del Vallardi) in un articolo La Venexiana nella Nuova Antologia del 1° ottobre 1929, così imposta quello che per lui è il problema critico posto dalla commedia: l’autore ignoto della Venexiana è un ritardatario, un codino, un conservatore, perché rappresenta la commedia nata dalla novellistica medioevale, la commedia realistica, vivace (anche se scritta in latino) che prende gli argomenti dalla realtà della comune vita borghese o cittadinesca, i cui personaggi sono riprodotti da questa medesima realtà, le cui azioni sono semplici, chiare, lineari e il cui maggiore interesse riposa appunto nella loro sobrietà e nella loro lucidezza. Mentre, secondo il Sanesi, sono rivoluzionari gli scrittori del teatro erudito e classicheggiante, che riportavano sulla scena gli antichissimi tipi e motivi cari a Plauto e Terenzio. Per il Sanesi, gli scrittori della nuova classe storica sono codini e sono rivoluzionari gli scrittori cortigiani: è stupefacente.

È interessante ciò che è avvenuto per la Venexiana a poca distanza da ciò che era avvenuto per le commedie del Ruzzante, tradotte in francese arcaicizzante dal dialetto padovano del Cinquecento da Alfredo Mortier. Il Ruzzante era stato rivelato da Maurizio Sand (figlio di Georges Sand) che lo proclamò maggiore non solo dell’Ariosto (nella commedia) e del Bibbiena, ma dello stesso Machiavelli, precursore del Molière e del naturalismo francese moderno. Anche per la Venexiana, Adolfo Orvieto («Marzocco», 30 settembre 1928) scrisse sembrare essa «il prodotto di una fantasia drammatica dei nostri tempi» e accennò al Becque.

È interessante notare questo doppio filone nel Cinquecento: uno veramente nazionale‑popolare (nei dialetti, ma anche in latino) legato alla novellistica precedente, espressione della borghesia, e l’altro aulico, cortigiano, anazionale, che però è portato sugli scudi dai retori.

Q5 §105 Americanismo. Confrontare Carlo Linati, Babbitt compra il mondo, nella Nuova Antologia del 16 ottobre 1929. Articolo mediocre, ma appunto perciò significativo come espressione di una media opinione. Può servire appunto per fissare cosa si pensa dell’americanismo, da parte dei piccoli borghesi più intelligenti. L’articolo è una variazione del libro di Edgard Ansel Mowrer, This American World, che il Linati giudica «veramente acuto, ricco di idee e scritto con una concisione tra classica e brutale che piace, e da un pensatore a cui certo non fanno difetto né lo spirito d’osservazione né il senso delle gradazioni storiche né la varietà della cultura». Il Mowrer ricostruisce la storia culturale degli Stati Uniti fino alla rottura del cordone ombelicale con l’Europa e all’avvento dell’Americanismo.

Sarebbe interessante analizzare i motivi del grande successo avuto da Babbitt in Europa. Non si tratta di un gran libro: è costruito schematicamente e il meccanismo è anche troppo manifesto. Ha importanza culturale più che artistica: la critica dei costumi prevale sull’arte. Che in America ci sia una corrente letteraria realistica che incominci dall’essere critica dei costumi è un fatto culturale molto importante: significa che si estende l’autocritica, che nasce cioè una nuova civiltà americana cosciente delle sue forze e delle sue debolezze: gli intellettuali si staccano dalla classe dominante per unirsi a lei più intimamente, per essere una vera superstruttura, e non solo un elemento inorganico e indistinto della struttura‑corporazione.

Gli intellettuali europei hanno già in parte perduto questa funzione: non rappresentano più l’autocoscienza culturale, l’autocritica della classe dominante; sono ridiventati agenti immediati della classe dominante, oppure se ne sono completamente staccati, costituendo una casta a sé, senza radici nella vita nazionale popolare. Essi ridono di Babbitt, si divertono della sua mediocrità, della sua ingenua stupidaggine, del suo modo di pensare a serie, della sua mentalità standardizzata. Non si pongono neanche il problema: esistono in Europa dei Babbitt? La quistione è che in Europa il piccolo borghese standardizzato esiste, ma la sua standardizzazione invece di essere nazionale (e di una grande nazione come gli Stati Uniti) è regionale, è locale. I Babbitt europei sono di una gradazione storica inferiore a quella del Babbitt americano: sono una debolezza nazionale, mentre l’americano è una forza nazionale; sono più pittoreschi ma più stupidi e più ridicoli; il loro conformismo è intorno a una superstizione imputridita e debilitante, mentre il conformismo di Babbitt è ingenuo e spontaneo, intorno a una superstizione energetica e progressiva. Per il Linati, Babbitt è «il prototipo dell’industriale americano moderno», mentre invece Babbitt è un piccolo borghese e la sua mania più tipica è quella di entrare in famigliarità con gli «industriali moderni», di essere un loro pari, di sfoggiare la loro «superiorità» morale e sociale. L’industriale moderno è il modello da raggiungere, il tipo sociale a cui conformarsi, mentre per il Babbitt europeo il modello e il tipo sono dati dal canonico della cattedrale, dal nobilastro di provincia, dal capo sezione del Ministero. È da notare questa acritica degli intellettuali europei: il Siegfrid, nella prefazione al suo libro sugli Stati Uniti, contrappone all’operaio taylorizzato americano l’artigiano dell’industria di lusso parigino, come se questo fosse il tipo diffuso del lavoratore; gli intellettuali europei in genere pensano che Babbitt sia un tipo puramente americano e si rallegrano con la vecchia Europa. L’antiamericanismo è comico, prima di essere stupido.

Q5 §106 Luigi Villari, Il governo laburista britannico, «Nuova Antologia» del 16 ottobre 1929. Articolo mediocre: qualche aneddoto. È da ricordare per il fatto che la «Nuova Antologia» quantunque diretta dal Presidente del Senato prima, dal Presidente dell’Accademia dopo e quindi tenuta a un certo riserbo, pubblichi di tali articoli in cui sui membri dei governi stranieri sono espressi giudizi di carattere personalistico, settario e poco riguardoso, all’infuori della polemica politica.

Q5 §107 Italia e Palestina. Confrontare nella «Nuova Antologia» del 16 ottobre 1929 l’articolo La riforma del mandato sulla Palestina, di Romolo Tritonj. Vi si espone il programma minimo italiano, cioè l’internazionalizzazione della Palestina, secondo il progetto concordato durante la guerra fra le potenze dell’Intesa e abbandonato da Francia e Inghilterra dopo la caduta dello zarismo in Russia, lasciando l’Italia in asso, poiché la Francia ebbe la Siria e l’Inghilterra la Palestina stessa. L’articolo è moderato in generale, ma accanito contro il sionismo. Si dovrà rivedere per ricostruire la politica italiana in Oriente (nel prossimo Oriente).

Q5 §108 Sicilia. Il Pantheon siciliano di S. Domenico. È a Palermo, nella chiesa di S. Domenico. Ci sono le tombe, fra gli altri, di Crispi, di Rosolino Pilo, del gen. Giacinto Carini. Non credo che esista qualcosa di simile nelle altre regioni, oltre il Pantheon di Roma e Santa Croce di Firenze. Sarebbe interessante avere la lista completa e ragionata di tutti i sepolti nel Pantheon siciliano: è interessante la scelta del nome Pantheon, proprio, nell’uso moderno, di una capitale nazionale. (A Parigi quando incominciò ad essere adoperato il nome di Pantheon?) (Dopo la Rivoluzione: si trattava di una chiesa destinata a Santa Genoveffa, patrona di Parigi; la Rivoluzione le dette il nome di Pantheon e la destinò a ricevere le ceneri dei grandi francesi; sotto la Restaurazione fu ridotto a Chiesa; sotto Luigi Filippo a tempio della Gloria, sotto Napoleone III a Chiesa. Con la III repubblica ritornò alla sua funzione di Pantheon nazionale). Il nome di Pantheon modernamente è quindi legato al movimento delle nazionalità.

Q5 §109 Sicilia. Cfr Romeo Vuoli, Il generale Giacinto Carini, Nuova Antologia, 1° novembre ‑ 16 novembre 1929: «Il Carini, ancor giovinetto, introdusse per primo in Sicilia la macchina a vapore per la montatura (o mondatura?) del sommaco e per questa industria si acquistò tanta popolarità fra i contadini delle campagne palermitane da poter guidare l’insurrezione del 1848». (Su questo punto cfr Colonna, I quattro candidati ai collegi di Palermo, Palermo, Ufficio tipografico Lo Bianco, 1861). Nella prima parte dell’articolo si può trovare qualche particolare sugli avvenimenti della Rivoluzione siciliana del 48, sulla vita all’estero degli emigrati politici e sull’impresa dei Mille con indicazioni bibliografiche. La seconda parte è meno interessante, eccetto qualche episodio.

Q5 §110 Francia e Italia. Nell’Histoire d’un crime V. Hugo scrive: «Ogni uomo di cuore ha due patrie in questo secolo. La Roma di un giorno e Parigi di oggi». Questa patria d’un giorno associata a quella d’oggi presuppone che la Francia sia l’erede di Roma: ecco un’affermazione che non era fatta e specialmente non è fatta per piacere a molti.

Q5 §111 L’Accademia d’Italia. Nella Nuova Antologia del 1° novembre 1929 sono pubblicati i discorsi inaugurali del Capo del Governo e di Tittoni.

Q5 §112 Carlo Schanzer, Sovranità e giustizia nei rapporti fra gli Stati, Nuova Antologia, 1° novembre 1929.

Moderato nella forma e nella sostanza. Può essere preso come documento dell’atteggiamento ufficioso del Governo verso la Società delle Nazioni e i problemi di politica internazionale che le sono connessi.

Q5 §113 Su Enrico Ibsen. Cfr Guido Manacorda, Il pensiero religioso di Enrico Ibsen, Nuova Antologia del 1° novembre 1929. Questo articolo del Manacorda, che appartiene al gruppo degli intellettuali «cattolici integrali» e polemisti per la Chiesa di Roma, è interessante per capire Ibsen indirettamente, per intendere a pieno il valore delle sue vedute ideologiche, ecc.

Q5 §114 Enciclopedia di concetti politici, filosofici ecc. Postulato. Nelle scienze matematiche, specialmente, si intende per postulato una proposizione che non avendo la evidenza immediata e la indimostrabilità degli assiomi, né potendo, d’altra parte, essere sufficientemente dimostrata come un teorema, è tuttavia provvista, in base ai dati dell’esperienza, di una tale verosimiglianza che può essere acconsentita e concessa anche dall’avversario e posta quindi a base di talune dimostrazioni. Il postulato è quindi, in questo senso, una proposizione richiesta ai fini della dimostrazione e costruzione scientifica. Nell’uso comune, invece, postulato vuol dire un modo d’essere o d’agire che si desidera si realizzi, che anzi si vorrebbe e in certi casi si dovrebbe volere fosse attuato e si suppone o si afferma essere il risultato di una indagine scientifica (storia, economia, scienze esatte, ecc.). In questo caso il significato di «postulato» si avvicina a quello di «rivendicazione», di «desiderata», di «esigenza», ossia sta tra queste nozioni e quella di «principio»: i postulati di un partito politico sarebbero i suoi «principii» pratici, da cui immediatamente conseguono le rivendicazioni, ecc., di carattere più immediato e particolare (è vero che in questo senso, che implica il dover essere più che l’essere, postulato dovrebbe piuttosto chiamarsi postulando).

Q5 §115 Niccolò Machiavelli. Un’edizione delle Lettere di Niccolò Machiavelli è stata fatta dalla Società Editrice «Rinascimento del libro», Firenze, nella «Raccolta nazionale dei classici», curata e con prefazione di Giuseppe Lesca (la prefazione è stata pubblicata nella Nuova Antologia del 1° novembre 1929). Le lettere erano già state stampate nel 1883 dall’Alvisi presso il Sansoni di Firenze con lettere di altri al Machiavelli (del libro dell’Alvisi è stata fatta una nuova edizione con prefazione di Giovanni Papini).

Q5 §116 G. B., La Banca dei regolamenti internazionali, «Nuova Antologia», 16 novembre 1929.

Q5 §117 Argus, Il disarmo navale, i sottomarini e gli aeroplani, «Nuova Antologia», 16 novembre 1929. Brevi cenni alle prime trattative tra Stati Uniti e Inghilterra per il disarmo e la parità navale. Accenna anche rapidamente all’innovazione che nell’armamento navale è portata dal sottomarino e dall’aeroplano, che, con costi relativamente bassi, possono dare risultati molto rilevanti, e alla sempre maggiore inutilità delle grandi corazzate.

Q5 §118 Stresemann. Cfr nella Nuova Antologia del 16 novembre 1929 l’articolo di Francesco Tommasini, Il pensiero e l’opera di Gustavo Stresemann, interessante per studiare la Germania del dopoguerra e il mutamento nella psicologia dei nazionalisti borghesi e piccolo borghesi.


Q5 §119 Enciclopedia di concetti politici, filosofici, ecc. Classe media. Il significato di classe media muta da un paese all’altro e dà luogo spesso a equivoci molto curiosi. Il termine è venuto dalla letteratura politica inglese ed indica in questa lingua la borghesia industriale, posta tra la nobiltà e il popolo: in Inghilterra la borghesia non è stata mai concepita come un tutto col popolo, ma sempre staccata da questo. Nella storia inglese è avvenuto anzi che non la borghesia abbia guidato il popolo e si sia fatta aiutare da esso per abbattere i privilegi feudali, ma invece è avvenuto che la nobiltà abbia formato un grande partito di popolo contro lo sfrenato sfruttamento della borghesia industriale e contro le conseguenze dell’industrialismo. C’è una tradizione di torismo popolare (Disraeli, ecc.). Anche la storia dei partiti politici britannici riflette questo sviluppo: gli whigs erano aristocratici che lottavano contro i privilegi e i soprusi della corona; i tories piccoli aristocratici popolareggianti: gli whigs sono diventati il partito degl’industriali, delle classi medie, mentre i tories sono diventati il partito della nobiltà, sempre popolareggiante. Dopo l’entrata in vigore, ormai irreparabile, delle grandi riforme whigs, dopo cioè che l’industria ebbe completamente conformato lo Stato ai suoi interessi e bisogni, tra i due partiti ci fu scambio di personale, divennero ambedue interclassisti, ma i tories conservarono sempre una certa popolarità e la conservano ancora: gli operai, se non votano per il partito laburista, votano per i conservatori.

In Francia si può parlare meno di classe media, perché c’è la tradizione politica e culturale del terzo stato, cioè del blocco tra borghesia e popolo. Gli anglicizzanti adoperano il termine nel senso inglese, ma altri l’adoperano nel senso italiano di «piccoli borghesi» e le due correnti si fondono creando talvolta confusione.

In Italia, dove la aristocrazia guerriera è stata distrutta dai Comuni (distrutta fisicamente nella persona dei primi ghibellini) – eccetto che nell’Italia Meridionale e in Sicilia – mancando il concetto e la cosa «classe alta», nell’uso corrente e politico, almeno – l’espressione classe media venne naturalmente a significare «piccola e media borghesia», e, negativamente, non popolo nel senso «non operai e contadini», quindi anche «intellettuali»; per molti anzi classe media indica proprio i ceti intellettuali, gli uomini di cultura (in senso lato, quindi anche gli impiegati ma specialmente i professionisti). Concetto di «signori» in Sardegna, di «galantuomini» e di «civili» nel Mezzogiorno e in Sicilia.

Q5 §120 Nazionalismo culturale cattolico. È la tendenza che più meraviglia nel leggere, per esempio, la «Civiltà Cattolica»: poiché, se essa divenisse realmente una regola di condotta, il cattolicismo stesso diverrebbe impossibile. L’incitamento ai filosofi italiani ad abbracciare il tomismo, perché S. Tommaso è nato in Italia e non perché in esso può trovarsi una migliore via per trovare la verità, come potrebbe servire ai francesi o ai tedeschi? E non può diventare invece, per logica conseguenza, un incitamento a ogni nazione di cercare nella sua propria tradizione un archetipo intellettuale, un «maestro» di filosofia religiosa nazionale, cioè un incitamento a disgregare il Cattolicismo in tante chiese nazionali? Posto il principio, perché poi fissare S. Tommaso come espressione nazionale e non il Gioberti e il Socini ecc.?

Che i Cattolici e anzi i gesuiti della «Civiltà Cattolica» siano dovuti e devano ricorrere a una tale propaganda è un segno dei tempi. C’è stato un tempo in cui Carlo Pisacane era predicato come l’elemento nazionale da contrapporre sugli altari ai brumosi filosofi tedeschi; ancor di più Giuseppe Mazzini. Nella filosofia attualistica si rivendica Gioberti come lo Hegel italiano, o quasi. Il cattolicismo religioso incita (o ha dato l’esempio?) al cattolicismo filosofico e a quello politico sociale.


Q5 §121 Francia. André Siegfried, Tableau des Partis en France, Paris, Grasset, 1930.

Q5 §122 Nazionale‑popolare. Ho scritto alcune per osservare come le espressioni «nazione» e «nazionale» abbiano in Italiano un significato molto più limitato di quelli che nelle altre lingue hanno le parole corrispondenti date dai vocabolari. L’osservazione più interessante si può fare per il cinese, dove pure gli intellettuali sono tanto staccati dal popolo: per tradurre l’espressione cinese Sen Min‑ciu‑i che indica i tre principi della politica nazionale‑popolare di Sun Yat‑Sen, i gesuiti hanno escogitato la formula di «triplice demismo» (escogitata dal gesuita italiano D’Elia nella traduzione francese del libro di Sun Yat‑Sen, Le triple demisme de Sun Wen); cfr «Civiltà Cattolica» del 4 maggio e 18 maggio 1929 in cui la formula cinese Sen Min‑ciu‑i è analizzata nella sua composizione grammaticale cinese e confrontata con varie traduzioni possibili.

Q5 §123 Rinascimento. Articolo di Vittorio Rossi, Il Rinascimento, nella Nuova Antologia del 16 novembre 1929. Molto interessante e comprensivo nella sua brevità. Per il Rossi, giustamente, il rifiorire degli studi intorno alle letterature classiche fu un fatto di formazione secondaria, un indizio, un sintomo e non il più appariscente della profonda essenza dell’età cui spetta il nome di Rinascimento. «Il fatto centrale e fondamentale, quello onde ogni altro germoglia, fu la nascita e la maturazione d’un nuovo mondo spirituale che dall’energica e coerente virtù creativa sprigionatasi dopo il Mille in ogni campo dell’umana attività, fu portato allora sulla scena della storia non pure italiana, ma europea». Dopo il Mille s’inizia la reazione contro il regime feudale «che improntava di sé tutta la vita» (con l’aristocrazia fondiaria e il chiericato): nei due o tre secoli seguenti si trasforma profondamente l’assetto economico, politico e culturale della società: si rinvigorisce l’agricoltura, si ravvivano, estendono ed organizzano le industrie e i commerci; sorge la borghesia, nuova classe dirigente (questo punto è da precisare e il Rossi non lo precisa) fervida di passione politica (dove, in tutta Europa, o solamente in Italia e nelle Fiandre?) e stretta in corporazioni finanziarie potenti; si costituisce con crescente spirito di autonomia lo Stato comunale.

(Anche questo punto è da precisare: bisogna fissare che significato ha avuto lo «Stato» nello Stato comunale: un significato «corporativo» limitato, per cui non si è potuto sviluppare oltre il feudalismo medio, cioè quello successo al feudalismo assoluto – senza terzo stato, per così dire, – esistito fino al Mille e a cui successe la monarchia assoluta nel secolo XV, fino alla Rivoluzione francese. Un passaggio organico dal comune a un regime non più feudale si ebbe nei Paesi Bassi e solo nei Paesi Bassi. In Italia i Comuni non seppero uscire dalla fase corporativa, l’anarchia feudale ebbe il sopravvento in forme appropriate alla nuova situazione e ci fu poi la dominazione straniera. Confrontare a questo proposito alcune sugli «Intellettuali italiani». Per tutto lo sviluppo della società europea, cui accenna il Rossi, dopo il Mille, occorre tener conto del libro di Henri Pirenne sull’origine delle città).

Movimenti di riforma della Chiesa; sorgono ordini religiosi nuovi che vogliono ripristinare la vita apostolica. (Questi movimenti sono sintomi positivi o negativi del nuovo mondo che si sviluppa? Certamente essi si presentano come reazione alla nuova società economica, sebbene la domanda di riformare la Chiesa sia progressiva: però è vero che essi indicano un maggior interesse del popolo verso le quistioni culturali e un maggior interesse verso il popolo da parte di grandi personalità religiose, cioè gli intellettuali più in vista dell’epoca: ma anche essi, in Italia almeno, sono o soffocati o addomesticati dalla Chiesa, mentre in altre parti d’Europa si mantengono come fermento per sboccare nella Riforma. Parlando delle tendenze culturali dopo il Mille non bisognerebbe dimenticare l’apporto arabo attraverso la Spagna: cfr gli articoli di Ezio Levi nel «Marzocco» o nel «Leonardo»; e, con gli arabi, gli ebrei spagnuoli). «Nelle scuole filosofiche e teologiche di Francia s’accendono fieri dibattiti, che fan segno del rinato spirito religioso e insieme delle cresciute esigenze della ragione». (Queste dispute non sono dovute alle dottrine averroiste che cercano di conquistare il mondo europeo, cioè alla pressione della cultura araba?) «Scoppia la lotta per le investiture, che, suscitata dal ridesto senso della romanità imperiale (cosa vuol dire? dal ridesto senso dello Stato che vuole assorbire in sé tutte le attività dei cittadini, come nell’Impero Romano?) e dalla coscienza di presenti interessi spirituali, politici, economici, sommuove tutto il mondo dei principi secolari ed ecclesiastici e la massa anonima dei monaci, dei borghesi, dei contadini, degli artigiani». Eresie (ma soffocate col ferro e col fuoco).

«La cavalleria, mentre sancisce e consacra nell’individuo il possesso di virtù morali, alimenta un amore di cultura umana e pratica certa raffinatezza di costumi». (Ma la cavalleria in che senso si può legare al Rinascimento dopo il Mille? Il Rossi non distingue i movimenti contraddittori, perché non tiene conto delle diverse forme di feudalismo e di autonomia locale entro la cornice del feudalismo. D’altronde non si può non parlare della cavalleria come elemento del Rinascimento vero e proprio del 1500, sebbene l’Orlando furioso ne sia già un rimpianto in cui il sentimento di simpatia si mescola a quello caricaturale ed ironico, e il Cortegiano ne sia la fase sufficientemente filistea, scolastica, pedantesca). Le Crociate, le guerre dei re cristiani contro i Mori in Spagna, dei Capetingi contro l’Inghilterra, dei Comuni italiani contro gli imperatori svevi, in cui matura o spunta il sentimento delle unità nazionali (esagerazione). E strana, in un erudito come il Rossi, questa proposizione: «Nello sforzo con cui quegli uomini rigenerano se stessi e costruiscono le condizioni d’una nuova vita, essi sentono ribulicare i fermenti profondi della loro storia, e nel mondo romano, così ricco di esperienze di libera e piena spiritualità umana, trovano anime congeniali», che mi pare tutta una filza di affermazioni vaghe e vuote di senso: 1) perché c’è sempre stata una continuità tra il mondo romano e il periodo dopo il Mille (medio‑latino); 2) perché «le anime congeniali» è una metafora senza senso e in ogni caso il fenomeno avvenne nel 400‑500 e non in questa prima fase; 3) perché di romano non ci fu nulla nel Rinascimento italiano, altro che la vernice letteraria, perché mancò proprio ciò che è specifico della civiltà romana: l’unità statale e quindi territoriale.

La cultura latina, fiorente nelle scuole di Francia del XII secolo con magnifico rigoglio di studi grammaticali e rettorici, di composizioni poetiche e di prose regolate e solenni, a cui in Italia corrisponde una più tarda e modesta produzione dei poeti ed eruditi veneti e dei dettatori – è una fase del medio‑latino, è un prodotto schiettamente feudale nel senso primitivo di prima del Mille; così si dica degli studi giuridici, rinati per il bisogno di dare assetto legale ai nuovi e complessi rapporti politici e sociali, che si volgono è vero al diritto romano, ma rapidamente degenerano nella casistica più minuziosa, appunto perché il diritto romano «puro» non può dare assetto ai nuovi complessi rapporti: in realtà attraverso la casistica dei glossatori e dei post‑glossatori si formano delle giurisprudenze locali, in cui ha ragione il più forte (o il nobile o il borghese) e che è l’«unico diritto» esistente: i principi del diritto romano vengono dimenticati o posposti alla glossa interpretativa che a sua volta è stata interpretata, con un prodotto ultimo in cui di romano non c’era nulla, altro che il principio puro e semplice di proprietà.

La Scolastica, «che viene nuovamente pensando e sistemando entro alle forme della filosofia antica» (rientrata, si noti, nel circolo della civiltà europea, non per il «ribulicare» dei fermenti profondi della storia, ma perché introdottavi dagli arabi e dagli ebrei) «le verità intuite dal Cristianesimo».

L’Architettura romanica. Il Rossi ha molta ragione di affermare che tutte queste manifestazioni dal 1000 al 1300 non sono frutto di artificiosa volontà imitatrice, ma spontanea manifestazione d’una energia creativa, che scaturisce dal profondo e mette quegli uomini in grado di sentire e di rivivere l’antichità. Questa ultima proposizione è però erronea, perché quegli uomini, in realtà, si mettono in grado di sentire e vivere intensamente il presente, mentre successivamente si forma uno strato di intellettuali che sente e rivive l’antichità e che si allontana sempre più dalla vita popolare, perché la borghesia in Italia decade o si degrada fino a tutto il Settecento.

E ancora strano che il Rossi non s’accorga delle contraddizioni in cui cade affermando: «Tuttavia se per Rinascimento senza complementi s’ha ad intendere, come a me non par dubbio, tutto il multiforme prorompere dell’attività umana nei secoli dall’XI al XVI, indizio fra tutti cospicuo del Rinascimento vuol essere considerato, non il rifiorire della cultura latina, ma il sorgere della letteratura in lingua volgare, da cui acquista rilievo uno dei più voli prodotti di quella energia, lo scindersi dell’unità medioevale in differenziate entità nazionali». Il Rossi ha una concezione realistica e storicistica del Rinascimento, ma non sa abbandonare completamente la vecchia concezione retorica e letteraria: ecco l’origine delle sue contraddizioni e della sua acribria: il sorgere del volgare segna un distacco dall’antichità, ed è da spiegare come a questo fenomeno si accompagni una rinascita del latino letterario. Giustamente dice il Rossi che «l’uso che un popolo faccia d’una piuttosto che d’un’altra lingua per disinteressati fini intellettuali, non è capriccio di individui o di collettività, ma è spontaneità di una peculiare vita interiore, balzante nell’unica forma che le sia propria», cioè che ogni lingua è una concezione del mondo integrale, e non solo un vestito che faccia indifferentemente da forma a ogni contenuto. Ma allora? Non significa ciò che erano in lotta due concezioni del mondo: una borghese‑popolare che si esprimeva nel volgare e una aristocratico‑feudale che si esprimeva in latino e si richiamava all’antichità romana e che questa lotta caratterizza il Rinascimento e non già la serena creazione di una cultura trionfante? Il Rossi non sa spiegarsi il fatto che il richiamo all’antico è un puro elemento strumentale‑politico e non può creare una cultura di per sé e che perciò il Rinascimento doveva per forza risolversi nella Controriforma, cioè nella sconfitta della borghesia nata dai Comuni e nel trionfo della romanità, ma come potere del papa sulle coscienze e come tentativo di ritorno al Sacro Romano Impero: una farsa dopo la tragedia.

In Francia la letteratura di lingua d’oc e di lingua d’oil sboccia tra la fine del primo e il principio del secondo secolo dopo il Mille, quando il paese è tutto in fermento per i grandi fatti politici, economici, religiosi, culturali accennati prima. «E se in Italia l’avvento del volgare all’onore della letteratura ritarda d’oltre un secolo, gli è che fra noi il grande moto, che instaura sulle rovine dell’universalismo medioevale una nuova civiltà nazionale, è, per la varietà della storia molte volte secolare delle nostre città, più vario e dovunque autoctono e spontaneo, e manca la forza disciplinatrice di una monarchia e di potenti signori, onde più lenta e faticosa riesce la formazione unitaria appunto di quel nuovo mondo spirituale, di cui la nuova letteratura in volgare è l’aspetto più appariscente». Altro groppo di contraddizioni: in realtà il moto innovatore dopo il Mille fu più violento in Italia che in Francia e la classe portatrice della bandiera di quel moto si sviluppò economicamente prima e più potentemente che in Francia e riuscì a rovesciare il dominio dei suoi nemici, ciò che in Francia non avvenne. La storia si svolse diversamente in Francia che in Italia; questo è il truismo del Rossi, che non sa indicare le differenze reali dello sviluppo e le pone in una maggiore o minore spontaneità e autoctonia, molto difficili o impossibili da provare. Intanto anche in Francia il movimento non fu unitario, perché tra Nord e Sud c’è stata una bella differenza, che si esprime letterariamente in una grande letteratura epica nel Nord e nell’assenza di epica nel Sud. L’origine della differenziazione storica tra Italia e Francia si può trovare testimoniata nel giuramento di Strasburgo (verso l’841), cioè nel fatto che il popolo partecipa attivamente alla storia (il popolo‑esercito) diventando il garante dell’osservanza dei trattati tra i discendenti di Carlo Magno; il popolo‑esercito garantisce «giurando in volgare», cioè introduce nella storia nazionale la sua lingua, assumendo una funzione politica di primo piano, presentandosi come volontà collettiva, come elemento di una democrazia nazionale. Questo fatto «demagogico» dei Carolingi di appellarsi al popolo nella loro politica estera è molto significativo per comprendere lo sviluppo della storia francese e la funzione che vi ebbe la monarchia come fattore nazionale. In Italia i primi documenti di volgare sono dei giuramenti individuali per fissare la proprietà su certe terre dei conventi, o hanno un carattere antipopolare («Traite, traite, fili de putte»). Altro che spontaneità e autoctonia. L’involucro monarchico, vero continuatore dell’unità statale romana, permise alla borghe sia francese di svilupparsi più che la completa autonomia economica raggiunta dalla borghesia italiana, che però fu incapace di uscire dal terreno grettamente corporativo e di crearsi una propria civiltà statale integrale. (È da vedere come i Comuni italiani, rivendicando i diritti feudali del Conte sul territorio circostante del comitato, ed essendoseli incorporati, divennero un elemento feudale, col potere esercitato da un comitato corporativo invece che dal conte).

Il Rossi nota che alla letteratura volgare si accompagnano, «coeve e significative della medesima attività interiore del popolo nostro, le forme comunali del cosiddetto preumanesimo del Dugento e del Trecento» e che alla letteratura volgare e a questo preumanesimo consegue l’umanesimo filologico dell’ultimo Trecento e del Quattrocento, concludendo: «Tre fatti che a una considerazione puramente estrinseca (!) di contemporanei e di posteri, poterono parere l’un l’altro antitetici, mentre segnano nell’ordine culturale tappe dello sviluppo dello spirito italiano, progressive e in tutto analoghe a quelle che nell’ordine politico sono il Comune, cui corrisponde la letteratura volgare con certe forme del preumanesimo, e la Signoria, il cui correlativo letterario è l’umanesimo filologico». Così tutto è a posto, sotto la vernice generica dello «spirito italiano».

Con Bonifacio VIII, l’ultimo dei grandi pontefici medioevali e con Arrigo VII erano finite le lotte epiche fra le due più alte potestà della terra. Decadenza dell’influsso politico della Chiesa: «servitù» avignonese e scisma. L’impero, come autorità politica municipale, muore (tentativi sterili di Ludovico il Bavaro e di Carlo IV). «La vita era nella giovane e industre borghesia dei Comuni, che veniva rassodando il suo potere contro i nemici esterni e contro i popolani minuti e che mentre seguitava il suo cammino nella storia, stava per generare o già aveva generato le signorie nazionali». Che signorie nazionali? L’origine delle signorie è ben diversa in Italia dagli altri paesi: in Italia nasce dall’impossibilità della borghesia di mantenere il regime corporativo, cioè di governare con la pura violenza il popolo minuto. In Francia invece l’origine dell’assolutismo è nelle lotte tra borghesia e classi feudali, in cui però la borghesia è unita al popolo minuto e ai contadini (entro certi limiti, s’intende). E si può parlare in Italia di «signoria nazionale»? Cosa voleva dire «nazione» in quel tempo?

Continua il Rossi: «Dinanzi a questi grandi fatti l’idea, che pareva incarnarsi nella perpetuità universale dell’Impero, della Chiesa e del diritto romano, e che è ancora di Dante, di una continuazione universale, nella vita del Medio Evo, della universale vita romana, cedeva all’idea che una grande rivoluzione s’era compiuta negli ultimi secoli e che una nuova era della storia era cominciata. Nasceva il senso di un abisso che separasse ormai la nuova civiltà dall’antica; onde l’eredità di Roma non era più sentita come una forza immanente nella vita quotidiana; ma gli Italiani cominciavano a volgere lo sguardo all’antichità come ad un proprio passato, ammirevole di forza, di freschezza, di bellezza, cui dovessero tornare col pensiero per via di meditazione e di studio e per un fine di educazione umana, simili a figlioli che dopo un lungo abbandono tornassero ai padri, non a vecchi che ripensassero e rimpiangessero l’età giovanile». E questo è un vero romanzo storico: dove si può trovare l’«idea che una grande rivoluzione s’era compiuta»?, ecc. Il Rossi dilata a fatto storico degli aneddoti di carattere libresco e il senso del disprezzo dell’umanista per il latino medioevale e l’alterigia del signore raffinato per la «barbarie» medioevale; ha ragione Antonio Labriola nel suo brano Da un secolo all’altro che solo con la Rivoluzione Francese si sente il distacco dal passato, da tutto il passato e questo sentimento ha la sua espressione ultima nel tentativo di rinnovare il computo degli anni col calendario repubblicano. Se ciò che pretende il Rossi si fosse manifestato davvero, non sarebbe avvenuto così facilmente il passaggio dal Rinascimento alla Controriforma. Il Rossi non sa liberarsi dalla concezione retorica del Rinascimento e perciò non sa valutare il fatto che esistevano due correnti: una progressiva e una regressiva e che quest’ultima trionfò in ultima analisi, dopo che il fenomeno generale raggiunse il suo massimo splendore nel Cinquecento (non come fatto nazionale e politico, però, come fatto culturale prevalentemente se non esclusivamente), come fenomeno di una aristocrazia staccata dal popolo‑nazione, mentre nel popolo si preparava la reazione a questo splendido parassitismo nella riforma protestante, nel Savonarolismo coi suoi «bruciamenti delle vanità», nel banditismo popolare come quello di re Marcone in Calabria e in altri movimenti che sarebbe interessante registrare e analizzare almeno come sintomi indiretti: lo stesso pensiero politico del Machiavelli è una reazione al Rinascimento, è il richiamo alla necessità politica e nazionale di riavvicinarsi al popolo come hanno fatto le monarchie assolute di Francia e di Spagna, come è un sintomo la popolarità del Valentino in Romagna, in quanto deprime i signorotti e i condottieri ecc.

Secondo il Rossi «la coscienza della separazione ideale prodottasi nei secoli fra l’antichità e l’epoca nuova» è già virtualmente nello spirito di Dante, ma appare attuale e s’impersona, nell’ordine politico, in Cola di Rienzo, che «erede del pensiero di Dante, vuole rivendicare la romanità e quindi l’italianità (perché “quindi”?, Cola di Rienzo pensava proprio solo al popolo di Roma, materialmente inteso) dell’Impero e col vincolo sacro della romanità stringere in unità di nazione tutte le genti italiane; quanto alla cultura popolare, nel Petrarca, che saluta Cola “nostro Camillo, nostro Bruto, nostro Romolo” e con istudio paziente rievoca l’antico, mentre con anima di poeta lo risente e rivive». (Continua il romanzo storico: quale fu il risultato degli sforzi di Cola di Rienzo? nulla assoluto; e come si può far la storia con le velleità sterili e i pii desideri? E i Camilli, i Bruti, i Romoli messi insieme dal Petrarca non sentono la pura retorica?)

Il Rossi non riesce a porre il distacco tra Medio latino e latino umanistico o filologico come egli lo chiama; non vuol capire che si tratta in realtà di due lingue, perché esprimono due concezioni del mondo, in certo senso antitetiche, sia pure limitate alla categoria degli intellettuali e ancora non vuol capire che il preumanesimo (Petrarca) è ancora diverso dall’umanesimo, perché la «quantità è diventata qualità». Il Petrarca, si può dire, è tipico di questo passaggio: egli è un poeta della borghesia come scrittore in volgare, ma è già un intellettuale della reazione antiborghese (signorie, papato) come scrittore in latino, come «oratore», come personaggio politico. Ciò spiega anche il fenomeno cinquecentesco del «petrarchismo» e la sua insincerità: è un fenomeno puramente cartaceo, perché i sentimenti da cui era nata la poesia del dolce stil nuovo e del Petrarca stesso, non dominano più la vita pubblica, come non domina più la borghesia comunale, ricacciata nei suoi fondachi e nelle sue manifatture in decadenza. Politicamente domina un’aristocrazia in gran parte di parvenus, raccolta nelle corti dei signori e protetta dalle compagnie di ventura: essa produce la cultura del Cinquecento e aiuta le arti, ma politicamente è limitata e finisce sotto il dominio straniero.

Così il Rossi non può vedere le origini di classe del passaggio dalla Sicilia a Bologna e alla Toscana della prima poesia in volgare. Egli pone accanto il «preumanismo (nel suo senso) imperiale ed ecclesiastico di Pier delle Vigne e di maestro Berardo da Napoli, così cordialmente odiato dal Petrarca» e che ha «ancora radice nel sentimento della continuità imperiale della vita antica» (cioè è ancora Medio latino, come il «preumanismo» comunale dei filologi e poeti veronesi e padovani e dei grammatici e retori bolognesi) con la scuola poetica siciliana e dice che l’uno e l’altro fenomeno sarebbero stati sterili perché ambedue legati «ad un mondo politico e intellettuale ormai tramontato»; la scuola siciliana non fu sterile perché Bologna e la Toscana ne animarono «il vuoto tecnicismo del nuovo spirito culturale democratico». Ma è giusto questo nesso interpretativo? In Sicilia la borghesia mercantile si sviluppò sotto l’involucro monarchico e con Federico II si trovò coinvolta nella quistione del Sacro romano impero della Nazione germanica: Federico era un monarca assoluto in Sicilia e nel Mezzogiorno, ma era anche l’Imperatore medioevale. La borghesia siciliana, come quella francese, si sviluppò più rapidamente, dal punto di vista culturale, che la Toscana; lo stesso Federico e i suoi figli poetarono in volgare e da questo punto di vista essi parteciparono della nuova spinta di attività umane posteriore al Mille; ma non solo da questo punto di vista: in realtà la borghesia toscana e quella bolognese erano più arretrate ideologicamente che Federico II, l’Imperatore medioevale. Paradossi della storia. Ma non bisogna falsificare la storia, come fa il Rossi, capovolgendo i termini per amore di tesi generale. Federico II fallì, ma si trattò di ben altro tentativo che quello di Cola di Rienzo e di ben altro uomo. Bologna e la Toscana accolsero il «vuoto tecnicismo siculo» con ben altra intelligenza storica del Rossi: capirono che si trattava di «cosa loro», mentre non capirono che era loro anche Enzo, sebbene portasse la bandiera dell’Impero universale e lo fecero morire in carcere.

A differenza del «preumanesimo» imperiale ed ecclesiastico il Rossi trova che «nella scabra e talvolta bizzarra latinità del preumanesimo fiorito all’ombra delle signorie comunali, covavano (!) invece la reazione all’universalismo medioevale e aspirazioni indistinte a forme di stile nazionali (cosa significa? che il volgare era travestito di forme latine?); onde i nuovi studiosi del mondo classico dovevano sentirvi precorrimenti di quell’imperialismo romano che Cola aveva vagheggiato come centro di unificazione nazionale e che essi sentivano e auspicavano come forma di dominio culturale dell’Italia sul mondo. La nazionalizzazione (!) dell’umanesimo, che il secolo XVI vedrà compiersi in tutti i paesi civili d’Europa, nascerà appunto dall’impero universale d’una cultura, la nostra, che germoglia sì dallo studio dell’antico, ma nel tempo stesso s’afferma e si diffonde anche come letteratura volgare e quindi nazionale italiana». (Questa è la concezione retorica in pieno del Rinascimento; che gli umanisti abbiano auspicato il dominio culturale d’Italia sul mondo è tutt’al più l’inizio della «retorica» come forma nazionale. A questo punto si inserisce l’interpretazione della «funzione cosmopolita degli intellettuali italiani» che è ben altra cosa che non «dominio culturale» di carattere nazionale: è invece proprio testimonianza di assenza del carattere nazionale della cultura.)

La parola humanista compare solo nella seconda metà del secolo XV e in italiano solo nel terzo decennio del XVI: la parola umanesimo è ancora più recente. Sulla fine del secolo XIV i primi umanisti chiamarono i loro studi studia humanitatis, cioè «studi intesi al perfezionamento integrale dello spirito umano, e quindi i soli degni veramente dell’uomo. Per loro la cultura non è soltanto sapere, ma è anche vivere… è dottrina, è moralità, è bellezza … specchiate nell’unità della vivente opera letteraria». Il Rossi, preso nelle sue contraddizioni, determinate dalla concezione meccanicamente unitaria della storia del Rinascimento ricorre a delle immagini per spiegare come il latino umanistico sia andato deperendo, finché il volgare celebrò i suoi trionfi in ogni dominio della letteratura «e l’umanesimo italiano ebbe finalmente la lingua che era sua, mentre il latino scendeva nel suo sepolcro». (Non completamente, però, perché rimase nella Chiesa e nelle scienze fino al Settecento, a dimostrare quale sia stata la corrente sociale che ne aveva sostenuto sempre la permanenza: il latino dal campo laicale fu espulso solo dalla borghesia moderna, lasciandone il rimpianto nei diversi forcaioli).

«Umanesimo non è latinismo; è affermazione di umanità piena, e l’umanità degli umanisti italiani era, nella sua storicità, italiana; talché esprimersi non poteva se non nel volgare che anche gli umanisti parlavano nella pratica della vita e che, malgrado ogni proposito classicheggiante, forzava baldanzosamente i cancelli del loro latino. Potevano essi, astraendosi dalla vita, sognare il loro sogno, e fermi nell’idea che letteratura degna di questo nome non potesse darsi se non in latino, ripudiare la nuova lingua; altra era la realtà storica, della quale essi stessi e quel loro spirito sognante erano figli e nella quale vivevano la loro vita di uomini nati quasi un millennio e mezzo dopo il grande oratore romano». Che significa tutto ciò? Perché questa distinzione tra latino‑sogno e volgare ‑ realtà storica? E perché il latino non era una realtà storica? Il Rossi non sa spiegare questo bilinguismo degli intellettuali, cioè non vuol ammettere che il volgare, per gli umanisti, era come un dialetto, cioè non aveva carattere nazionale e che pertanto gli umanisti erano i continuatori dell’universalismo medioevale – in altre forme, si capisce – e non un elemento nazionale – erano una «Casta cosmopolita», per i quali l’Italia rappresentava forse ciò che è la regione nella cornice nazionale moderna, ma nulla di più e di meglio: essi erano apolitici e anazionali.

«C’era nel classicismo umanistico, non più un fine di moralità religiosa, bensì un fine di educazione integrale dell’anima umana; c’era soprattutto la riabilitazione dello spirito umano, come creatore della vita e della storia», ecc., ecc. Giustissimo: questo è l’aspetto più interessante dell’umanesimo. Ma è esso in contraddizione con ciò che ho detto prima sullo spirito anazionale e quindi regressivo – per l’Italia – dell’umanesimo stesso? Non mi pare. L’umanesimo infatti non sviluppò in Italia questo suo contenuto più originale e pieno d’avvenire. Esso ebbe il carattere di una restaurazione, ma come ogni restaurazione assimilò e svolse, meglio della classe rivoluzionaria che aveva soffocato politicamente, i principi ideologici della classe vinta che non aveva saputo uscire dai limiti corporativi e crearsi tutte le superstrutture di una società integrale. Solo che questa elaborazione fu «campata in aria», rimase patrimonio di una casta intellettuale, non ebbe contatti col popolo‑nazione. E quando in Italia il movimento reazionario, di cui l’umanesimo era stato una premessa necessaria, si sviluppò nella Controriforma, la nuova ideologia fu soffocata anch’essa e gli umanisti (salvo poche eccezioni) dinanzi ai roghi abiurarono (cfr il capitolo su Erasmo pubblicato dalla «Nuova Italia» dal libro del De Ruggiero, Rinascimento, riforma e controriforma).

Il contenuto ideologico del Rinascimento si svolse fuori d’Italia, in Germania e in Francia, in forme politiche e filosofiche: ma lo Stato moderno e la filosofia moderna furono in Italia importati perché i nostri intellettuali erano anazionali e cosmopoliti come nel Medio Evo, in forme diverse, ma negli stessi rapporti generali.

Nell’articolo del Rossi vi sono altri elementi, interessanti, ma essi sono di carattere particolare. Bisognerà studiare il libro del Rossi sul Quattrocento (coll. Vallardi), il libro del Toffanin, Cosa fu l’umanesimo (ediz. Sansoni), il libro del De Ruggiero su citato, oltre le opere classiche sul Rinascimento pubblicate da scrittori stranieri (Burkhardt, Voigt, Symonds, ecc.).

Q5 §124 Passato e presente. Alcuni intellettuali. Il barone Raffaele Garofalo: il suo articolo sull’amnistia pubblicato nella Nuova Antologia e annotato in un altro quaderno, la sua conferenza nel volume L’Italia e gli italiani del secolo XIX a cura di Jolanda De Blasi. Giovanni Gentile: il suo discorso a Palermo nel 1925 (o 24? cfr la nota di Croce in Cultura e Vita morale). Antonio Baldini: la sua conferenza nel volume curato dalla De Blasi su Carducci, D’Annunzio, Pascoli. Il Garofalo rappresenta la vecchia tradizione del latifondista meridionale (ricordare il suo passo al Senato per fare aumentare i canoni enfiteutici e per mantenere nel nuovo Codice la segregazione cellulare); il Gentile e il Baldini altro tipo d’intellettuali, più «spregiudicati» del Garofalo.

Del Gentile è da ricordare il discorso agli operai romani, contenuto nel suo volume su Fascismo e cultura (edizione Treves).

Q5 §125 Riviste‑tipo. Rassegne critiche bibliografiche. Una importantissima sui risultati della critica storica applicata alle origini del Cristianesimo, alla personalità storica di Gesù, agli Evangeli, alle loro differenze, agli evangeli sinottici e a quello di Giovanni, agli evangeli così detti apocrifi, all’importanza di S. Paolo e degli apostoli, alle discussioni se Gesù possa essere l’espressione di un mito ecc. (Cfr i libri dell’Omodeo ecc., le collezioni del Couchoud presso l’editore Rieder ecc.).

Lo spunto mi è stato suggerito dall’articolo di Alessandro Chiappelli Il culto di Maria e gli errori della recente critica storica nella Nuova Antologia del 1° dicembre 1929, contro A. Drews e il suo libro Die Marien Mithe. Su questi argomenti bisognerebbe vedere gli articoli di Luigi Salvatorelli (per es. il suo articolo nella «Rivista storica italiana», N. S., VII, 1928, sul nome e il culto di un divino Joshua). Nelle di questo articolo del Chiappelli ci sono molte citazioni bibliografiche.

Q5 §126 Passato e presente. Gli intellettuali: la decadenza di Mario Missiroli. Cfr l’articolo su Clemenceau di Mario Missiroli (Spectator) nella Nuova Antologia del 16 dicembre 1929. Articolo abbastanza interessante perché il Missiroli non ha perduto la capacità di grande giornalista nel sapere impostare un articolo brillante valendosi di alcune idee fondamentali e organizzandovi intorno una serie di fatti intelligentemente scelti. Ma perché e come Clemenceau fu a contatto con la Francia, col popolo francese e lo rappresentò nel momento supremo? Il Missiroli non lo sa dire: egli è diventato vittima del luogo comune antiparlamentare antidemocratico, «antidiscussionistico», antipartito ecc. La quistione è questa: nella Francia di prima del 1914 la molteplicità dei partiti, la molteplicità dei giornali d’opinione, la molteplicità delle frazioni parlamentari, il settarismo e l’accanimento nelle lotte politico‑parlamentari e nelle polemiche giornalistiche erano un segno di forza o di debolezza nazionale (egemonia della classe media, ossia del terzo stato), un segno di ricerca continua di nuova più compatta unità o di disgregazione? Alla base della nazione, nello spirito popolare c’erano in realtà due soli partiti: la destra, dei nobili, del clero alto e di una parte dei generali; il centro, costituito da un solo grande partito diviso in frazioni personali o di gruppi politici fondamentalmente affini; e piccole minoranze non organizzate politicamente alla periferia sinistra, nel proletariato.

La divisione morale della Francia era tra la destra e il resto della nazione, riproduceva la divisione tradizionale avvenuta dopo il 93, dopo il terrore e l’esecuzione del re, dei nobili e dell’alto clero per le sentenze del Tribunale rivoluzionario robespierrista. Le divisioni interne erano nelle alte cime della gerarchia politica, non alla base, ed erano legate alla ricchezza di sviluppi interni della politica nazionale francese dal 1789 al 1870: era un meccanismo di selezione di personalità politiche capaci di dirigere, più che una disgregazione, era un perfezionamento continuo dello Stato maggiore politico nazionale. In tale situazione si spiegano la forza e la debolezza di Clemenceau e la sua funzione. Così si spiegano anche le diagnosi sempre disastrose della situazione francese, sempre smentite dai fatti reali succeduti alla diagnosi. Il fenomeno di disgregazione interna nazionale (cioè di disgregazione dell’egemonia politica del terzo stato) era molto più avanzato nella Germania del 14 che nella Francia del 14, solo che la burocrazia ne faceva sparire i sintomi sotto la brillante vernice della disciplina coatta militaresca. Il fenomeno di disgregazione nazionale è avvenuto in Francia, ossia ha iniziato il suo processo di sviluppo, ma dopo il 19, molto dopo, molto più tardi che nei paesi a regime autoritario, che sono essi stessi un prodotto di tale disgregazione.

Ma Missiroli è diventato una vittima più o meno interessata dei luoghi comuni e la sua intelligenza della storia e della reale efficienza dei nessi ideologici è catastroficamente declinata. In un articolo Sorel e Clemenceau pubblicato nel «L’Italia Letteraria» del 15 dicembre, il Missiroli riporta su Clemenceau un giudizio di Sorel cui non aveva accennato nell’articolo della «Nuova Antologia». Nel febbraio 1920 il Missiroli pregò il Sorel di scrivere un articolo sulla candidatura presentata e ritirata da Clemenceau alla Presidenza della Repubblica. Il Sorel non volle scrivere l’articolo, ma in una lettera comunicò al Missiroli il suo giudizio: «Clemenceau sarebbe stato un presidente assai più sul tipo di Casimir Périer che di Loubet e di Fallières. Egli ha sempre lottato appassionatamente contro gli uomini che per la loro popolarità potevano dargli ombra. Se Clemenceau fosse stato eletto, sarebbe successa una vera rivoluzione nelle istituzioni francesi. Sarebbero stati accontentati coloro i quali chiedono che i poteri del presidente della Repubblica vengano estesi come quelli dei presidenti americani». Il giudizio è acuto, ma Missiroli non ha saputo servirsene nel suo articolo della «Nuova Antologia» perché contraria alla sua falsificazione della storia politica francese.

Q5 §127 Machiavelli. Nella Nuova Antologia del 16 dicembre 1929 è pubblicata una noticina di certo M. Azzalini, La politica, scienza ed arte di Stato, che può essere interessante come presentazione degli elementi tra cui si dibatte lo schematismo scientifico. L’Azzalini incomincia affermando che fu gloria «fulgidissima» del Machiavelli «l’aver circoscritto nello Stato l’ambito della politica». Cosa voglia dire l’Azzalini non è facile da capire: egli riporta dal cap. III del Principe il periodo: «Dicendomi el cardinale di Roano che li italiani non si intendevano della guerra, io li risposi ch’e’ Franzesi non si intendevano dello Stato» e su questa sola citazione basa l’affermazione che, dunque, per Machiavelli «la politica dovesse intendersi come scienza e come scienza dello Stato» e che fu sua gloria ecc. (il termine «scienza di Stato» per politica sarebbe stato adoperato, nel corretto significato moderno, prima di Machiavelli solo da Marsilio da Padova). L’Azzalini è abbastanza leggero e superficiale. L’aneddoto del cardinale di Roano, avulso dal testo, non significa nulla. Nel contesto assume un significato che non si presta a deduzioni scientifiche: si tratta evidentemente di un motto di spirito, di una battuta di ritorsione immediata. Il cardinale di Roano aveva affermato che gli italiani non si intendono di guerra: per ritorsione il Machiavelli risponde che i francesi non si intendono dello Stato, perché altrimenti non avrebbero permesso al Papa di ampliare il suo potere in Italia, ciò che era contro gli interessi dello Stato francese. Il Machiavelli era ben lungi dal pensare che i francesi non s’intendevano di Stato, perché anzi egli ammirava il modo con cui la monarchia (Luigi XI) aveva ridotto a unità statale la Francia e dell’attività francese di Stato faceva un termine di paragone per l’Italia. In quel suo discorso col cardinale di Roano egli fece della «politica» in atto e non della «scienza politica» poiché, secondo lui, se era dannoso alla «politica estera» francese che il Papa si rafforzasse, ciò era ancor più dannoso alla politica interna italiana.

Il curioso è che partendo da tale incongrua citazione l’Azzalini continui che «pur enunciandosi che quella scienza studia lo Stato, si dà una definizione (!?) del tutto imprecisa (!) perché non si indica con che criterio debba riguardarsi l’oggetto dell’indagine. E la imprecisione è assoluta dato che tutte le scienze giuridiche in generale ed il diritto pubblico in particolare, si riferiscano indirettamente e direttamente a quell’elemento». Cosa vuol dire tutto ciò, riferito al Machiavelli? Meno di niente: confusione mentale.

Il Machiavelli ha scritto dei libri di «azione politica immediata», non ha scritto un’utopia in cui uno Stato già costituito, con tutte le sue funzioni e i suoi elementi costituiti, fosse vagheggiato. Nella sua trattazione, nella sua critica del presente, ha espresso dei concetti generali, che pertanto si presentano in forma aforistica e non sistematica, e ha espresso una concezione del mondo originale, che si potrebbe anch’essa chiamare «filosofia della praxis» o «neo‑umanesimo» in quanto non riconosce elementi trascendentali o immanentici (in senso metafisico) ma si basa tutta sull’azione concreta dell’uomo che per le sue necessità storiche opera e trasforma la realtà. Non è vero, come pare credere l’Azzalini, che nel Machiavelli non sia tenuto conto del «diritto costituzionale», perché in tutto il Machiavelli si trovano sparsi principi generali di diritto costituzionale ed anzi egli afferma, abbastanza chiaramente, la necessità che nello Stato domini la legge, dei principi fissi, secondo i quali i cittadini virtuosi possano operare sicuri di non cadere sotto i colpi dell’arbitrario. Ma giustamente il Machiavelli riconduce tutto alla politica, cioè all’arte di governare gli uomini, di procurarsene il consenso permanente, di fondare quindi i «grandi Stati». Bisogna ricordare che il Machiavelli sentiva che non era Stato il Comune o la Repubblica e la signoria comunale, perché mancava loro con il vasto territorio una popolazione tale da essere la base di una forza militare che permettesse una politica internazionale autonoma: egli sentiva che in Italia, col Papato, permaneva una situazione di non‑Stato e che essa sarebbe durata finché anche la religione non fosse diventata «politica» dello Stato e non più politica del Papa per impedire la formazione di forti Stati in Italia intervenendo nella vita interna dei popoli da lui non dominati temporalmente per interessi che non erano quelli degli Stati e perciò erano perturbatori e disgregatori.

Si potrebbe trovare nel Machiavelli la conferma di ciò che ho altrove notato, che la borghesia italiana medioevale non seppe uscire dalla fase corporativa per entrare in quella politica perché non seppe completamente liberarsi dalla concezione medioevale‑cosmopolitica rappresentata dal Papa, dal clero e anche dagli intellettuali laici (umanisti), cioè non seppe creare uno Stato autonomo, ma rimase nella cornice medioevale feudale e cosmopolita.

Scrive l’Azzalini che «basta … la sola definizione di Ulpiano e, meglio ancora, gli esempi di lui, recati nel digesto, … la identità estrinseca (e allora?) dell’oggetto delle due scienze: “Ius publicum ad statum rei (publicae) romanae spectat. – Publicum ius, in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit”. Si ha quindi una identità d’oggetto nel diritto pubblico e nella scienza politica, ma non sostanziale perché i criteri con cui l’una o l’altra scienza riguardano la medesima materia sono del tutto diversi. Diverse infatti sono le sfere dell’ordine giuridico e dell’ordine politico. E per vero mentre la prima osserva l’organismo pubblico sotto un punto di vista statico, come il prodotto naturale di una determinata evoluzione storica, la seconda osserva quel medesimo organismo da un punto di vista dinamico, come un prodotto che può essere valutato nei suoi pregi e nei suoi difetti e che, conseguentemente, deve essere modificato a seconda delle nuove esigenze e delle ulteriori evoluzioni». Perciò si potrebbe dire che «l’ordine giuridico è ontologico ed analitico, perché studia ed analizza i diversi istituti pubblici nel loro reale essere» mentre «l’ordine politico, deontologico e critico perché studia i vari istituti non come sono, ma come dovrebbero essere e cioè con criteri di valutazione e giudizi di opportunità che non sono né possono essere giuridici».

E un tal barbassore crede di essere un ammiratore di Machiavelli e di esserne discepolo, magari, anzi, perfezionatore!

«Da ciò consegue che alla formale identità suddescritta si oppone una sostanziale diversità tanto profonda e notevole da non consentire, forse, il giudizio espresso da uno dei massimi pubblicisti contemporanei che riteneva difficile se non impossibile creare una scienza politica completamente distinta dal diritto costituzionale. A noi sembra che il giudizio espresso sia vero solo se si arresta a questo punto l’analisi dell’aspetto giuridico e dell’aspetto politico, ma non se si prosegue oltre individuando quell’ulteriore campo che è di esclusiva competenza della scienza politica. Quest’ultima, infatti, non si limita a studiare l’organizzazione dello Stato con un criterio deontologico e critico e però diverso da quello usato per il medesimo oggetto dal diritto pubblico, ma amplia la sua sfera ad un campo che le è proprio, indagando le leggi che regolano il sorgere, il divenire, il declinare degli Stati. Né vale l’affermare che tale studio è della storia (!) intesa con significato generale (!), perché pur ammettendo che sia indagine storica la ricerca delle cause, degli effetti, dei mutui vincoli d’interdipendenza delle leggi naturali che governano l’essere e il divenire degli Stati, rimarrà sempre di pertinenza esclusivamente politica, non storica quindi, né giuridica, la ricerca di mezzi idonei per presiedere praticamente all’indirizzo generale politico. La funzione che il Machiavelli si riprometteva di svolgere e sintetizzava dicendo: “disputerò come questi principati si possano governare e tenere” (Principe, c. II) è tale per importanza intrinseca di argomento e per specificazione, non solo da legittimare l’autonomia della politica, ma da consentire, almeno sotto l’aspetto ultimamente delineato, una distinzione anche formale fra essa ed il diritto pubblico». Ed ecco cosa intende per autonomia della politica!

Ma, dice l’Azzalini, oltre una scienza, esiste un’arte politica. «Esistono uomini che traggono o trassero dall’intuizione personale la visione dei bisogni e degli interessi dei paesi governati, che nell’opera di governo attuarono nel mondo esterno la visione dell’intuito personale. Con ciò non vogliamo certamente dire che l’attività intuitiva e però artistica sia l’unica e la prevalente nell’uomo di Stato; vogliamo solo dire che in esso, accanto alle attività pratiche, economiche e morali, deve sussistere anche quell’attività teoretica sopraindicata, sia sotto l’aspetto soggettivo dell’intuizione che sotto l’aspetto oggettivo (!) dell’espressione e che, mancando tali requisiti, non può sussistere l’uomo di governo e tanto meno (!) l’uomo di Stato il cui fastigio è caratterizzato appunto da quella inacquistabile (?) facoltà. Anche nel campo politico, quindi, oltre lo scienziato in cui prevale la attività teoretica conoscitiva, sussiste l’artista in cui prevale l’attività teoretica intuitiva. Né con ciò si esaurisce interamente la sfera d’azione dell’arte politica che oltre all’essere osservata in relazione allo statista che colle funzioni pratiche del governo estrinseca la rappresentazione interna dell’intuito, può essere valutata in relazione allo scrittore che realizza nel mondo esterno (!) la verità politica intuita non con atti di potere ma con opere e scritti che traducono l’intuito dell’autore. È il caso dell’indiano Kamandaki (III secolo d. C.), del Petrarca nel Trattatello pei Carraresi, del Botero nella Ragion di Stato e, sotto certi aspetti del Machiavelli e del Mazzini».

È veramente un bel pasticcio, degno del... Machiavelli, ma specialmente di Tittoni, direttore della «Nuova Antologia». L’Azzalini non sa orientarsi né nella filosofia, né nella scienza della politica. Ma ho voluto prendere tutte queste per cercare di sbrogliarne l’intrigo e vedere di giungere a concetti chiari per conto mio.

È da distrigare, per es., ciò che può significare «intuizione» nella politica e l’espressione «arte» politica, ecc. – Ricordare insieme alcuni punti del Bergson: «L’intelligenza non ci offre della vita (la realtà in movimento) che una traduzione in termini di inerzia. Essa gira tutt’attorno, prendendo dal di fuori il più gran numero possibile di vedute dell’oggetto che essa attira presso di sé invece di entrare in esso. Ma nell’interno stesso della vita ci condurrà l’intuizione: intendo dire l’istinto divenuto disinteressato». «Il nostro occhio percepisce i tratti dell’essere vivente, ma avvicinati l’una all’altro, non organizzati tra loro. L’intenzione della vita, il movimento semplice che corre attraverso le linee, che le lega una con l’altra e dà loro un significato, gli sfugge; ed è questa intenzione che l’artista tende ad afferrare collocandosi nell’interno dell’oggetto con una specie di simpatia, abbassando con uno sforzo di intuizione la barriera che lo spazio pone fra lui e il modello. È vero però che l’intuizione estetica non afferra che l’individuale». «L’intelligenza è caratterizzata da una incomprensibilità naturale della vita poi che essa non rappresenta chiaramente che il discontinuo e l’immobilità». Distacco, intanto, dell’intuizione politica dall’intuizione estetica, o lirica, o artistica: solo per metafora si parla di arte politica. L’intuizione politica non si esprime nell’artista, ma nel «capo» e si deve intendere per «intuizione» non la «conoscenza degli individuali» ma la rapidità di connettere fatti apparentemente estranei tra loro e di concepire i mezzi adeguati al fine per trovare gli interessi in gioco e suscitare le passioni degli uomini e indirizzare questi a una determinata azione. L’«espressione» del «capo» è l’«azione» (in senso positivo o negativo: scatenare un’azione o impedire che avvenga una determinata azione, congruente o incongruente col fine che si vuol raggiungere). D’altronde il «capo in politica» può essere un individuo, ma anche un corpo politico più o meno numeroso, nel qual ultimo caso la unità d’intenti sarà raggiunta da un individuo o da un piccolo gruppo interno e nel piccolo gruppo da un individuo che può mutare volta a volta pur rimanendo il gruppo unitario e coerente nella sua opera continuativa.

Se si dovesse tradurre in linguaggio politico moderno la nozione di «Principe», così come essa serve nel libro del Machiavelli, si dovrebbe fare una serie di distinzioni: «principe» potrebbe essere un capo di Stato, un capo di governo, ma anche un capo politico che vuole conquistare uno Stato o fondare un nuovo tipo di Stato; in questo senso «principe» potrebbe tradursi in lingua moderna «partito politico». Nella realtà di qualche Stato il «capo dello Stato», cioè l’elemento equilibratore dei diversi interessi in lotta contro l’interesse prevalente, ma non esclusivista in senso assoluto, è appunto il «partito politico»; esso però a differenza che nel diritto costituzionale tradizionale né regna, né governa giuridicamente: ha «il potere di fatto», esercita la funzione egemonica e quindi equilibratrice di interessi diversi, nella «società civile», che però è talmente intrecciata di fatto con la società politica che tutti i cittadini sentono che esso invece regna e governa. Su questa realtà che è in continuo movimento, non si può creare un diritto costituzionale, del tipo tradizionale, ma solo un sistema di principii che affermano come fine dello Stato la sua propria fine, il suo proprio sparire, cioè il riassorbimento della società politica nella società civile.

Q5 §128 Lorianismo. Domenico Giuliotti. Alla teoria di Loria della necessaria concomitanza del misticismo e della sifilide, fa riscontro Domenico Giuliotti, il quale, nella prefazione a Profili di Santi edito dalla Casa Ed. Rinascimento del Libro, scrive: «Eppure, o edifichiamo unicamente in Cristo o, in altri modi, edifichiamo nella morte. Nietzsche, per esempio, l’ultimo anticristiano di grido, è bene non dimenticare che fini luetico e pazzo». Nietzsche è solo l’esempio di una serie, a quanto pare, cioè si tratta di una legge, ciò che è rinforzato dal «è bene non dimenticare», cioè: state attenti, ragazzi, a non essere anticristiani, perché altrimenti morrete luetici e pazzi. È proprio l’anti‑Loria perfetto. (La prefazione del Giuliotti è riportata nell’«Italia Letteraria» del 15 dicembre 1929, quindi il libro sarà uscito nel 1930: pare si tratti di una serie di vite di Santi tradotte dal Giuliotti).

Q5 §129 Passato e presente. I cattolici e lo Stato. Confrontare l’articolo molto significativo Tra «ratifiche» e «rettifiche» (del padre Rosa) nella «Civiltà Cattolica» del 20 luglio 1929, riguardante anche il plebiscito del 1929. Su questo articolo confrontare anche il fascicolo successivo della stessa «Civiltà Cattolica» (del 3 agosto). A proposito del Concordato è da rilevare che l’art. 1° dice testualmente: «L’Italia, ai sensi dell’art. 1 del Trattato, assicura alla Chiesa Cattolica il libero esercizio del potere spirituale, ecc.». Perché si parla di potere, che ha un preciso significato giuridico, e non, per esempio, di «attività» o altro termine meno facilmente interpretabile in senso politico? Sarebbe utile fare una ricerca, anche di nomenclatura, negli altri concordati stipulati dalla Chiesa e nella letteratura di ermeneutica dei concordati dovuta ad agenti del Vaticano.


Q5 §130 Nozioni enciclopediche. La parola ufficiale o officiale. Questa parola specialmente nelle traduzioni da lingue straniere (in primo luogo l’inglese) dà luogo a equivoci e nel caso migliore a incomprensione e stupore. In italiano «ufficiale» ha sempre più ristretto il suo significato e tende a indicare ormai solo gli ufficiali dell’esercito: è rimasto solo, in significato estensivo, in alcune espressioni diventate idiomatiche e di origine burocratica: «pubblico ufficiale», «ufficiale dello stato civile», ecc. In inglese invece «official» indica in generale ogni specie di funzionario (per ufficiale dell’esercito si usa «officer» che indica però anch’esso il «funzionario» in generale) e non solo quello dello Stato, ma di ogni sorta di ufficio privato (funzionario sindacale, ecc.) fino ad indicare persino il semplice «impiegato». (Si potrebbe fare una più ampia indagine, di carattere etimologico, giuridico, politico).

Q5 §131 Riviste‑tipo. Una rubrica grammaticale‑linguistica. La rubrica Querelles de langage affidata nelle «Nouvelles Littéraires» ad André Thérive (che è il critico letterario del «Temps») mi ha colpito pensando alla utilità che una simile rubrica avrebbe nei giornali e nelle riviste italiane. Per l’Italia la rubrica sarebbe molto più difficile da compilare, per la mancanza di grandi dizionari moderni e specialmente di grandi opere di insieme sulla storia della lingua (come i libri del Littré e del Brunot in Francia, e anche di altri) che potrebbero mettere in grado un qualsiasi medio letterato o giornalista di alimentare la rubrica stessa. L’unico esempio di tal genere di letteratura in Italia è stato l’Idioma Gentile del De Amicis (oltre ai capitoli sul vocabolario nelle Pagine Sparse) che però aveva carattere troppo linguaiolo e retorico, oltre all’esasperante manzonismo. Carattere linguaiolo e per di più leziosamente stucchevole aveva la rubrica iniziata da Alfredo Panzini nella prima «Fiera Letteraria» di U. Fracchia, rapidamente smessa. Perché la rubrica sia interessante, il suo carattere dovrebbe essere molto spregiudicato e prevalentemente ideologico storico, non linguaiolo e grammaticale: la lingua dovrebbe essere trattata come una concezione del mondo, come l’espressione di una concezione del mondo; il perfezionamento tecnico dell’espressione, sia quantitativo (acquisto di nuovi mezzi di espressione), sia qualitativo (acquisto delle sfumature di significato e di un ordine più complesso sintattico e stilistico) significa ampliamento e approfondimento della concezione del mondo e della sua storia. Si potrebbe cominciare con notizie curiose: l’origine di «cretino», i significati di «villano», la stratificazione sedimentaria delle vecchie ideologie (per esempio: disastro dall’astrologia, sancire e sanzionare: rendere sacro, dalla concezione religiosa sacerdotale dello Stato, ecc.). Si dovrebbero così correggere gli errori più comuni del popolo italiano, che in gran parte apprende la lingua dagli scritti (specialmente i giornali) perciò non sa accentare giustamente le parole (per esempi «profùgo» durante la guerra: ho sentito persino, da un milanese, pronunciare «rosèo» per roseo, ecc.). Errori molto gravi di significato (significato particolare esteso, o viceversa), errori e garbugli sintattici e morfologici molto curiosi (i congiuntivi dei siciliani: «si accomodasse, venisse», per «s’accomodi, venga», ecc.).

Q5 §132 Passato e presente. Nella «Civiltà Cattolica» del 20 luglio 1929 è contenuta la cronaca della prima udienza, per la presentazione delle credenziali, concessa da Pio XI all’ambasciatore De Vecchi presso la Città del Vaticano. Nelle parole rivolte da Pio XI al De Vecchi, al secondo capoverso, si dice: «Parlando di novità di rapporti così felicemente iniziata, lo diciamo, signor conte, con riguardo particolare alla sua persona, lieti che questa novità di cose si inizi e prenda avviamento da quello che Ella rappresenta, di persona e di opere, da quello che Ella è venuta già facendo per il bene, non solo del Paese, ma anche delle nostre Missioni».

Q5 §133 Azione Cattolica. I «Ritiri operai». Confrontare la «Civiltà Cattolica» del 20 luglio 1929: «Come il popolo torna a Dio». L’opera dei «Ritiri operai».

I «Ritiri» o «Esercizi Spirituali chiusi» sono stati fondati da S. Ignazio di Loyola (la cui opera più diffusa sono gli Esercizi spirituali, editi nel 29 da G. Papini); ne sono una derivazione i «Ritiri Operai» iniziati nel 1882 nel Nord della Francia. L’Opera dei Ritiri Operai iniziò la sua attività in Italia nel 1907, col primo ritiro per operai tenuto a Chieri (cfr «Civiltà Cattolica», 1908,vol. IV, p. 61: I «Ritiri Operai» in Italia). Nel 1929 è uscito il volume: Come il popolo ritorna a Dio, 1909‑1929. L’Opera dei Ritiri e le Leghe di Perseveranza in Roma in 20 anni di vita; vol. in 8°, con illustrazioni, 136 pp., L. 10,00. (Si vende a beneficio dell’Opera, alla «Direzione dei Ritiri Operai»; Roma, Via degli Astalli, 16‑17). Dal libro appare che dal 1909 al 29 l’Opera ha raccolto nelle Leghe di Perseveranza di Roma e del Lazio più di 20 000 operai, molti dei quali erano convertiti di recente. Negli anni 1928‑29 si ottenne nel Lazio e nelle province vicine un esito superiore a quello dato da Roma nei precedenti 18 anni.

Sono stati praticati finora 115 Ritiri chiusi con la partecipazione di circa 2200 operai, in Roma. «In ogni ritiro, scrive la «Civiltà Cattolica», vi è sempre un nucleo di buoni operai che serve di lievito e di esempio, gli altri sono raccolti in vario modo tra gente del popolo o fredda o indifferente e anche ostile, i quali si inducono, parte per curiosità, parte per condiscendere all’invito di amici, e non di rado anche per la comodità di tre giorni di riposo e di buon trattamento gratuito».

Nell’articolo si dànno altri particolari su vari comuni del Lazio: la Lega di Perseveranza di Roma ha 8000 inscritti con 34 centri; nel Lazio sono 25 sezioni della Lega con 12 000 inscritti. (Comunione mensile, mentre la Chiesa si accontenta di una comunione all’anno). L’Opera è diretta dai gesuiti. (Si potrebbe fare un paragrafo della rubrica «Passato e Presente»).

Le leghe di Perseveranza tendono a mantenere i risultati ottenuti nei ritiri e ad ampliarli nella massa. Esse creano una «opinione pubblica» attiva in favore della pratica religiosa, capovolgendo la situazione precedente, in cui l’opinione pubblica era negativa, o per lo meno passiva, o scettica e indifferente.

Q5 §134 Movimenti religiosi. È da vedere il movimento pancristiano e la sua organizzazione dipendente: «Alleanza mondiale per promuovere l’amicizia internazionale per mezzo delle Chiese». Il movimento pancristiano è significativo per queste ragioni: 1) Perché le Chiese protestanti tendono non solo a unirsi tra loro, ma ad acquistare, attraverso l’unione, una forza di proselitismo; 2) delle Chiese protestanti solo quelle americane, e in minor grado, quelle inglesi, avevano una forza espansiva di proselitismo: questa forza passa al movimento pancristiano anche se esso è diretto da elementi europei continentali, specialmente norvegesi e tedeschi; 3) l’unionismo può arrestare la tendenza a scindersi sempre più delle Chiese protestanti; 4) gli ortodossi partecipano, come centri dirigenti autocefali, al movimento pancristiano.

La Chiesa Cattolica è molto turbata da questo movimento. La sua organizzazione massiccia e la sua centralizzazione e unicità di comando, la poneva in condizioni di vantaggio nell’opera lenta ma sicura di assorbimento di eretici e scismatici. L’unione pancristiana turba il monopolio e fa trovare Roma dinanzi a un fronte unico. D’altronde la Chiesa Romana non può accettare di entrare nel movimento come uguale alle altre Chiese e ciò favorisce la propaganda pancristiana che può rimproverare a Roma di non volere l’unione di tutti i Cristiani per i suoi interessi particolari, ecc.

Q5 §135 Risorgimento italiano. Lamennais. Il Lamennais dovrà essere studiato per l’influsso che le sue idee ebbero su alcune correnti culturali del Risorgimento, specialmente per orientare una parte del clero verso le idee liberali e anche come elemento ideologico dei movimenti democratico‑sociali prima del 48. Per la lotta del Lamennais contro i gesuiti, cfr l’articolo Il padre Roothaan e il La Mennais nella «Civiltà Cattolica» del 3 agosto 1929. Il padre Roothaan divenne generale della Compagnia di Gesù verso la fine degli anni 20 e morì, mi pare, nel 1853; è quindi il generale che presiedette all’azione dei gesuiti prima e dopo il 48. Si potranno vedere nella «Civiltà Cattolica» altri articoli sul Lamennais e sul padre Roothaan.

Q5 §136 Nozioni enciclopediche. È da notare, nel linguaggio storico‑politico italiano, una serie di espressioni, che è difficile e talvolta impossibile tradurre in lingua straniera: così abbiamo il gruppo «Rinascimento», «Rinascita», «Rinascenza» (le due prime parole italiane la terza francesismo), ormai entrate nel circolo della cultura europea e mondiale perché se il fenomeno ebbe il massimo splendore in Italia, non fu però ristretto all’Italia.

Nasce nell’Ottocento il termine «Risorgimento» in senso politico, accompagnato da «riscossa nazionale» e «riscatto nazionale». Tutti esprimono il concetto, del ritorno a uno stato già esistito anteriormente, o di «ripresa» offensiva («riscossa») delle energie nazionali, o di liberazione da uno stato di servitù per ritornare alla primitiva autonomia (riscatto). Sono difficili da tradurre appunto perché strettamente legate alla tradizione letteraria‑nazionale di Roma imperiale o dei Comuni medioevali come periodi in cui il popolo italiano è «nato» o è «sorto», per cui la ripresa si chiama rinascimento o Risorgimento. Così il «riscuotersi» è legato all’idea dell’organismo vivo che cade in letargia e si «riscuote», ecc.

Q5 §137 Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. Il caso dell’abate Turmel di Rennes. Nel libro L’Enciclica Pascendi e il modernismo, il padre Rosa dedica alcune pagine gustosissime al caso straordinario dell’abate Turmel, un modernista, che scriveva libri modernisti sotto varii pseudonimi e poi li confutava col suo vero nome. Dal 1908 al 1929 pare che il Turmel abbia continuato nel suo gioco dei pseudonimi, come avrebbe dimostrato il prof. L. Saltet, dell’Istituto cattolico di Tolosa in un lungo studio pubblicato nel «Bulletin de Littérature Ecclésiastique» di Tolosa, annata 1929. Il caso del Turmel è così caratteristico che varrà la pena di fare altre ricerche.

Q5 §138 Il culto degli Imperatori. Nella «Civiltà Cattolica» del 17 agosto e del 21 settembre 1929 è pubblicato un articolo del padre gesuita G. Messina L’apoteosi dell’uomo vivente e il Cristianesimo. Nella prima puntata il Messina esamina l’origine del culto dell’Imperatore fino ad Alessandro il Macedone; nella seconda puntata l’introduzione a Roma del culto imperiale e la resistenza dei primi cristiani fino all’editto di Costantino.

Scrive il Messina: «Nella primavera del 323 si mandarono (da Atene e Sparta) delegati ad Alessandro in Babilonia e questi si presentarono a lui, come era costume presentarsi agli dei, coronati di serti, riconoscendolo così come dio. L’ambizione di Alessandro era soddisfatta: egli era l’unico padrone del mondo e dio: la sua volontà unica legge. Partito come rappresentante dei Greci nella sua campagna contro i Persiani, ora sentiva che il suo ufficio era compiuto: non era più rappresentante di nessuno: davanti alla sua persona sollevata alla divinità, Greco o Macedone, Persiano o Egiziano erano ugualmente sudditi e dipendenti. Differenze di nazionalità e di costumi, pregiudizi di schiatta, tradizioni particolari dovevano scomparire e tutti i popoli dovevano essere condotti a sentirsi una cosa sola nell’ubbidienza di un solo monarca e nel culto della sua persona». Il culto dell’imperatore cioè è legato all’impero universale e al cosmopolitismo di cui l’impero è necessaria espressione.

Sarebbe interessante vedere se è stato tentato di trovare un nesso tra il culto dell’Imperatore e la posizione del Papa come vicario di Dio in terra; certo è che al Papa si tributano onoranze divine e lo si chiama «padre comune» come Dio.

Il Papato avrebbe fatto una mistione tra gli attributi del Pontefice Massimo e quelli dell’Imperatore divinizzato (attributi che per le popolazioni del primo periodo non dovevano essere sentiti come distinti per gli stessi imperatori). Così attraverso il Papato dovrebbe essere nato anche il diritto divino delle monarchie, riflesso del culto imperiale. La stessa necessità ha portato nel Giappone al culto del Mikado, diventato poi solennità civile e non più religiosa.

Si sarebbe verificato nel Cristianesimo ciò che si verifica nei periodi di Restaurazione in confronto ai periodi rivoluzionari: l’accettazione mitigata e camuffata dei principi contro cui si era lottato.

Q5 §139 Nozioni enciclopediche. Nella serie dei termini italiani «Rinascimento», «Risorgimento», ecc., si può mettere la parola, d’origine francese e indicante un fatto prevalentemente francese, di «Restaurazione».

La coppia «formare» e «riformare» non è così evidente, perché una cosa formata si può continuamente «riformare» senza che ci sia stata una «catastrofe» intermedia, ciò che invece è implicito in «Rinascimento», ecc., e in «Restaurazione»: la Chiesa Romana è stata riformata più volte dall’interno. Invece nella «Riforma» protestante c’è l’idea di rinascita e restaurazione della chiesa primitiva. Anche i cattolici parlano della «Riforma» della Chiesa fatta dal Concilio di Trento, ma solo i gesuiti si attengono scrupolosamente a questa nomenclatura; nella cultura laica, si parla di Riforma e Controriforma, cioè non è penetrato il convincimento che la Chiesa abbia subito una Riforma, ma semplicemente che abbia reagito contro la Riforma luterana.

Sarebbe interessante vedere se questo concetto è nato già dopo il Concilio di Trento o quando: poiché in esso è contenuto un giudizio implicito negativo.

Q5 §140 Americanismo. Un libro per lo meno curioso, espressione della reazione degli intellettuali provinciali all’americanismo è quello di C. A. Fanelli: L’Artigianato. Sintesi di un’economia corporativa, Spes editrice, Roma, 1929, in 8°, pp. XIX‑505, L. 30,00, di cui la «Civiltà Cattolica» del 17 agosto 1929 pubblica una recensione nell’articolo Problemi Sociali (che sarà del padre Brucculeri). È curioso il fatto che il padre gesuita difende la civiltà moderna (nella sua manifestazione industriale) contro il Fanelli. Riporto alcuni brani caratteristici del Fanelli citati dalla «Civiltà Cattolica»: «Il sistema (dell’industrialismo meccanico) presenta l’inconveniente di riassorbire per indiretta via, neutralizzandola, la massima parte dei materiali vantaggi che esso può offrire. Dei cavalli‑vapore installati, i tre quarti sono adibiti nei trasporti celeri, resi indispensabili dalla necessità di ovviare ai facili deperimenti che cagionano i forti concentramenti di merci. Della quarta parte, adibita alla concentrazione delle merci, circa la metà è impiegata nella produzione delle macchine, sì che, a somme fatte, di tutto l’enorme sviluppo meccanico che opprime il mondo col peso del suo acciaio, non altro che un ottavo dei cavalli installati viene impiegato nella produzione di manufatti e delle sostanze alimentari» (p. 205 del libro).

«L’Italiano, temperamento asistematico, geniale, creatore, avverso alle razionalizzazioni, non può adattarsi a quella metodicità della fabbrica, in cui solo è riposto il rendimento del lavoro in serie. Che anzi, l’orario di lavoro diviene per lui puramente nominale per lo scarso rendimento ch’egli dà in un lavoro sistematico. Spirito, eminentemente musicale, l’Italiano può accompagnarsi col solfeggio nel lavoro libero, attingendo da tale ricreazione nuove forze ed ispirazioni. Mente aperta, carattere vivace, cuore generoso, portato nella bottega... l’Italiano può esplicare le proprie virtù creative, a cui, del resto, si appoggia tutta l’economia della bottega. Sobrio come nessun altro popolo, l’Italiano sa attingere, nella indipendenza della vita di bottega, qualunque sacrifizio o privazione per far fronte alle necessità dell’arte, mentre mortificato nel suo spirito creatore dal lavoro squalificato della fabbrica, egli sperpera la paga nell’acquisto di un oblio e di una gioia che gli abbrevian l’esistenza» (p. 171 del libro).

Il libro del Fanelli dal punto di vista culturale corrisponde all’attività letteraria di quegli scrittori provinciali che ancora continuano a scrivere continuazioni, in ottava rima, alla Gerusalemme liberata, all’Orlando Furioso, ecc. È pieno settecentismo: lo stato di natura è sostituito dall’«artigianato» e dalla sua patriarcalità.

È curioso che simili scrittori, che combattono per l’incremento demografico, dimenticano che l’aumento della popolazione nel secolo scorso, è strettamente legato allo sviluppo del mercato mondiale. Il recensore nota giustamente che ormai l’artigianato è legato alla grande industria e ne dipende: esso riceve dalla grande industria materie prime semilavorate e utensili perfezionati.

Che l’operaio di fabbrica italiano dia una relativamente scarsa produzione può esser vero: ciò dipende (dal fatto) che l’industrialismo in Italia, abusando della massa crescente dei disoccupati (che l’emigrazione solo parzialmente equilibrava), è stato sempre un industrialismo di rapina, ha speculato più sui salari che sull’incremento tecnico; la proverbiale «sobrietà» degli stabilimenti significa semplicemente che non è stato creato un tenore di vita alimentare adeguato al consumo di energie domandato dal lavoro di fabbrica. Il tipo coreografico dell’Italiano è falso sotto tutti i rispetti: nelle categorie intellettuali sono gli italiani che hanno creato l’«erudizione», il lavoro paziente d’archivio: Muratori, Tiraboschi, Baronio, ecc., sono stati italiani e non tedeschi. Nell’artigianato esiste il lavoro a serie e standardizzato «tale e quale» che negli Stati Uniti: la differenza è di scala: l’artigiano produce mobili, aratri, roncole, coltelli, casette di contadini, stoffe, ecc., standardizzate sulla scala del villaggio, o del mandamento, del circondario, della provincia, al massimo della regione: l’industria americana ha la misura standard in un continente o nel mondo intero. L’artigiano produce sempre le stesse roncole, gli stessi carri, gli stessi finimenti da animali da tiro, ecc., per tutta la vita. L’artigianato a «creazione individuale» incessante è così minimo che comprende solo gli artisti nel senso stretto della parola (e ancora: i «grandi» artisti). Il libro del Fanelli può dare origine a paragrafi in varie rubriche: in «Passato e presente», in «Americanismo», in «Lorianismo».

Q5 §141 Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. Cfr l’articolo La lunga crisi dell’«Action Française» nella «Civiltà Cattolica» del 7 settembre 1929. Si loda il libro La trop longue crise de l’Action Française di Mons. Sagot du Vauroux, évêque d’Agon, Parigi, ed. Bloud, 1929, opera che «riuscirà utilissima anche agli stranieri, i quali non riescono a comprendere le origini e meno ancora la persistenza, congiunta a tanta ostinazione, degli aderenti cattolici che li acceca sino a farli vivere e morire senza sacramenti, piuttosto che rinunziare alle odiose esorbitanze di un loro partito o dei suoi dirigenti increduli». La «Civiltà Cattolica» si giustifica, di non occuparsi più spesso della polemica dell’Action Française, e tra l’altro dice: «Oltre a ciò, la prolungata crisi non tocca l’Italia se non per riverbero, ossia per una lontana concomitanza ed analogia, che essa potrebbe avere con le tendenze generali paganeggianti dell’età moderna».

Questa è appunto la debolezza della posizione gesuitica contro l’Action Française, ed è una delle cause del furore fanatico di Maurras e dei suoi seguaci; questi sono persuasi che il Vaticano fa su di loro una esperienza «in corpore vili» che li ha posti nella condizione del ragazzetto che accompagnava sempre, una volta, il principe ereditario inglese e si pigliava le nerbate per conto delle sue capestrerie; da ciò Maurras e C. traggono la persuasione che l’assalto che hanno subito sia meramente politico, perché se fosse religioso dovrebbe essere universale non solo a parole, ma come identificazione o «punizione» anche negli altri paesi degli elementi individuali o di gruppo che sono, ideologicamente, sul loro stesso piano.

Altre indicazioni di «cattolici integrali»: il Bloc antirévolutionnaire di Félix Lacointe «degno amico del citato Boulin e dei suoi soci» (del Boulin e della sua «Revue Internationale des Sociétés secrètes» ho preso nota in altro paragrafo). Il Lacointe avrebbe pubblicato che il cardinale Rampolla era iscritto alla Massoneria o qualcosa di simile. (Al Rampolla si rimprovera ancora la politica del ralliement fatta da Leone XIII; ricordare a proposito del Rampolla che il veto al conclave contro la sua elezione al pontificato fu fatto dall’Austria, ma per domanda di Zanardelli: sul Rampolla e la sua posizione verso l’Italia dà elementi nuovi il Salata nel I° volume dei suoi Documenti diplomatici sulla questione romana).

Un elemento molto significativo del lavorio che la corrente gesuitica esplica in Francia per formare un partito centrista cattolico‑democratico è questo motivo ideologico‑storico: Chi è responsabile dell’apostasia del popolo francese? Solo gli intellettuali democratici che si richiamano al Rousseau? No. I più responsabili sono gli aristocratici e l’alta borghesia che hanno civettato con Voltaire: «... le rivendicazioni tradizionali (dei vecchi monarchici) del ritorno all’antico sono pure rispettabili, quantunque inattuabili, nelle condizioni presenti. E sono inattuabili anzitutto per colpa di tanta parte dell’aristocrazia e borghesia di Francia, poiché dalla corruzione e dall’apostasia di questa classe dirigente fino dal secolo XVII originò la corruzione e l’apostasia della massa popolare in Francia, avverandosi anche allora che regis ad exemplum totus componitur orbis. Il Voltaire era l’idolo di quella parte dell’aristocrazia corrotta e corrompitrice del suo popolo, alla cui fede e costumatezza procurando scandalose soluzioni, essa scavava a se medesima la fossa. E sebbene poi al sorgere del Rousseau con la sua democrazia sovversiva in opposizione all’aristocrazia volterriana, si fecero opposizione teorica le due correnti di apostasia, – come tra i due tristi corifei – che parevano muovere da contrari errori, confluirono in una stessa pratica ed esiziale conclusione: nell’ingrossare cioè il torrente rivoluzionario», ecc. ecc. Così oggi: Maurras e C. sono contro la democrazia del Rousseau e le «esagerazioni democratiche» («esagerazioni», si badi bene, solo «esagerazioni») del Sillon, ma sono «discepoli e ammiratori degli scritti del Voltaire». (Jacques Bainville ha curato una edizione di lusso di Voltaire e i gesuiti non lo dimenticheranno mai). Su questa argomentazione sulle origini dell’apostasia popolare in Francia la «Civiltà Cattolica» cita un articolo della «Croix» del 15‑16 agosto 1929: L’apostasie navrante de la masse populaire en France che si riferisce al libro Pour faire l’avenir, del padre Croizier dell’«Action populaire», edito nel 1929 dalle edizioni Spes di Parigi.

Tra i seguaci di Maurras e C., oltre ai conservatori e monarchici, la «Civiltà Cattolica» (sulle tracce del vescovo di Agen) rileva altri quattro gruppi: 1) gli snobisti (per le doti letterarie specialmente di Maurras); 2) gli adoratori della violenza o della maniera forte, «con la esagerazione dell’autorità, spinta verso il despotismo, sotto colore di resistenza allo spirito di insubordinazione, o sovvertimento sociale, dell’età contemporanea»; 3) i «falsi mistici», «creduli a vaticinii di straordinarie ristaurazioni, di conversioni meravigliose, o di provvidenziali missioni» assegnate proprio a Maurras e C. Questi fin dal tempo di Pio X, «imperterriti» scusano l’incredulità di Maurras, imputandola «al difetto della grazia», «quasi che non fosse data a tutti la grazia sufficiente per la conversione, né fosse imputabile a chi vi resiste il cadere e il persistere nella colpa». Sarebbero questi, pertanto, semi‑eretici, perché, per giustificare Maurras, ripeterebbero le posizioni giansenistiche o calviniste. Il quarto gruppo (il più pericoloso, secondo la «Civiltà Cattolica») sarebbe composto da così detti «integrali» (la «Civiltà Cattolica» osserva che il vescovo di Agen li chiama anche «integristi», «ma è notorio che essi non sono da confondere col partito politico, chiamato degli “integristi”, nella Spagna»). Questi «integrali», scrive la «Civiltà Cattolica», «anche in Italia non mancarono di favorire i positivisti e increduli dell’Action française, solo perché violenti contro il liberalismo e altre forme di errori moderni, senza avvertire che essi trascorrevano ad estremi opposti, del pari erronei e perniciosi, ecc.». «Così abbiamo veduto, anche in Italia, qualche loro foglio accennare appena, come di volo, alla condanna dell’Action Française, in cambio di pubblicarne i documenti e illustrarne il senso e le ragioni, indugiandosi invece sulla ristampa ed il commento della condanna del Sillon; quasi che i due moti fra loro contrari, ma del pari opposti alla dottrina cattolica, non potessero essere e non fossero egualmente riprovevoli. Cosa questa degna di nota, perché mentre quasi in ogni numero di siffatte pubblicazioni («Fede e Ragione»?) non manca qualche accusa o escandescenza contro autori cattolici, sembra che venga meno o lo spazio o la lena per una franca ed energica trattazione di condanna contro quelli dell’Action Française; anzi si ripetono spesso le calunnie, come quella di una pretesa piega a sinistra, ossia verso il liberalismo, popolarismo, falsa democrazia, contro chi non seguiva il loro modo di procedere».

(Nella corrente dei «cattolici integrali» bisogna mettere anche Henri Massis e la corrente dei «difensisti dell’Occidente»: ricordare le frecciate di padre Rosa contro il Massis nella risposta alla lettera di Ugo Ojetti).

Da questa nota si può prendere uno spunto per la rubrica «Passato e Presente».

Q5 §142 Romanzi filosofici, utopie, ecc. In questa serie di ricerche dovrà entrare la quistione del governo dei gesuiti nel Paraguay e della letteratura che suscitò. Il Muratori scrisse: Il Cristianesimo felice nelle Missioni dei Padri della Compagnia di Gesù. Nelle storie della Compagnia di Gesù si potrà trovare tutta la bibliografia in proposito.

La «Colonia di S. Leucio» istituita dai Borboni e di cui il Colletta parla con tanta simpatia, non sarebbe l’ultimo fiotto della popolarità dell’amministrazione dei gesuiti nel Paraguay?

Q5 §143 Funzione internazionale degli intellettuali italiani. Confrontare l’articolo La politica religiosa di Costantino Magno nella «Civiltà Cattolica» del 7 settembre 1929. Vi si parla di un libro di Jules Maurice, Constantin le Grand. L’origine de la civilisation chrétienne, Parigi, Ed. Spes (s.d.) dove sono esposti alcuni punti di vista interessanti sul primo contatto ufficiale tra Impero e Cristianesimo, utili per questa rubrica (cause storiche per cui il latino divenne lingua del cristianesimo occidentale dando luogo al Medio latino). Cfr anche il «profilo» di Costantino del Salvatorelli (ed. Formiggini).

Q5 §144 Nozioni enciclopediche. Come è nato nei pubblicisti della restaurazione il concetto di «tirannia della maggioranza». Concetto presso gli «individualisti» tipo Nietzsche, ma anche presso i cattolici. Secondo Maurras, la «tirannia della maggioranza» è ammissibile nei piccoli paesi, come la Svizzera, perché tra i cittadini svizzeri regna una certa uguaglianza di condizioni; è disastrosa (! sic) invece dove fra i cittadini, come in Francia, vi è molta disuguaglianza di condizioni.

Q5 §145 Passato e presente. Cristianesimo primitivo e non primitivo. Nella «Civiltà Cattolica» del 21 dicembre 1929, articolo I novelli B.B. Martiri Inglesi difensori del primato romano. Durante le persecuzioni di Enrico VIII «il B. Fisher fu a capo della resistenza, sebbene poi il clero, nella sua maggioranza, mostrasse una colpevole e illegittima sottomissione, promettendo con un atto, che fu detto “resa del clero”, di far dipendere dal re l’approvazione di qualsiasi legge ecclesiastica» (15 maggio 1532).

Quando Enrico impose il «giuramento di fedeltà» e volle essere riconosciuto capo della Chiesa «purtroppo molti del clero, dinanzi alla minaccia della perdita dei beni e della vita, cedettero, almeno in apparenza, ma con grave scandalo dei fedeli».

Q5 §146 Direzione politico‑militare della guerra del 1914. In alcuni paesi la formazione delle truppe scelte d’assalto è stata catastrofica, a quanto pare: si è mandato alla distruzione la parte combattiva dell’esercito, invece di tenerla come elemento «strutturale» del morale della massa dei soldati. Secondo il generale Krasnov (nel suo famigerato romanzo) questo appunto era successo in Russia già nel 1915. Questa osservazione può valere come correttivo critico delle recenti opinioni espresse dal generale tedesco von Seeckt sulle armate specializzate di mestiere, che sarebbero buone specialmente per l’offensiva.

Q5 §147 Funzione cosmopolita degli intellettuali italiani. Sul fatto che la borghesia comunale non è riuscita a superare la fase corporativa e quindi non si può dire abbia creato uno Stato, poiché era Stato piuttosto la Chiesa e l’Impero, cioè che i Comuni non hanno superato il feudalismo, bisogna, prima di scrivere qualche cosa, leggere il libro di Gioacchino Volpe Il Medio Evo. Da un articolo di Riccardo Bacchelli nella «Fiera Letteraria» del 1° luglio 1928 (Le molte vite) tolgo questo brano: «Ma per non uscir nella preistoria, né da questo libro, nel Medioevo del Volpe si legge come il popolo dei Comuni sorge e vive nella situazione di privilegio sacrificato che gli fu fatta dalla Chiesa Universale e da quell’idea del Sacro Impero, che, imposta (?!) dall’Italia come sinonimo ed equivalente di umana civiltà all’Europa che tale la riconobbe e coltivò, impediva (!?) poi all’Italia il più (!) naturale sviluppo storico a nazione moderna». Bisognerà vedere se il Volpe autorizza queste... bizzarrie.

Q5 §148 Passato e presente. Inchieste sui giovani. L’inchiesta «sulla nuova generazione» pubblicata nella «Fiera Letteraria» dal 2 dicembre 1928 al 17 febbraio 1929. Non molto interessante. I professori d’università conoscono poco i giovani studenti. Il ritornello più frequente è questo: i giovani non si dedicano più alle ricerche e agli studi disinteressati, ma tendono al guadagno immediato. Agostino Lanzillo risponde: «Oggi specialmente noi non conosciamo l’animo dei giovani e i loro sentimenti. È difficile guadagnare il loro animo: essi tacciono sui problemi culturali sociali e morali, molto volentieri. È diffidenza o disinteresse?» («Fiera Letteraria», 9 dicembre 28). (Questa del Lanzillo è l’unica nota realistica dell’inchiesta). Nota ancora il Lanzillo: «... vi è una disciplina ferrea ed una situazione di pace esterna ed interna, che si sviluppa nel lavoro concreto e l’attivo, ma che non consente il disfrenarsi di opposte concezioni politiche o morali. Ai giovani manca la palestra per agitarsi, per manifestare forme esuberanti di passioni o di tendenze. Nasce e deriva da questo un’attitudine fredda e silenziosa che è una promessa, ma che contiene anche delle incognite». Nello stesso numero della «Fiera Letteraria» la risposta di Giuseppe Lombardo‑Radice: «V’è oggi fra i giovani scarsa pazienza per gli studi scientifici e storici; pochissimi affrontano un lavoro che richieda lunga preparazione e offra difficoltà di indagine. Vogliono, in generale, sbrigarsi degli studi; tendono soprattutto a collocarsi rapidamente, e distaccano l’animo dalle ricerche disinteressate, aspirando a guadagnare e repugnando alle carriere che loro paiono troppo lente. Malgrado tanta “filosofia” in giro, è povero il loro interesse speculativo; la loro cultura si vien facendo di frammenti; poco discutono, poco si dividono fra di loro in gruppi e cenacoli cui sia segnacolo una idea filosofica o religiosa. Il tono verso i grandi problemi è di scetticismo, o di rispetto affatto estrinseco per coloro che li prendono sul serio, o d’adozione passiva di un “verbo” dottrinale». «In generale, i meglio disposti spiritualmente sono gli studenti universitari più poveri» e «gli agiati sono, per lo più, irrequieti, insofferenti della disciplina degli studi, frettolosi. Non da loro verrà una classe spiritualmente capace di dirigere il nostro paese».

Queste del Lanzillo e del Lombardo‑Radice sono l’unica cosa seria di tutta l’inchiesta, alla quale hanno d’altronde partecipato quasi esclusivamente professori di lettere. La maggior parte ha risposto con «atti di fede», non con constatazioni obbiettive o ha confessato di non poter rispondere.

Q5 §149 Passato e presente. La scuola. Lo studio del latino è in piena decadenza. Il Missiroli, in alcuni articoli dell’«Italia Letteraria» della fine del 1929 ha dato una visione «sconfortante» dello studio del latino in Italia. L’«Italia Letteraria» ha aperto un’inchiesta sulla quistione: nella risposta del prof. Giuseppe Modugno (preside di Liceo e noto grecista, oltre che seguace della pedagogia gentiliana) si dice, dopo aver riconosciuto che è vera la decadenza del latino nelle scuole: «E la Riforma Gentile? quale influenza ha essa esercitato su un siffatto stato di cose?... sono un convinto ammiratore (della Riforma)». Ma «... uno strumento qualsiasi può essere ottimo, ma può non essere persona adatta chi l’adopera. Se quello strumento pertanto, fa male quel che fa e non consegue l’effetto cui è destinato, si deve perciò concludere che sia mal fatto?». Maraviglioso! Altra volta, affidare uno strumento «ottimo» alle persone inadatte, si chiamava astrattismo, antistoricismo, ecc.; si affermava che non esistono strumenti ottimi in sé, ma rispondenti al fine, adeguati alla situazione, ecc. Vedere tutto ciò che si è scritto, per esempio, contro il... parlamentarismo.

Q5 §150 Funzione cosmopolita degli intellettuali italiani. Risorgimento. Nel Risorgimento si ebbe l’ultimo riflesso della «tendenza storica» della borghesia italiana a mantenersi nei limiti del «corporativismo»: il non aver risolto la quistione agraria è la prova di questo fatto. Rappresentanti di questa tendenza sono i moderati, sia neoguelfi (in essi – Gioberti – appare il carattere universalistico‑papale degli intellettuali italiani che è posto come premessa del fatto nazionale) sia i cavouriani (o economisti‑pratici, ma al modo dell’uomo del Guicciardini, cioè rivolti solo al loro «particulare»: da ciò il carattere della monarchia italiana). Ma le tracce dell’universalismo medioevale sono anche nel Mazzini, e determinano il suo fallimento politico; perché se al neoguelfismo successe nella corrente moderata il cavourismo, l’universalismo mazziniano nel Partito d'Azione non fu praticamente superato da nessuna formazione politica organica e invece rimase un fermento di settarismo ideologico e quindi di dissoluzione.

Q5 §151 Linguistica. Importanza dello scritto di Enrico Sicardi La lingua italiana in Dante, edito a Roma dalla Casa Ed. «Optima» con prefazione di Francesco Orestano. Ne ho letto la recensione di G. S. Gargàno (La lingua nei tempi di Dante e l’interpretazione della poesia) nel «Marzocco» del 14 aprile 1929. Il Sicardi insiste sulla necessità di studiare le «lingue» dei vari scrittori, se si vuole interpretare esattamente il loro mondo poetico. Non so se tutto ciò che il Sicardi scrive sia esatto e specialmente se sia possibile «storicamente» lo studio delle «particolari» lingue dei singoli scrittori, dato che manca un documento essenziale: una vasta testimonianza della lingua parlata nei tempi dei singoli scrittori. Tuttavia il richiamo metodologico del Sicardi è giusto e necessario (ricordare nel libro del Vossler, Idealismo e positivismo sullo studio della lingua, l’analisi estetica della favola di La Fontaine sul corvo e la volpe e l’erronea interpretazione di «son bec» dovuta all’ignoranza del valore storico di «son»).

Q5 §152 Utopie, romanzi filosofici, ecc. Il libro di Samuele Butler Erewhon tradotto da G. Titta Rosa, Casa Ed. Alberto Corticelli, Milano, 1928. Erewhon è l’anagramma della parola inglese Nowhere, «in nessun luogo», utopia. Il romanzo fu scritto nel 1872, è una satira della cultura del tempo: darwinismo, schopenhauerismo, ecc. (cfr la recensione di Adolfo Faggi, Erewhon nel «Marzocco» del 3 marzo 29).

Q5 §153 Letteratura popolare. Romanzi e poesie popolaresche di Ferdinando Russo (in dialetto napoletano).

Q5 §154 I nipotini di padre Bresciani. Cardarelli e la «Ronda». Nota di Luigi Russo su Cardarelli nella «Nuova Italia» dell’ottobre 1930. Il Russo appunto trova nel Cardarelli il tipo (moderno‑fossile) di ciò che fu l’abate Vito Fornari a Napoli in confronto del De Sanctis. Dizionario della Crusca. Controriforma, Accademia, reazione, ecc.

Sulla «Ronda» e sugli accenni alla vita pratica del 1920‑21 confrontare Lorenzo Montano, Il Perdigiorno, Edizione dell’Italiano, Bologna 1928 (sono raccolte nel volumetto le d’attualità del Montano pubblicate dalla «Ronda») .

Q5 §155 I nipotini di padre Bresciani. La«Fiera Letteraria» nel numero del 9 settembre 1928 pubblicò un manifesto Per un’unione letteraria europea firmato da quattro settimanali letterari: «Les Nouvelles Littéraires», di Parigi, «La Fiera Letteraria» di Milano, «Die Literarische Welt» di Berlino, «La Gaceta Literaria» di Madrid, in cui si annunziava una certa collaborazione europea tra i letterati aderenti a questi quattro giornali e quelli degli altri paesi europei, con convegni annuali, ecc. In seguito non se ne parlò più.

Q5 §156 Folklore. Una divisione o distinzione dei canti popolari formulata da Ermolao Rubieri: 1°) i canti composti dal popolo e per il popolo; 2°) quelli composti per il popolo ma non dal popolo; 3°) quelli scritti né dal popolo né per il popolo, ma da questo adottati perché conformi alla sua maniera di pensare e di sentire.

Mi pare che tutti i canti popolari si possano e si debbano ridurre a questa terza categoria, poiché ciò che contraddistingue il canto popolare, nel quadro di una nazione e della sua cultura, non è il fatto artistico, né l’origine storica, ma il suo modo di concepire il mondo e la vita, in contrasto colla società ufficiale: in ciò e solo in ciò è da ricercare la «collettività» del canto popolare, e del popolo stesso. Da ciò conseguono altri criteri di ricerca del folklore: che il popolo stesso non è una collettività omogenea di cultura, ma presenta delle stratificazioni culturali numerose, variamente combinate, che nella loro purezza non sempre possono essere identificate in determinate collettività popolari storiche: certo però il grado maggiore o minore di «isolamento» storico di queste collettività dà la possibilità di una certa identificazione.

Q5 §157 Sicilia. Negli «Studi Verghiani» diretti da Lina Perrone è stato pubblicato (nei primi numeri) un saggio di Giuseppe Bottai su Giovanni Verga politico, le cui conclusioni generali mi sembrano esatte: cioè, nonostante qualche apparenza superficiale, il Verga non fu mai né socialista, né democratico, ma «crispino» in senso largo (il «crispino» lo metto io, perché nel brano del Bottai da me letto perché pubblicato nell’«Italia Letteraria» del 13 ottobre 1929, non c’è questo accenno): in Sicilia gli intellettuali si dividono in due classi generali: crispini‑unitaristi e separatisti‑democratici, separatisti tendenziali, si capisce. Durante il processo Nasi articolo del Verga nel giornale «Sicilia» del 1° novembre 1907 «in cui si dimostrava la falsità della tesi tendente a sostenere che la rivoluzione siciliana del 48 fu d’indipendenza e non di unitarietà» (è da notare che nel 1907 era necessario combattere questa tesi). Nel 1920 un certo Enrico Messinco fondò (o voleva fondare?) un giornale «La Sicilia Nuova», «che intendeva propugnare l’autonomia siciliana»; invitò il Verga a collaborare e il Verga gli scrisse: «sono italiano innanzi tutto e perciò non autonomista». (Questo episodio del giornale del Messinco deve essere accertato).

Q5 §158 Lorianismo. L’altimetria, i buoni costumi e l’intelligenza. Nell’«utopia» di Ludovico Zuccolo Il Belluzzi o la Città felice ristampato da Amy Bernardy nelle «Curiosità letterarie» dell’ed. Zanichelli (che non è precisamente un’utopia, perché si parla della repubblica di S. Marino), si accenna già alla teoria loriana dei rapporti tra l’altimetria e i costumi degli uomini. Lo Zuccolo sostiene che «gli uomini di animo rimesso o di cervello ottuso si uniscono più facilmente a consultare degli affari comuni»: questa sarebbe la ragione della saldezza degli ordinamenti di Venezia, degli Svizzeri e di Ragusa, mentre gli uomini di natura vivace ed acuta come i fiorentini, sono portati alla sopraffazione, o a occuparsi «dei privati interessi senza punto occuparsi dei pubblici». Come allora spiegarsi che i Sanmarinesi, di natura vivace ed acuta abbiano tuttavia conservato per tanti secoli un governo popolare? Perché a S. Marino la sottigliezza d’aria, che rende ben composti e vigorosi i corpi, produce anche gli «spiriti puri e sinceri». È vero che lo Zuccolo parla anche delle ragioni economiche, cioè la mediocrità delle ricchezze individuali, per cui il più ricco ha «poco davantaggio» e al più povero non manca nulla. Questa eguaglianza è assicurata da buone leggi: proibizione dell’usura, inalienabilità della terra ecc.

Lo Zuccolo pare abbia scritto anche una «utopia» vera e propria, La Repubblica di Evandria, posta in una penisola agli antipodi dell’Italia, che, secondo il Gargàno («Marzocco» 2 febbraio 1930), Un utopista di senso pratico, avrebbe un legame con l’Utopia di T. Moro e avrebbe originato quindi il Belluzzi.

Q5 §159 Risorgimento. I primi giacobini italiani. Cfr Giulio Natali, Cultura e poesia in Italia nell’età napoleonica. Studii e saggi, Torino, Sten, 1930. (Lomonaco del Rapporto a Carnot ha un saggio speciale molto interessante).

Q5 §160 Rinascimento. È molto importante il libro di Giuseppe Toffanin, Che cosa fu l’umanesimo. Il Risorgimento dell’antichità classica nella coscienza degli italiani fra i tempi di Dante e la Riforma, Firenze, Sansoni (Biblioteca storica del Rinascimento). Il Toffanin coglie fino ad un certo punto il carattere reazionario e medioevale dell’umanismo: «Quel particolare stato d’animo e di cultura a cui in Italia, fra il tre e il cinquecento, si dà nome di umanesimo, fu una riscossa e rappresentò, per almeno due secoli, una barriera contro certa inquietudine eterodossa e romantica che era in germe prima nell’età comunale e prese poi il sopravvento nelle riforme. Esso fu spontanea conciliazione di discordanti elementi ideali, e accettazione di limiti antifilosofica per eccellenza: ma cotesta antifilosoficità, una volta pensata e accettata, è anch’essa una filosofia». Cfr l’articolo di Vittorio Rossi già analizzato, che in parte accetta la tesi del Toffanin, ma per combatterla meglio. Mi pare appunto che la quistione di ciò che fu l’umanesimo non può essere risolta che in un quadro più comprensivo della storia degli intellettuali italiani e della loro funzione in Europa. Il Toffanin ha scritto anche un libro sulla Fine dell’Umanesimo e il volume sul Cinquecento nella Collezione Vallardi.

Q5 §161 Nozioni enciclopediche. Ascaro. Così venivano chiamati i deputati delle maggioranze parlamentari senza programma e senza indirizzo, cioè deputati sempre pronti a defezionare. L’attributo era legato alle prime esperienze fatte in Eritrea di truppe indigene mercenarie. Così la parola crumiro è legata all’occupazione, da parte della Francia, della Tunisia fatta con il pretesto di respingere la tribù dei Krumiri che dalla Tunisia si spingeva in Algeria a fare delle razzie; sarebbe interessante vedere chi fece entrare la parola nel vocabolario dei sindacati operai.