Library:Prison Notebooks In Original Italian/Notebook 4: Difference between revisions
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QUADERNO 4
APPUNTI DI FILOSOFIA. MATERIALISMO E IDEALISMO
Prima serie
Q4 §1 Se si vuole studiare una concezione del mondo che non è stata mai dall’autore‑pensatore esposta sistematicamente, occorre fare un lavoro minuzioso e condotto col massimo scrupolo di esattezza e di onestà scientifica. Occorre seguire, prima di tutto, il processo di sviluppo intellettuale del pensatore, per ricostruirlo secondo gli elementi divenuti stabili e permanenti, cioè che sono stati realmente assunti dall’autore come pensiero proprio, diverso e superiore al «materiale» precedentemente studiato e per il quale egli può aver avuto, in certi momenti, simpatia, fino ad averlo accettato provvisoriamente ed essersene servito per il suo lavoro critico o di ricostruzione storica o scientifica. Questa avvertenza è essenziale appunto quando si tratta di un pensatore non sistematico, quando si tratta di una personalità nella quale l’attività teorica e l’attività pratica sono intrecciate indissolubilmente, di un intelletto pertanto in continua creazione e in perpetuo movimento. Quindi: 1° biografia, molto minuziosa con 2° esposizione di tutte le opere, anche le più trascurabili, in ordine cronologico, divise secondo i vari periodi: di formazione intellettuale, di maturità, di possesso e applicazione serena del nuovo modo di pensare. La ricerca del leit‑motiv, del ritmo del pensiero, più importante delle singole citazioni staccate.
Questa ricerca originale deve essere il fondamento del lavoro. Inoltre, fra le opere dello stesso autore, bisogna distinguere quelle che egli ha condotto a termine e ha pubblicato, da quelle inedite, perché non compiute. Il contenuto di queste deve essere assunto con molta discrezione e cautela: esso deve essere ritenuto non definitivo, per lo meno in quella data forma; esso deve essere ritenuto materiale ancora in elaborazione, ancora provvisorio.
Nel caso di Marx l’opera letteraria può essere distinta in queste categorie: 1) opere pubblicate sotto la responsabilità diretta dell’autore: tra queste devono essere considerate, in linea generale, non solo quelle materialmente date alle stampe, ma anche gli scritti destinati ad operare immediatamente, anche se non stampati, come le lettere, le circolari, i manifesti, ecc. (esempio tipico: le Glosse al programma di Gotha e l’epistolario); 2) le opere non stampate sotto la responsabilità diretta dell’autore, ma da altri dopo la sua morte: intanto di queste sarebbe bene avere un testo diplomatico, non ancora cioè rielaborato dal compilatore, o per lo meno una minuziosa descrizione del testo originale fatta con criteri diplomatici.
L’una e l’altra categoria devono essere sezionate per periodi cronologico‑critici in modo da poter stabilire confronti validi e non puramente meccanici ed arbitrari.
Anche il lavoro di elaborazione fatto dall’autore del materiale delle opere poi da lui stampate, dovrebbe essere studiato e analizzato: per lo meno darebbe, questo studio, degli indizi per valutare criticamente l’attendibilità delle redazioni compilate da altri delle opere inedite. Quanto più il materiale preparatorio delle opere edite si allontana dal testo definitivo redatto dallo stesso autore, e tanto meno è attendibile la redazione di altro scrittore di un materiale dello stesso tipo. Infatti un’opera non può mai essere identificata col materiale bruto raccolto per la sua compilazione: la scelta, la disposizione degli elementi, il peso maggiore o minore dato a questo o a quello degli elementi raccolti nel periodo preparatorio, sono appunto ciò che costituisce l’opera effettiva.
Anche lo studio dell’epistolario deve esser fatto con certe cautele: un’affermazione recisa fatta in una lettera non sarebbe forse ripetuta in un libro. La vivacità stilistica delle lettere, se spesso è artisticamente più efficace dello stile più misurato e ponderato di un libro, qualche volta porta a deficienze di dimostrazione: nelle lettere, come nei discorsi, come nelle conversazioni si verificano più spesso errori logici; la rapidità del pensiero è a scapito della sua solidità.
Solo in seconda linea, nello studio di un pensiero originale e personale, viene il contributo di altre persone alla sua documentazione. Per Marx: Engels. Naturalmente non bisogna sottovalutare il contributo di Engels, ma non bisogna neanche identificare Engels con Marx, non bisogna pensare che tutto ciò che Engels attribuisce a Marx sia autentico in senso assoluto. È certo che Engels ha dato la prova di un disinteresse e di un’assenza di vanità personale unica nella storia della letteratura: non è menomamente da porre in dubbio la sua assoluta lealtà personale. Ma il fatto è che Engels non è Marx e che se si vuole conoscere Marx bisogna specialmente cercarlo nelle sue opere autentiche, pubblicate sotto la sua diretta personalità.
Conseguono da ciò parecchie avvertenze di metodo e alcune indicazioni per ricerche collaterali. Che valore ha il libro di Mondolfo sul Materialismo storico di Federico Engels? Il Sorel (in una sua lettera a B. Croce) pone il dubbio che si possa studiare un argomento di tal fatta, data la scarsa capacità di pensiero originale dell’Engels. A parte la quistione di merito accennata dal Sorel, mi pare che per il fatto stesso che si suppone una scarsa capacità teoretica in Engels (per lo meno una sua posizione subalterna in confronto a Marx), sia indispensabile ricercare le differenze tra il Marx che dirò autentico e l’Engels, per essere in grado di vedere ciò che non è marxistico nelle esposizioni che l’Engels fa del pensiero del suo amico: in realtà nel mondo della cultura questa distinzione non è mai fatta e le esposizioni di Engels, relativamente sistematiche (specialmente Antidühring), sono assunte come fonte autentica e spesso come sola fonte autentica. Il libro del Mondolfo mi pare perciò molto utile, a parte il suo valore intrinseco che ora non ricordo, come indicazione di una via da seguire.
Q4 §2 Il libro del De Man. Annunzio di B. Croce nella «Critica» del 1928; recensione di G. De Ruggiero nella «Critica» del 1929; recensione nella «Civiltà Cattolica» e nel «Leonardo» del 1929; accenno di G. Zibordi nel libro su Prampolini; annunzio librario dell’editore Laterza; articoli nei «Problemi del Lavoro» con riproduzione delle tesi non riportate nella traduzione Schiavi; prefazione Schiavi. L’«Italia letteraria» dell’11 agosto 1929 ne pubblicò una recensione di Umberto Barbaro. Dice il Barbaro: «... una critica del marxismo che, se si vale delle precedenti “revisioni” di carattere economico, in massima è fondata su di una quistione tattica (sic) relativa alla psicologia delle masse operaie». «Dei molti tentativi di andare “au de là” del marxismo (il traduttore, il noto avvocato Alessandro Schiavi, modifica un po’ il titolo, in “superamento” in senso crociano e assai giustificatamente (!) per altro, poiché il De Man stesso considera la sua come una posizione in antitesi necessaria per una sintesi superiore) questo non è certamente dei più poderosi e tanto meno dei più sistematici; anche perché la critica si basa prevalentemente appunto su quella misteriosa e fuggevole, benché certo affascinante pseudoscienza che è la psicologia. Nei riguardi del “movimento” questo libro è piuttosto disfattista e talvolta fornisce addirittura argomenti alle tendenze che vuol combattere: al fascismo per un gruppo di osservazioni sugli stati affettivi e sui “complessi” (in senso freudiano) degli operai da cui derivano idee di “gioia del lavoro” e di “artigianato” ed a comunismo e fascismo insieme per la scarsa efficacia degli argomenti in difesa della democrazia e del riformismo».
Q4 §3 Due aspetti del marxismo. Il marxismo è stato un momento della cultura moderna: in una certa misura ne ha determinato e fecondato alcune correnti. Lo studio di questo fenomeno molto importante e significativo è stato trascurato o è addirittura ignorato dai marxisti «ufficiali» per questa ragione: che esso ha avuto per tramite la filosofia idealista, ciò che ai marxisti legati essenzialmente alla particolare corrente di cultura dell’ultimo quarto del secolo scorso (positivismo, scientismo) pare un controsenso. Per questo mi pare da rivalutare la posizione di Antonio Labriola. Perché? Il marxismo ha subito una doppia revisione, cioè ha dato luogo a una doppia combinazione. Da un lato alcuni suoi elementi, esplicitamente o implicitamente, sono stati assorbiti da alcune correnti idealistiche (Croce, Sorel, Bergson ecc., i pragmatisti ecc.); dall’altra i marxisti «ufficiali», preoccupati di trovare una «filosofia» che contenesse il marxismo, l’hanno trovata nelle derivazioni moderne del materialismo filosofico volgare o anche in correnti idealistiche come il Kantismo (Max Adler). Il Labriola si distingue dagli uni e dagli altri con la sua affermazione che il marxismo stesso è una filosofia indipendente e originale. In questa direzione occorre lavorare, continuando e sviluppando la posizione del Labriola. Il lavoro è molto complesso e delicato. Perché il marxismo ha avuto questa sorte, di apparire assimilabile, in alcuni suoi elementi, tanto agli idealisti che ai materialisti volgari? Bisognerebbe ricercare i documenti di questa affermazione, ciò che significa fare la storia della cultura moderna dopo Marx e Engels.
Per gli idealisti: vedere quali elementi del marxismo sono stati assorbiti «esplicitamente», cioè confessatamente. Per esempio, il materialismo storico come canone empirico di ricerca storica del Croce, che ha introdotto questo suo concetto nella cultura moderna, anche fra i cattolici (cfr Olgiati) in Italia e all’estero, il valore delle ideologie ecc.; ma la parte più difficile e delicata è la ricerca degli assorbimenti «impliciti», non confessati, avvenuti perché appunto il marxismo è stato un momento della cultura, una atmosfera diffusa, che ha modificato i vecchi modi di pensare per azioni e reazioni non apparenti o non immediate. Lo studio del Sorel può dare molti indizi a questo proposito. Bisognerebbe però studiare specialmente la filosofia del Bergson e il pragmatismo per vedere in quanto certe loro posizioni sarebbero inconcepibili senza l’anello storico del marxismo; così per il Croce e Gentile ecc.
Un altro aspetto della quistione è l’insegnamento pratico che il marxismo ha dato agli stessi partiti che lo combattono per principio, così come i gesuiti combattevano Machiavelli pur applicandone i principii (in una «Opinione» pubblicata dal Missiroli nella «Stampa» del 1925 o 26 su per giù si dice: «Sarebbe da vedere se nell’intimo della loro coscienza, gli industriali più intelligenti non siano persuasi che Marx abbia visto molto bene nelle cose loro» o qualcosa di simile). Ciò è naturale, perché se Marx ha esattamente analizzato la realtà, egli non ha fatto che sistemare razionalmente ciò che gli agenti storici di questa realtà sentono confusamente e istintivamente.
L’altro aspetto della quistione è ancor più interessante. Perché anche i marxisti ufficiali hanno «combinato» il marxismo con una filosofia non marxista? Cfr R. Luxemburg in volumetto su Marx. Nel campo filosofico mi pare che la ragione storica sia da ricercare nel fatto che il marxismo ha dovuto allearsi con tendenze estranee per combattere i residui del mondo precapitalistico nelle masse popolari, specialmente nel terreno religioso. Osservazione di Sorel a proposito di Clemenceau e il marxismo nella lettera a Missiroli. Il marxismo aveva due compiti: combattere le ideologie moderne nella loro forma più raffinata e rischiarare le masse popolari, la cui cultura era medioevale. Questo secondo compito, che era fondamentale, ha assorbito tutte le forze, non solo «quantitativamente», ma «qualitativamente»; per ragioni «didattiche» il marxismo si è confuso con una forma di cultura un po’ superiore alla mentalità popolare, ma inadeguata per combattere le altre ideologie delle classi colte, mentre il marxismo originario era proprio il superamento della più alta manifestazione culturale del suo tempo, la filosofia classica tedesca. Ne è nato un «marxismo» in «combinazione» buono per la letteratura di cui parla il Sorel, ma insufficiente per creare un vasto movimento culturale che abbracci tutto l’uomo, in tutte le sue età e in tutte le sue condizioni sociali, unificando moralmente la società.
Questo fenomeno si può osservare in tutte le culture moderne, nel senso che la filosofia moderna non riesce a elaborare un programma scolastico secondo la sua visione del mondo e non riesce a elaborare una cultura popolare, ma rimane la cultura di una aristocrazia intellettuale. Questa quistione è legata alla quistione della così detta «riforma» nei paesi non protestanti. Nel volume Storia dell’età barocca in Italia, a p. 11, il Croce scrive: «Il movimento della Rinascita era rimasto aristocratico, di circoli eletti, e nella stessa Italia, che ne fu madre e nutrice, non uscì dai circoli di corte, non penetrò fino al popolo, non divenne costume o “pregiudizio”, ossia collettiva persuasione e fede. La Riforma, invece, ebbe bensì questa efficacia di penetrazione popolare, ma la pagò con un ritardo nel suo intrinseco sviluppo, con la lenta e più volte interrotta maturazione del suo germe vitale». A p. 8: «E Lutero, come quegli umanisti, depreca la tristezza e celebra la letizia, condanna l’ozio e comanda il lavoro; ma, d’altra parte, è condotto a diffidenza e ostilità contro le lettere e gli studi, sicché Erasmo poté dire: ubicumque regnat lutheranismus, ibi literarum est interitus; e certo, se non proprio per solo effetto di quella avversione in cui era entrato il suo fondatore, il protestantesimo tedesco fu per un paio di secoli pressoché sterile negli studi, nella critica, nella filosofia. I riformatori italiani, segnatamente quelli del circolo di Giovanni de Valdés e i loro amici, riunirono invece senza sforzo l’umanismo al misticismo, il culto degli studi all’austerità morale. Il calvinismo, con la sua dura concezione della grazia e la dura disciplina, neppur esso favorì la libera ricerca e il culto della bellezza; ma gli accadde, interpretando e svolgendo e adattando il concetto della grazia e quello della vocazione, di venire a promuovere energicamente la vita economica, la produzione e l’accrescimento della ricchezza». La riforma luterana e il calvinismo crearono una cultura popolare, e solo in periodi successivi una cultura superiore; i riformatori italiani furono sterili di grandi successi storici.
La filosofia moderna continua la Rinascita e la Riforma nella sua fase superiore, ma coi metodi della Rinascita, senza l’incubazione popolare della Riforma che ha creato le basi solide dello Stato moderno nelle nazioni protestantiche. Per questo suo sviluppo popolare la Riforma poté resistere all’assalto armato della coalizione cattolica e così fu fondata la nazione germanica. A questo movimento può essere paragonato l’illuminismo «politico» francese che precedé e accompagnò la Rivoluzione dell’89: anch’esso fu una riforma intellettuale e morale del popolo francese e anch’esso non fu accompagnato da una cultura superiore. (Ricordare anche qui la riduzione di Marx dei termini politici francesi «fraternité, ecc.» al linguaggio della filosofia tedesca nella Sacra Famiglia). Rinascita‑Riforma ‑ Filosofia tedesca ‑ Rivoluzione francese ‑ laicismo liberalismo ‑ storicismo ‑ filosofia moderna ‑ materialismo storico.
Il materialismo storico è il coronamento di tutto questo movimento di riforma intellettuale e morale, nella sua dialettica cultura popolare ‑ alta cultura. Corrisponde alla Riforma + Rivoluzione francese, universalità + politica; attraversa ancora la fase popolare, è diventato anche «pregiudizio» e «superstizione». Il materialismo storico, così com’è, è l’aspetto popolare dello storicismo moderno.
Nella storia della cultura, che è più larga della storia della filosofia, ogni volta che la cultura popolare è affiorata, perché si attraversava una fase di rivolgimenti sociali e dalla ganga popolare si selezionava il metallo di una nuova classe, si è avuta una fioritura di «materialismo»; viceversa le classi tradizionali si aggrappavano allo spiritualismo. Hegel, a cavallo della Rivoluzione francese e della Restaurazione, ha dialettizzato i due momenti della vita filosofica, materialismo e spiritualismo. I continuatori di Hegel hanno distrutto quest’unità, e si è ritornati al vecchio materialismo con Feuerbach e allo spiritualismo della destra hegeliana. Marx nella sua giovinezza ha rivissuto tutta questa esperienza: hegeliano, materialista feuerbacchiano, marxista, cioè ha rifatto l’unità distrutta in una nuova costruzione filosofica: già nelle tesi su Feuerbach appare nettamente questa sua nuova costruzione, questa sua nuova filosofia. Molti materialisti storici hanno rifatto per Marx ciò che era stato fatto per Hegel, cioè dall’unità dialettica sono ritornati al materialismo crudo, mentre, come detto, l’alta cultura moderna, idealista volgare, ha cercato di incorporare ciò che del marxismo le era indispensabile, anche perché questa filosofia moderna, a suo modo, ha cercato di dialettizzare anch’essa materialismo e spiritualismo, come aveva tentato Hegel e realmente fatto Marx. «Politicamente», il materialismo è vicino al popolo, alle credenze e ai pregiudizi e anche alle superstizioni popolari (cfr stregonerie degli spiritisti, Maeterlinck, ecc.). Ciò si vede nel cattolicismo e nell’ortodossia orientale. La religione popolare è crassamente materialista e la religione ufficiale cerca di non allontanarsene troppo, per non staccarsi dalle masse, per non diventare la ideologia di ristretti gruppi. I neoscolastici moderni tentano appunto di incorporare il positivismo nel cattolicismo (scuola di Lovanio ecc.).
Molti tentativi ereticali sono tentativi di riforme puramente spiritualiste della religione: ma il dualismo natura‑spirito serve molto bene alla chiesa per mantenersi legata al popolo e nello stesso tempo permettere una certa selezione aristocratica (platonismo e aristotelismo nella religione cattolica).
Nella storia degli sviluppi culturali, bisogna tener molto conto dell’organizzazione della cultura e del personale che la esprime. Cfr atteggiamento di Erasmo verso la Riforma (vedi articolo di De Ruggiero in «Nuova Italia» e suo libro sulla Riforma) e di altri intellettuali: essi piegano dinanzi alle persecuzioni e ai roghi: il portatore storico della Riforma è il popolo tedesco, non gli intellettuali. Ma questa «vigliaccheria» degli intellettuali spiega la «sterilità» della Riforma nell’alta cultura, finché dalle classi popolari riformate non si seleziona lentamente un nuovo gruppo di intellettuali ed ecco la filosofia tedesca del 700‑800. Qualcosa di simile avviene anche per il marxismo: non crea un’alta cultura perché i grandi intellettuali che si formano sul suo terreno non sono selezionati dalle classi popolari, ma dalle classi tradizionali, alle quali ritornano nelle «svolte» storiche o se rimangono con esse, è per impedirne lo sviluppo autonomo. L’affermazione che il marxismo è una filosofia nuova, indipendente, è l’affermazione della indipendenza e originalità di una nuova cultura in incubazione, che si svilupperà con lo svilupparsi delle relazioni sociali. Ciò che esiste è «combinazione» di vecchio e nuovo, equilibrio momentaneo corrispondente all’equilibrio dei rapporti sociali. Solo quando si crea uno Stato, è veramente necessario creare un’alta cultura. In ogni modo l’atteggiamento deve essere sempre critico e mai dogmatico, dev’essere un atteggiamento in certo senso romantico, ma di un romanticismo che consapevolmente ricerca la sua serena classicità.
Q4 §4 Machiavellismo e marxismo. Duplice interpretazione del Machiavelli: da parte degli uomini di Stato tirannici che vogliono conservare e aumentare il loro dominio e da parte delle tendenze liberali che vogliono modificare le forme di governo. Questa seconda tendenza ha la sua espressione nei versi del Foscolo: «che, temprando lo scettro ai regnatori, gli allor ne sfronda ed alle genti svela ecc.». Il Croce scrive che ciò dimostra la validità obbiettiva delle posizioni del Machiavelli e ciò è giustissimo.
Q4 §5 Materialismo storico e criteri o canoni pratici di interpretazione della storia e della politica cfr p. 50 bis. Confronto con ciò che per il metodo storico ha fatto il Bernheim. Il libro del Bernheim non è un trattato della filosofia dello storicismo, cioè della filosofia moderna, tuttavia implicitamente le è legato. La «sociologia marxista» (cfr il Saggio popolare) dovrebbe stare al marxismo, come il libro del Bernheim sta allo storicismo: una raccolta sistematica di criteri pratici di ricerca e di interpretazione, uno degli aspetti del «metodo filologico» generale. Sotto alcuni punti di vista si dovrebbe fare, di alcune tendenze del materialismo storico (e, per avventura, le più diffuse) la stessa critica che lo storicismo ha fatto del vecchio metodo storico e della vecchia filologia, che avevano portato a nuove forme ingenue di dogmatismo e sostituivano l’interpretazione con la descrizione esteriore, più o meno accurata dei fenomeni e specialmente col ripetere sempre: «noi siamo seguaci del metodo storico!»
Letteratura. Il rapporto artistico, anche nel materialismo storico, mostra con evidenza maggiore, le ingenuità dei pappagalli. Due scrittori rappresentano lo stesso momento sociale, ma uno è artista, l’altro no. Esaurire la quistione descrivendo ciò che rappresentano, cioè riassumendo più o meno bene le caratteristiche di un determinato ambiente sociale significa non sfiorare la quistione artistica. Questo può anche essere utile, lo è anzi certamente, ma in un campo diverso: rientra nella critica del costume, nella lotta per distruggere certe correnti di sentimenti e credenze e punti di vista, per crearne e suscitarne delle altre: ma non è critica artistica e non si può presentare come tale. È lotta per una nuova cultura. In un certo senso quindi è anche critica artistica, perché dalla nuova cultura nascerà una nuova arte e forse in questo senso, nella storia italiana, bisogna intendere il rapporto De Sanctis ‑ Croce e le polemiche sul contenuto e sulla forma. La critica del De Sanctis è militante, non è frigidamente estetica: è propria di un periodo di lotta culturale; le analisi del contenuto, la critica della «struttura» delle opere, cioè anche della coerenza logica e storica‑attuale delle masse di sentimenti rappresentati sono legate a questa lotta culturale: in ciò mi pare consista la profonda umanità e l’umanesimo del De Sanctis che lo rende simpatico anche oggi; piace sentire in lui il fervore appassionato dell’uomo di parte, che ha saldi convincimenti morali e politici e non li nasconde e non tenta neanche di nasconderli. Il Croce riesce, data la sua molteplice attività, a distinguere questi diversi aspetti che nel De Sanctis erano uniti e fusi. Nel Croce si sente la stessa cultura del De Sanctis, ma nel periodo della sua espansione e del suo trionfo: è lotta per un raffinamento della cultura, non per il suo diritto di vivere; la passione e il fervore romantici si sono composti nella serenità superiore e nell’indulgenza piena di bonomia. Ma anche nel Croce questa posizione non è permanente: subentra una fase in cui la serenità e l’indulgenza si incrinano e affiora l’acrimonia e la collera repressa: è difensiva, non aggressiva e fervida, quindi questa fase non può essere confrontata con quella del De Sanctis.
Insomma il tipo di critica letteraria propria del materialismo storico è offerto dal De Sanctis, non dal Croce o da chiunque altro (meno che mai dal Carducci): lotta per la cultura, cioè, nuovo umanesimo, critica del costume e dei sentimenti, fervore appassionato, sia pure sotto forma di sarcasmo.
Alla fase De Sanctis ha corrisposto nel periodo più recente la fase della «Voce»: si capisce su un piano subalterno. Il De Sanctis lottava per la creazione, ex‑nuovo in Italia, di una alta cultura nazionale, in opposizione ai vecchiumi di vario genere, retorica egesuitismo: la «Voce» lottava piuttosto per la divulgazione in uno strato intermedio di quella stessa cultura, lottava contro il provincialismo, ecc. ecc. Tuttavia ebbe una funzione; lavorò nella sostanza e suscitò degli artisti (naturalmente nella misura in cui gli artisti si suscitano: aiutò qualcuno a ritrovare se stesso, a svilupparsi, suscitò bisogno di interiorità e di espressione di essa ecc.). Questo problema trova un riscontro per assurdo nell’articolo di Alfredo Gargiulo Dalla cultura alla letteratura nell’«Italia Letteraria» del 6 aprile 1930 (sesto capitolo di uno studio intitolato 1900‑1930 che occorrerà tener presente per «I nipotini delpadre Bresciani»). Il Gargiulo in questa serie di articoli mostra il suo completo esaurimento intellettuale (un altro giovane senza «maturità»); egli si è completamente incanagliato con la banda dell’«Italia Letteraria» e nel capitolo in parola assume come proprio questo principio di G. B. Angioletti nella prefazione all’antologia Scrittori Nuovi compilata da Falqui e Vittorini: «Gli scrittori di questa Antologia sono dunque nuovi non perché abbiano trovato nuove forme o cantato nuovi soggetti, tutt’altro; lo sono perché hanno dell’arte un’idea diversa da quella degli scrittori che li precedettero. O, per venir subito all’essenziale, perché credono all’arte, mentre quelli credevano a molte altre cose che con l’arte nulla avevano a che vedere. Tale novità, perciò, può consentire la forma tradizionale e il contenuto antico; ma non può consentire deviamenti dall’idea essenziale dell’arte. Quale possa essere questa idea, non è qui il luogo di ripetere. Ma mi sia consentito ricordare che gli scrittori nuovi, compiendo una rivoluzione (!) che per essere stata silenziosa (!) non sarà meno memorabile (!), intendono di essere soprattutto artisti, laddove i loro predecessori si compiacevano di essere moralisti, predicatori, estetizzanti, psicologisti, edonisti, ecc.». Questo discorso non è molto chiaro e ordinato, ma se qualcosa di reale c’è in esso è un secentismo programmatico, nient’altro. Questa concezione dell’artista è un nuovo «guardarsi la lingua» nel parlare, è un nuovo «concettare». E puri costruttori di concettini, non di immagini, sono alcuni dei poeti esaltati dalla «banda», per esempio G. Ungaretti (che tra l’altro scrive una lingua sufficientemente impropria e infranciosata). Il movimento della «Voce» non poteva creare artisti, è evidente; ma lottando per una nuova cultura, si possono creare anche degli artisti. Si trattava cioè di un movimento vitale, e nella vita c’è anche l’arte. La «rivoluzione silenziosa» di cui parla Angioletti è stata solo una serie di confabulazioni da caffè e di mediocri articoli di giornale standardizzato e di rivistucola provinciale: ha prodotto sufficienza e mutria, non ha mutato idee: vedremo dei nuovi «sacerdoti dell’arte» in regime di concordato e di monopolio. (Questo paragrafo deve essere fuso nei «Nipotini del Padre Bresciani» che può diventare una scorribanda nel territorio della letteratura, in cui possono essere incastrati i motivi «teorici» sul materialismo storico nel campo artistico).
Q4 §6 Roberto Ardigò, Scritti vari raccolti e ordinati da Giovanni Marchesini, Firenze, Le Monnier, 1922. Raccoglie una parte di scritti vari che l’Ardigò aveva egli stesso ordinato e disposto per la pubblicazione. Sono interessanti per la biografia dell’Ardigò e per stabilire le sue tendenze politiche. Sono paccotiglia senza valore, se presi in sé e per sé, e anche scritti molto male. Il libro è diviso in varie sezioni. Tra le polemiche (I sezione) è notevole quella contro la massoneria del 1903. Tra le lettere (IV sezione) la lettera di Ardigò alla «Gazzetta di Mantova» per il pellegrinaggio alla tomba di Vittorio Emanuele (del 29 novembre 1883). Ardigò aveva accettato di far parte di un comitato promotore di un pellegrinaggio alla tomba di Vittorio Emanuele a Roma. «Il pellegrinaggio però non andava ai versi a molti scalmanati rivoluzionari, che si erano immaginati che io la pensassi come loro e quindi sconfessassi la mia fede politico‑sociale colla suddetta adesione. E così si espressero privatamente e pubblicamente colle più fiere invettive al mio indirizzo». Le lettere dell’Ardigò sono altisonanti ed enfatiche. In quella del 29 novembre 1883 si legge: «Ieri, perché tornava loro conto di farmi passare per uno dei loro, che non sono mai stato (e lo sanno o devono saperlo), mi proclamarono, con lodi che mi facevano schifo, il loro maestro; e ciò senza intendermi o intendendomi a rovescio. Oggi, perché non mi trovano pronto a prostituirmi alle loro mire parricide, vogliono pigliarmi per un orecchio perché ascolti e impari la lezione che (molto ingenuamente) si arrogano di recitarmi. Oh! quanto ho ragione di dire con Orazio: Odi profanum vulgus et arceo!». In una successiva lettera del 4 dicembre 1883 al «Bacchiglione», giornale democratico di Padova, scrive: «Come sapete fui amico di Alberto Mario; ne venero la memoria e caldeggio con tutta l’anima quelle idee e quei sentimenti che ebbi comuni con lui. E conseguentemente avverso senza esitazione le basse fazioni anarchiche antisociali... Tale mia avversione l’ho sempre espressa recisissimamente. Alcuni anni fa in un’adunanza della Società della Eguaglianza sociale di Mantova ho parlato così: La sintesi delle vostre tendenze è l’odio, la sintesi delle mie è l’amore; perciò io non sono con voi... Ma si continuava a voler far credere alla mia solidarietà col socialismo antisociale di Mantova. Sicché sentii il dovere di protestare, ecc.». La lettera fu ristampata nella «Gazzetta di Mantova» (diretta dal Luzio) (del 10 dicembre 1883) con altra coda violentissima perché gli avversari gli avevano ricordato il canonicato ecc.
L’Ardigò era un tiepido democratico e nel luglio 1884 scriveva al Luzio che «nulla mi impedirebbe di assentire» alla proposta fattagli di entrare nella lista moderata per le elezioni comunali di Mantova. Scrive anche di credere il Luzio «più radicale di molti sedicenti democratici... Molti si chiamano democratici e non sono che arruffoni sciocchi...». Nel giugno‑agosto 1883 si serviva però del giornale socialista di Imola «Il Moto» per rispondere a una serie di articoli anonimi della liberale «Gazzetta dell’Emilia» di Bologna in cui si sosteneva che l’Ardigò era un liberale di fresca data e lo si sfotteva abbastanza brillantemente se pure con molta malafede polemica. «Il Moto» naturalmente difende l’Ardigò a spada tratta e lo esalta, senza che l’Ardigò cerchi di distinguersi.
Tra i pensieri, abbastanza triti e banali, spicca quello sul Materialismo storico (p. 271) che senz’altro è da mettere nella serie delle «loriate». Lo riproduco: «Colla Concezione materialistica della Storia si vuole spiegare una formazione naturale (!), che ne (sic) dipende solo in parte e solo indirettamente, trascurando altri essenziali coefficienti. E mi spiego.
L’animale non vive, se non ha il suo nutrimento. E può procurarselo, perché in lui nasce il sentimento della fame, che lo porta a cercare il cibo. Ma in un animale, oltre il sentimento della fame, si producono molti altri sentimenti, relativi ad altre operazioni, i quali, pur essi, agiscono a muoverlo. Egli è che, col nutrimento si mantiene un dato organismo, che ha attitudini speciali, quali in una specie, quali in un’altra. Una caduta d’acqua fa muovere un mulino a produrre la farina e un telajo a produrre un drappo. Sicché pel mulino, oltre la caduta dell’acqua, occorre il grano da macinare e pel telajo occorrono i fili da comporre insieme. Mantenendosi col movimento un organismo, l’ambiente, colle sue importazioni d’altro genere (?), determina, come dicemmo, molti funzionamenti, che non dipendono direttamente dal nutrimento, ma dalla struttura speciale dell’apparecchio funzionante, da una parte, e dalla azione, ossia importazione nuova dell’ambiente dall’altra. Un uomo quindi, per esempio, è incitato in più sensi. E in tutti irresistibilmente. È incitato dal sentimento della fame, è incitato da altri sentimenti, prodotti in ragione della struttura sua speciale, e delle sensazioni e delle idee fatte nascere in lui per l’azione esterna, e per l’ammaestramento ricevuto, ecc. ecc. (sic). Deve ubbidire al primo, ma deve ubbidire anche agli altri; voglia o non voglia. E gli equilibrj che si formano tra l’impulso del primo e di questi altri, per la risultante dell’azione, riescono diversissimi, secondo una infinità di circostanze, che fanno giocare più l’uno che l’altro dei sentimenti incitanti. In una mandra di porci il sopravvento rimane al sentimento della fame, in una popolazione di uomini, ben diversamente, poiché hanno anche altre cure all’infuori di quella d’ingrassare. Nell’uomo stesso l’equilibrio si diversifica secondo le disposizioni che poterono farsi in lui, e quindi, col sentimento della fame, il ladro ruba e il galantuomo invece lavora: avendo quanto gli occorre per soddisfare alla fame, l’avaro cerca anche il non necessario, e il filosofo se ne contenta e dedica la sua opera alla scienza. L’antagonismo poi può esser tale, che riescano in prevalenza i sentimenti che sono diversi da quelli della fame, fino a farli tacere affatto, fino a sopportare di morire, ecc. ecc. ecc. (sic).
La forza, onde è, e agisce l’animale, è quella della natura, che lo investe e lo sforza ad agire in sensi moltiformi, trasformandosi variamente nel suo organismo. Poniamo che sia la luce del sole, alla quale si dovrebbe ridurre la concezione materialistica della storia, anziché alla ragione economica. Alla luce del sole, intesa in modo, che anche ad essa si possa riferire il fatto della idealità impulsiva dell’uomo». (Fine).
Il brano pare sia stato pubblicato nel «Giornale d’Italia», numero unico a beneficio della Croce Rossa, gennaio 1915; è interessante non solo come documento che l’Ardigò non conosceva neanche gli elementi primi del materialismo storico e non aveva letto che qualche articolo di giornale di provincia, stranamente capito, ma perché serve a rintracciare l’origine e la genesi di certe opinioni diffuse, come quella del «ventre». Ma perché solo in Italia si è avuta questa strana interpretazione? Il movimento alle origini è stato legato alla fame, è evidente, e l’accusa di ventraiolismo è una accusa più umiliante per chi ha lasciato un paese in tali condizioni ecc. ecc. In ogni modo il «pezzo» starà molto bene nel campionario loriano: nonostante tutto, Ardigò non era il primo venuto.
Q4 §7 Le superstrutture e la scienza. Porre la scienza a base della vita, fare della scienza una concezione del mondo significa ricadere nel concetto che il materialismo storico abbia bisogno di un altro sostegno all’infuori di se stesso. La scienza è anch’essa una superstruttura. Ma nello studio delle superstrutture la scienza occupa un posto a sé, per il fatto che la sua reazione sulla struttura ha un carattere di maggiore estensione e continuità di sviluppo, specialmente a partire dal 700, da quando fu fatto alla scienza un posto a parte nell’apprezzamento generale. Che la scienza sia una superstruttura è dimostrato dal fatto che essa ha avuto periodi interi di eclisse, scacciata da un’ideologia dominante, la religione soprattutto: la scienza e la tecnica degli arabi apparivano come stregoneria ai cristiani. La scienza non si presenta come nuda nozione obbiettiva mai; essa appare sempre rivestita da una ideologia e concretamente è scienza l’unione del fatto obbiettivo e dell’ipotesi o di un sistema di ipotesi che superano il mero fatto obbiettivo. In questo campo però è diventato relativamente facile scindere la nozione obbiettiva dal sistema di ipotesi, con un processo di astrazione che è insito nella stessa metodologia scientifica e appropriarsi l’una respingendo l’altro. In tal modo una classe può appropriarsi la scienza di un’altra classe senza accettarne l’ideologia (l’ideologia del progresso è stata creata dal progresso scientifico) e le osservazioni in proposito del Sorel (e del Missiroli) cadono.
Q4 §8 Machiavelli e Marx. Charles Benoist nella prefazione a Le Machiavélisme, Prima parte: Avant Machiavel, Parigi, Plon, 1907, scrive: «C’è machiavellismo e machiavellismo: c’è un machiavellismo vero e un machiavellismo falso: vi è un machiavellismo che è di Machiavelli e un machiavellismo che è qualche volta dei discepoli, più spesso dei nemici di Machiavelli; sono già due, anzi tre machiavellismi, quello di Machiavelli, quello dei machiavellisti, e quello degli antimachiavellisti; ma eccone un quarto: quello di coloro che non han mai letto una riga di Machiavelli e che si servono a sproposito dei verbi, dei sostantivi e degli aggettivi derivati dal suo nome. Machiavelli perciò non dovrebbe essere tenuto responsabile di quel che dopo di lui il primo o l’ultimo venuto si sono compiaciuti di fargli dire».
La innovazione fondamentale introdotta da Marx nella scienza politica e storica in confronto del Machiavelli è la dimostrazione che non esiste una «natura umana» fissa e immutabile e che pertanto la scienza politica deve essere concepita nel suo contenuto concreto (e anche nella sua formulazione logica?) come un organismo storicamente in isviluppo. Nel Machiavelli sono da vedere due elementi fondamentali: 1) l’affermazione che la politica è un’attività indipendente e autonoma che ha suoi principi e sue leggi diversi da quelli della morale e della religione in generale (questa posizione del Machiavelli ha una grande portata filosofica, perché implicitamente innova la concezione della morale e della religione, cioè innova tutta la concezione del mondo); 2) contenuto pratico e immediato dell’arte politica studiato e affermato con obbiettività realistica, in dipendenza della prima affermazione.
L’importanza storica e intellettuale delle scoperte del Machiavelli si può misurare dal fatto che esse sono ancora discusse e contraddette ancora al giorno d’oggi: ciò significa che la rivoluzione intellettuale e morale contenuta in nuce nelle dottrine del Machiavelli non si è ancora realizzata «manifestamente» come forma «pubblica» della cultura nazionale. Non che la dottrina del Machiavelli sia rimasta o fosse anche al tempo suo una cosa puramente «libresca», il patrimonio di qualche solitario pensatore. Se così fosse, il Machiavelli sarebbe stato un utopista, un puro raziocinizzatore. Come disse il Foscolo, il «Machiavelli ha svelato» qualcosa di reale, ha teorizzato una pratica. Come questo è avvenuto? Non sarebbe stato il Machiavelli un politico poco machiavellico, poiché le sue norme «si applicano, ma non si dicono»? L’affermazione del Foscolo implica quindi un giudizio storico‑politico, che non si limita solo al fatto costatato dal Croce (e in sé giustissimo) che il machiavellismo, essendo una scienza, serviva tanto ai reazionari quanto ai democratici. Il Machiavelli stesso nota che le cose che egli scrive sono applicate e sono state sempre applicate: egli quindi non vuol suggerire a chi già sa, né è da pensare in lui una pura «attività scientifica» che in questa materia sarebbe stata miracolosa al tempo suo, se oggi stesso trova non poco contrasto. Il Machiavelli quindi pensa «a chi non sa», a chi non è nato nella tradizione degli uomini di governo, in cui tutto il complesso dell’educazione di fatto, unita con l’interesse di famiglia (dinastico e patrimoniale) porta a dare il carattere del politico realistico. E chi non sa? La classe rivoluzionaria del tempo, il «popolo» e la «nazione» italiana, la democrazia che esprime dal suo seno dei «Pier Soderini» e non dei «Valentini». Il Machiavelli vuol fare l’educazione di questa classe, da cui deve nascere un «capo» che sappia quello che si fa e un popolo che sa che ciò che il capo fa è anche suo interesse, nonostante che queste azioni possono essere in contrasto con l’ideologia diffusa (la morale e la religione). Questa posizione del Machiavelli si ripete per Marx: anche la dottrina di Marx è servita oltre che alla classe alla quale Marx esplicitamente si rivolgeva (in ciò diverso e superiore al Machiavelli) anche alle classi conservatrici, il cui personale dirigente in buona parte ha fatto il suo tirocinio politico nel marxismo.
Q4 §9 Un repertorio del marxismo cfr p. 45 bis. Sarebbe utilissimo un «inventario» critico di tutte le quistioni che sono state sollevate dal marxismo: materiale, ipotesi, tentativi di soluzione ecc. Il materiale è talmente esteso, disparato, di diversissimo valore che una compilazione di questo genere avrebbe una importanza non trascurabile nel campo scolastico e propedeutico e sarebbe uno strumento di primo ordine per la diffusione degli studi sul marxismo e per il loro consolidamento in disciplina scientifica e non più in imparaticcio e dilettantismo giornalistico.
Q4 §10 Marx e Machiavelli. Questo argomento può dar luogo a un duplice lavoro: uno studio sui rapporti reali tra i due in quanto teorici della politica militante, dell’azione, e un libro che traesse dalle dottrine marxiste un sistema ordinato di politica attuale del tipo Principe. L’argomento sarebbe il partito politico, nei suoi rapporti con le classi e con lo Stato: non il partito come categoria sociologica, ma il partito che vuole fondare lo Stato. In realtà, se bene si osserva, la funzione tradizionale dell’istituto della corona è, negli Stati dittatoriali, assolta dai partiti: sono essi che pur rappresentando una classe e una sola classe, tuttavia mantengono un equilibrio con le altre classi, non avversarie ma alleate e procurano che lo sviluppo della classe rappresentata avvenga col consenso e con l’aiuto delle classi alleate. Ma il protagonista di questo «nuovo principe» non dovrebbe essere il partito in astratto, una classe in astratto, uno Stato in astratto, ma un determinato partito storico, che opera in un ambiente storico preciso, con una determinata tradizione, in una combinazione di forze sociali caratteristica e bene individuata. Si tratterebbe insomma, non di compilare un repertorio organico di massime politiche, ma di scrivere un libro «drammatico» in un certo senso, un dramma storico in atto, in cui le massime politiche fossero presentate come necessità individualizzata e non come principi di scienza.
Q4 §11 Problemi fondamentali del marxismo. Si fa (di solito) una confusione tra la cultura filosofica personale di Marx, cioè tra le correnti filosofiche e i grandi filosofi che Marx ha studiato e le origini o le parti costitutive del materialismo storico, e si cade nell’errore di ridurre la filosofia che sarebbe alla base del materialismo storico a questo o quel sistema. Certamente è interessante e necessario ricercare e approfondire gli elementi della cultura filosofica di Marx, ma tenendo presente che parte essenziale del materialismo storico non è né lo spinozismo, né lo hegelismo né il materialismo francese, ma precisamente ciò che non era contenuto se non in germe in tutte queste correnti e che Marx ha sviluppato, o di cui ha lasciato gli elementi di sviluppo; la parte essenziale del marxismo è nel superamento delle vecchie filosofie e anche nel modo di concepire la filosofia, ed è ciò che bisogna dimostrare e sviluppare sistematicamente. In sede teorica, il marxismo non si confonde e non si riduce a nessun’altra filosofia: esso non è solo originale in quanto supera le filosofie precedenti, ma è originale specialmente in quanto apre una strada completamente nuova, cioè rinnova da cima a fondo il modo di concepire la filosofia. In sede di ricerca storica si dovrà studiare da quali elementi Marx ha preso occasione per il suo filosofare, quali elementi ha incorporato rendendoli omogenei ecc.: allora si dovrà riconoscere che di questi elementi «originari» l’hegelismo è il più importante relativamente, specialmente per il suo tentativo di superare le concezioni tradizionali di «idealismo» e di «materialismo». Quando si dice che Marx adopera l’espressione «immanenza» in senso metaforico, non si dice nulla: in realtà Marx dà al termine «immanenza» un significato proprio, egli cioè non è un «panteista» nel senso metafisico tradizionale, ma è un «marxista» o un «materialista storico». Di questa espressione «materialismo storico» si è dato il maggior peso al primo membro, mentre dovrebbe essere dato al secondo: Marx è essenzialmente uno «storicista» ecc.
Q4 §12 Struttura e superstruttura. Bisogna fissar bene il significato del concetto di struttura e di superstruttura, così come il significato di «strumento tecnico» ecc. o si cade in confusioni disastrose e risibili. La complessità della quistione si vede da ciò: le biblioteche sono struttura o superstruttura? I gabinetti sperimentali degli scienziati? Gli strumenti musicali di un’orchestra? ecc. Si confonde struttura con «struttura materiale» in genere e «strumento tecnico» con ogni strumento materiale ecc., fino a sostenere che una determinata arte si è sviluppata perché si sono sviluppati gli strumenti specifici per cui le espressioni artistiche complete diventano di dominio pubblico, possono essere riprodotte. Non si può negare una certa relazione, ma non diretta e immediata. In realtà certe forme di strumento tecnico hanno una doppia fenomenologia: sono struttura e sono superstruttura: l’industria tipografica stessa, che ha assunto in questa particolare sezione dello «strumento tecnico», una importanza inaudita, partecipa di questa doppia natura. Essa è oggetto di proprietà, quindi di divisione di classe e di lotta, ma è anche elemento inscindibile di un fatto ideologico, o di più fatti ideologici: la scienza, la letteratura, la religione, la politica ecc. Ci sono delle superstrutture che hanno una «struttura materiale»: ma il loro carattere rimane quello di superstrutture: il loro sviluppo non è «immanente» nella loro particolare «struttura materiale» ma nella «struttura materiale» della società. Una classe si forma sulla base della sua funzione nel mondo produttivo: lo sviluppo e la lotta per il potere e per la conservazione del potere crea le superstrutture che determinano la formazione di una «speciale struttura materiale» per la loro diffusione ecc. Il pensiero scientifico è una superstruttura che crea «gli strumenti scientifici»; la musica è una superstruttura che crea gli strumenti musicali. Logicamente e anche cronologicamente si ha: struttura sociale ‑ superstruttura ‑ struttura materiale della superstruttura.
Q4 §13 e osservazioni critiche sul «Saggio popolare». La prima osservazione da farsi è che il titolo non corrisponde al contenuto del libro. Teoria del materialismo storico dovrebbe significare sistemazione logica dei concetti filosofici che sono noti sotto il nome di materialismo storico. Il primo capitolo, o un’introduzione generale, dovrebbero aver trattato la quistione: che cos’è la filosofia? una concezione del mondo è una filosofia? come è stata finora concepita la filosofia? il materialismo storico rinnova questa concezione? quali rapporti esistono tra le ideologie, le concezioni del mondo, le filosofie? La risposta a questa serie di domande costituisce la «teoria» del materialismo storico. Nel Saggio popolare non è giustificata la premessa implicita nell’esposizione (sebbene non sempre logicamente coerente con molte affermazioni) ed esplicitamente accennata qua e là che la filosofia del materialismo storico è il materialismo filosofico: cosa significa realmente questa affermazione? Se essa fosse vera, la teoria del materialismo storico sarebbe il materialismo filosofico; ma, in tal caso, cosa sarebbe il materialismo storico stesso? Anche la risposta a queste domande non si ha.
Non è neanche giustificato il nesso tra il titolo generale Teoria ecc. e il sottotitolo Saggio popolare di sociologia marxista; il sottotitolo è più esatto se si dà del termine «sociologia» una definizione circoscritta. Infatti si presenta la quistione: che cosa è stata e che cosa è la «sociologia»? Non è essa un embrione di filosofia non sviluppata? La «sociologia» non ha cercato di fare qualcosa di simile al «materialismo storico»? Solo che bisogna intendersi: il materialismo storico è nato sotto forma di criteri pratici (in grandissima parte, almeno) per un puro caso, perché Marx ha dedicato le sue forze intellettuali ad altri problemi; ma in questi criteri pratici è implicita tutta una concezione del mondo, una filosofia. La sociologia è il tentativo di creare una metodologia storico‑politica in dipendenza da un sistema filosofico già elaborato, sul quale la sociologia ha reagito, ma solo parzialmente. La sociologia è quindi diventata una tendenza a sé, è diventata la filosofia dei non filosofi; un tentativo di classificare e descrivere schematicamente i fatti storici e politici, secondo dei criteri costruiti sul modello delle scienze, di determinate scienze. In ogni caso ogni sociologia presuppone una filosofia, una concezione del mondo; essa stessa è di queste un frammento subordinato. Né bisogna confondere con la «teoria» generale, con la «filosofia», la particolare «logica» interna delle diverse sociologie, per cui esse acquistano una meccanica coerenza.
Tutti questi problemi sono problemi «teorici», non quelli che l’autore del saggio pone come tali. Le quistioni che egli pone sono quistioni di ordine immediato, politico, ideologico, intesa l’«ideologia» come una fase intermedia tra la teoria generale e la pratica immediata o politica. Sono riflessioni su fatti singoli storico‑politici, slegati e casuali. Una quistione «teorica» si presenta all’autore fin dall’inizio, quando parla di quella tendenza che nega la possibilità di costruire una «sociologia» marxista e sostiene che il marxismo può esprimersi solo in lavori storici concreti. L’obbiezione, che è importantissima, non è risolta dall’autore che con parole1. Certo il marxismo si realizza nello studio concreto della storia passata e nell’attività attuale di creazione di nuova storia. Ma si può sempre fare la teoria della storia passata e della politica attuale, dato che se i fatti sono individui e sempre mutevoli nel flutto del movimento storico, i concetti possono essere teorizzati.
Il non aver posto la quistione della «teoria» impedisce anche una giusta posizione della quistione: che cosa è la religione, e un apprezzamento delle filosofie passate che diventano tutte delirio e follia. Si cade nel dogmatismo, ecc. ecc. (Studiare bene la quistione della «sociologia» e dei suoi rapporti col marxismo). Cfr p. 58.
Q4 §14 Il concetto di «ortodossia». Da quanto si è detto sopra, il concetto di «ortodossia» deve essere rinnovato e riportato alle sue origini autentiche. L’ortodossia non deve essere ricercata in questo o quello dei discepoli di Marx, in quella o questa tendenza legata a correnti estranee al marxismo, ma nel concetto che il marxismo basta a se stesso, contiene in sé tutti gli elementi fondamentali, non solo per costruire una totale concezione del mondo, una totale filosofia, ma per vivificare una totale organizzazione pratica della società, cioè per diventare una integrale, totale civiltà. Questo concetto così rinnovato di ortodossia, serve a precisare meglio l’attributo di «rivoluzionaria» attribuito a una concezione del mondo, a una teoria. Il cristianesimo fu rivoluzionario in confronto del paganesimo perché fu un elemento di scissione completa tra i sostenitori del vecchio e del nuovo mondo. Una teoria è rivoluzionaria in quanto è appunto elemento di separazione completa in due campi, in quanto è vertice inaccessibile agli avversari. Ritenere che il materialismo storico non sia una struttura di pensiero completamente autonoma significa in realtà non avere completamente tagliato i legami col vecchio mondo. In realtà, il materialismo storico non ha bisogno di sostegni eterogenei: esso stesso è così robusto, che il vecchio mondo vi ricorre per fornire il suo arsenale di qualche arma più efficace. Ciò significa che mentre il materialismo storico non subisce egemonie, incomincia esso stesso ad esercitare una egemonia sul vecchio mondo intellettuale. Ciò avviene in forme reciproche naturalmente, ma è appunto ciò che bisogna sventare. Il vecchio mondo, rendendo omaggio al materialismo storico cerca di ridurlo a un corpo di criteri subordinati, di secondo grado, da incorporare nella sua teoria generale, idealistica o materialistica: chi riduce a un ruolo simile il materialismo storico nel campo proprio di questa teoria, capitola implicitamente dinanzi agli avversari.
Q4 §15 Croce e Marx. Gli accenni che Croce fa a Marx debbono essere studiati nei diversi periodi della sua attività di studioso e di uomo pratico. Egli si avvicina a Marx da giovane, quando volle mettere d’accordo «le tendenze democratiche ... state sempre naturali al suo animo» col suo odio contro il positivismo. «Il mio stomaco si ricusò di digerirla (la democrazia), finché essa non prese qualche condimento dal socialismo marxistico, il quale, cosa ormai notissima, è imbevuto di filosofia classica tedesca» (cfr Cultura e vita morale, seconda ediz., p. 45). Se ne allontana nei periodi di democrazia fino al 14. Vi ritorna durante la guerra (cfr specialmente la prefazione del 1917 al Materialismo storico ed economia marxistica; e cfr il suo giudizio riferito dal De Ruggiero che la guerra era la guerra del materialismo storico) ma se ne allontana nel primo e specialmente nel secondo dopo guerra, quando una gran parte della sua attività critico-pratica è rivolta a scalzare il materialismo storico poiché sente e prevede che esso dovrà riaffermarsi con estremo vigore dopo l’ubbriacatura di astrazioni ampollose delle filosofie ufficiali ed ufficiale ma specialmente come conseguenza delle condizioni pratiche e dell’intervenzionismo statale (cfr per questa preoccupazione le lettere del Croce stampate nella «Nuova Rivista Storica» negli anni 1928‑29 a proposito della storia etico‑politica) .
Il punto che più interessa di esaminare è quello delle «ideologie» e del loro valore: rilevare le contraddizioni in cui il Croce cade a questo proposito. Nel volumetto Elementi di politica il Croce scrive che per Marx le «superstrutture» sono apparenza e illusione e di ciò fa un torto a Marx (cfr bene il punto di quistione). Ma è vero ciò? La teoria di Croce sulle ideologie, ripetuta recentemente nella recensione apparsa sulla «Critica» del volumetto del Malagodi è di evidente origine marxista: le ideologie sono costruzioni pratiche, sono strumenti di direzione politica, sebbene essa non riproduca della dottrina marxista che una parte, la parte critico‑distruttiva. Per Marx le «ideologie» sono tutt’altro che illusioni e apparenza; sono una realtà oggettiva ed operante, ma non sono la molla della storia, ecco tutto. Non sono le ideologie che creano la realtà sociale, ma è la realtà sociale, nella sua struttura produttiva, che crea le ideologie. Come Marx potrebbe aver pensato che le superstrutture sono apparenza ed illusione? Anche le sue dottrine sono una superstruttura. Marx afferma esplicitamente che gli uomini prendono coscienza dei loro compiti nel terreno ideologico, delle superstrutture, il che non è piccola affermazione di «realtà»: la sua teoria vuole appunto anch’essa «far prendere coscienza» dei propri compiti, della propria forza, del proprio divenire a un determinato gruppo sociale. Ma egli distrugge le «ideologie» dei gruppi sociali avversi, che appunto sono strumenti pratici di dominio politico sulla restante società: egli dimostra come esse siano prive di senso, perché in contraddizione con la realtà effettuale. Il Croce si trova intellettualmente a mal partito. Egli che nella prefazione del 1917 al Materialismo storico ecc. scrisse: «gli serberemo (al Marx) ... altresì la nostra gratitudine, per aver conferito a renderci insensibili alle alcinesche seduzioni ... della Dea Giustizia e della Dea Umanità», deve ora fare molti passi a ritroso e dare apparenza di florida giovinezza a un’altra decrepita maga sdentata, il liberalismo più o meno deificato.
Questo argomento del valore concreto delle superstrutture in Marx dovrebbe essere bene studiato. Ricordare il concetto di Sorel del «blocco storico». Se gli uomini prendono coscienza del loro compito nel terreno delle superstrutture, ciò significa che tra struttura e superstrutture c’è un nesso necessario e vitale, così come nel corpo umano tra la pelle e lo scheletro: si direbbe uno sproposito se si affermasse che l’uomo si mantiene eretto sulla pelle e non sullo scheletro, e tuttavia ciò non significa che la pelle sia una cosa apparente e illusoria, tanto vero che non è molto gradevole la situazione dell’uomo scorticato. Così sarebbe uno sproposito dire che il colore delle guance sia la causa della salute e non viceversa ecc. (Il paragone del corpo umano può servire per rendere popolari questi concetti, come metafora appropriata). Non ci si innamora di una donna per la forma dello scheletro e tuttavia anche questa forma contribuendo all’armonia generale delle forme esterne e persino alla disposizione della pelle, è un elemento di attrazione sessuale. Semplice metafora perché mentre la storia registra mutamenti radicali di strutture sociali, nel regno animale si può parlare solo, caso mai, di lentissime evoluzioni.
Q4 §16 La teleologia nel «Saggio popolare». Un’osservazione generale: le dottrine filosofiche sono tutte presentate su uno stesso piano di trivialità e di banalità, così che pare al lettore che tutta la cultura precedente sia stata una fantasmagoria di baccanti in delirio. Il metodo è riprovevole da molti punti di vista: un lettore serio, che poi amplii le sue cognizioni e approfondisca i suoi studi, crede di essere stato preso in giro e rigetta tutto il sistema. È facile parere di aver superato una posizione abbassandola, ma si tratta di un puro sofisma di parole: il superamento è avvenuto solo sulla carta e lo studioso si ritrova la difficoltà dinanzi in forma paurosa. La superficialità non è un buon metodo pedagogico. Presentare così le quistioni può avere significato in un Voltaire, ma non è Voltaire chiunque voglia, cioè non è un grande artista.
La quistione della teleologia: il Saggio popolare presenta la teleologia nelle sue forme più esagerate e infantili e dimentica la soluzione datane dal Kant; si potrebbe dimostrare perciò quante soluzioni sono «teleologiche» nel Saggio inconsapevolmente: per esempio, mi pare che il capitolo sull’«Equilibrio tra la natura e la società» sia appunto concepito secondo la teleologia kantiana. (Vedere bene questo argomento. In generale ricordare che tutte queste sono provvisorie e scritte a penna corrente: esse sono da rivedere e da controllare minutamente, perché certamente contengono inesattezze, anacronismi, falsi accostamenti ecc. che non importano danno perché le hanno solo l’ufficio di promemoria rapido).
Q4 §17 L’immanenza e il «Saggio popolare». Ciò che si è detto della «teleologia» si può ripetere dell’«immanenza». Nel Saggio popolare si nota che Marx adopera l’espressione «immanenza», «immanente», e si dice che evidentemente quest’uso è «metaforico». Benissimo. Ma si è così spiegato il significato che l’espressione «immanenza» ha metaforicamente in Marx? Perché Marx continua a usare questa espressione? Solo per l’orrore di creare termini nuovi? Quando da una concezione si passa ad un’altra, il linguaggio precedente rimane, ma viene usato metaforicamente. Tutto il linguaggio è diventato una metafora e la storia della semantica è anche un aspetto della storia della cultura: il linguaggio è una cosa vivente e nello stesso tempo è un museo di fossili della vita passata. Quando io adopero la parola «disastro» nessuno può imputarmi di credenze astrologiche, o quando dico «per Bacco» nessuno può credere che io sia un adoratore delle divinità pagane, tuttavia quelle espressioni sono una prova che la civiltà moderna è anche uno sviluppo del paganesimo e dell’astrologia. L’espressione «immanenza» in Marx ha un preciso significato e questo occorreva definire: in realtà questa definizione sarebbe stata veramente «teoria». Marx continua la filosofia dell’immanenza, ma la depura da tutto il suo apparato metafisico e la conduce nel terreno concreto della storia. L’uso è metaforico solo nel senso che la concezione è stata superata, è stata sviluppata ecc. D’altronde l’immanenza di Marx è completamente una cosa nuova? O non se ne trovano tracce nella filosofia precedente? In Giordano Bruno, per esempio, credo si trovino tracce di una tale concezione. Conosceva Marx il Bruno? O questi elementi dal Bruno passarono nella filosofia classica tedesca? Tutti problemi da vedere concretamente.
Q4 §18 La tecnica del pensare. Cfr F. Engels: Prefazione all’Antidühring (3a edizione, Stuttgart, 1894, p. XIX): che «l’arte di operare coi concetti non è alcunché d’innato o di dato nella coscienza comune, ma è un lavoro tecnico del pensiero, che ha una lunga storia, né più né meno della ricerca sperimentale delle scienze naturali» (citato dal Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, 1921iv, p. 31). Questo concetto di Engels è richiamato da me in varie . Vedere il testo originale di Engels, parafrasato dal Croce, il quale nota tra parentesi che questo concetto non è «peregrino», cioè era diventato di senso comune già prima di Engels. Per me non si tratta del fatto della maggiore o minore originalità dell’affermazione di Engels, ma della sua importanza e del posto che occupa nel materialismo storico. Mi pare che ad essa occorra richiamarsi per intendere ciò che vuol dire Engels quando scrive che dopo Marx della vecchia filosofia rimane, tra l’altro, la logica formale, affermazione che il Croce riporta nel suo saggio sullo Hegel con un punto esclamativo. Lo stupore del Croce quanto alla «riabilitazione» della logica formale implicita nell’affermazione di Engels, deve essere collegato alla sua dottrina della tecnica nell’arte per esempio, ma il paragone in questo caso sarebbe fallacissimo. Se può esistere un artista che non conosce nulla dell’elaborazione tecnica precedente, non si può dire lo stesso nella sfera della scienza e del pensiero, in cui esiste progresso e deve esistere progresso metodico e di tecnica proprio come nelle scienze sperimentali. La quistione che sorge sarà del posto che questa tecnica deve occupare nel quadro della scienza del pensiero: se si prende l’esempio della dialettica, l’importanza di questo posto apparirà subito. La dialettica è anche una tecnica ed è proprio come tale che trova difficoltà presso molti filosofi ad essere accettata; ma è anche un nuovo pensiero, una nuova filosofia. Si può staccare il fatto tecnico dal fatto filosofico? Nella «Critica» del Croce sono state pubblicate molte recensioni che dimostrano questa incomprensione della tecnica dialettica e della nuova maniera di pensare.
Mi pare di aver notato altrove l’importanza che ha la tecnica del pensiero nella costruzione di un programma didattico: anche qui non si può fare il paragone tra la tecnica del pensiero e le vecchie retoriche. Queste né creavano artisti, né creavano il gusto, né davano criteri per apprezzare la bellezza: erano inutili in sé e se avevano risultati era per l’opera vivente del maestro. La tecnica del pensiero non creerà certamente grandi filosofi, ma darà criteri di giudizio e correggerà le storture del modo di pensare del senso comune. Sarebbe interessante un paragone tra la tecnica del senso comune, della filosofia dell’uomo della strada, e la tecnica del pensiero moderno più sviluppato. Anche in questo riguardo vale l’osservazione del Macaulay sulle debolezze logiche della cultura formatasi per via oratoria e declamatoria. Tutto questo argomento deve essere ben studiato, dopo aver raccolto tutto il materiale possibile in proposito. (Vedere anche le dottrine dei pragmatisti sul linguaggio come causa di errore – il libretto del Prezzolini – e le quistioni poste dal Pareto sullo stesso argomento). Si tratta in parte di una propedeutica (ma non solo di ciò, perché l’immagine di «strumento» tecnico può trarre in errore e tra «tecnica» e «pensiero in atto» esistono più identità che non esistano nelle scienze tra «strumenti materiali» e scienza propriamente detta): un astronomo che non sappia servirsi dei suoi strumenti non sarebbe un astronomo, quantunque tra «strumenti astronomici» e astronomia i rapporti siano esteriori e meccanici. Un poeta può non saper leggere e scrivere: in un certo senso anche un pensatore può farsi leggere e scrivere tutto ciò che lo interessa degli altri ed egli ha pensato. Il leggere e scrivere si riferiscono alla memoria, sono un aiuto della memoria. La tecnica del pensiero non può essere paragonata a queste cose, per cui si possa dire che importa insegnare questa tecnica come importa insegnare a leggere e a scrivere senza che ciò interessi la filosofia come il leggere e scrivere non interessa il poeta come tale.
Q4 §19 Lo «strumento tecnico» nel «Saggio popolare». Ho già fatto qualche appunto su questo argomento precedentemente. Bisogna però vedere non solo le affermazioni più evidentemente errate (come quella dello strumento tecnico e la musica) ma la concezione generale dello «strumento tecnico» che è sbagliata nel suo complesso. Nel suo saggio sul Loria il Croce nota come sia appunto stato il fiero Achille a sostituire arbitrariamente all’espressione marxista «forze materiali di produzione» l’altra di «strumento tecnico» (a pp. 39‑40 del Materialismo storico ed economia marxistica c’è un confronto tra il brano della prefazione alla Critica dell’economia politica in cui si svolgono i principi del materialismo storico e un brano del libro di Loria La terra e il sistema sociale, prolusione – Verona, Drucker, 1892 – in cui la sostituzione è stata fatta in modo ridevole). Questo metodo loriano ha poi trovato il suo coronamento nell’articolo sull’Influenza sociale dell’aeroplano che mi pare incominci proprio con la ripetizione di queste parole generali sull’importanza fondamentale dello strumento tecnico.
Il Croce nota che Marx ha spesso messo in rilievo l’importanza storica delle invenzioni tecniche e invocato una storia della tecnica (Das Kapital, I, 143 n., 335‑6 n., non si dice di quale edizione ma dev’essere quella di Kautsky) ma non si è mai sognato di fare dello «strumento tecnico» la causa unica e suprema dello svolgimento economico. Il brano della Critica dell’economia politica contiene le espressioni «grado di sviluppo delle materiali forze di produzione», «modo di produzione della vita materiale», «condizioni economiche della produzione» e simili, le quali affermano bensì che lo svolgimento economico è determinato da condizioni materiali, ma non le riducono tutte alla sola «metamorfosi dello strumento tecnico». Il Croce aggiunge poi che il Marx non si è mai proposto questa indagine intorno alla causa ultima della vita economica. «La sua filosofia non era così a buon mercato. Non aveva “civettato” invano con la dialettica dello Hegel, per andar poi a cercare le “cause ultime”». (Tutta una serie di argomenti da studiare).
Q4 §20 Croce e Marx. Il valore delle ideologie (vedi precedenti). Nel volume Materialismo storico ed economia marxistica, a p. 93: «Simile concezione (diritto di natura, stato di natura ecc. del sec. XVIII) è colpita, in verità, solo di sbieco dalla critica del Marx, il quale, analizzando il concetto di natura, mostrava come esso fosse il complemento ideologico dello svolgimento storico della borghesia, un’arma potentissima di cui questa si valse contro i privilegi e le oppressioni, che mirava ad abbattere. Quel concetto potrebbe essere sorto come strumento per un fine pratico e occasionale ed essere nondimeno intrinsecamente vero» ecc.
Appare qui lo stesso pregiudizio contro il valore intrinseco delle ideologie o il pregiudizio che Marx negasse questo valore: in realtà l’intrinseco di questa ideologia era il suo carattere storico di utilità di classe, quindi molto reale e di molto valore (rivedere nel caso questo passo del Croce).
Q4 §21 La tecnica del pensare. «Gli strumenti mentali e morali di cui l’uomo dispone sono sempre i medesimi: l’osservazione, l’esperimento, il ragionamento induttivo e deduttivo, l’abilità manuale e la fantasia inventiva. A seconda del metodo con cui questi mezzi sono usati si ha un indirizzo empirico o scientifico dell’attività umana, con questa differenza fra i due: che il secondo è molto più rapido ed ha un rendimento molto maggiore» (Mario Camis, L’aeronautica e le scienze biologiche, in Nuova Antologia del 16 marzo 1928).
Ragionare semplicisticamente. Esempi di questo ragionamento che, secondo l’opinione comune, è il modo di ragionare della grande maggioranza degli uomini (il sentimento o l’interesse immediato turbano il processo logico). Esempio del ragionamento di Babbitt sulle organizzazioni sindacali: «Una buona associazione operaia è una buona cosa perché impedisce i sindacati rivoluzionari che distruggerebbero la proprietà. Però nessuno dovrebbe essere costretto a entrare in una associazione. Tutti gli agitatori laburisti che tentano di costringere degli individui a entrare in una associazione dovrebbero essere impiccati. In breve, sia detto tra noi, bisognerebbe non permettere nessuna associazione; e poiché questa è la maniera migliore di combatterle ogni uomo d’affari dovrebbe appartenere a una associazione di imprenditori e alla Camera di Commercio. L’unione fa la forza Perciò ogni solitario egoista che non fa parte della Camera di Commercio dovrebbe essere costretto ad affiliarsi». (Cfr Babbitt di Sinclair Lewis, ediz. Stock, 1930).
Il ragionamento di Don Ferrante è impeccabile formalmente, ma errato nelle premesse di fatto e nella presunzione del ragionatore, onde nasce il senso umoristico.
Il modo di ragionare di Iliic nella novella di Tolstoi: La morte di Iliic (Gli uomini sono mortali, Caio è uomo, Caio è mortale, ma io non sono Caio ecc.).
Q4 §22 Croce e Marx. Il valore delle ideologie. I fenomeni della attuale decomposizione del parlamentarismo possono dare un esempio per la discussione sul valore delle soprastrutture e della morfologia sociale (quistione della crisi d’autorità ecc.: vedi sparse).
Q4 §23 Il «Saggio popolare» e le leggi sociologiche. Le così dette leggi sociologiche, assunte come causa, non hanno invece nessuna portata causativa: esse non sono che un duplicato del fatto stesso osservato. Si descrive il fatto o una serie di fatti, si estrae con un processo di generalizzazione astratta un rapporto di somiglianza, lo si chiama legge e poi si assume questa così detta legge alla funzione di causa. Ma in realtà cosa si è trovato di nuovo? Assolutamente nulla: si tratta solo di dare nomi nuovi a cose vecchie, ma il nome non è una causa.
Q4 §24 La restaurazione e lo storicismo. Il periodo della Restaurazione elabora lo «storicismo» secondo due linee di sviluppo: nella realtà effettuale e ideologicamente. Nella realtà effettuale in quanto «conserva» una gran parte delle conquiste del periodo precedente, cioè riconosce il predominio della grande borghesia e ne attua il programma «civile»; ideologicamente in quanto, per questa stessa ragione, deve sviluppare una sua filosofia politica, che giustifichi la sua posizione, criticando il programma «piccolo borghese» della rivoluzione, cioè quell’insieme di «strumenti pratici» attraverso i quali era stato possibile ottenere l’unità popolare intorno alla borghesia stessa (cioè quell’insieme di principii ideologici che formano la parte più caratteristica del razionalismo politico francese e dei così detti principii dell’89). Alla gerarchia politico‑sociale per cui gli intellettuali piccolo borghesi sono all’apice del governo popolare, si sostituisce un’altra gerarchia in cui il governo è in mano all’aristocrazia e agli intellettuali assimilati: al consenso diretto delle classi popolari si sostituisce il consenso indiretto, ossia la passività politica (suffragio universale ‑ suffragio censitario). La lotta ideologica su questo terreno genera la concezione storicistica: i teorici dell’ancien régime sono ben piazzati per vedere il carattere astratto, antistorico delle ideologie piccolo‑borghesi; ma essi generano il loro contrario, uno storicismo «popolare» che critica e l’ideologia piccolo‑borghese e l’ideologia «aristocratica», spiegando ambedue e spiegando «se stesso» ciò che rappresenta il massimo «storicismo», la liberazione totale da ogni «ideologismo», la reale conquista del mondo storico, cioè l’inizio di una nuova civiltà originale. Bisogna studiare tutte queste correnti di pensiero nelle loro concrete manifestazioni: 1) come corrente filosofica, 2) come corrente storiografica, 3) come corrente politica. Nella corrente filosofica bisogna intendere non solo i filosofi sistematici, ma tutti gli scrittori che per una o per altra branca delle scienze affermano lo «storicismo» esplicitamente o implicitamente: oltre che nella storiologia, nell’economia, nella morale, nella scienza della politica ecc. Nella corrente storiografica, gli storici che nei loro studi concreti sono «storicisti». Nella corrente politica (certamente la più complessa, perché tutti i grandi politici in atto sono stati implicitamente «storicisti» anche quando hanno giustificato le loro imprese secondo le ideologie diffuse nel loro tempo) tutte le affermazioni di «storicismo» e il loro contraddirsi con le ideologie diffuse e i tentativi di spiegarle con queste.
Q4 §25 sul «Saggio popolare». Cosa intende per «materia» il Saggio popolare? In un saggio popolare ancor più che in un libro per i «dotti», occorre definire con esattezza non solo i concetti fondamentali, ma tutta la terminologia, per evitare le cause di errore date dalle accezioni popolari e volgari delle parole. È evidente che per il materialismo storico, la «materia» non deve essere intesa né nel suo significato quale risulta dalle scienze naturali (fisica, chimica, meccanica ecc.: vedere questi significati e loro sviluppo storico) né nel suo significato quale risulta dalle diverse metafisiche materialistiche. Le proprietà fisiche (chimiche, meccaniche ecc.) della materia sono considerate, certamente, ma solo in quanto diventano «elemento economico» della produzione. La materia non è quindi considerata come tale, ma come socialmente e storicamente organizzata per la produzione, come rapporto umano. Il materialismo storico non studia una macchina per stabilirne la struttura fisico‑chimico‑meccanica dei suo componenti naturali, ma in quanto è oggetto di produzione e di proprietà, in quanto in essa è cristallizzato un rapporto sociale e questo corrisponde a un determinato periodo storico. L’insieme delle forze materiali di produzione è l’elemento meno variabile nello sviluppo storico, è quello che volta per volta può essere misurato con esattezza matematica, che può dar luogo pertanto a una scienza sperimentale della storia, nel senso ben preciso in cui si può parlare di «sperimentale» nella storia. La variabilità dell’insieme delle forze materiali di produzione è anch’essa misurabile e si può stabilire con una certa precisione quando il suo sviluppo da quantitativo diventa qualitativo. L’insieme delle forze materiali di produzione è nello stesso tempo «tutta la storia passata cristallizzata» e la base della storia presente e avvenire, è un documento e una forza attiva attuale. Ma il concetto di attività di queste forze materiali non può essere confuso con quello di attività nel senso fisico o metafisico. L’elettricità è storicamente attiva, non come pura forza naturale, ma come elemento di produzione dominato dall’uomo e incorporato nell’insieme delle forze materiali di produzione, oggetto di proprietà. Come forza naturale l’elettricità esisteva anche prima della sua riduzione a forza di produzione ma non operava nella storia, non era elemento storico, della storia umana (non della storia naturale e quindi in misura determinata anche della storia umana, in quanto la storia umana è una parte della storia naturale).
Queste osservazioni servono a far capire come l’elemento causale preso dalle scienze naturali per spiegare la storia sia un ritorno alla vecchia storiografia ideologica (idealistica o materialistica): quando si dice, come nel Saggio popolare, che la nuova teoria atomica distrugge l’individualismo (le robinsonate), si cade appunto in questa deviazione. Cosa significa infatti questo accostamento della politica alla scienza naturale? Che la scienza spiega la storia? Che le leggi di una determinata scienza naturale sono identiche alle leggi della storia? Oppure significa che, essendo tutto il complesso delle idee scientifiche una unità, si può ridurre una scienza all’altra? Ma in questo caso perché questo determinato elemento della fisica e non un altro deve essere quello riducibile all’unità della concezione del mondo?
Ma in realtà, questo è solo uno dei tanti elementi del Saggio popolare che dimostrano la superficiale impostazione del problema del materialismo storico, il non aver saputo dare a questa concezione la sua autonomia scientifica e la posizione che le spetta di fronte alle scienze naturali o, peggio a quel vago concetto di «scienza» in generale che è proprio della concezione volgare del popolo. La teoria atomistica moderna è una teoria «definitiva», stabilita una volta per sempre? O non è anch’essa semplicemente una ipotesi scientifica che potrà essere superata, cioè assorbita in una teoria più vasta e comprensiva? Perché dunque il riferimento a questa teoria dovrebbe essere definitivo e porre fine alle quistioni dell’individualismo e delle robinsonate? (A parte il fatto che le robinsonate sono puri schemi pratici costruiti per indicare una tendenza o per una dimostrazione per assurdo). Ma ci sono altre quistioni: se la teoria dell’atomo fosse quello che il Saggio popolare pretende, dato che la società ha mutato durante il suo sviluppo, a quale periodo si riferisce la spiegazione legata a questa teoria? A tutti i periodi indistintamente? Ma allora la storia sarebbe sempre stata uguale e gli uomini avrebbero sempre avuto uno stesso raggruppamento. Oppure questa teoria giustifica una legge di tendenza? Ma cosa significherebbe ciò? Per ciò che riguarda il suo oggetto, gli atomi, la teoria degli atomi è buona per tutti i tempi e per tutti i luoghi, ma nella storia è uguale per tutti i tempi e per tutti i luoghi una teoria estratta da quella degli atomi? O non si potrebbe pensare invece il contrario, che cioè la teoria degli atomi sia stata essa influenzata dalla storia umana, che cioè si tratti di una superstruttura?
Q4 §26 Il «Saggio popolare» e la «causa ultima». Errata interpretazione del materialismo storico che viene dogmatizzato e la cui ricerca viene identificata con la ricerca della causa ultima o unica ecc. Storia di questo problema nello sviluppo della cultura: il problema delle cause ultime è appunto vanificato dalla dialettica. Contro questo dogmatismo aveva posto in guardia Engels in alcuni scritti dei suoi ultimi anni (cfr le due lettere di Engels sul materialismo storico tradotte in italiano).
Q4 §27 Teleologia. Dalle Xenie di Goethe: «Il teleologo. ‑ Il Creatore buono adoriamo del mondo, che, quando ‑ il sughero creò, inventò insieme il tappo» (trad. di B. Croce).
Il Croce – nel suo volume, Goethe, p. 262 – annota: «Contro il finalismo estrinseco, generalmente accolto nel secolo decimottavo, e che il Kant aveva di recente criticato surrogandolo con un più profondo concetto della finalità» .
Q4 §28 Antonino Lovecchio, Filosofia della prassi e filosofia dello spirito, Palmi, Zappone, 1928, pp. 112, L. 7. Dalla recensione fattane nell’ics da Giuseppe Tarozzi (giugno 1928) traggo queste informazioni: il libro consta di due parti, una sul materialismo storico, l’altra sul pensiero di B. Croce, che sono connesse tra loro dato il contributo del Croce alla critica del marxismo: la parte conclusiva è intitolata «Marx e Croce». Discute le tesi sul marxismo specialmente di Antonio Labriola, Croce, Gentile, Rodolfo Mondolfo, Adelchi Baratono, Alfredo Poggi. È un crociano. Il libretto è un abbozzo, ricco di molti e non lievi difetti di forma. Vedere di procurarselo.
Q4 §29 Machiavelli. In una recensione di Giuseppe Tarozzi del 1° volume sulla Costituzione russa di Mario Sertoli (Firenze, Le Monnier, 1928, in 8°, pp. 435, L. 50) trovo citato un libro del Vorländer Von Machiavelli bis Lenin, senz’altra indicazione. Non so chi sia il Vorländer e che valore abbia il suo libro (cfr la rassegna sul Machiavelli pubblicata nel 1929 dai «Nuovi Studi»).
Q4 §30 Il libro del De Man. Recensione di Paolo Milano nell’ics del settembre 1929. Distingue nell’opera del De Man due apporti: 1° la massa di osservazioni psicologiche sulle fasi di sviluppo, le deviazioni, le reazioni contradditorie del movimento operaio e socialistico negli anni recenti, una sagace collezione di dati e documenti sociali, insomma; l’analisi dell’evoluzione riformistica delle masse operaie da un lato e dei gruppi padronali dall’altro, secondo il Milano, è ricca e soddisfacente; 2° e la discussione teorica da cui dovrebbe risultare il «superamento del marxismo» (esattamente per il De Man il «ripudio» del marxismo). Per il De Man la concezione del materialismo storico, nel suo fondo meccanicistica e razionalistica, è superata dalle indagini più recenti, che hanno assegnato alla concatenazione razionale soltanto un posto e neppure il più ragguardevole, nella serie dei moventi degli atti umani. Alla reazione meccanica (!) della dialettica marxistica la scienza moderna (!) ha vittoriosamente (!) sostituito una reazione psicologica, la cui intensità non è proporzionale alla causa agente. Per il Milano: «È ormai chiaro che qualunque critica alla concezione marxistica della Storia porta automaticamente ad impostare il contrasto tra interpretazione materialistica e interpretazione idealistica del mondo e ad assegnare in sostanza una priorità all’essere o al conoscere». Il De Man è sfuggito a questo problema o meglio si è fermato a mezza strada, dichiarandosi per una concezione dei fatti umani come generati da «moventi psicologici» e da «complessi» sociali, cioè il De Man è influenzato dalla psicologia freudiana, soprattutto attraverso le applicazioni alle dottrine sociali, tentatane dall’Adler (Max Adler? in quali scritti?). Osserva il Milano: «Si sa d’altronde che labile terreno sia la psicologia nelle indagini storiche: tanto più equivoco in ricerche del tipo di questa, di cui si parla. I fenomeni psicologici infatti si prestano ad essere volta a volta indicati come tendenze volitive o come fatti materiali: tra queste opposte interpretazioni oscilla anche il De Man, ed evita quindi una presa di posizione sul punto cruciale del contrasto. Davvero psicologica piuttosto un lettore accorto giudicherà che sia l’origine dell’opera del De Man: nata da una crisi di sfiducia e dalla costatazione dell’insufficienza delle dottrine marxistiche integrali a spiegare i fenomeni, che all’osservazione dell’autore si erano offerti durante lo spicciolo lavoro politico. Nonostante le ottime intenzioni, il tenore del libro non supera questa documentata e mossa constatazione né riesce ad una confutazione teorica sul piano adeguato e col vigore necessario». E conclude: «La riprova ne dà l’ultimo capitolo, in cui la trattazione vorrebbe conchiudersi col raccomandare un pratico contegno politico. Il De Man, egualmente evitando i due estremi di una tattica di presa del potere e di un apostolato esclusivamente idealistico, consiglia una generica educazione delle masse e con ciò si pone fuori di quel socialismo, di cui pure per tutta l’opera si era dichiarato fedele e illuminato seguace». La recensione è notevole e acuta, dato il carattere dello scrittore, piuttosto letterato, per quanto mi consta.
Q4 §31 Di Giorgio Sorel vedi p. 78. La «Nuova Antologia» del 1° dicembre 1928 pubblica un lungo articolo (da p. 289 a p. 307) intitolandolo Ultime meditazioni (Scritto postumo inedito). Si tratta di un saggio, scritto nel 1920, che doveva servire di prefazione ad una raccolta di articoli pubblicati dal 1910 al 1920 in giornali italiani e che ancora non è stata pubblicata (nel 1929 sembrava imminente la pubblicazione presso la Casa Ed. «Corbaccio» di Milano di questa raccolta, a cura di Mario Missiroli, ma fino ad oggi – settembre 1930 – niente se ne è fatto e probabilmente non se ne farà più niente, perché in Italia la rinomanza del Sorel – fondata su una serie di equivoci più o meno disinteressati – è molto scaduta ed esiste già una letteratura antisorelliana).
Il saggio riassume tutti i pregi e tutti i difetti del Sorel: è tortuoso, saltellante, incoerente, superficiale, profondo ecc.: ma dà o suggerisce punti di vista originali, trova nessi impensati, obbliga a pensare e ad approfondire. Qual è il significato esatto della conclusione del saggio del Sorel? Esso appare chiaramente da tutto l’articolo e fa ridere la noticina introduttiva della Nuova Antologia che conclude con queste parole: «... uno scrittore, che assegnò all’Italia del dopo guerra il primato intellettuale e politico in Europa». A quale Italia? Potrebbe dire qualcosa in proposito esplicitamente il Missiroli o si potrebbe trovare qualcosa nelle lettere private del Sorel a Missiroli (che dovrebbero essere pubblicate, secondo gli annunzi dati, ma non lo saranno o lo saranno non integre).
Toglierò da questo saggio del Sorel solo qualche spunto, notandone, pro memoria, la grande importanza per comprendere il Sorel e il suo atteggiamento nel dopo guerra. (Mi pare che non si può comprendere il Sorel come figura di «intellettuale rivoluzionario» se non si pensa alla Francia di dopo il 70: il 70‑71 videro in Francia due terribili disfatte: quella nazionale, che pesò sugli intellettuali borghesi e sugli uomini politici, creando dei tipi come Clemenceau, quintessenza del giacobinismo francese, e la disfatta del popolo parigino della Comune, che pesò sugli intellettuali rivoluzionari e creò l’antigiacobino Sorel: il curioso antigiacobinismo del Sorel, settario, meschino, antistorico è un portato del salasso popolare del 71, è anti‑thiersismo. Il 71 distrusse il cordone ombelicale tra il nuovo popolo e la tradizione del 93: Sorel avrebbe voluto essere il rappresentante di questa tendenza, ma non ci riuscì ecc.).
1°. Bernstein ha sostenuto (Socialismo teorico e socialdemocrazia pratica, trad. franc., pp. 53‑54) che un rispetto superstizioso per la dialettica hegeliana ha condotto Marx a preferire alle costruzioni degli utopisti tesi rivoluzionarie assai prossime a quelle della tradizione giacobina babeuvista o blanquista: non si comprende allora, però, come mai nel Manifesto non si parli della letteratura babeuvista che Marx indubbiamente conosceva. L’Andler è del parere (vol. II del Manifesto, p. 191) che Marx faccia un’allusione piena di disprezzo per la congiura degli Uguali, quando parla dell’ascetismo universale e grossolano che si riscontra nelle più antiche rivendicazioni proletarie dopo la Rivoluzione francese.
2°. Pare che Marx non si sia mai potuto liberare completamente dall’idea hegeliana della storia, secondo la quale diverse ere si succedono nell’umanità, seguendo l’ordine di sviluppo dello spirito, che cerca di raggiungere la perfetta realizzazione della ragione universale. Alla dottrina del suo maestro egli aggiunge quella della lotta di classe: sebbene gli uomini non conoscano che le guerre sociali, nelle quali sono spinti dai loro antagonismi economici, essi cooperano inconsciamente a un’opera che il solo metafisico suppone. Questa ipotesi del Sorel è molto azzardata ed egli non la giustifica: ma evidentemente gli sta molto a cuore, sia per la sua esaltazione della Russia, sia per la sua previsione della funzione civile dell’Italia (è da segnalare, a proposito di questo avvicinamento Russia‑Italia, l’atteggiamento di D’Annunzio in un tempo quasi coincidente: la pubblicazione – ma mi pare che non si tratti di una pubblicazione ma solo di manoscritto fatto circolare – è proprio della primavera del 1920: conobbe il Sorel questo atteggiamento del D’Annunzio? Il Missiroli solo potrebbe dare una risposta): secondo il Sorel, «Marx aveva una così grande fiducia nella subordinazione della storia alle leggi dello sviluppo dello spirito, che ha insegnato che, dopo la caduta del capitalismo, l’evoluzione verso il comunismo perfetto si produrrebbe, senza essere provocata da una lotta di classi (Lettera sul programma di Gotha). Sembra che Marx abbia creduto, come Hegel, che i diversi momenti dell’evoluzione si manifestino in paesi diversi, ciascuno dei quali è specialmente adatto a ciascuno di quei momenti. (Vedere la prefazione del 21 gennaio 1882 a una traduzione russa del Manifesto). Egli non ha mai fatta un’esposizione esplicita della sua dottrina; così molti marxisti sono persuasi che tutte le fasi dell’evoluzione capitalista devono prodursi nella stessa forma presso tutti i popoli moderni. Questi marxisti sono troppo poco hegeliani».
3°. La quistione prima o dopo il 48? Il Sorel non intende l’importanza di questo problema e accenna al «curioso» cambiamento che si produsse nello spirito di Marx alla fine del 1850: nel marzo egli aveva firmato un manifesto dei rivoluzionari, che sostituisce il termine «comunisti» adoprato nel testo di Sorel citato da G. rifugiati a Londra, nel quale era tracciato il programma di una agitazione rivoluzionaria da intraprendersi in vista di un nuovo prossimo sconvolgimento sociale, che Bernstein trova degno del primo venuto dei rivoluzionari da club (Socialismo teorico ecc., p. 51), mentre poi egli si convinse che la rivoluzione nata dalla crisi del 47, finiva con quella crisi. Ora gli anni dopo il 48 furono di una prosperità senza eguale: mancava dunque per la rivoluzione progettata la prima delle condizioni necessarie, un proletariato ridotto all’ozio e disposto a combattere (cfr Andler, Manifesto, I, pp. 55‑56; ma di quale edizione?) Così sarebbe nata nei marxisti la concezione della miseria crescente, che avrebbe dovuto servire a spaventare gli operai e indurli a combattere in vista di un peggioramento probabile anche in una situazione prospera (– spiegazione infantile e contraddetta dai fatti anche se è vero che della teoria della miseria crescente si fece uno strumento di questo genere: ma arbitrariamente? non mi pare).
4°. Su Proudhon: «Proudhon apparteneva a quella parte della borghesia che era più vicina al proletariato: per questo i marxisti hanno potuto accusarlo di essere un borghese, mentre gli scrittori più sagaci lo considerano come un ammirevole prototipo dei nostri (francesi) contadini e dei nostri artigiani (cfr Daniele Halévy nei “Débats” del 3 gennaio 1913)». Mi pare si possa accettare. Da questo punto di vista Sorel spiega anche il «giurismo» di Proudhon: «In ragione della modicità delle loro risorse, i contadini, i proprietari delle più piccole fabbriche, i piccoli commercianti sono obbligati a difendere aspramente i loro interessi davanti ai tribunali. Un socialismo che si proponga di proteggere i ceti posti sui gradini più bassi dell’economia, è naturalmente destinato a dare una grande importanza alla sicurezza del diritto; e una tendenza siffatta è particolarmente forte presso quegli scrittori che, come Proudhon, hanno la testa piena di ricordi della vita campagnola». E dà ancora altri spunti per rinforzare questa analisi. Lo strano è che il Sorel, avendo una simile convinzione della tendenza sociale del Proudhon, lo esalti e lo proponga come modello o fonte di principi per il proletariato moderno. Data questa origine delle tendenze giuridiche del Proudhon, perché gli operai dovrebbero occuparsi della quistione? Si ha, a questo punto, l’impressione che il saggio del Sorel sia mutilato e che manchi precisamente una parte, riguardante il movimento italiano delle fabbriche: dato il pubblicato, è possibile immaginare che Sorel abbia trovato nel movimento delle commissioni interne intorno ai regolamenti di fabbrica e in generale intorno alla «legislazione» interna di fabbrica, che dipende unicamente dalla volontà sovrana e incontrollata dell’imprenditore, il corrispettivo della esigenza che Proudhon rifletteva per i contadini. Il saggio, così com’è pubblicato, è incoerente e incompleto; la sua conclusione riguardante l’Italia («Molte ragioni mi avevano condotto, da gran tempo, a supporre, che quello che un hegeliano chiamerebbe il Weltgeist, spetta oggi all’Italia. Grazie all’Italia la luce dei tempi nuovi non si spegnerà») non ha nessuna dimostrazione, sia pure per accenni, al modo di Sorel. Nell’ultima nota c’è un accenno ai consigli degli operai e dei contadini in Germania, «che io consideravo conformi allo spirito proudhoniano» e un rimando ai Materiali di una teoria del proletariato (pp. 164 e 394). Sarebbe interessante sapere se veramente il saggio è stato mutilato e da chi: se direttamente dal Missiroli o da altri.
Gli scritti del Sorel del dopoguerra hanno una particolare importanza per la storia della cultura occidentale: il Sorel ascrive al pensiero di Proudhon tutta una serie di istituzioni e di atteggiamenti ideologici di questo periodo. Perché il Sorel ha potuto far questo? È assolutamente arbitrario questo suo modo di giudicare? E data la acutezza del Sorel come storico delle idee, che esclude, almeno in grande parte, una tale arbitrarietà, da quali esperienze culturali è partito il Sorel, e non è tutto ciò molto importante per un giudizio complessivo dell’opera soreliana? Da questo punto di vista occorre accostare al Sorel il De Man, ma quale differenza fra i due! Il De Man si imbroglia assurdamente nella storia delle idee, e si lascia abbagliare dalle superficiali apparenze: se un rimprovero si può fare invece al Sorel è proprio in senso contrario, di analizzare troppo minutamente il sostanziale delle idee e di perdere il senso delle proporzioni. Il Sorel trova che i «fatti» del dopoguerra sono di carattere proudhoniano; il Croce trova che il De Man segna un ritorno al Proudhon, ma il De Man tipicamente non capisce i «fatti» del dopoguerra indicati dal Sorel. Per il Sorel è «proudhoniano» ciò che è «spontanea» creazione del popolo, è «marxista ortodosso» ciò che è burocratico, perché egli ha dinanzi sempre, ossessionante, l’esempio della Germania da una parte e del giacobinismo letterario dall’altra, il fenomeno del centralismo-burocrazia. Il De Man in realtà rimane un esemplare pedantesco della burocrazia laburista belga: tutto è pedantesco in lui, anche l’entusiasmo: crede di aver fatto delle scoperte grandiose, perché ripete come formula scientifica la descrizione di fatti empirici: caso tipico di positivismo che raddoppia il fatto, descrivendolo e formulandolo sinteticamente e poi fa della formulazione del fatto la legge del fatto. Per il Sorel, come appare da questo saggio, ciò che conta in Proudhon, è l’orientamento psicologico, non già il concreto atteggiamento pratico, sul quale in verità non si pronunzia esplicitamente: questo orientamento psicologico consiste nel «confondersi» coi sentimenti popolari che concretamente pullulano dalla situazione reale fatta al popolo dalla disposizione del mondo economico, nel «calarsi» in essi per comprenderli ed esprimerli in forma giuridica, razionale; questa o quella interpretazione, o anche l’insieme di esse possono essere errate, o cervellotiche o addirittura ridicole, ma l’atteggiamento generale è il più produttivo di conseguenze buone. L’atteggiamento del De Man non è questo: è invece quello «scientifista»: egli si china verso il popolo non per comprenderlo disinteressatamente, ma per «teorizzarne» i sentimenti, per costruirvi degli schemi pseudo‑scientifici, non per mettersi all’unisono ed estrarre principi giuridico‑educativi (leggi «scientifiche» in De Man – espressioni «giuridiche» in Proudhon). cfr p. 78.
Q4 §32 Il «Saggio popolare». Nel Saggio popolare si dice (e scrivo «si dice» perché l’affermazione non è giustificata, non è valutata, non esprime un concetto fecondo, ma è casuale, senza nessi con antecedenti e conseguenti) che ogni società è qualcosa di più che la mera somma dei suoi componenti. L’osservazione avrebbe dovuto essere collegata con l’altra di Engels che la quantità diventa qualità e avrebbe dovuto dar luogo a una analisi concreta di un aspetto caratteristico del materialismo storico. Se ogni aggregato sociale, infatti, è qualcosa di più che la somma dei suoi componenti, ciò significa che la legge che spiega gli aggregati sociali non è una «legge fisica», intesa nel senso stretto della parola: nella fisica non si esce dal dominio della quantità altro che per metafora. Nel materialismo storico la qualità è però strettamente connessa alla quantità e anzi in questa connessione è la sua parte originale e feconda. L’idealismo ipostatizza questo «qualcosa», ne fa un ente a sé, lo spirito, come la religione ne aveva fatto la divinità. Ma se è «ipostasi» quella della religione e dell’idealismo, cioè astrazione arbitraria non procedimento di distinzione analitica praticamente comodo per ragioni pedagogiche, è anche «ipostasi» quella del materialismo volgare che «divinizza» la materia ecc. Cfr questo modo di vedere nella concezione dello Stato così come è esposta dagli idealisti attuali; lo Stato finisce con l’essere proprio «questo qualcosa» di superiore agli individui: un uomo di buon senso, chiamato alla leva, per es. potrebbe rispondere che prendano di lui la parte di «qualcosa» con cui contribuisce a creare il «totale qualcosa» che è lo Stato, e gli lascino la persona fisica concreta e materiale. Ricordare la novella del Saladino che dirime la vertenza tra il rosticciere che vuole pagato l’uso del fumo aromatico delle sue vivande e il mendicante che non vuol pagare: il Saladino fa suonare una moneta e dice al rosticciere di intascare il suono così come il mendicante ha mangiato il fumo.
Q4 §33 Passaggio dal sapere al comprendere al sentire e viceversa dal sentire al comprendere al sapere. L’elemento popolare «sente», ma non comprende né sa; l’elemento intellettuale «sa» ma non comprende e specialmente non sente. I due estremi sono dunque la pedanteria e il filisteismo da una parte e la passione cieca e il settarismo dall’altra. Non che il pedante non possa essere appassionato, tutt’altro: la pedanteria appassionata è altrettanto ridicola e pericolosa che il settarismo o la demagogia appassionata. L’errore dell’intellettuale consiste nel credere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed essere appassionato, cioè che l’intellettuale possa esser tale se distinto e staccato dal popolo: non si fa storia‑politica senza passione, cioè senza essere sentimentalmente uniti al popolo, cioè senza sentire le passioni elementari del popolo, comprendendole, cioè spiegandole e giustificandole nella determinata situazione storica e collegandole dialetticamente alle leggi della storia, cioè a una superiore concezione del mondo, scientificamente elaborata, il «sapere». Se l’intellettuale non comprende e non sente, i suoi rapporti col popolo‑massa sono o si riducono a puramente burocratici, formali: gli intellettuali diventano una casta o un sacerdozio (centralismo organico): se il rapporto tra intellettuali e popolo‑massa, tra dirigenti e diretti, tra governanti e governati, è dato da una adesione organica in cui il sentimento passione diventa comprensione e quindi sapere (non meccanicamente, ma in modo vivente), allora solo il rapporto è di rappresentanza, e avviene lo scambio di elementi individuali tra governati e governanti, tra diretti e dirigenti, cioè si realizza la vita d’insieme che sola è la forza sociale, si crea il «blocco storico». Il De Man studia i sentimenti popolari, non «con‑sente» con essi per guidarli e condurli a una catarsi di civiltà moderna: la sua posizione è quella dello studioso di folklore che ha continuamente paura che la modernità gli distrugga l’oggetto della sua scienza. D’altronde c’è nel suo libro il riflesso pedantesco di una esigenza reale: che i sentimenti popolari siano conosciuti, non ritenuti qualcosa di trascurabile e di inerte nel movimento storico.
Q4 §34 A proposito del nome di «materialismo storico». Nel «Marzocco» del 2 ottobre 1927, nel capitolo XI dei Bonaparte a Roma di Diego Angeli dedicato alla principessa Carlotta Napoleone (figlia di Re Giuseppe e moglie di Napoleone Luigi, il fratello di Napoleone III, morto nell’insurrezione di Romagna del 31) è riportata una lettera di Pietro Giordani alla principessa Carlotta in cui il Giordani scrive i suoi ricordi personali su Napoleone I. Napoleone a Bologna si era recato nel 1805 a visitare l’«Istituto» (Accademia di Bologna) e conversò a lungo con quegli scienziati (fra cui Volta). Fra l’altro disse: «... Io credo che quando nelle scienze si trova qualche cosa veramente nuova, bisogna appropriargli un vocabolo affatto nuovo, acciocché l’idea rimanga precisa e distinta. Se date nuovo significato a un vecchio vocabolo, per quanto professiate che l’antica idea attaccata a quella parola non ha niente di comune coll’idea attribuitagli nuovamente, le menti umane non possono mai ritenersi affatto che non concepiscano qualche somiglianza e connessione fra l’antica e la nuova idea; e ciò imbroglia la scienza e produce poi inutili dispute». Secondo l’Angeli la lettera del Giordani, senza data, si può ritenere che risalga alla primavera del 1831 (quindi è da pensare che il Giordani ricordasse il contenuto della conversazione con Napoleone, ma non la forma esatta). Vedere se il Giordani espone nei suoi libri sulla lingua suoi concetti su questo argomento.
Q4 §35 Sull’origine del concetto di «ideologia». «Ideologia» è un aspetto del «sensismo» ossia del materialismo francese del XVIII secolo. Significava «scienza delle idee» e, poiché l’analisi era il solo metodo riconosciuto e applicato dalla scienza, «analisi delle idee», cioè ancora «ricerca della origine delle idee». Le idee devono essere scomposte nei loro «elementi» originari e questi non potevano essere altro che le «sensazioni»: le idee derivano dalle sensazioni. Ma il sensismo poteva associarsi senza troppa difficoltà colla fede più alta nella potenza dello spirito e nei suoi «destini immortali», e così avviene che il Manzoni, anche dopo la sua conversione o ritorno al cattolicismo, anche quando scriveva gli Inni Sacri, mantenne la sua adesione di massima al sensismo finché non conobbe la filosofia del Rosmini.
Come propagatore letterario dell’ideologia Destutt de Tracy (1754‑1836) dei più illustri e popolari per la facilità della sua esposizione; Cabanis (oltre Condillac, Helvétius che sono più strettamente filosofi) col suo Rapports du Physique et du Moral. Legame tra cattolicismo e Ideologia: Manzoni‑Cabanis‑Bourget‑Taine (Taine è caposcuola per Maurras e altri di indirizzo cattolico), «romanzo psicologico» (Stendhal e de Tracy ecc.). Di Destutt de Tracy Eléments d’Idéologie (Parigi, 1817‑18), più completi nella traduzione italiana Elementi di Ideologia del conte Destutt de Tracy, tradotti dal Compagnoni, Milano, Stamperia di Giambattista Sonzogno, 1819.
Come «ideologia» da «scienza delle idee», da studio sull’origine delle idee, è passata a significare un «sistema di idee»? Logicamente il processo è facile da comprendere, ma come è avvenuto storicamente?
Vedere se il De Man (e Freud) non sia l’ultimo degli «ideologi» e come pertanto sia ancora più strano l’«entusiasmo» per lui di Croce e dei crociani, se non ci fosse una giustificazione «politica». Vedere come il Saggio popolare sia rimasto ancora impigliato nell’Ideologia, mentre il Materialismo storico ne rappresenta un netto superamento e storicamente si contrapponga appunto all’Ideologia. Del resto, lo stesso significato che Marx ha dato al termine «ideologia» contiene implicito un giudizio di valore ed esclude che, per Marx, l’origine delle idee fosse da ricercare nelle sensazioni e quindi, in ultima analisi, nella fisiologia: questa stessa «ideologia» è da analizzare storicamente, come soprastruttura.
Q4 §36 Criteri di giudizio «letterario». Un lavoro può essere pregevole: 1°) perché espone una nuova scoperta che fa progredire una determinata attività scientifica. Ma non solo l’«originalità» assoluta è un pregio. Può avvenire inoltre: 2°) che fatti ed argomenti già noti siano scelti e disposti secondo un criterio più adeguato di quelli precedenti. La struttura (l’ordine) di un lavoro scientifico può essere «originale». 3°) I fatti e gli argomenti già noti possono aver dato luogo a «nuove» considerazioni, subordinate ma tuttavia importanti.
Ancora, il giudizio deve adeguarsi ai fini che un’opera si propone: di creazione e riorganizzazione scientifica, o di divulgazione dei fatti ed argomenti noti in un determinato gruppo culturale, di un determinato livello culturale ecc.: esiste una «tecnica» della divulgazione e se non esiste occorre crearla; la divulgazione è un fatto strettamente pratico, in cui bisogna giudicare la conformità al fine dei mezzi (tecnica nel senso più generale) adoperati.
Ma anche la ricerca e il giudizio del fatto o dell’argomentazione «originale», ossia dell’«originalità» dei fatti (concetti ‑ nessi di pensiero) e degli argomenti è molto difficile e complicata e domanda le più ampie cognizioni storiche. Cfr il capitolo del Materialismo storico di Croce dedicato a Loria. Dice il Croce: «Altro è metter fuori un’osservazione incidentale, che si lascia poi cadere senza svolgerla, ed altro stabilire un principio di cui si sono scorte le feconde conseguenze; altro enunciare un pensiero generico ed astratto ed altro pensarlo realmente e in concreto; altro, finalmente, inventare, ed altro ripetere di seconda o di terza mano».
Si presentano i casi estremi: chi non trova che ci sia mai nulla di nuovo sotto il sole e che tutto il mondo è paese anche nel mondo delle idee e chi invece trova «originalità» a tutto spiano e pretende sia originale una rimasticatura per via della nuova saliva.
Q4 §37 Idealismo‑positivismo. «Obbiettività» della conoscenza. Per i cattolici: «... tutta la teoria idealista riposa sulla negazione dell’obbiettività di ogni nostra conoscenza e sul monismo idealista dello “Spirito” (equivalente, in quanto monismo, a quello positivista della “Materia”) per cui il fondamento stesso della religione, Dio, non esiste obbiettivamente fuori di noi, ma è una creazione dell’intelletto. Pertanto l’idealismo, non meno del materialismo, è radicalmente contrario alla religione» (padre Mario Barbera, nella «Civiltà Cattolica» del 1°‑VI‑I929).
Per la quistione della «obbiettività» della conoscenza secondo il materialismo storico, il punto di partenza deve essere l’affermazione di Marx(nell’introduzione alla Critica dell’economia politica, brano famoso sul materialismo storico) che «gli uomini diventano consapevoli (di questo conflitto) nel terreno ideologico» delle forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche. Ma questa consapevolezza è solo limitata al conflitto tra le forze materiali di produzione e i rapporti di produzione – come materialmente dice il testo marxista – o si riferisce a ogni consapevolezza, cioè a ogni conoscenza? Questo è il problema: che può essere risolto con tutto l’insieme della dottrina filosofica del valore delle superstrutture ideologiche. Come dovrà essere concepito un «monismo» in queste condizioni? Né il monismo materialista né quello idealista, né «Materia» né «Spirito» evidentemente, ma «materialismo storico», cioè attività dell’uomo (storia) in concreto, cioè applicata a una certa «materia» organizzata (forze materiali di produzione), alla «natura» trasformata dall’uomo. Filosofia dell’atto (praxis), ma non dell’«atto puro», ma proprio dell’atto «impuro», cioè reale nel senso profano della parola.
Q4 §38 Rapporti tra struttura e superstrutture. Questo problema mi pare il problema cruciale del materialismo storico. Elementi per orientarsi: 1°) il principio che «nessuna società si pone dei compiti per la cui soluzione non esistano già le condizioni necessarie e sufficienti» o esse non siano in corso di sviluppo e di apparizione, e 2°) che «nessuna società cade se prima non ha svolto tutte le forme di vita che sono implicite nei suoi rapporti» (vedere l’esatta enunciazione di questi principii). Da questi principii si possono trarre alcuni canoni di metodologia storica. Nello studio di una struttura occorre distinguere ciò che è permanente da ciò che è occasionale. Ciò che è occasionale dà luogo alla critica politica, ciò che è permanente dà luogo alla critica storico‑sociale; ciò che è occasionale serve a giudicare i gruppi e le personalità politiche, ciò che è permanente a giudicare i grandi raggruppamenti sociali. Nello studiare un periodo storico appare la grande importanza di questa distinzione: esiste una crisi, che si prolunga talvolta per decine di anni. Ciò significa che nella struttura si sono rivelate contraddizioni insanabili, che le forze politiche operanti positivamente alla conservazione della struttura stessa si sforzano tuttavia di sanare entro certi limiti; questi sforzi incessanti e perseveranti (poiché nessuna forma sociale vorrà mai confessare di essere superata) formano il terreno dell’«occasionale» sul quale si organizzano le forze che «cercano» dimostrare (coi fatti in ultima analisi, cioè col proprio trionfo, ma immediatamente con la polemica ideologica, religiosa, filosofica, politica, giuridica ecc.) che «esistono già le condizioni necessarie e sufficienti perché determinati compiti possano e quindi debbano essere risolti storicamente».
L’errore in cui si cade spesso nella analisi storica consiste nel non saper trovare il rapporto tra il «permanente» e «l’occasionale», cadendo così o nell’esposizione di cause remote come se fossero quelle immediate, o nell’affermazione che le cause immediate sono le sole cause efficienti. Da un lato si ha l’eccesso di «economismo», dall’altro l’eccesso di «ideologismo»; da una parte si sopravalutano le cause meccaniche, dall’altra l’elemento «volontario» e individuale. Il nesso dialettico tra i due ordini di ricerche non viene stabilito esattamente. Naturalmente se l’errore è grave nella storiografia, ancor più grave diventa nella pubblicistica, quando si tratta non di ricostruire la storia passata ma di costruire quella presente e avvenire. I propri desideri sostituiscono l’analisi imparziale e ciò avviene non come «mezzo» per stimolare, ma come autoinganno: la biscia morde il ciarlatano, ossia il demagogo è la prima vittima della sua demagogia.
Questi criteri metodologici possono acquistare tutta la loro importanza solo se applicati all’esame di studi storici concreti. Si potrebbe farlo utilmente per gli avvenimenti che si svolsero in Francia dal 1789 al 1870. Mi pare che per maggior chiarezza dell’esposizione sia proprio necessario abbracciare tutto questo periodo. Infatti, solo nel 1870‑71, col tentativo comunalistico, si esauriscono storicamente tutti i germi nati nel 1789: cioè non solo la nuova classe che lotta per il potere sconfigge i rappresentanti della vecchia società che non vuole confessarsi decisamente superata, ma sconfigge anche i rappresentanti dei gruppi nuovissimi che sostengono superata la nuova struttura sorta dal rivolgimento dell’89 e dimostra così di essere vitale e in confronto al vecchio e in confronto al nuovissimo.
D’altronde gli storici non sono molto concordi (ed è impossibile che lo siano) nel fissare i limiti di ciò che si suole chiamare «rivoluzione francese». Per alcuni (per es. il Salvemini) la Rivoluzione è compiuta a Valmy: la Francia ha creato un nuovo Stato e ha trovato la forza politico‑militare che ne afferma e ne difende la sovranità territoriale. Per altri la Rivoluzione continua fino al Termidoro, anzi bisogna parlare di più rivoluzioni (il 10 agosto sarebbe una rivoluzione a sé ecc.): così il Mathiez nel suo compendio pubblicato nella Collezione Colin. Per altri però anche Napoleone deve essere incluso nella Rivoluzione, deve essere considerato un protagonista della Rivoluzione e così si può arrivare al 30, al 48, al 70. In tutti questi modi di vedere c’è una parte di verità. Realmente le contraddizioni interne della struttura sociale francese che si sviluppa dopo il 1789 trovano la loro relativa composizione solo con la terza repubblica e la Francia ha 60 anni di vita politica equilibrata dopo 80 anni di rivolgimenti a ondate sempre più lunghe: 89‑94, 94‑1815, 1815‑1830, 1830‑1848, 48‑70. È appunto lo studio accurato di queste «ondate» a oscillazioni più o meno lunghe che permette di fissare i rapporti tra struttura e superstrutture da una parte e dall’altra tra gli elementi che si possono chiamare permanenti e quelli «occasionali» della struttura. Si può dire intanto che la mediazione dialettica tra i due principii del materialismo storico riportati in principio di questa nota è il concetto di rivoluzione permanente.
Un altro aspetto di questo stesso problema è la quistione così detta dei rapporti delle forze. Si legge spesso in queste narrazioni storiche l’espressione generica: «rapporto delle forze» favorevole o sfavorevole. Così, astrattamente, questa espressione non spiega nulla o quasi nulla: di solito si ripete il fatto che si deve spiegare, si fa una tautologia: l’errore teorico consiste nel dare un canone di ricerca e di interpretazione come «causa storica». Intanto nell’espressione «rapporto delle forze» occorre distinguere diversi momenti o gradi: mi pare se ne possano distinguere tre fondamentali:
1°) c’è un rapporto delle forze sociali strettamente legato alla struttura; questo è un rapporto obbiettivo, è un dato «naturalistico» che può essere misurato coi sistemi delle scienze esatte o matematiche. Sulla base del grado di sviluppo delle forze materiali di produzione avvengono i diversi raggruppamenti sociali, ognuno di essi rappresentando una funzione e una posizione nella produzione stessa.
Questo schieramento fondamentale dà la possibilità di studiare se nella società esistono le condizioni sufficienti e necessarie per una sua trasformazione; dà la possibilità di controllare il grado di realismo e di attuabilità delle diverse ideologie che sono nate nel suo stesso terreno, nel terreno delle contraddizioni che esso ha generato durante il suo sviluppo.
2°) un momento successivo è il «rapporto delle forze» politiche, cioè la valutazione del grado di omogeneità e di autocoscienza raggiunto dai vari raggruppamenti sociali. Questo «momento» a sua volta può essere scisso in diversi momenti, che corrispondono ai diversi gradi della coscienza politica, così come si sono finora manifestati nella storia. Il primo momento, il più elementare, è quello economico primitivo: un commerciante sente di essere solidale con un altro commerciante, un fabbricante con un altro fabbricante ecc., ma il commerciante non si sente ancora solidale col fabbricante; si sente cioè l’unità omogenea del gruppo professionale, ma non ancora del raggruppamento sociale. Un secondo momento è quello in cui si raggiunge la coscienza della solidarietà d’interessi tra tutti i membri del raggruppamento sociale, ma ancora nel campo puramente economico. In questa fase economico‑politica, si pone la quistione dello Stato, ma sul terreno dell’eguaglianza politica elementare, poiché si rivendica il diritto di partecipare all’amministrazione e alla legislazione e di modificarle, di riformarle, nei quadri generali esistenti. Un terzo momento è quello in cui si raggiunge la coscienza che i proprii interessi «corporativi», nel loro sviluppo attuale e avvenire, superano la cerchia «corporativa», di raggruppamento economico cioè, e possono e debbono divenire gli interessi di altri raggruppamenti subordinati; questa è la fase più schiettamente «politica» che segna il netto passaggio dalla pura struttura alle superstrutture complesse, è la fase in cui le ideologie germinate precedentemente vengono a contatto ed entrano in contrasto fino a che una sola di esse, o almeno una sola combinazione di esse, tende a prevalere, a imporsi, a diffondersi su tutta l’area, determinando oltre che l’unità economica e politica anche l’unità intellettuale e morale, su un piano non corporativo, ma universale, di egemonia di un raggruppamento sociale fondamentale su i raggruppamenti subordinati. Lo Stato‑governo è concepito sì come organismo proprio di un raggruppamento, per creare il terreno favorevole alla massima espansione di questo raggruppamento stesso, ma anche questo sviluppo e questa espansione sono visti concretamente come universali, cioè collegati agli interessi dei raggruppamenti subordinati come uno sviluppo di equilibri instabili tra gli interessi del gruppo fondamentale e quelli dei gruppi subordinati in cui gli interessi del gruppo fondamentale prevalgono ma fino a un certo punto, non cioè almeno fino all’egoismo economico‑corporativo. Nella storia reale questi momenti si complicano tra loro, orizzontalmente e verticalmente, cioè per attività economica (orizzontale) e per territorio (verticalmente), combinandosi e scindendosi variamente, e ognuna di queste combinazioni può essere rappresentata da una propria espressione organizzata economica e politica. Ancora bisogna tener presente che a questi rapporti interni di uno Stato‑nazione si intrecciano i rapporti internazionali, creando a loro volta combinazioni originali e storicamente concrete. Un’ideologia, nata in un paese più sviluppato, si diffonde in un paese meno sviluppato, incidendo nel gioco locale delle combinazioni (la religione, per esempio, è sempre stata una fonte di tali combinazioni ideologico‑politiche nazionali‑internazionali, e con la religione le altre formazioni internazionali, fra cui gli «intellettuali» in genere, la Massoneria, il Rotary Club, gli ebrei, la diplomazia internazionale che si suggerisce espedienti politici o li impone in determinati paesi ecc.; la religione, la Massoneria, il Rotary, gli ebrei possono rientrare nella stessa categoria generale degli «intellettuali», la cui funzione principale, su scala internazionale, è stata quella di mediare gli estremi, di trovare dei compromessi intermedi tra le soluzioni più estreme); questo rapporto tra forze internazionali e forze nazionali è ancora complicato nell’interno di ogni nazione dal fatto frequente dell’esistenza di parecchie sezioni territoriali nazionali di diversa struttura e di diverso rapporto di forze in tutti i gradi (così la Vandea in Francia era alleata con le forze internazionali reazionarie e le rappresentava nel seno dell’unità territoriale francese; così Lione rappresentava un nodo di rapporti particolari ecc.).
3°) il terzo momento è quello del «rapporto delle forze militari» che è quello immediatamente decisivo volta per volta. Lo sviluppo storico oscilla continuamente tra il primo e il terzo momento, con la mediazione del secondo. Ma anche questo terzo momento del rapporto delle forze non è qualcosa di indistinto e di identificabile immediatamente in forma schematica. Mi pare si possano distinguere in esso due momenti: il momento «militare» nel senso stretto, tecnico della parola, e il momento che si può chiamare «politico‑militare». Nello sviluppo della storia mondiale ed europea questi due momenti si sono presentati in un numero vario di combinazioni. Un esempio tipico, che può servire come mezzo di dimostrazione limite, è quello del rapporto di oppressione militare nazionale, cioè di uno Stato, militarmente bene organizzato, che opprime territori di altra nazionalità, subordinando agli interessi del suo raggruppamento sociale dominante i raggruppamenti della stessa specie di queste nazionalità che opprime. Anche in questo caso il rapporto non è puramente militare ma politico‑militare e le forze delle nazionalità oppresse non devono essere puramente militari, per la lotta d’indipendenza, ma militari e politico-militari. Molte osservazioni a questo proposito si trovano nelle scritte sul Risorgimento italiano. Intanto: nel caso di oppressione nazionale, se la nazione oppressa, per iniziare la lotta d’indipendenza, dovesse attendere che lo Stato egemone le permetta di organizzare una propria forza militare nel senso stretto e tecnico della parola, avrebbe da attendere un pezzo. La nazione oppressa dunque opporrà inizialmente alla forza militare egemone una forza solo «politico‑militare», cioè elementi di azione politica che abbiano riflessi militari nel senso: 1° che abbiano efficacia disgregatrice interna nell’efficienza bellica della nazione egemone; 2° che costringano la forza militare egemone a diluirsi in un grande territorio, annullandone così gran parte dell’efficienza bellica. Nelle sul Risorgimento appunto è stata notata l’assenza di una direzione politico‑militare specialmente nel Partito d'Azione (per congenita incapacità) ma anche nel partito piemontese sia prima che dopo il 48, non per congenita incapacità, ma per «neomaltusianismo politico‑economico», perché cioè non si volle neanche accennare alla possibilità di una riforma agraria e perché non si voleva la convocazione di una assemblea nazionale costituente, ma si voleva che la monarchia piemontese, senza condizioni o limitazioni di origine popolare, si estendesse a tutta l’Italia, con la pura sanzione dei plebisciti regionali.
Un’altra quistione legata al problema trattato in questa rubrica è questa: se i fatti storici fondamentali sono determinati dal malessere o dal benessere economico. Un esame della storia mondiale ed europea mi pare obblighi ad escludere ogni risposta tassativa in questo senso e a procedere per approssimazioni a una risposta piuttosto generica in un piano non economico immediato, ma piuttosto d’ordine politico e intellettuale. Nel suo compendio di storia della Rivoluzione Francese, il Mathiez, opponendosi alla storia volgare tradizionale, afferma che verso il 1789 la situazione economica era piuttosto buona immediatamente, per cui non si può dire che la rottura dell’equilibrio esistente sia dovuta a una crisi di immiserimento (vedere esattamente le affermazioni del Mathiez). Naturalmente bisogna distinguere: lo Stato era in preda a una gravissima crisi finanziaria e la quistione si poneva così: quale dei tre stati doveva fare dei sacrifizi per rimettere in sesto le finanze statali e regali? Inoltre: se la situazione della borghesia era florida, certamente non buona era la situazione dei ceti artigiani e operai e specialmente quella dei contadini servi della gleba o sottoposti ad altre angherie e gravami di carattere feudale. In ogni caso la rottura dell’equilibrio non avvenne per causa di un immiserimento del gruppo sociale che aveva interesse a rompere l’equilibrio e di fatto lo ruppe, ma avvenne per un conflitto di carattere superiore, per «prestigio» di gruppo, in un certo senso, per esasperazione del sentimento di indipendenza del proprio gruppo ecc. Insomma la quistione particolare del malessere o benessere come causa di rotture essenziali nell’equilibrio storico è un aspetto parziale della quistione dei «rapporti di forza» nei vari gradi. Può avvenire rottura sia perché una situazione di benessere è minacciata come perché il malessere è diventato intollerabile e non si vede nella vecchia società nessuna forza che sia capace di mitigarlo; per cui si può dire che questi elementi appartengono alle «fluttuazioni occasionali» delle situazioni, nel cui terreno il rapporto sociale di forze diventa rapporto politico di forza per culminare nel rapporto militare decisivo. Se manca questo processo di sviluppo da un momento all’altro nel rapporto di forze, la situazione rimane inoperosa e possono darsi conclusioni varie: la vittoria della vecchia società che si assicura un periodo di «respiro» distruggendo fisicamente l’élite avversaria e terrorizzando la riserva, oppure anche la distruzione reciproca delle forze in conflitto con l’instaurazione della pace dei cimiteri sotto la custodia di una sentinella straniera.
Legata a questa quistione generale è la quistione del così detto «economismo» che assume diverse forme e ha diverse manifestazioni concrete. Rientra nella categoria dell’economismo tanto il movimento teorico del libero scambio come il sindacalismo teorico. Il significato di queste due tendenze è molto diverso. Il primo è proprio di un raggruppamento dominante, il secondo di un raggruppamento subalterno. Nel primo caso si specula incoscientemente (per un errore teorico di cui non è difficile identificare il sofisma) sulla distinzione tra società politica e società civile e si afferma che l’attività economica è propria della società civile e la società politica non deve intervenire nella sua regolamentazione. Ma in realtà questa distinzione è puramente metodica, non organica e nella concreta vita storica società politica e società civile sono una stessa cosa. D’altronde anche il liberismo deve essere introdotto per legge, per intervento cioè del potere politico: è un fatto di volontà, non l’espressione spontanea, automatica del fatto economico. Diverso è il caso del sindacalismo teorico, in quanto esso si riferisce a un raggruppamento subalterno, al quale con questa teorica si impedisce di diventare mai dominante, di uscire dalla fase economico- corporativa per elevarsi alla fase di egemonia politico-intellettuale nella società civile e diventare dominante nella società politica. Nel caso del liberismo teorico si ha il caso di una frazione del raggruppamento dominante che vuole modificare la società politica, che vuole riformare la legislazione esistente nella parte di politica commerciale e indirettamente industriale (è innegabile che il protezionismo, specialmente nei paesi a mercato povero e ristretto, limita, almeno parzialmente, la libertà di iniziativa industriale e favorisce morbosamente il nascere dei monopoli); la quistione è di rotazione al potere governativo di una frazione invece che di un’altra del raggruppamento dominante, non di fondazione e organizzazione di una nuova società politica e tanto meno di un nuovo tipo di società civile.
Nel caso del sindacalismo teorico la cosa è più complessa: è innegabile che in esso la indipendenza e l’autonomia del raggruppamento subalterno che si dice di esprimere, è invece sacrificata all’egemonia intellettuale del raggruppamento dominante, poiché il sindacalismo teorico è un aspetto del liberismo economico giustificato con alcune affermazioni del materialismo storico. Perché e come avviene questo «sacrifizio»? Perché si esclude la trasformazione del raggruppamento subordinato in dominante, o non ponendosi affatto il problema (fabianesimo, De Man, parte notevole del laburismo), o lo si pone in forma incongrua e inefficiente (socialdemocrazia) o si afferma il salto immediato dal regime dei raggruppamenti a quello della perfetta eguaglianza (sindacalismo teorico in senso stretto). È per lo meno strano l’atteggiamento dell’economismo verso la volontà, l’azione e l’iniziativa politica, come se esse non fossero espressione dell’economia e anzi l’espressione efficiente dell’economia; come è strano che impostare concretamente la quistione dell’egemonia sia interpretato come fatto che subordina il raggruppamento egemone. Evidentemente il fatto dell’egemonia presuppone che si tenga conto degli interessi e delle tendenze dei raggruppamenti su cui l’egemonia verrà esercitata, che si formi un certo equilibrio, che cioè il raggruppamento egemone faccia dei sacrifizi di ordine economico‑corporativo, ma questi sacrifizi non possono riguardare l’essenziale, poiché l’egemonia è politica, ma anche e specialmente economica, ha la sua base materiale nella funzione decisiva che il raggruppamento egemone esercita sul nucleo decisivo dell’attività economica.
L’economismo si presenta sotto molte altre forme oltre che il liberismo teorico e il sindacalismo teorico. Appartengono all’economismo tutte le forme di astensionismo elettorale (esempio l’astensionismo dei clericali italiani dal 1870 al 1919, divenuto dopo il 1900 sempre più parziale fino a sparire del tutto) che possono essere svariatissime, nel senso che ci può essere semi‑astensionismo, un quarto ecc. Non sempre l’economismo è contrario all’azione politica e al partito politico, che viene però considerato come organismo educativo di tipo sindacale. La così detta «intransigenza» è una forma di economismo: così la «formula tanto peggio tanto meglio» ecc.
Un altro punto di riferimento per comprendere i rapporti tra struttura e superstrutture è contenuto nella Miseria della Filosofia, là dove si dice che fase importante nello sviluppo di un raggruppamento sociale nato sul terreno dell’industria è quella in cui i singoli membri di una organizzazione economico‑corporativa non lottano solo più per i loro interessi economici corporativi, ma per lo sviluppo dell’organizzazione presa a sé, come tale (vedere esattamente l’affermazione contenuta nella Miseria della Filosofia, in cui sono contenute affermazioni essenziali dal punto di vista del rapporto della struttura e delle superstrutture e del concetto di dialettica proprio del materialismo storico; dal punto di vista teorico, la Miseria della Filosofia può essere considerata in parte come l’applicazione e lo svolgimento delle Tesi su Feuerbach mentre la Santa Famiglia è una fase intermedia ancora indistinta, come si vede dai brani riferentesi a Proudhon e specialmente al materialismo francese. Del resto il brano sul materialismo francese è più uno spunto di storia della cultura, che un brano teoretico, come spesso si suole intenderlo e come «storia della cultura» è ammirevole e definitivo). È da ricordare insieme l’affermazione di Engels che l’economia è «in ultima analisi» la molla della storia (nelle due lettere sul materialismo storico pubblicate anche in italiano), direttamente collegata al brano famoso della prefazione alla Critica dell’Economia Politica dove si dice che gli uomini «diventano consapevoli» del conflitto tra forma e contenuto del mondo produttivo sul terreno delle ideologie. Questo nodo è da ricordare a proposito della tesi prospettata in diverse dei vari quaderni che nel periodo moderno della storia il materialismo storico è più diffuso di quanto non sembri; esso però si presenta sotto l’aspetto di «economismo storico» (il nuovo nome usato dal Loria per indicare le sue nebulose concezioni da questo punto di vista è esatto e si può dire che il materialismo storico che io ritengo più diffuso di quanto si creda, è d’interpretazione loriana e non è l’originale marxista).
Questa interpretazione è legata all’errore di metodo, da me indicato più sopra, di non distinguere nell’analisi delle situazioni economiche e delle strutture sociali ciò che è «relativamente permanente» da ciò che è «fluttuazione occasionale»; distinzione che entro certi limiti corrisponde a quella di Stato e Governo, di strategia e tattica. Aspetti parziali dell’«economismo storico» sono: 1) la dottrina per cui lo svolgimento economico viene ridotto ai cangiamenti degli strumenti tecnici, mentre Marx parla sempre di «forze materiali di produzione» in generale e in queste forze include anche la «forza fisica» degli uomini (Loria ha dato un’esposizione brillantissima di questa dottrina nell’articolo sull’influenza sociale dell’aeroplano nella «Rassegna contemporanea» del 1912); 2) la dottrina per cui lo svolgimento economico e storico viene fatto dipendere immediatamente dai mutamenti di un qualche fattore importante della produzione, dovuto all’introduzione di un nuovo combustibile che porta con sé l’applicazione di nuovi metodi nella costruzione e nell’azionamento degli strumenti meccanici (per esempio il petrolio: cfr a questo proposito l’articolo sul petrolio di Antonino Laviosa nella Nuova Antologia del 1929 che nota i mutamenti nella costruzione dei mezzi di trasporto e specialmente militari portati dalla diffusione del petrolio e della benzina e ne trae delle conseguenze politiche esagerate: parla di un’era del petrolio che si contrappone a un’era del carbone ecc.; qualche altro avrà scritto lo stesso per l’elettricità ecc. Ora, anche queste scoperte di nuovi combustibili e di nuove energie motrici hanno importanza storica, perché possono mutare la statura relativa delle nazioni, ma non sono determinanti del moto storico). Spesso avviene che si combatte l’economismo storico credendo di combattere il materialismo storico. È questo il caso, per esempio, di un articolo dell’«Avenir» di Parigi del 10 ottobre 1930 (riportato nella «Rassegna settimanale della stampa estera» del 21 ottobre 1930, pp. 2303-4: «Ci si dice da molto tempo, ma soprattutto dopo la guerra, che le quistioni d’interesse dominano i popoli e portano avanti il mondo. Sono i marxisti che hanno inventato questa tesi sotto l’appellativo un po’ dottrinario di “materialismo storico”. Nel marxismo puro, gli uomini presi in massa non obbediscono alle passioni, ma alle necessità economiche. La politica è una passione. La Patria è una passione. Queste due idee esigenti non godono nella storia che una funzione di apparenza perché in realtà la vita dei popoli, nel corso dei secoli, si spiega con un gioco cangiante e sempre rinnovato di cause di ordine materiale. L’economia è tutto. Molti filosofi ed economisti “borghesi” hanno ripreso questo ritornello. Essi assumono una certa aria da spiegarci col corso del grano, dei petroli o del caucciù, la grande politica internazionale. Essi si ingegnano a dimostrarci che tutta la diplomazia è comandata da questioni di tariffe doganali e di prezzi di costo. Queste spiegazioni sono molto in auge. Esse hanno una piccola apparenza scientifica e procedono da una specie di scetticismo superiore che vorrebbe passare per una eleganza suprema. La passione in politica estera? Il sentimento in materia nazionale? Suvvia! Questa roba è buona per la gente comune. I grandi spiriti, gli iniziati sanno che tutto è dominato dal dare e dall’avere. Ora questa è una pseudo-verità assoluta. È completamente falso che i popoli non si lasciano guidare che da considerazioni di interesse ed è completamente vero che essi obbediscono più che mai al sentimento. Il materialismo storico è una buona scemenza. Le nazioni obbediscono soprattutto a delle condizioni dettate da un desiderio e da una fede ardente di prestigio. Chi non comprende questo non comprende nulla». La continuazione dell’articolo (intitolato La mania del prestigio) esemplifica con la politica tedesca e italiana, che sarebbe di «prestigio» e non dettata da interessi materiali. Il brano è interessante e andrebbe analizzato minutamente in caso di compilazione di un saggio; esso è contro l’«economismo storico» esagerato, di tipo loriano. L’autore non conosce la filosofia moderna e non capisce, d’altronde, che le «passioni», appunto, sono fatti economici.
Degenerato in economismo storico, il materialismo storico perde una gran parte della sua espansività culturale tra le persone intelligenti, per quanta ne acquista tra gli intellettuali pigri, tra quelli che vogliono apparire sempre furbissimi ecc.; esso, come scrisse Engels, fa credere a molti di poter avere, a poco prezzo e con nessuna fatica, in saccoccia tutta la storia, e tutta la sapienza politica. Avendo dimenticato che la tesi di Marx – che gli uomini acquistano coscienza dei conflitti fondamentali nel terreno delle ideologie – ha un valore organico, è una tesi gnoseologica e non psicologica o morale, si è creata la forma mentis di considerare la politica e quindi tutta la storia come un marché de dupes, un gioco di illusionismi e di prestidigitazioni. Tutta l’attività culturale è ridotta così a «svelare» trucchi, a suscitare scandali, a fare i conti in tasca agli uomini politici. Naturalmente gli errori di interpretazione sono stati talvolta grossolani e hanno così reagito negativamente sul prestigio della dottrina originaria. Perciò occorre combattere contro l’economismo non solo nella teoria della storiografia, ma anche nella teoria e nella pratica politica. In questo campo la reazione deve essere condotta sul terreno del concetto di egemonia, così come è stata condotta praticamente nello sviluppo della teoria del partito politico e nello sviluppo pratico della vita di determinati partiti politici.
Si potrebbe fare una ricerca storica sui giudizi emessi sullo sviluppo di certi movimenti politici, prendendo come archetipo quello detto boulangismo (dal 1886 al 1890 circa) ma forse addirittura il colpo di stato del 2 dicembre di Napoleone III. Si può trovare che il ragionamento stereotipato dell’economismo storico di solito è molto semplicistico: a chi giova immediatamente? A una certa frazione del raggruppamento dominante, che per non sbagliare si sceglie in quella frazione che evidentemente ha una funzione progressiva secondo una teoria generale. Come giudizio storico è quasi infallibile, poiché realmente se quel movimento politico andrà al potere la frazione progressiva del raggruppamento dominante in ultima analisi finirà col controllarlo e col farsene uno strumento per rivolgere a proprio beneficio l’apparato statale. Dico quasi infallibile a ragion veduta, perché l’interpretazione è solo un’ipotesi storica possibile e magari probabile che nel giudizio politico assume però una tinta moralistica. In ciò consiste l’errore teorico e pratico. Quando un tale movimento si forma l’analisi dovrebbe essere condotta secondo questa linea: 1°) contenuto sociale del movimento; 2°) rivendicazioni che i dirigenti pongono e che trovano consenso in determinati strati sociali; 3°) le esigenze obbiettive che tali rivendicazioni riflettono; 4°) esame della conformità dei mezzi adoperati al fine proposto; e 5°) solo in ultima analisi e presentata in forma politica e non in forma moralistica, presentazione dell’ipotesi che tale movimento necessariamente sarà snaturato e servirà a ben altri fini da quelli che le moltitudini seguaci credono. Invece quest’ipotesi viene affermata preventivamente, quando nessun elemento concreto (dico che appaia tale con evidenza e non per un’analisi «scientifica» esoterica) esiste ancora per suffragarla, così che essa appare come un’accusa morale di doppiezza e di malafede ecc. o di poca furberia, di stupidaggine. La politica diventa una serie di fatti personali. Naturalmente finché questi movimenti non hanno raggiunto il potere, si può sempre pensare che essi falliscano e alcuni infatti sono falliti (il boulangismo stesso – Valois‑Gayda): la ricerca allora deve dirigersi alla ricerca degli elementi di forza e degli elementi di debolezza che essi contengono nel loro intimo: l’ipotesi «economistica» afferma un elemento di forza, la disponibilità di un certo aiuto finanziario diretto o indiretto (un giornale che appoggi il movimento è un aiuto finanziario indiretto) e basta. Troppo poco. La ricerca quindi, come ho detto, dev’essere fatta nella sfera del concetto di egemonia.
Questo concetto, data l’affermazione fatta più sopra, che l’affermazione di Marx che gli uomini prendono coscienza dei conflitti economici nel terreno delle ideologie ha un valore gnoseologico e non psicologico e morale, avrebbe anch’esso pertanto un valore gnoseologico e sarebbe da ritenere perciò l’apporto massimo di Iliíč alla filosofia marxista, al materialismo storico, apporto originale e creatore. Da questo punto di vista Iliíč avrebbe fatto progredire il marxismo non solo nella teoria politica e nella economia, ma anche nella filosofia (cioè avendo fatto progredire la dottrina politica avrebbe fatto progredire anche la filosofia).
Q4 §39 Sul «Saggio popolare». Una trattazione sistematica del materialismo storico non può trascurare nessuna delle parti costitutive del marxismo. Ma in che senso ciò deve essere inteso? Essa deve trattare tutta la parte generale filosofica e in più deve essere: una teoria della storia, una teoria della politica, una teoria dell’economia. Ciò come schema generale che deve concretamente assumere una forma vivente, non schematica. Si dirà, ma il materialismo storico non è specificamente una teoria della storia? È giusto, ma dalla storia appunto non possono staccarsi la politica e l’economia, anche nelle fasi specializzate di scienza ‑ arte della politica e di scienza‑economica. Cioè: dopo avere svolto il compito principale nella parte filosofica generale, che è il vero e proprio materialismo storico, in cui i concetti generali della storia, della politica e dell’economia si annodano in unità organica, è utile, in un saggio popolare, dare le nozioni generali di ogni parte costitutiva in quanto scienza indipendente e distinta. Ciò vorrebbe dire che dopo aver studiato la filosofia generale cioè il nesso organico di storia‑politica‑economica si studia: come la storia e la politica si riflettano nell’economia, come l’economia e la politica si riflettano nella storia, come la storia e l’economia si riflettano nella politica.
Q4 §40 Filosofia e ideologia. Come filosofia il materialismo storico afferma teoricamente che ogni «verità» creduta eterna e assoluta ha origini pratiche e ha rappresentato o rappresenta un valore provvisorio. Ma il difficile è far comprendere «praticamente» questa interpretazione per ciò che riguarda il materialismo storico stesso. Questa interpretazione è adombrata da Engels dove parla di passaggio dal regno della necessità al regno della libertà. L’idealismo assoluto, o almeno certi suoi aspetti, sarebbero una utopia filosofica durante il regno della necessità, ma potrebbero diventare «verità» dopo il passaggio da un regno all’altro. Non si può parlare di «Spirito» quando la Società è raggruppata senza necessariamente concludere che si tratti dello «spirito» di un particolare raggruppamento (cosa implicitamente riconosciuta quando, come fa il Gentile – nel volume sul modernismo –, si dice sulle tracce di Schopenhauer che la religione è la filosofia della moltitudine mentre la filosofia è la religione degli uomini più eletti – cioè dei grandi intellettuali –), ma se ne potrà parlare quando la Società sarà unitaria.
Praticamente, dicevo, anche il materialismo storico tende a diventare una ideologia nel senso deteriore, cioè una verità assoluta ed eterna. Ciò avviene specialmente quando, come nel Saggio popolare, esso è confuso col materialismo volgare, con la metafisica della «materia» che non può non essere eterna e assoluta.
Bisognerà, su questa traccia, elaborare l’affermazione di Engels sul passaggio dalla necessità alla libertà: evidentemente questo passaggio avviene negli uomini, non nella natura (sebbene avrà delle conseguenze sull’intuizione della natura, sulle opinioni scientifiche), per cui solo per metafora si può parlare di storia naturale dell’umanità e paragonare i fatti umani ai fatti naturali.
Q4 §41 La scienza. Definizioni della scienza: 1°) Studio dei fenomeni e delle loro leggi di somiglianza (regolarità), di coesistenza (coordinazione), di successione (causalità). 2°) Un’altra tendenza, tenendo conto dell’ordinamento più comodo che la scienza stabilisce tra i fenomeni, in modo da poterli meglio far padroneggiare dal pensiero e dominarli per i fini dell’azione, definisce la scienza come la descrizione più economica della realtà.
La quistione più importante riguardo alla scienza è quella della esistenza obbiettiva della realtà. Per il senso comune la quistione non esiste neppure: ma da che cosa è data questa certezza del senso comune? Essenzialmente dalla religione (almeno dalle religioni occidentali, specialmente dal cristianesimo): essa è quindi una ideologia, l’ideologia più diffusa e radicata. Mi pare che sia un errore domandare alla scienza come tale la prova dell’obbiettività del reale: questa è una concezione del mondo, una filosofia, non un dato scientifico. Cosa può dare la scienza in questa direzione? La scienza fa una selezione tra le sensazioni, tra gli elementi primordiali della conoscenza: considera certe sensazioni come transitorie, come apparenti, come fallaci perché dipendono unicamente da speciali condizioni individuali e certe altre come durature, come permanenti, come superiori alle condizioni speciali individuali. Il lavoro scientifico ha due aspetti: uno che instancabilmente rettifica il metodo della conoscenza, e rettifica o rafforza gli organi delle sensazioni e l’altro che applica questo metodo e questi organi sempre più perfetti a stabilire ciò che di necessario esiste nelle sensazioni da ciò che è arbitrario e transitorio. Si stabilisce così ciò che è comune a tutti gli uomini, ciò che tutti gli uomini possono vedere e sentire nello stesso modo, purché essi abbiano osservato le condizioni scientifiche di accertamento. In quanto si stabilisce questa oggettività, la si afferma: si afferma l’essere in sé, l’essere permanente, l’essere comune a tutti gli uomini, l’essere indipendente da ogni punto di vista che sia meramente particolare. Ma anche questa è una concezione del mondo, è un’ideologia.
Il materialismo storico accetta questo punto di vista, non quello che pure è uguale materialmente, del senso comune. Il senso comune afferma l’oggettività del reale in quanto questa oggettività è stata creata da Dio, è quindi un’espressione della concezione del mondo religiosa: d’altronde nel descrivere questa oggettività cade nei più grossolani errori, in gran parte è ancora all’astronomia tolemaica, non sa stabilire i nessi reali di causa ed effetto ecc., cioè in realtà non è realmente «oggettivo», perché non sa concepire il «vero» oggettivo; per il senso comune è «vero» che la terra è ferma e il sole con tutto il firmamento le gira intorno ecc. Eppure fa l’affermazione filosofica della oggettività del reale. Ma tutto ciò che la scienza afferma è «oggettivamente vero»? In modo definitivo? Non si tratta invece di una lotta per la conoscenza dell’oggettività del reale, per una rettificazione sempre più perfetta dei metodi d’indagine e degli organi di osservazione, e degli strumenti logici di selezione e di discriminazione? Se è così, ciò che più importa non è dunque l’oggettività del reale come tale ma l’uomo che elabora questi metodi, questi strumenti materiali che rettificano gli organi sensori, questi strumenti logici di discriminazione, cioè la cultura, cioè la concezione del mondo, cioè il rapporto tra l’uomo e la realtà. Cercare la realtà fuori dell’uomo appare quindi un paradosso, così come per la religione è un paradosso peccato cercarla fuori di Dio.
Ricordo una affermazione di Bertrando Russell: si può immaginare sulla terra, anche senza l’uomo, non Glasgow e Londra, ma due punti della superficie della terra uno più a Nord e uno più a Sud (o qualcosa di simile: è contenuta in un libretto filosofico di Russell tradotto in una collezioncina Sonzogno di carattere scientifico). Ma senza l’uomo come significherebbe Nord e Sud, e «punto», e «superficie» e «terra»? Non sono queste espressioni necessariamente legate all’uomo, ai suoi bisogni, alla sua vita, alla sua attività? Senza l’attività dell’uomo, creatrice di tutti i valori anche scientifici, cosa sarebbe l’«oggettività»? Un caos, cioè niente, il vuoto, se pure così si può dire, perché realmente se si immagina che non esista l’uomo, non si può immaginare la lingua e il pensiero. Per il materialismo storico non si può staccare il pensare dall’essere, l’uomo dalla natura, l’attività (storia) dalla materia, il soggetto dall’oggetto: se si fa questo distacco si cade nel chiacchericcio, nell’astrazione senza senso.
Q4 §42 Giovanni Vailati e il linguaggio scientifico. Ho citato parecchie volte il brano in cui Marx, nella Sacra Famiglia, dimostra come il linguaggio politico francese, adoperato da Proudhon, corrisponda e possa tradursi nel linguaggio della filosofia classica tedesca. Questa affermazione mi pareva molto importante per comprendere l’intimo valore del materialismo storico e per trovare la via di risoluzione di molte apparenti contraddizioni dello sviluppo storico e per rispondere ad alcune superficiali obbiezioni contro questa teoria della storiografia. Nel fascicolo di settembre‑ottobre 1930 dei «Nuovi Studi di Diritto, Economia, Politica» in una lettera aperta di Luigi Einaudi a Rodolfo Benini («Se esista, storicamente, la pretesa repugnanza degli economisti verso il concetto dello Stato produttore») in una nota a p. 303 si legge: «Se io possedessi la meravigliosa facoltà che in sommo grado aveva il compianto amico Vailati di tradurre una qualunque teoria dal linguaggio geometrico in quello algebrico, da quello edonista in quello della morale kantiana, dalla terminologia economica pura normativa in quella applicata precettistica, potrei tentare di ritradurre la pagina dello Spirito nella formulistica tua, ossia economistica classica. Sarebbe un esercizio fecondo, simile a quelli di cui racconta Loria, da lui intrapresi in gioventù: di esporre successivamente una data dimostrazione economica prima in linguaggio di Adamo Smith e poi di Ricardo e quindi di Marx, di Stuart Mill e di Cairnes. Ma sono esercizi che vanno, come faceva Loria, dopo fatti, riposti nel cassetto. Giovano ad insegnare la umiltà ad ognuno di noi, quando per un momento ci illudiamo di aver visto qualcosa di nuovo. Perché se questa novità poteva essere stata detta con le loro parole e inquadrarsi nel pensiero dei vecchi, segno è che quel qualcosa era contenuto in quel pensiero. Ma non possono né devono impedire che ogni generazione usi quel linguaggio che meglio si adatta al modo suo di pensare e d’intendere il mondo. Si riscrive la storia; perché non si dovrebbe riscrivere la scienza economica, prima in termini di costo di produzione e poi di utilità e quindi di equilibrio statico e poi di equilibrio dinamico?»
Le intenzioni «metodologiche» dell’Enaudi sono molto più circoscritte di quelle che sono implicite nell’affermazione di Marx, ma appartengono alla stessa serie. L’Einaudi si riattacca alla corrente rappresentata dai pragmatisti italiani e da Vilfredo Pareto, tendenza che trovò una certa espressione nel libretto di Prezzolini: Il linguaggio come causa di errore. L’Einaudi vuole dare una lezione di modestia allo Spirito, nel quale molto spesso, la novità delle idee, dei metodi, dell’impostazione dei problemi, è puramente e semplicemente una quistione di terminologia, di parole. Ma, come dicevo, è questo il primo grado del problema che è implicito, in tutta la sua vastità, nel brano di Marx. Come due individui, prodotti dalla stessa fondamentale cultura, credono di sostenere cose differenti solo perché adoperano una terminologia diversa, così nel campo internazionale, due culture, espressioni di due civiltà fondamentalmente simili, credono di essere antagonistiche, diverse, una superiore all’altra, perché adoperano diverse espressioni ideologiche, filosofiche, o perché una ha carattere più strettamente pratico, politico (Francia) mentre l’altra ha carattere più filosofico, dottrinario, teorico. In realtà, per lo storico, esse sono intercambiabili, sono riducibili una all’altra, sono traducibili scambievolmente.
Questa «traducibilità» non è perfetta, certamente, in tutti i particolari (anche importanti); ma lo è nel «fondo» essenziale. Una è realmente superiore all’altra, ma non sempre in ciò che i loro rappresentanti e i loro fanatici chierici pretendono; se così non fosse non ci sarebbe progresso reale, che avviene anche per spinte «nazionali».
La filosofia gentiliana è, nel mondo contemporaneo, quella che più fa quistioni di «parole», di «terminologia», che dà per «creazione» nuova ogni mutamento grammaticale dell’espressione: perciò la breve nota dell’Einaudi è una freccia avvelenatissima contro lo Spirito e su di essa si aggira esasperatamente la breve nota dello stesso Spirito. (Ma della quistione di merito della polemica non voglio occuparmi in questa nota). Voglio solo notare la necessità di studiare questo aspetto del pragmatismo italiano (specialmente nel Vailati) e del Pareto sulla quistione del linguaggio scientifico.
Q4 §43 L’«obbiettività del reale» e il Prof. Lukacz (cfr nota antecedente La scienza a p. 75). È da studiare la posizione del prof. Lukacz verso il materialismo storico. Il Lukacz (conosco le sue teorie molto vagamente) credo affermi che si può parlare di dialettica solo per la storia degli uomini e non per la natura. Può aver torto e può aver ragione. Se la sua affermazione presuppone un dualismo tra l’uomo e la natura egli ha torto perché cade in una concezione della natura propria della religione e anche propria dell’idealismo, che realmente non riesce a unificare e mettere in rapporto l’uomo e la natura altro che verbalmente. Ma se la storia umana è anche storia della natura, attraverso la storia della scienza, come la dialettica può essere staccata dalla natura? Penso che il Lukacz, scontento delle teorie del Saggio popolare, sia caduto nell’errore opposto: ogni conversione e identificazione del materialismo storico nel materialismo volgare non può che determinare l’errore opposto, la conversione del materialismo storico nell’idealismo o addirittura nella religione.
Q4 §44 Sorel. In un articolo su Clemenceau pubblicato nella «Nuova Antologia» del 16 dicembre 1929 e in un altro pubblicato nell’«Italia Letteraria» del 15 dicembre (il primo firmato «Spectator», il secondo firmato con nome e cognome) Mario Missiroli pubblica due brani importanti di lettere inviategli da Giorgio Sorel e riguardanti Clemenceau: «Egli (Clemenceau) giudica la filosofia di Marx, che costituisce l’ossatura del socialismo contemporaneo, come una dottrina oscura, buona per i barbari di Germania, come sempre è apparsa alle intelligenze pronte e brillanti, abituate alle facili letture. Spiriti leggeri come il suo non riescono a capire ciò che Renan capiva così bene, che, cioè, valori storici di grande importanza possono apparire congiunti con una produzione letteraria di evidente mediocrità, quale è appunto la letteratura socialista offerta al popolo». «Io credo che se Clemenceau ha fatto per lungo tempo poco conto del socialismo, meno ancora dovette farne quando vide Jaurès diventare l’idolo dei partiti socialisti. La facondia oratoria di Jaurès lo inaspriva. Nella sua “estrema leggerezza” – la definizione è di Giuseppe Reinach – giudicò che il socialismo non potesse contenere nulla di serio, dal momento che un professore di università, riconosciuto capo della nuova dottrina, non riusciva a ricavarne che vento. Non si curava di sapere se le masse, una volta scosse dalle vacue declamazioni dei capi, non avrebbero saputo trovare nel loro seno dei direttori capaci di condurle verso delle regioni, che i capi della democrazia non potevano neppure sospettare. Clemenceau non crede all’esistenza di una classe che si travaglia a formarsi la coscienza di una grande missione storica da compiere, missione che ha per iscopo il rinnovamento totale della nostra civiltà. Crede che il dovere delle democrazie sia quello di venire in soccorso dei diseredati che assicurano la produzione delle ricchezze materiali, delle quali nessuno può fare a meno. Nei momenti difficili un potere intelligente deve fare delle leggi per imporre ai ricchi dei sagrifici, destinati a salvare la solidarietà nazionale. Un’evoluzione bene ordinata, che conduca ad una vita relativamente dolce, ecco quanto il popolo reclamerebbe in nome della scienza, se avesse dei buoni consiglieri. Ai suoi occhi i socialisti sono dei cattivi pastori quando introducono, nella politica di un paese democratico, la nozione della rivoluzione. Come tutti gli uomini della sua generazione, Clemenceau ha conservato un vivo ricordo della Comune. Credo fermamente che egli non abbia ancora perdonato al popolo di Parigi la brutalità con la quale le guardie nazionali insorte lo cacciarono dal palazzo del Comune di Montmartre». I due brani nell’articolo della Nuova Antologia sono stampati come un tutto organico; nell’«Italia Letteraria» come distinti: tra il primo e il secondo il Missiroli scrive: «E altrove:», ciò che fa meglio comprendere stilisticamente il contesto.
Sorel. Questi due brani spingono sempre più a pensare che occorre ristudiare Sorel, per cogliere, al di sotto delle incrostazioni parassitarie deposte sul suo pensiero dagli ammiratori dilettanti e intellettuali, ciò che vi è di più essenziale e permanente. Bisogna tener presente che si è esagerato alquanto sulla «austerità» e «serietà» morale e intellettuale del Sorel; dall’epistolario col Croce risulta che egli non sempre ha saputo vincere gli stimoli di una certa vanità: ciò risulta dal tono molto impacciato della lettera in cui vuole spiegare al Croce la sua adesione (sia pure platonica) al «Circolo Proudhon» di Valois e il suo civettare con elementi giovani della tendenza monarchica e clericale. Ancora: c’era un certo dilettantismo negli atteggiamenti «politici» del Sorel, che non erano mai schiettamente politici, ma «politici‑culturali», «politici‑intellettuali», «au dessus de la mêlée»: anche a lui si potrebbero muovere alcune delle accuse contenute nell’opuscolo di un suo discepolo I misfatti degli intellettuali. Egli stesso era un «puro» intellettuale e perciò bisognerebbe separare con una analisi accurata ciò che vi è nelle sue opere di superficiale, di brillante, di accessorio, legato alle contingenze della polemica estemporanea, e ciò che vi è di «polposo» e sostanzioso, per farlo entrare, così definito, nel circolo della cultura moderna.
Q4 §45 Struttura e superstrutture. Che il materialismo storico concepisca se stesso come una fase transitoria del pensiero filosofico dovrebbe apparire dall’affermazione di Engels che lo sviluppo storico sarà caratterizzato a un certo punto dal passaggio dal regno della necessità al regno della libertà. Tutta la filosofia finora esistita è nata ed è l’espressione delle contraddizioni intime della società: ma ogni sistema filosofico a sé preso non è l’espressione cosciente di queste contraddizioni, poiché questa espressione può essere data solo dall’insieme dei sistemi filosofici. Ogni filosofo è e non può non essere convinto di esprimere l’unità dello spirito umano, cioè l’unità della storia e della natura: altrimenti gli uomini non opererebbero, non creerebbero nuova storia, cioè le filosofie non potrebbero diventare «ideologie», non potrebbero nella pratica assumere la granitica compattezza fanatica delle «credenze popolari» che hanno il valore di «forze materiali». Hegel rappresenta, nella storia del pensiero filosofico, un posto a sé, perché, nel suo sistema, in un modo o nell’altro, pur nella forma di «romanzo filosofico», si riesce a comprendere cos’è la realtà, cioè si ha, in un solo sistema e in un solo filosofo, quella coscienza delle contraddizioni che prima era data dall’insieme dei sistemi, dall’insieme dei filosofi, in lotta tra loro, in contraddizione tra loro. In un certo senso, adunque, il materialismo storico è una riforma e uno sviluppo dello hegelismo, è la filosofia liberata da ogni elemento ideologico unilaterale e fanatico, è la coscienza piena delle contraddizioni in cui lo stesso filosofo, individualmente inteso o inteso come intero gruppo sociale, non solo comprende le contraddizioni, ma pone se stesso come elemento della contraddizione, e eleva questo elemento a principio politico e d’azione. L’«uomo in generale» viene negato e tutti i concetti «unitari» staticamente vengono dileggiati e distrutti, in quanto espressione del concetto di «uomo in generale» o di «natura umana» immanente in ogni uomo. Ma anche il materialismo storico è espressione delle contraddizioni storiche, anzi è l’espressione perfetta, compiuta di tali contraddizioni: è una espressione della necessità, quindi, non della libertà, che non esiste e non può esistere. Ma se si dimostra che le contraddizioni spariranno, si dimostra implicitamente che sparirà anche il materialismo storico, e che dal regno della necessità si passerà al regno della libertà, cioè a un periodo in cui il «pensiero», le idee non nasceranno più sul terreno delle contraddizioni. Il filosofo attuale può affermare ciò e non andare più oltre: infatti egli non può evadere dal terreno attuale delle contraddizioni, non può affermare, più che genericamente, un mondo senza contraddizioni, senza creare immediatamente una utopia. Ciò non significa che l’utopia non abbia un valore filosofico, poiché essa ha un valore politico, e ogni politica è implicitamente una filosofia. La religione è la più «mastodontica» utopia, cioè la più «mastodontica» metafisica apparsa nella storia, essa è il tentativo più grandioso di conciliare in forma mitologica le contraddizioni storiche: essa afferma, è vero, che l’uomo ha la stessa «natura», che esiste l’uomo in generale, creato simile a Dio e perciò fratello degli altri uomini, uguale agli altri uomini, libero fra gli altri uomini, e che tale egli si può concepire specchiandosi in Dio, «autocoscienza» dell’umanità, ma afferma anche che tutto ciò non è di questo mondo, ma di un altro (utopia). Ma intanto le idee di uguaglianza, di libertà, di fraternità fermentano in mezzo agli uomini, agli uomini che non sono uguali, né fratelli di altri uomini, né si vedono liberi fra di essi. E avviene nella storia, che ogni sommovimento generale delle moltitudini, in un modo o nell’altro, sotto forme e con ideologie determinate, pone queste rivendicazioni. A questo punto interviene un elemento portato da Ilici [Lenin ndc]: nel programma dell’aprile 1917, nel paragrafo dove si parla della scuola unica e precisamente nella breve nota esplicativa (mi riferisco all’edizione di Ginevra del 1918) si afferma che il chimico e pedagogista Lavoisier, ghigliottinato sotto il Terrore, aveva sostenuto il concetto della scuola unica, e ciò in rapporto ai sentimenti popolari del suo tempo, che nel movimento democratico del 1789 vedevano una realtà in isviluppo e non un’ideologia e ne tiravano le conseguenze egualitarie concrete. In Lavoisier si trattava di elemento utopistico (elemento che appare, più o meno, in tutte le correnti culturali che presuppongono l’unicità di natura dell’uomo: cfr B. Croce in un capitolo di Cultura e Vita Morale dove cita una proposizione in latino di una dissertazione tedesca, affermante che la filosofia è la più democratica delle scienze perché il suo oggetto è la facoltà raziocinante, comune a tutti gli uomini – o qualcosa di simile); tuttavia Ilici lo assume come elemento dimostrativo, teorico, di un principio politico.
Q4 §46 Filosofia ‑ Politica ‑ economia. Se si tratta di elementi costitutivi di una stessa concezione del mondo, necessariamente ci deve essere, nei principii teorici, convertibilità da uno all’altro, traduzione reciproca nel proprio specifico linguaggio di ogni parte costitutiva: un elemento è implicito nell’altro e tutti insieme formano un circolo omogeneo (cfr la nota precedente su Giovanni Vailati e il linguaggio scientifico). Da questa proposizione conseguono per lo storico della cultura e delle idee alcuni canoni d’indagine e di critica di grande importanza:
Avviene che una grande personalità esprima il suo pensiero più fecondo non nella sede che apparentemente sarebbe la più «logica» dal punto di vista classificatorio esterno, ma in altra parte che apparentemente sembrerebbe estranea (mi pare che il Croce abbia parecchie volte sparsamente fatta questa osservazione critica). Un uomo politico scrive di filosofia: può darsi che la sua «vera» filosofia sia invece da ricercarsi negli scritti di politica. In ogni personalità c’è un’attività dominante e predominante: è in questa che occorre ricercare il suo pensiero, implicito il più delle volte e talvolta in contraddizione con quello espresso ex professo. È vero che in questo criterio di giudizio storico sono impliciti molti pericoli di dilettantismo e che nell’applicazione occorre andar molto cauti, ma ciò non toglie che il criterio sia fecondo di verità.
Avviene realmente che il «filosofo» occasionale più difficilmente sappia astrarre dalle correnti dominanti del suo tempo, dalle interpretazioni divenute dogmatiche di una certa concezione del mondo ecc.; mentre invece come scienziato della politica si sente libero da questi idola del tempo, affronta più immediatamente la stessa concezione del mondo, vi penetra nell’intimo e la sviluppa originalmente. A questo proposito è ancora utile e fecondo il pensiero espresso dalla Rosa [Luxemburg] sulla impossibilità di affrontare certe quistioni del materialismo storico in quanto esse non sono ancora divenute attuali per il corso della storia generale o di un dato raggruppamento sociale. Alla fase corporativa, alla fase di egemonia nella società civile (o di lotta per l’egemonia), alla fase statale corrispondono attività intellettuali determinate, che non si possono arbitrariamente improvvisare. Nella fase della lotta per l’egemonia si sviluppa la scienza della politica, nella fase statale tutte le superstrutture devono svilupparsi, pena il dissolvimento dello Stato.
Q4 §47 La oggettività del reale e Engels. In un certo punto (credo dell’Antidühring) Engels afferma, su per giù, che l’oggettività del mondo fisico è dimostrata dalle ricerche successive degli scienziati (cfr il testo esatto). Questa asserzione di Engels dovrebbe, secondo me, essere analizzata e precisata. Si intende per scienza l’attività teorica o l’attività pratico‑sperimentale degli scienziati? Io penso che deve essere intesa in questo secondo senso e che Engels voglia affermare il caso tipico in cui si stabilisce il processo unitario del reale, cioè attraverso l’attività pratica, che è la mediazione dialettica tra l’uomo e la natura, cioè la cellula «storica» elementare. Engels si riferisce alla rivoluzione che ha apportato nel mondo scientifico in generale, e anche nell’attività pratica, l’affermarsi del metodo sperimentale, che separa veramente due mondi della storia e inizia la dissoluzione della teologia e della metafisica e la nascita del pensiero moderno, la cui ultima e perfezionata espressione filosofica è il materialismo storico. L’«esperienza» scientifica è la prima cellula del nuovo processo di lavoro, della nuova forma d’unione attiva tra l’uomo e la natura: lo scienziato‑sperimentatore è un «operaio», un produttore industriale e agricolo, non è puro pensiero: è anch’egli, anzi egli è il primo esempio di uomo che il processo storico ha tolto dalla posizione di camminare sulla testa, per farlo camminare sui piedi.
Q4 §48 Il libro di Henri De Man. Nella «Civiltà Cattolica» del 7 settembre 1929, nell’articolo Per la pace sociale (del p. Brucculeri) che commenta il famoso lodo emesso dalla Congregazione del Concilio nel conflitto tra operai e industriali cattolici della regione Roubaix- Tourcoing, c’è questo passo: «Il marxismo – come dimostra nelle sue più belle pagine il De Man – è stata una corrente materializzatrice del mondo operaio odierno». Cioè le pagine del De Man sono tutte belle ma alcune sono più belle ancora. (Può spiegarsi così che Giuseppe Prezzolini, accennando nel «Pègaso» del settembre 1930 al libro del Philip sul «movimento operaio americano», qualifica il Philip come «democratico‑cristiano», sebbene nel libro questa qualità non risulti).
Nei fascicoli della «Civiltà Cattolica» del 5 ottobre e del 16 novembre 1929 è pubblicato un saggio molto diffuso sul libro del De Man. L’opera del De Man è reputata «nonostante le sue deficienze, la più importante e, diciamo pure, geniale, di quante finora ne annoveri la letteratura antimarxista». Verso la fine del saggio c’è questa «impressione complessiva»: «L’A. (il De Man), benché abbia superato una crisi di pensiero respingendo, con gesto magnanimo, il marxismo, è tuttavia ondeggiante, e la sua intelligenza sitibonda di vero non è a pieno soddisfatta. Egli batte sulle soglie della verità, raccoglie dei raggi, ma non si spinge innanzi per tuffarsi nella luce. – Auguriamo al De Man che, compiendo la sua crisi, possa elevarsi, come il gran vescovo di Tagaste (Agostino), dal divino riflesso che è la legge morale nell’anima, al divino infinito, alla sorgente eternamente splendida di tutto ciò cbe per l’universo si squaderna».
Finisce qui il gruppo di comprese sotto il titolo Appunti di filosofia. Materialismo e idealismo. Prima serie.
Q4 §49 Gli intellettuali. Prima quistione: gli intellettuali sono un gruppo sociale autonomo, oppure ogni gruppo sociale ha una sua propria categoria di intellettuali? Il problema è complesso per le varie forme che ha assunto finora il processo storico di formazione delle diverse categorie intellettuali. Le più importanti di queste forme sono due: organicamente, un ceto o più ceti di intellettuali che gli danno omogeneità e consapevolezza della propria funzione nel campo economico: l’imprenditore capitalista crea con sé l’economista, lo scienziato dell’economia politica. Inoltre c’è il fatto che ogni imprenditore è anche un intellettuale, nel senso che deve avere una certa capacità tecnica, oltre che nel campo economico in senso stretto, anche in altri campi, almeno in quelli più vicini alla produzione economica (deve essere un organizzatore di masse di uomini, deve essere un organizzatore della «fiducia» dei risparmiatori nella sua azienda, dei compratori della sua merce, ecc.); se non tutti gli imprenditori, almeno una élite di essi deve avere una capacità tecnica (di ordine intellettuale) di organizzatore della società in generale, in tutto il suo complesso organismo di servizi fino allo Stato, per avere le condizioni più favorevoli all’espansione del proprio gruppo, o per lo meno la capacità di scegliere i «commessi» specializzati in questa attività organizzatrice dei rapporti generali esterni all’impresa.
Anche i signori feudali erano detentori di una particolare forma di capacità: quella militare, ed è appunto dal momento in cui l’aristocrazia perde il monopolio della capacità tecnica militare che si inizia la crisi del feudalismo.
2) Ma ogni gruppo sociale, emergendo alla storia dalla struttura economica, trova o ha trovato, nella storia almeno fino ad ora svoltasi, delle categorie intellettuali preesistenti, e che apparivano anzi come rappresentanti una continuità storica ininterrotta anche dai più complicati mutamenti delle forme sociali e politiche. La più tipica di queste categorie intellettuali è quella degli ecclesiastici, monopolizzatori per lungo tempo di alcuni servizi essenziali (l’ideologia religiosa, la scuola e l’istruzione, e in generale la «teoria», con riferimento alla scienza, alla filosofia, alla morale, alla giustizia ecc., oltre alla beneficenza e all’assistenza ecc.), ma ce ne sono parecchie altre che in regime feudale furono in parte, almeno, equiparate giuridicamente all’aristocrazia (il clero, in realtà, esercitava la proprietà feudale della terra come i nobili ed economicamente era equiparato ai nobili, ma c’era per esempio, un’aristocrazia della toga, oltre a quella della spada, ecc.: nel paragrafo precedente, agli economisti, nati con gli imprenditori, occorre aggiungere i tecnici industriali e gli scienziati «applicati», categoria intellettuale strettamente connessa al gruppo sociale degli imprenditori, ecc.), gli scienziati «teorici», i filosofi non ecclesiastici, ecc. Siccome queste categorie sentono con «spirito di corpo» la continuità della loro qualifica intellettuale (Croce si sente come legato ad Aristotele più che ad Agnelli, ecc.) così appare una certa loro autonomia dal gruppo sociale dominante e il loro complesso può apparire come un gruppo sociale indipendente con propri caratteri, ecc.
Seconda quistione: quali sono i limiti massimi dell’accezione di «intellettuale»? È difficile trovare un criterio unico che caratterizzi ugualmente tutte le disparate attività intellettuali e nello stesso tempo le distingua in modo essenziale dalle attività degli altri raggruppamenti sociali. L’errore metodico più diffuso mi pare quello di aver cercato questa caratteristica essenziale nell’intrinseco dell’attività intellettuale e non invece nel sistema di rapporti in cui essa (o il raggruppamento che la impersona) si viene a trovare nel complesso generale dei rapporti sociali. Invero: 1) L’operaio non è specificamente caratterizzato dal lavoro manuale o strumentale (a parte la considerazione che non esiste lavoro puramente fisico e che anche l’espressione del Taylor di «gorilla ammaestrato» è una metafora per indicare un limite in una certa direzione: c’è, in qualsiasi lavoro fisico, anche il più meccanico e degradato, un minimo di qualifica tecnica, cioè un minimo di attività intellettuale creatrice), ma da questo lavoro in determinate condizioni e in determinati rapporti sociali. 2) È stato già notato che l’imprenditore, per la sua stessa funzione, deve avere in una certa misura un certo numero di qualifiche di carattere intellettuale, sebbene la sua figura sociale sia determinata non da esse ma dai rapporti generali sociali che si caratterizzano dalla posizione dell’imprenditore nell’industria.
Fatte queste distinzioni si può concludere per ora: il rapporto tra gli intellettuali e la produzione non è immediato, come avviene per i gruppi sociali fondamentali, ma è mediato ed è mediato da due tipi di organizzazione sociale: a) dalla società civile, cioè dall’insieme di organizzazioni private della società, b) dallo Stato. Gli intellettuali hanno una funzione nell’«egemonia» che il gruppo dominante esercita in tutta la società e nel «dominio» su di essa che si incarna nello Stato e questa funzione è precisamente «organizzativa» o connettiva: gli intellettuali hanno la funzione di organizzare l’egemonia sociale di un gruppo e il suo dominio statale, cioè il consenso dato dal prestigio della funzione nel mondo produttivo e l’apparato di coercizione per quei gruppi che non «consentono» né attivamente né passivamente o per quei momenti di crisi di comando e di direzione in cui il consenso spontaneo subisce una crisi. Da quest’analisi risulta un’estensione molto grande del concetto di intellettuali, ma solo così mi pare sia possibile giungere ad una approssimazione concreta della realtà.
La maggiore difficoltà ad accogliere questo modo di impostare la quistione mi pare venga da ciò: che la funzione organizzativa dell’egemonia sociale e del dominio statale ha vari gradi e che tra questi gradi ce ne sono di quelli puramente manuali e strumentali, di ordine e non di concetto, di agente e non di funzionario o di ufficiale, ecc., ma evidentemente nulla impedisce di fare questa distinzione (infermieri e medici in un ospedale, sacristi‑bidelli e preti in una chiesa, bidelli e professori in una scuola, ecc. ecc.).
Dal punto di vista intrinseco, l’attività intellettuale può essere distinta in gradi, che nei momenti di estrema opposizione danno una vera e propria differenza qualitativa: nel più alto gradino troviamo i «creatori» delle varie scienze, della filosofia, della poesia ecc.; nel più basso i più umili «amministratori e divulgatori» della ricchezza intellettuale tradizionale, ma nell’insieme tutte le parti si sentono solidali. Avviene anzi che gli strati più bassi sentano di più questa solidarietà di corpo e ne traggano una certa «boria» che spesso li espone ai frizzi e ai motteggi.
È da notare che nel mondo moderno, la categoria degli intellettuali, così intesa, si è ampliata in misura inaudita. La formazione di massa ha standardizzato gli individui e come qualifica tecnica e come psicologia, determinando gli stessi fenomeni che in tutte le altre masse standardizzate: concorrenza individuale che pone la necessità dell’organizzazione professionale di difesa, disoccupazione, ecc.
Diversa posizione degli intellettuali di tipo urbano e di tipo rurale. Gli intellettuali di tipo urbano sono piuttosto legati all’industria; essi hanno la stessa funzione che gli ufficiali subalterni nell’esercito: mettono in rapporto l’imprenditore con la massa strumentale, rendono esecutivo il piano di produzione stabilito dallo stato maggiore dell’industria. Gli intellettuali urbani sono molto standardizzati nella loro media generale, mentre gli alti intellettuali si confondono sempre più col vero e proprio stato maggiore «organico» dell’alta classe industriale.
Gli intellettuali di tipo rurale mettono a contatto la massa contadina con l’amministrazione statale o locale (avvocati, notai, ecc.) e per questa stessa funzione hanno una maggiore importanza politica: questa mediazione professionale infatti è difficilmente scindibile dalla mediazione politica. Inoltre: nella campagna l’intellettuale (prete, avvocato, maestro, notaio, medico, ecc.) rappresenta per il medio contadino un modello sociale nell’aspirazione a uscire dalla propria situazione per migliorare. Il contadino pensa sempre che almeno un suo figlio potrebbe diventare intellettuale (specialmente prete), cioè diventare un signore, elevando il grado sociale della famiglia e facilitandone la vita economica con le aderenze che non potrà non avere tra gli altri signori. L’atteggiamento del contadino verso l’intellettuale è duplice: egli ammira la posizione sociale dell’intellettuale e in generale del dipendente statale, ma finge talvolta di disprezzarla, cioè la sua ammirazione istintiva è intrisa da elementi d’invidia e di rabbia appassionata. Non si comprende nulla dei contadini se non si considera questa loro subordinazione effettiva agli intellettuali e non si comprende che ogni sviluppo delle masse contadine fino a un certo punto è legato ai movimenti degli intellettuali e ne dipende.
Altro è il caso per gli intellettuali urbani; i tecnici di fabbrica non esercitano nessun influsso politico sulle masse strumentali, o almeno è questa una fase già oltrepassata; talvolta avviene proprio il contrario, che le masse strumentali, almeno attraverso i loro propri intellettuali organici, esercitano un influsso sui tecnici.
Il punto centrale della quistione rimane però la distinzione tra intellettuali come categoria organica di ogni gruppo sociale e intellettuali come categoria tradizionale, distinzione da cui scaturisce tutta una serie di problemi e di possibili ricerche storiche. Il problema più interessante è quello che riguarda l’analisi del partito politico da questo punto di vista.
Cosa diventa il partito politico in ordine al problema degli intellettuali? Esso mi pare possa dirsi appunto il meccanismo che nella società civile compie la stessa funzione che compie lo Stato in misura maggiore nella società politica, cioè procura la saldatura tra intellettuali organici di un gruppo sociale e intellettuali tradizionali, funzione che può compiere in dipendenza della sua funzione fondamentale di elevare i membri «economici» di un gruppo sociale alla qualità di «intellettuali politici», cioè di organizzatori di tutte le funzioni inerenti all’organico sviluppo di una società integrale, civile e politica. Si può dire anzi che nel suo ambito il partito politico compie la sua funzione molto più organicamente di quanto lo Stato compia la sua nel suo ambito più vasto: un intellettuale che entra a far parte del partito politico di un determinato gruppo sociale, si confonde con gli intellettuali organici di tal gruppo, si lega strettamente a quel gruppo, ciò che non avviene attraverso la partecipazione alla vita statale che mediocremente e talvolta affatto. Avviene anzi che molti intellettuali pensino di esser loro lo Stato, credenza che data la massa imponente della categoria talvolta ha conseguenze voli e porta a delle complicazioni spiacevoli per il gruppo sociale economico che realmente è lo Stato.
Che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come intellettuali: ecco un’affermazione che può prestarsi allo scherzo; pure, se si riflette, niente di più esatto. Sarà da fare distinzione di gradi, un partito potrà avere maggiore o minore composizione del grado più alto o del grado più basso; non è ciò che importa: importa la funzione che è educativa e direttiva, cioè intellettuale. Un commerciante non entra a far parte di un partito politico per fare del commercio, né un industriale per produrre di più e meglio, né un contadino per apprendere nuovi metodi di coltivar la terra, anche se qualche aspetto di queste esigenze del commerciante, dell’industriale, del contadino possono trovare soddisfazione nel partito politico (l’opinione generale contraddice a ciò, affermando che il commerciante, l’industriale, il contadino «politicanti» perdono invece di guadagnare, ciò che può essere discusso). Per questi scopi, entro certi limiti, esiste il sindacato professionale, in cui la funzione economico‑corporativa del commerciante, dell’industriale, del contadino trova il suo quadro più adatto. Nel partito politico gli elementi di un gruppo sociale economico superano questo momento del loro sviluppo storico e diventano agenti di attività generali, di carattere nazionale e internazionale (cfr la nota «Rapporti tra struttura e superstruttura» a p. 67). Questa funzione del partito politico dovrebbe apparire molto più chiara da un’analisi storica concreta del come si sono sviluppate le categorie organiche degli intellettuali e gli intellettuali tradizionali sia nel terreno dei vari sviluppi nazionali, sia in quello dello sviluppo dei vari gruppi sociali più importanti nel quadro delle varie nazioni, specialmente di quei gruppi sociali la cui attività economica è stata prevalentemente strumentale. La formazione degli intellettuali tradizionali è il problema storico più interessante. Esso è certamente legato alla schiavitù del mondo classico e alla situazione dei liberti di origine greca e orientale nell’organizzazione sociale dell’Impero romano. Questo distacco non solo sociale ma nazionale, di razza, tra masse voli di intellettuali e la classe dominante nell’Impero Romano si riproduce dopo la caduta di Roma tra guerrieri germanici e intellettuali di origine latina continuatori dei liberti‑intellettuali. Si intreccia con questo fenomeno il nascere e lo svilupparsi del cattolicismo e dell’organizzazione ecclesiastica che per molti secoli assorbe la maggior parte delle attività intellettuali ed esercita il monopolio della direzione intellettuale, con sanzioni penali per chi vuole opporsi o anche eludere questo monopolio.
A questo fenomeno si collega l’altro della funzione cosmopolita degli intellettuali italiani, su cui (ci sono) molte scritte sparsamente nei diversi quaderni.
Nello sviluppo degli intellettuali europei si osservano molte differenze tra nazione e nazione; ne accennerò le più voli, che dovranno essere approfondite (d’altronde tutte le affermazioni contenute in questa nota devono essere considerate semplicemente come spunti e motivi per la memoria, che occorrono di essere controllati e approfonditi):
1) Per l’Italia il fatto centrale è appunto la funzione internazionale o cosmopolita dei suoi intellettuali che è causa ed effetto dello stato di disgregazione in cui rimane la penisola dalla caduta dell’Impero romano fino al 1870.
2) La Francia dà un tipo compiuto di sviluppo armonico di tutte le energie nazionali e specialmente delle categorie intellettuali: quando nel 1789 un nuovo raggruppamento sociale affiora politicamente alla storia, esso è completamente attrezzato per tutte le sue funzioni sociali e perciò lotta per il dominio totale della nazione, senza venire a compromessi essenziali con le vecchie classi, anzi subordinandosele. Le prime cellule intellettuali del nuovo tipo nascono con le prime cellule economiche; la stessa organizzazione ecclesiastica ne è influenzata (gallicanismo, lotte tra Chiesa e Stato molto precoci). Questa massiccia costituzione intellettuale spiega la funzione intellettuale della Francia nella seconda metà del secolo XVIII e in tutto il secolo XIX, funzione internazionale e cosmopolita di irradiazione e di espansione a carattere imperialistico organico, quindi ben diversa da quella italiana, a carattere immigratorio personale e disgregato che non refluisce sulla base nazionale per potenziarla ma invece per renderla impossibile.
3) In Russia diversi spunti: l’organizzazione politica commerciale è creata dai Normanni (Varieghi), quella religiosa dai greci bizantini; in un secondo tempo i tedeschi e i francesi danno uno scheletro resistente alla gelatina storica russa. Le forze nazionali sono passive, ma forse per questa stessa passività assimilano le influenze straniere e anche gli stessi stranieri, russificandoli. Nel periodo storico più moderno avviene il fenomeno inverso: una élite di gente tra la più attiva, intraprendente e disciplinata emigra all’estero, assimila la cultura dei paesi più progrediti dell’occidente, senza perciò perdere i caratteri più essenziali della propria nazionalità, senza cioè rompere i legami sentimentali e storici del proprio popolo e fatto così il suo garzonato intellettuale, rientra nel paese, costringendo il popolo a un forzato risveglio. La differenza tra questa élite e quella tedesca (di Pietro il grande per esempio) consiste nel suo carattere essenziale nazionale‑popolare: essa non può essere assimilata dalla passività russa, perché essa stessa è una energica reazione russa alla propria passività storica. In un altro terreno e in ben diverse condizioni di tempo e di spazio, questo fenomeno russo può essere paragonato alla nascita della nazione americana (Stati Uniti): gli immigrati anglosassoni in America sono anch’essi un’élite intellettuale, ma specialmente morale. Si vuol parlare naturalmente dei primi immigrati, dei pionieri, protagonisti delle lotte religiose inglesi, sconfitti, ma non umiliati né depressi. Essi importano in America, con se stessi, oltre l’energia morale e volitiva, un certo grado di civiltà, una certa fase dell’evoluzione storica europea, che trapiantata nel suolo vergine americano e avendo tali agenti, continua a sviluppare le forze implicite nella sua natura, ma con un ritmo incomparabilmente più rapido che nella vecchia Europa, dove esistono tutta una serie di freni (morali e intellettuali, incorporati in determinati gruppi della popolazione) che si oppongono a un altrettanto rapido processo ed equilibrano nella mediocrità ogni iniziativa, diluendola nel tempo e nello spazio.
4) In Inghilterra lo sviluppo è molto diverso che in Francia. Il nuovo raggruppamento sociale, nato sulla base dell’industrialismo moderno, ha un sorprendente sviluppo economico‑corporativo, ma procede a tastoni nel campo intellettuale‑politico. Molto numerosi sono gli intellettuali organici, nati cioè nello stesso terreno industriale col raggruppamento economico, ma nella fase più elevata di sviluppo troviamo conservata la posizione di quasi monopolio della vecchia classe terriera, che perde la sua supremazia economica, ma conserva a lungo la sua supremazia politico‑intellettuale e viene assimilata come strato dirigente del nuovo raggruppamento al potere. Cioè: la vecchia aristocrazia terriera si unisce agli industriali con un tipo di sutura simile a quello con cui alla classe dominante si uniscono gli «intellettuali tradizionali» in altri paesi.
5) Il fenomeno inglese si presenta anche in Germania aggravato per la complicazione di altri fenomeni. Anche la Germania, come l’Italia, è stata la sede di una istituzione e di una ideologia universalistica, supernazionale (Sacro Romano Impero della Nazione tedesca) ed ha dato una certa quantità di personale alla cosmopoli medioevale, depauperando le proprie energie nazionali, che hanno mantenuto a lungo la disgregazione territoriale del Medio Evo. Lo sviluppo industriale è avvenuto sotto un involucro semifeudale durato fino al novembre 1918 e i latifondisti Junker alleati alla piccola borghesia hanno mantenuto una supremazia politico‑intellettuale ben maggiore di quella dello stesso gruppo inglese. Essi sono stati gli intellettuali tradizionali degli industriali tedeschi, ma con speciali privilegi e con una forte coscienza di raggruppamento indipendente data dal fatto che detenevano un notevole potere economico sulla terra «produttiva» più che in Inghilterra. Gli Junker prussiani rassomigliano a una casta sacerdotale, che svolge un’attività essenzialmente intellettuale, ma nello stesso tempo ha una base economica propria e non dipende dalla liberalità del gruppo dominante. Del resto è facile pensare che la diversa situazione della nobiltà inglese e di quella prussiana si sarebbero equiparate con l’andar del tempo, nonostante il fatto che in Germania la potenza militare territoriale e non solo marittima come in Inghilterra desse agli Junker una base organizzativa favorevole alla conservazione del loro monopolio politico.
Fuori d’Europa sarebbero da esaminare e studiare altre manifestazioni originali dello sviluppo delle categorie intellettuali. Negli Stati Uniti è da notare l’assenza degli intellettuali tradizionali e quindi il diverso equilibrio degli intellettuali in generale; formazione massiccia sulla base industriale di tutte le superstrutture moderne. La necessità di un equilibrio non è data dal fatto che occorra fondere gli intellettuali organici con quelli tradizionali che come categoria non esistono, ma dal fatto che occorre fondere in un unico crogiolo nazionale tipi di culture diverse portati dagli immigrati di varie origini nazionali. La mancanza degli intellettuali tradizionali spiega in parte da una parte il fatto dell’esistenza di due soli partiti, che si potrebbero poi ridurre facilmente a uno solo (cfr con la Francia non solo del dopoguerra, quando la moltiplicazione dei partiti è diventata fenomeno generale) e invece all’opposto la moltiplicazione illimitata delle Chiese (mi pare che sono catalogate 213 sette protestanti; confronta con la Francia e con le lotte accanite sostenute per mantenere l’unità religiosa e morale del popolo francese). Sugli intellettuali americani si trovano varie sparse nei vari quaderni.
Una manifestazione interessante è ancora da studiare in America ed è la formazione di un sorprendente numero di intellettuali negri che assorbono la cultura e la tecnica americana. Si può pensare all’influsso indiretto che questi intellettuali negri americani possono esercitare sulle masse arretrate dell’Africa e a quello diretto se si verificasse una di queste ipotesi: 1) che l’espansionismo americano si serva come di suoi agenti dei negri d’America per conquistare i mercati africani (qualcosa di questo genere è già avvenuto, ma ignoro in qual misura); 2) che le lotte di razza in America si inaspriscano in tal misura da determinare l’esodo e il ritorno in Africa degli elementi negri intellettuali più spiritualmente indipendenti e attivi e quindi meno facili ad assoggettarsi a una possibile legislazione ancora più umiliante del costume attualmente diffuso. Si pone la quistione: 1) della lingua, poiché i negri d’America sono inglesi di lingua e d’altronde in Africa c’è un pulviscolo di dialetti; 2) se il sentimento nazionale può sostituire quello di razza, innalzando il continente africano alla funzione di patria comune di tutti i negri (sarebbe il primo caso di un continente intero considerato unica nazione). I negri d’America mi pare debbano avere uno spirito di razza e nazionale più negativo che positivo, creato cioè dalla lotta che i bianchi fanno per isolarli e deprimerli; ma non fu questo il caso degli ebrei fino a tutto il 700? La Liberia già americanizzata e con lingua ufficiale inglese potrebbe diventare la Sion dei negri americani, con la tendenza a diventare tutta l’Africa, a essere il Piemonte dell’Africa.
Nell’America meridionale e centrale mi pare che la quistione degli intellettuali sia da esaminare tenendo conto di queste condizioni fondamentali: anche nell’America meridionale e centrale non esiste la categoria degli intellettuali tradizionali, ma la cosa non si presenta negli stessi termini che negli Stati Uniti. Infatti troviamo alla base dello sviluppo di questi paesi la civiltà spagnola e portoghese del 500 e del 600 caratterizzata dalla Controriforma e dal militarismo. Le cristallizzazioni più resistenti ancora oggi in questa parte dell’America sono il clero e l’esercito anche oggi, due categorie intellettuali che in parte continuano la tradizione delle madri patrie europee. Inoltre la base industriale è molto ristretta e non ha sviluppato superstrutture complicate: la maggior quantità di intellettuali è di tipo rurale e poiché domina il latifondo, con estese proprietà ecclesiastiche, questi intellettuali sono legati al clero e ai grandi proprietari. Il problema si complica per le masse voli di pellirosse che in alcuni paesi sono la maggioranza della popolazione. Si può dire in generale che nell’America meridionale e centrale esiste ancora una situazione da Kulturkampf e da processo Dreyfus, cioè una situazione in cui l’elemento laico e civile non ha superato la fase della subordinazione alla politica laica del clero e della casta militare. Così avviene che in contrapposto all’influenza dei gesuiti abbia molta importanza la Massoneria e i tipi di organizzazione culturale come la «Chiesa positivista». Gli avvenimenti di questi ultimi tempi (scrivo nel novembre 1930), dal Kulturkampf messicano di Calles ai movimenti militari‑popolari in Argentina, nel Brasile, nel Perù, in Bolivia dimostrano appunto la verità di queste affermazioni. Sugli intellettuali dell’America meridionale ci sono sparse nei vari quaderni.
Un altro tipo di manifestazione dello sviluppo degli intellettuali si può trovare in India, in Cina e nel Giappone. Non che sia da confondere l’India e la Cina col Giappone. Il Giappone si avvicina al tipo di sviluppo inglese e tedesco, cioè di una civiltà industriale che si sviluppa entro l’involucro semifeudale, ma, a quanto mi pare, più al tipo inglese che a quello tedesco. In Cina c’è il problema della scrittura, espressione della completa separazione degli intellettuali dal popolo. In India e in Cina si presenta il fenomeno della enorme distanza tra la religione del popolo e quella del clero e degli intellettuali, anch’essa legata al distacco tra intellettuali e popolo. Questo fatto delle diverse credenze e del modo diverso di concepire e praticare la stessa religione tra i diversi strati della società ma specialmente tra clero e popolo dei fedeli dovrebbe essere studiato in generale, sebbene nei paesi dell’Asia abbia le manifestazioni più estreme. Credo che nei paesi protestanti la differenza sia relativamente piccola. È molto notevole nei paesi cattolici, ma presenta gradi diversi: meno grande nella Germania cattolica e in Francia, più grande in Italia, specialmente meridionale e insulare, grandissima nella penisola iberica e nei paesi dell’America latina. Il fenomeno aumenta di portata nei paesi ortodossi ove bisogna parlare di tre gradi della stessa religione: quella dell’alto clero e dei monaci, quella del clero secolare e quella del popolo; e diventa catastrofico nell’Asia orientale (non nel Giappone) in cui la religione del popolo non ha nulla a che vedere spesso con quella dei libri, sebbene alle due si dia lo stesso nome.
Altri numerosi aspetti ha il problema degli intellettuali, oltre quelli accennati nelle pagine precedenti. Occorrerà farne un prospetto organico, sistemato e ragionato. Attività di carattere prevalentemente intellettuale; istituzioni legate all’attività culturale; metodi e problemi di metodo del lavoro intellettuale, creativo e divulgativo; riviste e giornali come organizzazioni di divulgazione intellettuale; accademie e circoli vari come istituzioni di elaborazione collegiale della vita culturale. Su molti di questi motivi ho scritto sparsamente delle nei vari quaderni sotto diverse rubriche, specialmente sotto quella di «Riviste tipo». Si può osservare in generale che nella civiltà moderna tutte le attività pratiche sono diventate così complesse e che le scienze si sono talmente intrecciate alla vita che ogni attività tende a creare una scuola per i propri specialisti e quindi a creare un gruppo di specialisti intellettuali che insegnino in queste scuole. Così accanto al tipo di scuola che si potrebbe chiamare «umanistica», perché rivolta a sviluppare in ogni individuo umano la cultura generale ancora indifferenziata, la potenza fondamentale di pensare e di sapersi dirigere nella vita, si sta creando tutto un sistema di scuole specializzate di vario grado, per intere branche professionali o per professioni già specializzate e indicate con precisa individuazione. Si può anzi dire che la crisi scolastica che oggi imperversa è appunto legata al fatto che questo processo di differenziazione avviene caoticamente, senza un piano bene studiato, senza principii chiari e precisi: la crisi del programma scolastico, cioè dell’indirizzo generale formativo, è in gran parte una complicazione della crisi più generale. La divisione fondamentale della scuola media in professionale e classica era uno schema razionale: la scuola professionale per le classi strumentali, la scuola classica per le classi dominanti e intellettuali. Ma lo sviluppo della base industriale sia urbana che agricola tendeva a dare incremento al nuovo tipo di intellettuale urbano e allora ci fu una scissione della scuola in classica e tecnica (professionale ma non manuale), ciò che mise in discussione il principio stesso dell’indirizzo di cultura generale, dell’indirizzo umanistico, della cultura generale basata sulla tradizione classica. Questo indirizzo una volta messo in discussione può dirsi spacciato, poiché la sua capacità formativa era in gran parte basata sul prestigio generale di una forma di civiltà. Oggi la tendenza è di abolire ogni tipo di scuola «disinteressata» (cioè non immediatamente interessata) e «formativa» o di lasciarne solo un esemplare ridotto per una piccola élite di ricchi e di signorine che non devono pensare a prepararsi un avvenire e di diffondere sempre più le scuole specializzate professionali in cui il destino dell’allievo e la sua futura attività sono predeterminati.
La crisi avrà certamente una soluzione che razionalmente dovrebbe avere questa linea: scuola unica iniziale di cultura generale, umanistica, con giusto contemperamento dello sviluppo della potenza di operare manualmente (tecnicamente, industrialmente) e della potenza di pensare, di operare intellettualmente. Da questo tipo di scuola unica, attraverso l’orientamento professionale, si passerà a una delle scuole specializzate professionali (in senso largo) ecc.
In ogni modo occorre tener presente il principio che ogni attività pratica tende a crearsi una scuola particolare, così come ogni attività intellettuale tende a crearsi un «circolo di cultura» proprio; avverrà che anche ogni organismo direttivo dovrà scindere la sua operosità in due direzioni fondamentali: quella deliberativa che è la sua essenziale, e quella culturale‑informativa in cui le quistioni su cui occorre discutere saranno prima discusse «accademicamente» per così dire. Il fatto avviene anche oggi, ma in maniera burocratica: ogni corpo deliberante ha i suoi uffici specializzati di periti che preparano il materiale delle discussioni e delle deliberazioni. È questo uno dei meccanismi attraverso cui la burocrazia finisce col dominare nei regimi democratici parlamentari. Mi pare appunto che si porrà la quistione di incorporare nei corpi deliberanti e direttivi stessi la capacità tecnica presupposta per la competenza.
A questo proposito vedere quanto ho scritto in una nota della rubrica «Riviste tipo»: in attesa che si formi un gruppo di intellettuali abbastanza preparati per essere in grado di produrre una regolare attività libraria (s’intende di libri organici e non di pubblicazioni d’occasione o di raccolte di articoli) e come mezzo per accelerare questa formazione, intorno alle riviste tipo dovrebbe costituirsi un circolo di cultura, che collegialmente criticasse ed elaborasse i lavori dei singoli, distribuiti secondo un piano e riguardanti quistioni di principio (programmatiche). I lavori, nella elaborazione definitiva, cioè dopo aver subito la critica e la revisione collegiale, dopo aver raggiunto una estrinsecazione su cui l’opinione collegiale sia fondamentalmente concorde, dovrebbero essere raccolti nell’Annuario a cui accennai nella nota. Attraverso la discussione e la critica collegiale (fatta di suggerimenti, di consigli, di indicazioni metodiche, critica costruttiva e rivolta alla educazione reciproca) si innalzerebbe il livello medio dei membri del circolo, fino a raggiungere l’altezza e la capacità del più preparato. Dopo i primi lavori sarebbe possibile all’ufficio di presidenza o di segreteria avere dei criteri e delle indicazioni sui lavori ulteriori da assegnare e sulla loro distribuzione organica, in modo da indurre i singoli a specializzarsi e a crearsi le condizioni di specializzazione: schedari, spogli bibliografici, raccolte delle opere fondamentali specializzate, ecc. Il metodo di lavoro dovrebbe essere molto severo e rigoroso: nessuna improvvisazione e declamazione. I lavori, scritti e distribuiti preventivamente a tutti i soci del circolo, dovrebbero essere criticati per iscritto, in stringate, che elencassero le manchevolezze, i suggerimenti, i punti necessari di chiarimento, ecc. Si potrebbe introdurre un principio fecondo di lavoro: ogni membro del circolo incaricato di un certo lavoro potrebbe scegliere tra gli altri un consigliere guida che lo indirizzi e lo aiuti con arte «maieutica», cioè che non si sostituisca a lui ma solo lo aiuti a lavorare e a sviluppare in sé una disciplina di lavoro, un metodo di produzione, che lo «taylorizzi» intellettualmente, per così dire.
Q4 §50 La scuola unitaria. Un punto importante nello studio dell’organizzazione pratica della scuola unitaria è la fissazione della carriera scolastica nei suoi vari gradi secondo l’età e la maturità intellettuale‑morale dei giovani e secondo i fini che la scuola vuol raggiungere.
La scuola unitaria o di cultura generale «umanistica» (intesa in senso largo e non solo nel senso tradizionale) dovrebbe proporsi di immettere nella vita attiva i giovani con una certa autonomia intellettuale, cioè con un certo grado di capacità alla creazione intellettuale e pratica, di orientamento indipendente. La fissazione dell’età scolastica obbligatoria varia col variare delle condizioni economiche generali da cui dipendono due conseguenze secondo il nostro punto di vista della scuola unitaria: 1) la necessità di far lavorare i giovani per averne subito un certo apporto produttivo immediato; 2) la disponibilità finanziaria statale da dedicare all’educazione pubblica che dovrebbe essere di una certa grandezza per l’estensione che la scuola assumerebbe come edifizi, come materiale didattico in senso largo, come corpo di insegnanti; il corpo degli insegnanti specialmente crescerebbe di molto, perché la efficienza della scuola è tanto maggiore e rapida quanto più è piccolo il rapporto tra allievi e maestri, ma ciò pone il problema della formazione di un tal corpo, non certo di facile e rapida soluzione. Anche la quistione degli edifizi non è semplice, perché questo tipo di scuola, proponendosi anche la rapidità, deve essere una scuola‑collegio, con dormitori, refettori, biblioteche specializzate, sale adatte per il lavoro di seminario ecc. Si può dire che inizialmente il nuovo tipo di scuola dovrà e non potrà non essere di élites di giovani scelti per concorso o indicati sotto la loro responsabilità dalle istituzioni private idonee.
Prendendo come tipo di riferimento la attuale scuola classica: 1) elementari, 2) ginnasio, 3) liceo, 4) università con le specializzazioni professionali, teoretiche o pratiche si può dire che la scuola unitaria comprenderebbe i primi tre gradi riorganizzati, non solo per il contenuto e il metodo dell’insegnamento, ma anche per la disposizione della carriera scolastica. Le elementari dovrebbero essere di tre- quattro anni e insegnare dogmaticamente (sempre in modo relativo) i primi elementi della nuova concezione del mondo, lottando contro la concezione del mondo data dall’ambiente tradizionale (folklore in tutta la sua estensione) oltre a dare, s’intende, gli strumenti primordiali della cultura: leggere, scrivere, far di conto, nozioni di geografia, storia, diritti e doveri (cioè prime nozioni sullo Stato e la società). Il ginnasio potrebbe essere ridotto a quattro anni e il liceo a due, in modo che un bambino che è entrato in iscuola a sei anni potrebbe a quindici‑sedici aver percorso tutta la scuola unitaria. A chi può obbiettare che un tale corso scolastico è troppo faticoso per la sua rapidità se si vogliono raggiungere gli stessi risultati dell’attuale organizzazione della scuola classica, si può rispondere che il complesso della nuova organizzazione contiene in sé gli elementi generali per cui già oggi per un certo numero di allievi l’attuale organizzazione è invece troppo lenta. Quali sono questi elementi? In una serie di famiglie specialmente delle classi intellettuali, i ragazzi trovano nella vita famigliare una continuazione e una integrazione della vita scolastica, apprendono come si dice «nell’aria» tutta una quantità di nozioni e di attitudini che facilitano la carriera scolastica propriamente detta; inoltre essi cominciano ad apprendere qualche anno prima dell’inizio delle elementari la lingua letteraria, cioè un mezzo di espressione e di pensiero superiore a quello della media della popolazione scolastica dai sei ai dieci anni. Così c’è una differenza tra gli allievi della città e quelli della campagna: per il solo fatto di vivere in città un bambino da uno a sei anni assorbe tutta una quantità di nozioni e di attitudini che rendono più facile, più proficua e più rapida la carriera scolastica.
Nell’organizzazione della scuola unitaria devono esistere almeno le principali di queste condizioni. Intanto è da supporre che durante il suo sviluppo si sviluppino parallelamente gli asili infantili, istituzioni in cui anche sotto i sei anni i bambini si abituano a una certa disciplina collettiva ed acquistano nozioni ed attitudini prescolastiche. Lo stesso avverrà successivamente, se la scuola porterà con sé la vita di collegio diurna e notturna, liberata dalle attuali forme di disciplina ipocrita e meccanica e con l’assistenza agli allievi non solo in classe, ma anche nelle ore di studio individuale, con la partecipazione a questa assistenza dei migliori allievi, ecc.
Il problema fondamentale si pone in quella fase dell’attuale carriera scolastica che oggi è rappresentata dal liceo, e che oggi non si differenzia per nulla, come tipo d’insegnamento, dalle classi precedenti, altro che per la supposizione di una maggiore maturità intellettuale e morale dell’allievo come un portato della maggiore età e dell’esperienza accumulata precedentemente. Di fatto però tra liceo e università c’è un salto, una vera soluzione di continuità, non un passaggio normale dalla quantità (età) alla qualità (maturità intellettuale e morale). Dall’insegnamento quasi puramente ricettivo si passa alla scuola creativa; dalla scuola con disciplina dello studio imposta e controllata dal di fuori si passa alla scuola in cui l’autodisciplina intellettuale e l’autonomia morale è teoricamente illimitata. E ciò avviene subito dopo la crisi della pubertà, quando la foga delle passioni istintive ed elementari non ha ancora finito di lottare coi freni del carattere e della coscienza morale. In Italia poi, dove nelle Università non è diffuso il principio del «seminario», il passaggio è ancora più brusco e meccanico. Ecco dunque che nella scuola unitaria la fase del Liceo deve essere concepita come la fase transitoria più importante in cui la scuola tende a creare i valori fondamentali dell’«umanesimo», l’autodisciplina intellettuale e l’autonomia morale necessarie per l’ulteriore specializzazione, sia che essa sia di carattere intellettuale (studi universitari) sia che sia di carattere immediatamente pratico‑produttivo (industria, organizzazione degli scambi, burocrazia ecc.). Lo studio del metodo scientifico deve cominciare nel Liceo e non essere più un monopolio dell’Università: il Liceo deve essere già un elemento fondamentale dello studio creativo e non solo ricettivo (io faccio una differenza tra scuola creativa e scuola attiva: tutta la scuola unitaria è scuola attiva, mentre la scuola creativa è una fase, il coronamento della scuola attiva. Naturalmente sia scuola attiva che scuola creativa devono essere intese rettamente: la scuola attiva, dalla fase romantica in cui gli elementi della lotta contro la scuola meccanica e gesuitica si sono dilatati morbosamente per ragioni di contrasto e di polemica, deve trovare e raggiungere la fase classica, liberata dagli elementi spuri polemici e che trova in se stessa e nei fini che vuol raggiungere la sua ragione di essere e l’impulso a trovare le sue forme e i suoi metodi. Così scuola creativa non significa scuola di «inventori e scopritori» di fatti ed argomenti originali in senso assoluto, ma scuola in cui la «recezione» avviene per uno sforzo spontaneo e autonomo dell’allievo e in cui il maestro esercita specialmente una funzione di controllo e di guida amichevole come avviene, o dovrebbe avvenire oggi nelle Università. Scoprire da se stessi, senza suggerimenti e impulsi esterni, una verità è «creazione», anche se la verità è vecchia: in ogni modo si entra nella fase intellettuale in cui si possono scoprire verità nuove, poiché da se stessi si è raggiunta la conoscenza, si è scoperta una «verità» vecchia). Nel Liceo dunque l’attività scolastica fondamentale si svolgerà nei seminari, nelle biblioteche, nei gabinetti sperimentali, nei laboratori: in esso si raccoglieranno gli elementi fondamentali per l’orientazione professionale.
Un’innovazione essenziale sarà determinata dall’avvento della scuola unitaria nei rapporti oggi esistenti tra Università e Accademie. Oggi queste due istituzioni sono indipendenti l’una dall’altra e le Accademie (le grandi Accademie, naturalmente) hanno un posto gerarchicamente superiore a quello delle Università. Colla scuola unitaria, le Accademie dovranno diventare l’organizzazione intellettuale (di sistemazione e creazione intellettuale) di quegli elementi che dopo la scuola unitaria non faranno l’Università, ma si inizieranno subito a una professione. Questi elementi non dovranno cadere nella passività intellettuale, ma dovranno avere a disposizione un organismo, specializzato in tutte le branche industriali e intellettuali, al quale potranno collaborare e nel quale dovranno trovare tutti i mezzi necessari per il lavoro creativo che vogliono intraprendere. Il sistema accademico verrà riorganizzato e vivificato. Territorialmente esso avrà una gerarchia: un centro nazionale che si aggregherà le grandi accademie nazionali, delle sezioni provinciali e dei circoli locali urbani e rurali. Si dividerà poi per sezioni specializzate che saranno tutte rappresentate al centro e nelle province e solo parzialmente nei circoli locali. Il principio sarà quello degli Istituti di Cultura di un determinato raggruppamento sociale. Il lavoro accademico tradizionale, cioè la sistemazione del sapere esistente (tipo italiano attuale dell’Accademia) e la guida e stabilizzazione secondo una media (pensiero medio) delle attività intellettuali (tipo francese dell’Accademia) diventerà solo un aspetto della nuova organizzazione che dovrà avere un’attività creativa e di divulgazione con autorità collettiva. Essa controllerà le conferenze industriali, le conferenze e le attività di organizzazione scientifica del lavoro, i gabinetti sperimentali di fabbrica, ecc. e sarà il meccanismo selettivo per mettere in valore le capacità individuali della periferia. Ogni circolo locale di questa organizzazione dovrà avere la sezione di scienze morali e politiche, ma potrà crearsi, a domanda degli interessati, una sezione di scienze applicate, per discutere dal punto di vista della cultura, le quistioni industriali, agrarie, di organizzazione e razionalizzazione del lavoro di fabbrica, agricolo, burocratico. Congressi periodici, elettivi per i rappresentanti, metteranno in luce i più capaci presso i dirigenti dei gradi superiori, ecc. Nelle sezioni provinciali e al centro tutte le attività dovranno essere rappresentate, con laboratori, biblioteche, ecc. I contatti gerarchici saranno tenuti dai conferenzieri e da ispettori: le sezioni provinciali e il Centro (che potrebbe riprodurre l’attuale Collegio di Francia) dovrebbero periodicamente invitare, a fare relazioni accademiche, rappresentanti delle sezioni subordinate, fare dei concorsi, stabilire dei premi (borse di studio all’interno e all’estero). Sarebbe utile avere l’elenco completo delle Accademie attualmente esistenti e delle materie che sono prevalentemente trattate nei loro Atti: in gran parte si tratta di cimiteri della cultura.
La collaborazione tra questa organizzazione e le Università dovrebbe essere stretta, così come con le scuole superiori specializzate di altri rami (militare, navale, ecc.). Si avrebbe, con questa organizzazione, una centralizzazione e un impulso della cultura inaudito su tutta l’area nazionale. Inizialmente si potrebbero avere il Centro nazionale e i circoli locali con poche sezioni.
Lo schema esposto indica solo una linea programmatica di principio, che potrebbe essere percorsa gradualmente. Quindi sarebbe necessario integrare lo schema con le misure transitorie indispensabili: in ogni modo anche queste misure transitorie dovrebbero essere concepite nello spirito generale di questa linea, in modo che le istituzioni transitorie possano mano a mano essere assorbite nello schema fondamentale senza soluzione di continuità e crisi.
Q4 §51 Braccio e cervello. La distinzione delle categorie intellettuali dalle altre si riferisce alla funzione sociale, all’attività professionale, cioè tiene conto del peso massimo che grava nella attività professionale più sullo sforzo cerebrale che su quello muscolare (nervoso). Ma già questo rapporto non è sempre uguale, quindi diversi gradi di attività intellettuale. Bisogna poi riconoscere che in ogni professione non si può mai escludere una certa attività intellettuale e infine che ogni uomo, all’infuori della sua professione, esplica una qualche attività intellettuale, è un filosofo, partecipa di una concezione del mondo e quindi contribuisce a mantenerla, a modificarla, cioè a creare delle nuove concezioni. Si tratta dunque di elaborare questa attività che ha sempre un certo grado di sviluppo, modificando il suo rapporto con lo sforzo muscolare in un nuovo equilibrio.
Q4 §52 Americanismo e fordismo. La tendenza di Leone Davidovi era legata a questo problema. Il suo contenuto essenziale era dato dalla «volontà» di dare la supremazia all’industria e ai metodi industriali, di accelerare con mezzi coercitivi la disciplina e l’ordine nella produzione, di adeguare i costumi alle necessità del lavoro. Sarebbe sboccata necessariamente in una forma di bonapartismo, perciò fu necessario spezzarla inesorabilmente. Le sue soluzione pratiche erano errate, ma le sue preoccupazioni erano giuste. In questo squilibrio tra pratica e teoria era insito il pericolo. Ciò si era manifestato già precedentemente, nel 1921. Il principio della coercizione nel mondo del lavoro era giusto (discorso riportato nel volume sul Terrorismo e pronunziato contro Martov), ma la forma che aveva assunto era errata: il «modello» militare era diventato un pregiudizio funesto, gli eserciti del lavoro fallirono.
Interesse di Leone Davidovi per l’americanismo. Suo interesse, suoi articoli, sue inchieste sul «byt» e sulla letteratura: queste attività erano meno sconnesse tra loro di quanto allora potesse sembrare. Il nuovo metodo di lavoro e il modo di vivere sono indissolubili: non si possono ottenere successi in un campo senza ottenere risultati tangibili nell’altro. In America la razionalizzazione e il proibizionismo sono indubbiamente connessi: le inchieste degli industriali sulla vita privata degli operai, il servizio di ispezione creato da alcuni industriali per controllare la «moralità» degli operai sono necessità del nuovo metodo di lavoro. Chi irridesse a queste iniziative e vedesse in esse solo una manifestazione ipocrita di «puritanismo», si negherebbe ogni possibilità di capire l’importanza, il significato e la portata obbiettiva del fenomeno americano, che è anche il maggiore sforzo collettivo finora esistitoper creare con una rapidità inaudita e con una coscienza del fine mai vista nella storia, un tipo nuovo di lavoratore e d’uomo.
La espressione «coscienza del fine» può sembrare per lo meno esagerata alle anime bennate che ricordano la frase del Taylor sul «gorilla ammaestrato». Il Taylor esprime con cinismo e senza sottintesi il fine della società americana: sviluppare nell’uomo lavoratore al massimo la parte macchinale, spezzare il vecchio nesso psico‑fisico del lavoro professionale qualificato che domandava una certa partecipazione dell’intelligenza, dell’iniziativa, della fantasia del lavoratore, per ridurre le operazioni di produzione al solo aspetto fisico. Ma in realtà non si tratta di una cosa nuova. Si tratta della fase più recente di un processo che si è iniziato col nascere dello stesso industrialismo: questa fase più recente è più intensa delle precedenti e si manifesta in una forma più brutale, ma anche essa verrà superata e un nuovo nesso psico‑fisico si andrà creando, di un tipo diverso di quelli precedenti e indubbiamente di un tipo superiore. Ci sarà indubbiamente una selezione forzata e una parte della vecchia classe lavoratrice verrà implacabilmente eliminata dal mondo della produzione e dal mondo tout court.
Da questo punto di vista occorre vedere le iniziative «puritane» degli industriali americani tipo Ford. È evidente che essi non si preoccupano dell’«umanità», della «spiritualità» del lavoratore che viene schiantata. Questa umanità, questa spiritualità si realizzava nel mondo del lavoro, nella «creazione» produttiva: essa era massima nell’artigianato, in cui l’individualità del lavoratore si rifletteva tutta nell’oggetto creato, in cui si manteneva ancora molto forte il legame tra arte e lavoro. Ma appunto contro questa forma di umanità e di spiritualità lotta il nuovo industrialismo. Le iniziative «puritane» hanno solo questo fine: conservare un equilibrio psico‑fisico fuori del lavoro, per impedire che il nuovo metodo porti al collasso fisiologico del lavoratore. Questo equilibrio è puramente esterno, per ora non è interiore. L’equilibrio interiore non può essere creato che dallo stesso lavoratore e dalla sua particolare società, con mezzi propri e originali. L’industriale si preoccupa della continuità dell’efficienza fisica del lavoratore, dell’efficienza muscolare‑nervosa: è suo interesse costituire una maestranza stabile, un complesso industriale affiatato permanentemente, perché anche il complesso umano è una macchina che non deve essere troppo spesso smontata e rinnovata nei suoi ingranaggi singoli senza gravi perdite. L’alto salario è un elemento di questa necessità: ma l’alto salario è un’arma a due tagli. Occorre che il lavoratore spenda «razionalmente» per rinnovare, mantenere e possibilmente accrescere la sua efficienza muscolare nervosa, non per distruggerla o intaccarla. Ecco la lotta contro l’alcoolismo, l’agente più pericoloso delle forze di lavoro, che diventa funzione di Stato.
È possibile che anche altre lotte «puritane» divengano funzione di Stato, se l’iniziativa privata degli industriali si dimostra insufficiente e si manifesta una crisi di moralità troppo estesa nelle masse lavoratrici, ciò che potrebbe avvenire in conseguenza di crisi troppo vaste e prolungate di disoccupazione.
Una quistione che si può porre è la quistione sessuale, perché l’abuso e la irregolarità delle funzioni sessuali è, dopo l’alcoolismo, il nemico più pericoloso delle energie nervose: d’altronde è osservazione comune e banale che il lavoro «ossessionante» provoca depravazione alcoolica e sessuale. Le iniziative, specialmente di Ford, danno un indizio di queste tendenze ancora private e latenti ma che possono diventare ideologia statale, naturalmente innestandosi nel puritanesimo tradizionale, cioè presentandosi come un rinascimento della moralità dei pionieri, del «vero» americanismo cioè. Il fatto più notevole del fenomeno americano in rapporto a queste manifestazioni è il distacco che si andrà facendo sempre più accentuato tra la moralità‑costume dei lavoratori e quella di altri strati della popolazione. Il proibizionismo dà già un esempio di questo distacco. Chi consuma l’alcool introdotto di contrabbando negli S. U.? L’alcool è diventato una merce di lusso e neanche gli alti salari possono permetterne il consumo ai larghi strati delle masse lavoratrici. Chi lavora a salario, per un orario fisso, non ha il tempo da dedicare alla ricerca dell’alcool, non ha il tempo per esercitare lo sport di eludere le leggi. La stessa osservazione si può fare per riguardo alla sessualità. La «caccia alle donne» domanda troppi «loisirs»; nell’operaio di tipo nuovo avverrà ciò che è avvenuto nei villaggi contadini. La relativa fissità dei matrimoni contadini è strettamente legata al metodo di lavoro delle campagne. Il contadino che torna la sera a casa dopo una lunga giornata affaticante, vuole la Venerem facilem parabilemque di Orazio: egli non ha l’attitudine a fare le fusa intorno alle donne di fortuna; ama la sua donna, sicura, immancabile, che non fa smancerie e non vuole le apparenze della seduzione e dello stupro per essere posseduta. La funzione sessuale viene «meccanizzata», cioè c’è un nuovo modo di rapporto sessuale senza i colori abbaglianti dell’orpello romantico del piccolo borghese e del bohémien sfaccendato.
Il nuovo industrialismo vuole la monogamia, vuole che l’uomo lavoratore non sperperi le sue energie nervose nella ricerca affannosa e disordinata del soddisfacimento sessuale: l’operaio che va al lavoro dopo una notte di stravizio non è un buon lavoratore, l’esaltazione passionale non va d’accordo col movimento cronometrato delle macchine e dei gesti umani produttivi. Questa pressione brutale sulla massa otterrà indubbiamente dei risultati e sorgerà una nuova forma di unione sessuale in cui la monogamia e la stabilità relative saranno un tratto caratteristico e fondamentale.
Sarebbe interessante conoscere le risultanze statistiche dei fenomeni di deviazione dai costumi sessuali negli Stati Uniti analizzati per gruppi sociali: in generale si verificherà che i divorzi sono numerosi specialmente nelle classi alte.
Questo distacco di moralità tra la classe lavoratrice ed elementi sempre più numerosi delle classi dirigenti negli Stati Uniti mi pare il fenomeno più interessante e ricco di conseguenze. Fino a poco tempo fa, il popolo americano era un popolo di lavoratori: l’attività pratica non era solo inerente alle classi operaie, era anche una qualità delle classi dirigenti. Il fatto che un miliardario continui a lavorare indefessamente anche sedici ore al giorno, fino a quando la malattia o la vecchiaia non lo costringono al letto, ecco il fenomeno tipico americano, ecco l’americanata più strabiliante per l’europeo medio. Ho notato in una precedente osservazione che questa differenza è data dalla mancanza di «tradizioni» negli S. U., in quanto tradizione significa anche residuo passivo di tutte le forme sociali tramontate nella storia. Sono questi residui passivi che resistono all’americanismo, perché il nuovo industrialismo li spazzerebbe via spietatamente. È vero, il vecchio non ancora seppellito verrebbe definitivamente distrutto; ma cosa avviene nella stessa America? Il distacco di moralità mostra che si stanno creando margini di passività sociale sempre più ampi. Le donne mi pare abbiano una funzione prevalente in questo fenomeno. L’uomo‑industriale continua a lavorare anche se miliardario, ma sua moglie diventa sempre più un mammifero di lusso, le sue figlie continuano la tradizione materna. I concorsi di bellezza, il cinematografo, il teatro ecc. selezionano la bellezza femminile mondiale e la pongono all’asta. Le donne viaggiano, attraversano continuamente l’oceano. Sfuggono al proibizionismo patrio e contraggono matrimoni stagionali (ricordare che fu tolta ai capitani marittimi la facoltà di sanzionare matrimoni a bordo, perché molte ragazze si sposavano per la traversata): è una prostituzione appena larvata dalle formalità giuridiche.
Questi fenomeni delle classi alte renderanno più difficile la coercizione sulle masse lavoratrici per conformarle ai bisogni della nuova industria: in ogni modo determineranno una frattura psicologica e l’esistenza di due classi ormai cristallizzate apparirà evidente.
A proposito del distacco tra il lavoro manuale e il «contenuto umano» del lavoratore, si potrebbero fare delle osservazioni utili proprio in quelle professioni che sono credute tra le più intellettuali: le professioni legate alla riproduzione degli scritti per la pubblicazione o per altra forma di diffusione e trasmissione. Gli amanuensi di prima dell’invenzione della stampa, i compositori a mano, i linotypisti, gli stenografi, i dattilografi. Questi mestieri in realtà sono ancor più meccanizzati di tanti altri. Perché? Perché è più difficile raggiungere quel grado professionale massimo in cui l’operaio deve dimenticare il contenuto di ciò che riproduce per rivolgere la sua attenzione solo alla forma calligrafica delle singole lettere se amanuense, per scomporre le parole in lettere‑caratteri e rapidamente prendere i pezzi di piombo nelle caselle, per scomporre non più solo le parole ma gruppi di parole meccanicamente aggruppate o parti di parole meccanicamente analizzate in segni stenografici, per ottenere la rapidità del dattilografo. L’interesse del lavoratore per il contenuto dello scritto si misura dai suoi errori, cioè dalle sue deficienze professionali; la sua qualifica è proprio commisurata al suo disinteresse psicologico, alla sua meccanizzazione. Il copista medioevale muta l’ortografia, la morfologia, la sintassi del libro che riproduce, tralascia ciò che non capisce, il corso dei suoi pensieri gli fa inavvertitamente aggiungere parole, talvolta intere frasi; se il suo dialetto o la sua lingua sono diversi da quelli del testo egli dà una sfumatura alloglottica al testo, ecc.: egli è un cattivo copista. La lentezza domandata dall’arte scrittoria medioevale spiega molte di queste deficienze. Il tipografo è già molto più rapido, deve tenere in continuo movimento le mani; ciò rende più facile la sua meccanizzazione. Ma a pensarci bene, lo sforzo che questi lavoratori devono fare per staccare dal contenuto talvolta molto interessante (allora infatti si lavora meno e peggio) la sua simbolizzazione materiale, e applicarsi solo a questa è lo sforzo forse più grande fra tutti i mestieri. Tuttavia esso è fatto e non ammazza spiritualmente l’uomo. Quando il processo di adattamento è avvenuto, in realtà si verifica che il cervello dell’operaio, invece di mummificarsi, ha raggiunto uno stato di completa libertà. Il gesto fisico è diventato completamente meccanico, la memoria del mestiere, ridotto a gesti semplici ripetuti con ritmo intenso, si è «annidata» nei fasci muscolari e nervosi e ha lasciato il cervello libero per altre occupazioni. Come si cammina senza bisogno di riflettere a tutti i movimenti necessari per muovere le gambe e tutto il corpo in quel determinato modo che è necessario per camminare, così in molti mestieri è avvenuto per i gesti professionali fondamentali. Si cammina e si pensa a tutto ciò che si vuole.
Gli industriali americani hanno ben capito questo. Essi intuiscono che il «gorilla ammaestrato» rimane pur sempre uomo e pensa di più o per lo meno ha molta maggior possibilità di pensare, almeno quando ha superato la crisi di adattamento. Non solo pensa, ma l’assenza di soddisfazione immediata dal lavoro, l’essere stato come lavoratore ridotto a gorilla ammaestrato, lo può portare a un corso di pensieri poco conformista. Che una tale preoccupazione esista appare da tutta una serie di fatti e di iniziative educative.
D’altronde è ovvio pensare che i così detti alti salari sono una forma transitoria di retribuzione. L’adattamento ai nuovi metodi di lavoro non può avvenire solo per coercizione: l’apparato di coercizione necessario per ottenere un tale risultato costerebbe certo di più degli alti salari. La coercizione è combinata con la convinzione, nelle forme proprie della società data: il denaro. Ma se il metodo nuovo si affermerà creando un tipo nuovo di operaio, se l’apparecchio meccanico materiale sarà ancora perfezionato, se il turnover esagerato sarà automaticamente limitato dalla disoccupazione estesa, anche i salari diminuiranno. L’industria americana sfrutta ancora profitti di monopolio perché ha avuto l’iniziativa dei nuovi metodi e può dare più alti salari; ma il monopolio sarà necessariamente limitato nel tempo e la concorrenza estera sullo stesso piano farà sparire con i profitti i salari. D’altronde è noto che gli alti salari sono appunto solo legati a una aristocrazia operaia, non sono di tutti i lavoratori americani.
Q4 §53 Concordati e trattati internazionali. La capitolazione dello Stato moderno che si verifica per i concordati viene mascherata identificando verbalmente concordati e trattati internazionali. Ma un concordato non è un comune trattato internazionale: nel concordato si realizza di fatto un’interferenza di sovranità in un solo territorio statale; tutti gli articoli di un concordato si riferiscono ai cittadini di un solo Stato, sui quali il potere sovrano di uno Stato estero giustifica e rivendica determinati diritti e poteri di giurisdizione. Che poteri ha acquistato la Prussia sulla città del Vaticano in virtù del concordato recente? E ancora: la fondazione dello Stato della città del Vaticano dà un’apparenza di legittimità alla finzione giuridica che il concordato sia un trattato bilaterale. Ma si stipulavano concordati anche prima che la città del Vaticano esistesse, ciò che significa che il territorio non è essenziale per l’autorità pontificia. Un’apparenza, perché mentre il concordato limita l’autorità statale di una parte contraente nel suo territorio e influisce e determina la sua legislazione e la sua amministrazione, nessuna limitazione è neppure accennata per il territorio dell’altra parte. Il concordato è dunque il riconoscimento di una doppia sovranità, su uno stesso territorio statale. Non è certo più la stessa forma di sovranità supernazionale che era formalmente riconosciuta al papa nel Medio Evo, ma ne è una derivazione di compromesso. D’altronde anche nei periodi più splendidi del papato e del suo potere supernazionale, le cose non andavano così liscie: la supremazia papale, anche se riconosciuta giuridicamente, era contrastata aspramente di fatto e nell’ipotesi migliore si riduceva nei privilegi politici, economici, fiscali dell’episcopato dei singoli paesi. In ogni modo il concordato intacca essenzialmente il carattere di autonomia della sovranità dello Stato moderno. Lo Stato ottiene una contropartita? Certamente, ma la ottiene nel suo territorio, per ciò che riguarda i suoi stessi cittadini. Lo Stato ottiene: che la Chiesa non intralci l’esercizio del potere statale ma anzi lo favorisca e lo sostenga. La Chiesa promette allo Stato di fargli ottenere quel consenso di una parte dei governati che lo Stato riconosce implicitamente di non poter ottenere con mezzi propri: ecco la capitolazione dello Stato, ecco che esso si mette sotto tutela di una sovranità che riconosce superiore. La parola concordato è sintomatica… Gli articoli pubblicati nei «Nuovi Studi» sul concordato sono tra i più interessanti e si prestano più facilmente alla confutazione. Ricordare il «trattato» subito dalla Georgia nel 1920 dopo la sconfitta di Denikin.
Ma anche nel mondo moderno, che cosa significa praticamente la situazione creata in uno Stato dalle stipulazioni concordatarie? Significa riconoscimento pubblico ad una casta di cittadini dello stesso Stato di determinati privilegi politici. La forma non è più quella medioevale, ma la sostanza è la stessa. Nello sviluppo della storia moderna, quella casta aveva visto attaccato e distrutto il monopolio di funzione sociale che spiegava e giustificava la sua esistenza, il monopolio della cultura e dell’educazione. Il concordato riconosce nuovamente questo monopolio, sia pure attenuato e controllato poiché assicura alla casta delle posizioni di partenza che con le sue sole forze, con l’intrinseca adesione alla sua concezione del mondo alla realtà effettuale, non potrebbe mantenere.
Si capisce dunque la lotta sorda e sordida degli intellettuali laici e laicisti contro gli intellettuali di casta per salvare la loro autonomia e la loro funzione. Ma è innegabile la loro intrinseca capitolazione e il loro distacco dallo Stato. Il carattere intellettuale o morale dello Stato concreto, di un determinato Stato, è determinato dalla sua legislazione e non dalle polemiche astratte dei franchi tiratori della cultura. Se questi affermano: siamo noi lo Stato, essi affermano solo che il così detto Stato unitario non è più tale, che in esso esiste una scissione molto grave, tanto più grave in quanto è affermata dagli stessi legislatori e governanti che affermano essere lo Stato nello stesso tempo due cose: quello delle leggi scritte e applicate e quello delle coscienze che quelle leggi intimamente non riconoscono come efficienti e cercano sordidamente di limitare e svuotare di contenuto etico nell’applicazione. È un machiavellismo da bassi politicanti: i filosofi dell’idealismo attuale, specialmente nella sezione pappagalli ammaestrati dei «Nuovi Studi» si possono dire le più illustri vittime di Machiavelli.
Un aspetto curioso e interessante della quistione è la divisione del lavoro che si va stabilendo tra la casta degli intellettuali laici: alla prima viene lasciata la formazione intellettuale e morale dei giovanissimi (scuole elementari e medie), agli altri lo sviluppo ulteriore del giovane nell’Università. Ma il campo universitario non è sottoposto allo stesso regime di monopolio cui invece sottostà la scuola elementare e media. Esiste infatti l’Università del Sacro Cuore e potranno essere organizzate altre Università cattoliche equiparate alle Università statali. Le conseguenze sono ovvie: la scuola elementare e media è la scuola popolare e della piccola borghesia, strati sociali che sono interamente monopolizzati educativamente dalla casta, poiché la grande maggioranza dei loro elementi non arrivano all’Università, cioè non conosceranno l’educazione moderna nella sua fase superiore critico- storica: essi educativamente conosceranno solo l’educazione dogmatica. L’Università è la scuola della classe dirigente in proprio ed è il meccanismo attraverso il quale essa selezione gli elementi individuali delle altre classi da incorporare nel suo personale governativo, amministrativo e dirigente. Ma con l’esistenza, a parità di condizioni, delle Università cattoliche, anche la formazione di questo personale dirigente non sarà più unitaria e omogenea. Non solo: ma la casta, nelle Università proprie, realizzerà una concentrazione di cultura laico- religiosa quale da molti decenni non si vedeva più e si troverà di fatto in condizioni molto migliori della concentrazione laica. Non è infatti nemmeno lontanamente paragonabile l’efficienza organizzativa della Chiesa, che sta tutta come un blocco dietro e a sostegno della propria Università, con l’efficienza organizzativa della cultura laica. Se lo Stato, di fatto, non è più questa organizzazione, perché la sua legislazione in materia di religione è quello che è, e la sua equivocità non può non essere favorevole alla Chiesa, data la sua formidabile struttura e il suo peso di massa organizzata omogeneamente, e se i titoli dei due tipi di Università sono equiparati, è evidente che si formerà la tendenza delle Università cattoliche ad essere esse il meccanismo di selezione degli elementi più intelligenti e capaci delle classi inferiori da immettere nella classe dirigente. Favoriranno questa tendenza: il fatto che non c’è discontinuità educativa tra le scuole medie e l’Università cattolica, mentre questa discontinuità c’è con le Università statali e il fatto che la Chiesa in tutta la sua struttura è già attrezzata per questo lavoro di selezione dal basso. La Chiesa, da questo punto di vista, è un organismo perfettamente democratico: il figlio di un contadino o di un artigiano, se intelligente e capace, e se duttile abbastanza per lasciarsi assimilare dalla struttura ecclesiastica e per sentirne il particolare spirito di corpo e di conservazione egli interessi presenti e futuri, può diventare cardinale e papa. Se nell’alta gerarchia ecclesiastica l’origine democratica è meno frequente di quanto si creda, ciò avviene per ragioni complesse, in cui solo parzialmente incide la pressione delle grandi famiglie aristocratiche cattoliche o la ragione di Stato (internazionale): una ragione molto forte è che molti seminari sono molto male attrezzati e non mettono in valore dei giovani intelligenti, mentre il giovane aristocratico, dal suo stesso ambiente famigliare riceve senza sforzo di apprendimento una serie di qualità che sono di primo ordine per la carriera ecclesiastica: la tranquilla sicurezza della propria dignità e autorità e l’arte di trattare e governare gli altri.
Una ragione di debolezza del clero nel passato consisteva nel fatto che la religione dava scarse possibilità di carriera all’infuori della carriera ecclesiastica: il clero stesso era indebolito qualitativamente dalle «scarse» vocazioni o dalle «vocazioni» di soli elementi subalterni intellettualmente. Questa crisi era già visibile prima della guerra: era un aspetto della crisi generale delle carriere a reddito fisso con organici lenti e pesanti, cioè dello strato intellettuale subalterno (maestri, insegnanti medi, preti ecc.) sottoposto alla concorrenza delle professioni liberali legate allo sviluppo dell’industria e dell’organizzazione privata capitalistica in generale (il giornalismo, per es., che assorbe molti insegnanti, ecc.). Già era incominciata l’invasione da parte delle donne delle scuole magistrali e delle Università. Con le donne entrano nell’Università i preti, ai quali la Curia non può proibire di procurarsi un titolo pubblico che permetta di concorrere a un impiego di Stato che aumenti la «finanza» individuale. Molti di questi preti, appena ottenuto il titolo pubblico, abbandonarono la Chiesa (durante la guerra, per causa della mobilitazione, questo fenomeno acquistò una certa ampiezza). L’organizzazione ecclesiastica subiva dunque una crisi costituzionale, che poteva essere fatale alla sua potenza, se lo Stato manteneva integra la sua posizione di laicità, anche senza bisogno di una lotta attiva. Nella lotta tra le forme di vita, la Chiesa stava per essere vinta automaticamente. Lo Stato salvò la Chiesa. La posizione economica del clero fu migliorata a più riprese, mentre il tenore di vita generale, ma specialmente dei ceti medi, peggiorava. Il miglioramento è tale, che le «vocazioni» si sono maravigliosamente moltiplicate, impressionando lo stesso pontefice, che le spiega appunto con la nuova situazione economica. La base della scelta degli idonei al clericato è stata dunque ampliata, permettendo più rigore e una maggiore esigenza di cultura.
Ma la carriera ecclesiastica, se è il fondamento della potenza del Vaticano, non esaurisce le sue possibilità. La nuova situazione scolastica permette l’immissione nella classe dirigente laica di cellule che andranno sempre più rafforzandosi, di elementi laici che dovranno la loro posizione solamente alla Chiesa. Sul terreno di questa scelta, la Chiesa è imbattibile. Controllando i licei e le altre scuole medie, attraverso i suoi fiduciari, essa seguirà con la tenacia che le è caratteristica, i giovani più valenti delle classi povere e li aiuterà a proseguire gli studi nelle Università cattoliche. Borse di studio, fiancheggiate da convitti organizzati con la massima economia accanto alle Università, permetteranno questa azione. La Chiesa, nella sua fase odierna, con l’impulso dato dall’attuale pontefice all’azione cattolica, non può accontentarsi solo di creare dei preti: essa vuole permeare lo Stato (governo indiretto del Bellarmino) e per quest’azione sono necessari dei laici, è necessaria una concentrazione di cultura cattolica rappresentata da laici. Esistono molti giovani che possono diventare preziosi ausiliari della Chiesa più come professori d’Università che come cardinali ecc. Allargata la base delle «vocazioni» questa attività laico‑culturale ha immense possibilità di estendersi.
L’Università del Sacro Cuore e il centro culturale neoscolastico sono solo la prima cellula di questo lavoro. È intanto stato sintomatico il Congresso Filosofico del 1929: vi si scontrarono idealisti assoluti e neoscolastici e questi parteciparono al Congresso animati da spirito battagliero di conquista. Secondo me il gruppo questo voleva ottenere, di apparire battagliero, pugnace, quindi interessante per i giovani. I cattolici sono fortissimi perché si infischiano delle «confutazioni perentorie» dei loro avversari idealisti o materialisti: la tesi confutata essi la riprendono imperturbati e come se nulla fosse. La mentalità «disinteressata» intellettualmente, la lealtà intellettuale essi non la comprendono o la comprendono come una debolezza e dabbenaggine degli avversari. Essi contano sulla potenza della loro organizzazione mondiale e sul fatto che la grande maggioranza della popolazione non è ancora «moderna», è ancora alla fase tolemaica della scienza. Se lo Stato rinunzia a essere centro di cultura propria, autonoma, la Chiesa non può che trionfare.
Tanto più che lo Stato non solo non interviene come centro autonomo, ma distrugge ogni oppositore della Chiesa all’infuori dell’idealismo attuale pappagallizzato.
Le conseguenze di questa situazione saranno della massima importanza; ma le cose non andranno liscie per molto tempo: la Chiesa è uno Shylok anche più implacabile dello Shylok ebreo: essa vorrà la sua libbra di carne e si infischierà del dissanguamento della vittima. Aveva ragione Disraeli: i cristiani sono stati gli ebrei più intelligenti che hanno conquistato il mondo. La Chiesa non sarà ridotta alla sua forza normale con la confutazione in sede filosofica dei suoi postulati teorici (teologici) e con le affermazioni platoniche della autonomia statale: ma con l’azione pratica, con l’esaltazione delle forze umane in tutta l’area sociale.
La quistione finanziaria del centro religioso: l’organizzazione del cattolicismo in America dà la possibilità di raccogliere fondi molto vistosi, oltre alle rendite normali ormai assicurate e all’obolo di S. Pietro. Potrebbero nascere quistioni internazionali a proposito dell’intervento della Chiesa negli affari interni dei singoli paesi, con lo Stato che sussidia permanentemente la Chiesa? La quistione potrebbe essere elegante, come si dice.
La quistione del finanziamento rende anche più interessante il problema della così detta indissolubilità proclamata dal pontefice del trattato e del concordato: ammesso che il pontefice si trovasse nella necessità di ricorrere a questo mezzo politico di pressione sullo Stato, non si porrebbe subito il problema della restituzione delle somme riscosse (somme legate appunto al trattato e non al concordato)? Ma esse sono così ingenti ed è pensabile che saranno spese in gran parte nei primi anni, che la loro restituzione può ritenersi praticamente impossibile. Nessuno Stato farebbe un così gran prestito al pontefice per trarlo d’imbarazzo e tanto meno un privato o una banca: la denunzia del trattato scatenerebbe una tale crisi nella organizzazione pratica della Chiesa, che la solvibilità di questa sia pure a grande scadenza, sarebbe annientata. La convenzione finanziaria deve essere pertanto considerata come la parte essenziale del trattato, come la garanzia di una quasi impossibilità di denunzia del trattato, prospettata per ragioni di polemica e di pressione politica.
Q4 §54 1918. «Col 1918 si aveva una importantissima innovazione nel nostro diritto, innovazione che stranamente (c’era però la censura nel 1918) passava tra la disattenzione generale: lo Stato riprendeva a sussidiare il culto cattolico, abbandonando dopo sessantatré anni il principio cavourriano ch’era stato posto a base della legge sarda 29 maggio 1855: lo Stato non deve sussidiare alcun culto». A. C. Jemolo, Religione dello Stato e confessioni ammesse, in «Nuovi Studi di Diritto, Economia, Politica», anno 1930, p. 30.
La innovazione fu introdotta coi D. L. 17 marzo 1918, n. 396 e 9 maggio 1918, n. 655. A questo riguardo lo Jemolo rimanda alla nota di D. Schiappoli, I recenti provvedimenti economici a vantaggio del clero, Napoli, 1922, estratta dal vol. XLVIII degli Atti della R. Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli.
Q4 §55 Il principio educativo nella scuola elementare e media. La frattura introdotta ufficialmente nel principio educativo tra la scuola elementare e media e quella superiore. Prima una frattura del genere esisteva solo in modo molto marcato tra la scuola professionale e la scuola media e superiore. La scuola elementare era posta in una specie di limbo, per alcuni suoi caratteri particolari.
Nella scuola elementare due elementi si prestavano all’educazione dei bambini: le nozioni di scienza e i diritti e doveri del cittadino. La «scienza» doveva servire a introdurre il bambino nella «societas rerum», i diritti e doveri nella «società degli uomini». La «scienza» entrava in lotta con la concezione «magica» del mondo e della natura che il bambino assorbe dall’ambiente «impregnato» dal folklore: l’insegnamento è una lotta contro il folklore, per una concezione realistica in cui si uniscono due elementi: la concezione di legge naturale e quella di partecipazione attiva dell’uomo alla vita della natura, cioè alla sua trasformazione secondo un fine che è la vita sociale degli uomini. Questa concezione si unifica cioè nel lavoro, che si basa sulla conoscenza oggettiva ed esatta delle leggi naturali per la creazione della società degli uomini. L’educazione elementare si impernia in ultima analisi nel concetto e nel fatto del lavoro, poiché l’ordine sociale (insieme dei diritti e doveri) è dal lavoro innestato nell’ordine naturale. Il concetto dell’equilibrio tra ordine sociale e ordine naturale sulla base del lavoro, dell’attività pratica dell’uomo crea la visione del mondo elementare, liberata da ogni magia e da ogni stregoneria e dà l’appiglio allo sviluppo ulteriore in una concezione storica, di movimento, del mondo.
Non è completamente esatto che l’istruzione non sia anche educazione: l’aver insistito troppo in questa distinzione è stato un grave errore e se ne vedranno gli effetti. Perché l’istruzione non fosse anche educazione bisognerebbe che il discente fosse una mera passività, ciò che è assurdo in sé anche se proprio viene negato dai sostenitori ad oltranza della pura educatività contro la mera istruzione meccanica. La verità è che il nesso istruzione‑educazione è rappresentato dal lavoro vivente del maestro in quanto la scuola è acceleramento e disciplinamento della formazione del fanciullo. Se il corpo magistrale è deficiente sarà la sua opera ancora più deficiente se gli si domanderà più educazione: farà una scuola retorica, non seria. Ciò si vede ancor meglio nella scuola media, per i corsi di letteratura e di filosofia. Prima gli allievi, per lo meno, lasciavano la scuola con un certo bagaglio di nozioni storiche concrete: ora che il professore dovrebbe essere un filosofo e un esteta, gli allievi trascurano le nozioni concrete e si riempiono la testa di parole senza senso, subito dimenticate. La lotta contro la vecchia scuola era giusta, ma si trattava di una quistione di uomini più che di programmi. In realtà un mediocre insegnante può riuscire a ottenere che gli allievi diventino più istruiti, non riuscirà mai a ottenere che siano più colti: la parte meccanica della scuola egli la svolgerà con scrupolo e coscienza, e l’allievo, se è un cervello attivo, ordinerà per conto suo il «bagaglio». Coi nuovi programmi, che coincidono con un abbassamento di livello del corpo insegnante, non si avrà «bagaglio» e non ci sarà niente da ordinare. I nuovi programmi avrebbero dovuto abolire completamente gli esami: dare un esame adesso dev’essere terribilmente più «giuoco d’azzardo» di una volta. Bene o male, una data è sempre una data, qualsiasi professore esamini, e una definizione è sempre una definizione. Ma un giudizio, un’analisi estetica o filosofica?
Secondo me l’efficacia educativa della vecchia scuola media italiana secondo la vecchia legge Casati, era dovuta all’insieme del suo organamento e dei suoi programmi più che a una volontà espressa di essere scuola «educativa». In questa quistione mi pare che si possa dire ciò che il Carducci diceva della quistione della lingua: gli italiani, invece di parlare, si guardano la lingua. Nella scuola ciò si capisce pensando alla attività dell’allievo. 1 nuovi programmi, quanto più, nei teorici che li hanno preparati e li difendono, affermano e teorizzano l’attività del discente e la sua collaborazione attiva col docente, in realtà tanto più operano come se il discente fosse una mera passività. Nella vecchia scuola dunque, l’organamento stesso dava l’educazione. Come? Lo studio del latino e del greco, delle lingue, con lo studio delle letterature e delle storie politiche rispettive, era alla base di questa educatività. Il carattere di educatività era dato dal fatto che queste nozioni non venivano apprese per uno scopo immediato pratico‑professionale: lo scopo c’era, ma era la formazione culturale dell’uomo, e non si può negare che esso sia un «interesse». Ma lo studio in sé apparisce disinteressato. Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per fare i camerieri o gli interpreti o che so io. Si imparano per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui vita si pone come base della cultura mondiale. La lingua latina o greca si impara secondo grammatica, un po’ meccanicamente: ma c’è molta esagerazione nell’accusa di meccanicità e di aridità. Si ha che fare con dei ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza di compostezza fisica, di concentrazione psichica in determinati oggetti. Uno studioso di trenta‑quarant’anni sarebbe capace di stare a tavolino sedici ore filate, se da bambino non avesse «coattivamente», per «coercizione meccanica» assunto le abitudini psicofisiche conformi?_1 Se si vogliono allevare anche degli studiosi, occorre incominciare di lì e occorre premere su tutti per avere quelle migliaia, o centinaia, o anche solo dozzine di studiosi di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno. (Si potrà migliorare molto, indubbiamente, ma su questa base).
Si impara il latino, lo si analizza nei suoi membretti più elementari, si analizza come una cosa morta, è vero, ma ogni analisi fatta da un bambino non può essere che su una cosa morta; d’altronde non bisogna dimenticare che dove questo studio avviene, in queste forme, la vita dei Romani è un mito che in una certa misura ha già interessato il bambino o lo interessa ora. La lingua è morta, è anatomizzata come un cadavere, è vero, ma il cadavere rivive continuamente negli esempi, nelle narrazioni. Si potrebbe fare lo stesso con l’italiano? Impossibile. Nessuna lingua viva potrebbe essere studiata come il latino: sarebbe o sembrerebbe assurdo. Nessuno dei ragazzi conosce il latino quando ne inizia lo studio con quel tal metodo analitico. Una lingua viva potrebbe essere conosciuta e basterebbe che un ragazzo la conoscesse, per rompere l’incanto: tutti andrebbero alla scuola Berlitz, immediatamente. Il latino e il greco si presentano alla fantasia come un mito, anche per l’insegnante. Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita. Negli otto anni di latino si studia tutta la lingua, da Fedro ad Ennio e a Lattanzio: un fenomeno storico è analizzato dalle sue origini alla sua morte nel tempo. Si studia la grammatica di un tempo, il vocabolario di un periodo determinato, di un autore determinato, e poi si scopre che la grammatica di Fedro non è quella di Cicerone, non è quella di Plauto ecc., che uno stesso nesso di suoni non ha lo stesso significato nei diversi tempi, nei diversi scrittori. Si paragona continuamente l’italiano e il latino: ma ogni parola è un concetto, un’immagine, che assume sfumature diverse nei tempi, nelle persone, nelle due lingue comparate. Si studia la storia letteraria, la storia dei libri scritti in quella lingua, la storia politica, le gesta degli uomini che parlavano quella lingua. È questo complesso organico che determina l’educazione del giovinetto, il fatto che anche solo materialmente ha percorso tutto quell’itinerario, con quelle tappe, ecc. ecc. Questo studio educava senza averne la volontà espressamente dichiarata, anche col minimo intervento dell’insegnante. Esperienze logiche, psicologiche, artistiche, ecc. erano fatte senza riflettervi su, ma era fatta specialmente una grande esperienza storica, di sviluppo storico.
Naturalmente io non credo che il latino e il greco abbiano delle qualità taumaturgiche intrinseche: dico che in un dato ambiente, in una data cultura, con una data tradizione, lo studio così graduato dava quei determinati effetti. Si può sostituire il latino e il greco e li si sostituirà utilmente, ma occorrerà sapere disporre didatticamente la nuova materia o la nuova serie di materie, in modo da ottenere risultati equivalenti di educazione generale dell’uomo, partendo dal ragazzetto fino all’età della scelta professionale. In questo periodo lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere disinteressato, cioè non avere scopi pratici immediati o troppo immediatamente mediati: deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete.
Nella scuola moderna mi pare stia avvenendo un processo di progressiva degenerazione: la scuola di tipo professionale, cioè preoccupata di un immediato interesse pratico, prende il sopravvento sulla scuola «formativa» immediatamente disinteressata. La cosa più paradossale è che questo tipo di scuola appare e viene predicata come «democratica», mentre invece essa è proprio destinata a perpetuare le differenze sociali. Come si spiega questo paradosso? Dipende, mi pare, da un errore di prospettiva storica tra quantità e qualità. La scuola tradizionale è stata «oligarchica» perché frequentata solo dai figli della classe superiore destinati a diventare dirigenti: ma non era «oligarchica» per il modo del suo insegnamento. Non è l’acquisto di capacità direttive, non è la tendenza a formare uomini superiori che dà carattere sociale a un tipo di scuola. Il carattere sociale della scuola è dato dal fatto che ogni strato sociale ha un proprio tipo di scuola, destinato a perpetuare in quello strato una determinata funzione tradizionale. Se si vuole spezzare questa trama, occorre dunque non moltiplicare e graduare i tipi di scuola professionale, ma creare un tipo unico di scuola preparatoria (elementare‑media) che conduca il giovane fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come uomo capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige. Il moltiplicarsi di tipi di scuole professionali tende dunque a eternare le differenze tradizionali, ma siccome, in esse, tende anche a creare nuove stratificazioni interne, ecco che nasce l’impressione della sua tendenza democratica. Manovale e operaio qualificato per esempio. Contadino e geometra o piccolo agronomo, ecc. Ma la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un manovale diventi operaio qualificato, ma che ogni «cittadino» può diventare «governante» e che la società lo pone sia pure «astrattamente» nelle condizioni generali di poterlo diventare: la «democrazia politica» tende a far coincidere governanti e governati, assicurando a ogni governato l’apprendimento più o meno gratuito della preparazione «tecnica» generale necessaria. Ma nella realtà, il tipo di scuola praticamente imperante, mostra che si tratta di un’illusione verbale. La scuola va organizzandosi sempre più in modo da restringere la base della classe governativa tecnicamente preparata, cioè con una preparazione universale storico‑critica.
Dogmatismo e criticismo‑storico nella scuola elementare e media: la nuova pedagogia ha voluto battere in breccia il dogmatismo scolastico nel campo dell’«istruzione», cioè dell’apprendimento delle nozioni concrete, proprio nel campo in cui un certo dogmatismo è imprescindibile praticamente e può venir assorbito e disciolto solo nel ciclo intero del corso scolastico (non si può insegnare la grammatica storica in prima ginnasiale), è costretta poi a veder introdotto il dogmatismo per eccellenza nel campo del pensiero religioso e a veder descritta tutta la storia della filosofia come una successione di follie e di delirii.
Insegnamento della filosofia: credo che nelle scuole medie il nuovo metodo impoverisca la scuola e ne abbassi il livello, praticamente (razionalmente il nuovo metodo è bellissimo e giustissimo, ma praticamente con la scuola così com’è, è una bellissima e razionalissima utopia). La filosofia «descrittiva» tradizionale, rafforzata da un corso di storia della filosofia e dalla lettura in casa di certi autori, mi pare la cosa migliore. Ma la filosofia «descrittiva e definitrice» è un’astrazione! Sarà un’astrazione, come la grammatica e la matematica, ma è necessaria. Uno uguale uno è un’astrazione, ma nessuno è condotto a pensare che una mosca è uguale a un elefante. Anche gli strumenti logici sono astrazioni dello stesso genere, sono come la grammatica del pensare normale: e non sono innati, ma acquisiti storicamente. Il nuovo metodo li presuppone acquisiti e siccome ha come fine la educazione dei ragazzi, in cui non possono pensarsi acquisiti, è come se li pensasse innati. La logica formale è come la grammatica: essa viene assimilata in modo «vivente», anche se è necessariamente appresa schematicamente: il discente non è un disco di grammofono, non è un recipiente passivo. Così il ragazzo che si arrabbatta coi barbara, báràlipton, ecc. Si affatica, è certo, e bisogna trovare che egli debba fare la fatica indispensabile e non più. Ma è anche certo che dovrà sempre faticare per imparare e costringere se stesso a privazioni e limitazioni di movimento fisico, cioè a un tirocinio psico‑fisico. Anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso‑muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare «facilitazioni». Molti pensano addirittura che la difficoltà sia artificiale, perché sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. È una quistione complessa. Certo il ragazzo di una famiglia tradizionalmente di intellettuali supera più facilmente il processo di adattamento psicofisico: egli già entrando la prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sugli altri scolari, ha un’ambientazione già acquisita per le abitudini famigliari. Così il figlio di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini o di un contadino già sviluppato per la vita dei campi. Anche il regime dei cibi ha un’importanza, ecc. ecc.
Ecco perché molti del «popolo» pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un «trucco» a loro danno; vedono il signore (per molti, nelle campagne specialmente, «signore» vuol dire «intellettuale») compiere con scioltezza e con apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un «trucco». In una nuova situazione politica, queste quistioni diventeranno asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. Se si vorrà creare un nuovo corpo di intellettuali, fino alle più alte cime, da uno strato sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini psico‑fisiche adeguate, si dovranno superare difficoltà inaudite.
Q4 §56 Machiavelli e l’«autonomia» del fatto politico. Quistione del machiavellismo e antimachiavellismo (ogni vero «machiavellico» incomincia la sua attività politica con una confutazione in forma delle dottrine del Machiavelli: es. i gesuiti e Federico II di Prussia). Importanza della quistione del machiavellismo nello sviluppo della scienza della politica: in Italia, almeno, la scienza politica si è sviluppata su questo tema. Costruire una bibliografia critica sull’argomento. Che significato ha la dimostrazione fatta, in modo compiuto, dal Croce, dell’autonomia del momento politico‑economico? Si può dire che il Croce non sarebbe giunto a questo risultato senza l’apporto culturale del marxismo e del materialismo storico? Ricordare che in un punto (vedere) il Croce dice di maravigliarsi del come mai nessuno abbia pensato di dire che il Marx ha compiuto, per una classe moderna determinata, la stessa opera compiuta dal Machiavelli. Da questa posizione incidentale del Croce si potrebbe dedurre la poca giustezza della sua riduzione del materialismo storico a un mero canone empirico di metodologia storica?
Altre quistioni: data l’autonomia della politica, quale rapporto dialettico tra essa e le altre manifestazioni storiche? Problema della dialettica in Croce e sua posizione di una «dialettica dei distinti»: non è una contraddizione in termini, una «ignorantia elenchi»? Dialettica può darsi solo degli opposti, negazione della negazione, non rapporto di «implicazione».
L’arte, la morale, la filosofia «servono» alla politica, cioè si «implicano» nella politica, possono ridursi ad un momento di essa e non viceversa: la politica distrugge l’arte, la filosofia, la morale: si può affermare, secondo questi schemi, la priorità del fatto politico‑economico, cioè la «struttura» come punto di riferimento e di «causazione» dialettica, non meccanica, delle superstrutture.
Il punto della filosofia crociana su cui bisogna far leva mi pare appunto la sua così detta dialettica dei distinti; c’è una esigenza reale in questa posizione, ma c’è anche una contraddizione in termini: occorre studiare questi elementi per svilupparli criticamente. Vedere le obbiezioni non verbalistiche della scuola del Gentile ai «distinti» del Croce; risalire allo Hegel: è «completamente» esatta la riforma dello hegelismo compiuta dal Croce‑Gentile? Non hanno essi reso più «astratto» lo Hegel? non ne hanno tagliato via la parte più realistica, più storicistica? e non è proprio da questa parte invece che è nato essenzialmente il marxismo? Cioè il superamento dell’hegelismo fatto da Marx non è lo sviluppo storico più fecondo di questa filosofia, mentre la riforma di Croce‑Gentile è appunto solo una «riforma» e non un superamento? E non è stato proprio il marxismo a far deviare Croce e Gentile, che ambedue hanno cominciato dallo studio del Marx? (per ragioni implicitamente politiche?) Vico ‑ B. Spaventa come anello di congiunzione rispettivamente per il Croce e il Gentile con l’hegelismo: ma non è questo un far arretrare la filosofia di Hegel a una fase precedente? Può essere pensato Hegel senza la Rivoluzione Francese e le guerre di Napoleone, senza, cioè, le esperienze vitali e immediate di un periodo storico intensissimo in cui tutte le concezioni passate furono criticate dalla realtà in corso in modo perentorio? Cosa di simile potevano dare Vico e Spaventa? (Anche Spaventa, che partecipò a fatti storici di portata regionale e provinciale, in confronto a quelli dall’89 al 1815 che sconvolsero tutto il mondo civile d’allora e obbligarono a pensare «mondialmente»? Che misero in movimento la «totalità» sociale, tutto il genere umano concepibile, tutto lo «spirito»? Ecco perché Napoleone può apparire a Hegel «lo spirito del mondo» a cavallo!) Quale «movimento» storico reale testimonia la filosofia di Vico? Quantunque la sua genialità consista appunto nell’aver concepito il vasto mondo da un angoletto morto della storia, aiutato dalla concezione unitaria e cosmopolita del cattolicismo... In ciò la differenza essenziale tra Vico e Hegel, tra dio e Napoleone ‑ spirito del mondo, tra la pura speculazione astratta e la «filosofia della storia» che dovrà portare alla identificazione di filosofia e di storia, del fare e del pensare, del «proletariato tedesco come solo erede della filosofia classica tedesca».
Q4 §57 Vincenzo Cuoco e la rivoluzione passiva. Vincenzo Cuoco ha chiamato rivoluzione passiva quella avutasi in Italia per contraccolpo delle guerre napoleoniche. Il concetto di rivoluzione passiva mi pare esatto non solo per l’Italia, ma anche per gli altri paesi che ammodernarono lo Stato attraverso una serie di riforme o di guerre nazionali, senza passare per la rivoluzione politica di tipo radicale‑giacobino. Vedere nel Cuoco come egli svolge il concetto per l’Italia.
Q4 §58 Letteratura Popolare. Atkinson N., Eugène Sue et le roman- feuilleton. In 8°, pp. 226, Parigi, Nizet et Bastard, 40 fr.
Q4 §59 Storia delle classi subalterne. Rosmini A., Saggio sul comunismo e sul socialismo, pubblicato a cura e con prefazione di A. Canaletti Gaudenti. In 16°, pp. 85, Roma, Signorelli, L. 6. (Da vedere insieme con le encicliche papali emanate prima del 48 e citate nel Sillabo di Pio IX, come commento italiano al primo paragrafo del Manifesto: cfr anche il capitolo bibliografico nel Mazzini di Salvemini).
Q4 §60 Argomenti di cultura. Una rassegna critico‑bibliografica sulla quistione del capitalismo antico: confronto tra le due edizioni, francese e italiana, del libro del Salvioli, articoli e libri di Corrado Barbagallo (per es. L’Oro e il fuoco) e polemica con Giovanni Sanna. Caratteristico nel Barbagallo il «tono» di questi scritti: la polemica ricorda la quistione settecentesca sugli antichi e i moderni. Che importanza e significato ha avuto questa polemica settecentesca? Essa è stata l’espressione della coscienza in via di sviluppo che una nuova fase storica era ormai iniziata, completamente rinnovatrice di tutti i modi di esistenza, radicalmente sconvolgitrice del passato. Confronta con ciò che scrive Antonio Labriola nel frammento Da un secolo all’altro sul significato del nuovo calendario instaurato dalla Rivoluzione francese (tra il mondo antico e il mondo cristiano non c’è stata una così profonda coscienza di distacco: la storia del calendario accennata dal Labriola dimostra questa assenza). Che significato ha la polemica attuale (moderna) sul capitalismo antico? Essa è indubbiamente reazionaria, tende a diffondere lo scetticismo, a togliere ai fatti economici ogni valore di sviluppo e di progresso; la polemica è però rivolta a piccole cerchie di studiosi professionali e neanche molto significativi, non è un elemento di cultura come è stata la polemica settecentesca. La posizione del Barbagallo è tipica per il così detto «materialismo storico» italiano, poiché il Barbagallo si afferma ancora «materialista storico» (cfr la sua polemichetta col Croce nella «Nuova Rivista Storica» del 1928‑29). Legato a Guglielmo Ferrero e al lorianismo.
Studio sulla funzione mondiale di Londra: come si è costituita storicamente e come nel dopoguerra abbia trovato concorrenti: un aspetto, tecnico, dell’egemonia economica anglosassone e della sterlina nel mondo: tentativi di New York e di Parigi per soppiantare Londra. Quanto rende al capitalismo inglese questa egemonia? In alcuni scritti di Einaudi vi sono larghi cenni su questo argomento. Il libro di Mario Borsa su Londra. Il libro di Angelo Crespi sull’imperialismo britannico.
L’argomento è stato trattato dal Presidente della Westminster (Banca) nel discorso tenuto in occasione dell’assemblea del 1929: l’oratore ha accennato ai lamenti perché gli sforzi fatti per conservare la posizione di Londra come centro finanziario internazionale impongono sacrifizi eccessivi all’industria e al commercio, ma ha osservato che il mercato finanziario di Londra produce un reddito che contribuisce in larga misura a saldare il deficit della bilancia commerciale. Da un’inchiesta fatta dal Ministero del Commercio risulta che nel 28 questo contributo fu di 65 milioni di sterline, nel 27 di 63 milioni, nel 26 di 60 milioni: questa attività deve considerarsi perciò come una fra le maggiori industrie esportatrici inglesi. Va tenuto conto della parte importante che spetta a Londra nell’esportazione di capitali, che frutta un reddito annuo di 285 milioni di sterline e che facilita l’esportazione di merci inglesi perché gl’investimenti inglesi aumentano la capacità d’acquisto dei mercati esteri. L’esportatore inglese trova poi nel meccanismo che la finanza internazionale si è creato a Londra, facilitazioni bancarie, cambiali ecc., superiori a quelle esistenti in qualsiasi altro paese. È evidente dunque che i sacrifizi fatti per conservare a Londra la sua supremazia nel campo della finanza internazionale sono ampiamente giustificati dai vantaggi che ne derivano, ma per conservare questa supremazia è essenziale che il sistema monetario inglese abbia per base il libero movimento dell’oro. Ogni misura che intralciasse questa libertà andrebbe a danno di Londra come centro internazionale per il denaro a vista. I depositi esteri fatti a Londra a questo titolo rappresentano somme volissime messe a disposizione di quella piazza. Se questi fondi cessassero di affluire, il tasso del denaro sarebbe forse più stabile, ma sarebbe indubbiamente più alto.
Quali espressioni commerciali economiche sono nate da questa funzione di Londra e che si trovano nella lettura dei giornali e delle riviste economiche?
Q4 §61 Filosofia‑ideologia, scienza‑dottrina. Cfr Gaëtan Pirou, Doctrines sociales et science économique, Librairie du Recueil Sirey, Parigi. (Capitoli: Science économique et socialisme. Science et doctrines économiques. Nouveaux aspects du coopératisme. L’état actuel de la science économique en France, Fondament de la valeur et lois de l’échange. M. Pantaleoni et la théorie économique). L’autore distingue le teorie volte a spiegare i fatti economici (scienza economica) dalle teorie volte a modificare i fatti economici e sociali (che egli chiama dottrine sociali). Indaga poi le relazioni che si vogliono far correre fra le dottrine sociali e la scienza economica, in particolare considerando la pretesa avanzata volta a volta dal liberalismo e dal marxismo di essere in accordo colla scienza, mentre si tratta di cose diverse. «La verità ci sembra che scienza e dottrine si svolgano su piani differenti, e che le dottrine non sono mai il semplice prolungamento, nell’avvenire, della curva dell’evoluzione o la deduzione obbligatoria degli insegnamenti della scienza». Ricollegandosi al Sorel, l’autore scrive anche che «le dottrine devono essere studiate non come verità messe in formule, ma come forze messe in azione». Alfonso De Pietri‑Tonelli, da un cenno bibliografico del quale (nella «Rivista di Politica Economica», 31 marzo 1930) ho tolto le linee precedenti, rimanda al suo corso di politica economica, nel quale egli avrebbe fatto le stesse distinzioni, anche quella delle «forze messe in azione» che corrisponderebbe alla sua teoria degli impulsi.
Quistione dei rapporti tra scienza e vita. Il marxismo non è una mera dottrina sociale, secondo la distinzione del Pirou, poiché «avanza la pretesa» persino di spiegare la «scienza», cioè di essere più scienza della «scienza». Nella quistione di ideologia‑filosofia = dottrina‑scienza, rientra anche la quistione della «primitività» o «irriducibilità» del momento politico o pratico. L’ideologia = ipotesi scientifica di carattere educativo energetico, verificata e criticata dallo sviluppo reale della storia, cioè fatta diventare scienza (ipotesi reale), sistematizzata.
Q4 §62 Arte militare e politica. Sentenze tradizionali rispondenti al senso comune delle masse di uomini: «I generali, dice Senofonte, devono avanzar gli altri non nella sontuosità della tavola e nei piaceri, ma nella capacità e nelle fatiche». «Difficilmente si possono indurre i soldati a soffrire la penuria e i disagi che derivano da ignoranza o da colpa nel loro comandante; ma quando sono prodotti dalla necessità, ognuno è pronto a soffrirli». «L’ardire col proprio pericolo è valore, con l’altrui è arroganza (Pietro Colletta)» .
Differenza tra ardimento‑intrepidità e coraggio: il primo è istintivo e impulsivo; il coraggio invece è acquisito con l’educazione e attraverso i costumi. A stare a lungo in trincea ci vuole «coraggio», cioè perseveranza nell’intrepidità, che può esser data o dal terrore (certezza di morire se non si rimane) o dalla convinzione di fare cosa necessaria (coraggio).
Q4 §63 Epistolario Sorel‑Croce. Ricordare che nel 1929, dopo la pubblicazione di una lettera in cui Sorel parlava di Oberdan, avvennero pubblicazioni in cui si protestava per alcune espressioni delle lettere e si attaccava il Sorel (una pubblicazione particolarmente violenta di Arturo Stanghellini fu riportata dall’«Italia Letteraria» di quel periodo). L’epistolario fu interrotto nel numero successivo della «Critica» e ripreso, senza accenno alcuno all’incidente, ma con alcune novità: parecchi nomi furono dati solo con le iniziali e si ebbe l’impressione che alcune lettere non siano state pubblicate. Da questo punto incomincia nel giornalismo una valutazione nuova del Sorel, e dei suoi rapporti con l’Italia.
Q4 §64 «Storia e Antistoria». «Sono veramente pochi coloro che riflettono e sono nello stesso tempo capaci di agire. La riflessione amplia, ma infiacchisce; l’azione ravviva, ma limita». Goethe, W. Meister (VIII, 5).
Q4 §65 Passato e presente. Articolo di Salvatore di Giacomo sulla «impraticabilità» delle strade popolari di Napoli per i «sognatori» ed i «poeti»; dalle finestre cadevano i testi di fiori ad ammaccare i cappelli duri e le pagliette signorili e anche i crani contenutivi (articolo nel «Giornale d’Italia» del 20). Episodio dei pomodori che costano e delle pietre che non costano. Senso del distacco, della differenziazione in un ambiente primitivo «riscaldato», che crede prossima l’impunità e si rivela apertamente. Questo stesso ambiente primitivo, in tempi «normali», è sornionamente adulatore e servile. Episodio del popolano veneziano, raccontato dal Manzoni al Bonghi: si sviscerava in inchini e scappellate dinanzi ai nobiluomini, salutava sobriamente dinanzi alle chiese; interrogato su questo apparente minor rispetto per le cose sacre, rispose ammiccando: «Coi santi non si cogliona». Come appariva la differenziazione in una città moderna? Esempi ed episodi.
Q4 §66 L’elemento militare in politica. Quando si analizza la serie delle forze sociali che hanno operato nella storia ed operano nell’attività politica di un complesso statale, occorre dare un giusto posto all’elemento militare e all’elemento burocratico, ma occorre tener presente che in questa designazione non rientrano puramente gli elementi militari e burocratici in atto, ma gli strati sociali da cui, in quel determinato complesso statale, questi elementi tradizionalmente sono reclutati. Un movimento politico può essere di carattere militare anche se l’esercito come tale non vi ha apertamente partecipato, un governo può essere militare anche se non formato di militari. In determinate situazioni può avvenire che convenga non scoprire l’esercito, non farlo uscire dalla costituzionalità, non portare la politica tra i soldati, come si dice, per mantenere l’omogeneità tra ufficiali e soldati in un terreno di apparente neutralità e superiorità sulle «fazioni». Non bisogna dimenticare che l’esercito riproduce la struttura sociale di uno Stato e che perciò la politica introdotta in esso può riprodurvi i dissensi esterni, disgregando la formazione militare*. Tutti questi elementi di osservazione non sono assoluti: essi devono essere «relativizzati» secondo i diversi momenti storici e i diversi Stati.
- Nel ms è aggiunta a piè pagina, in periodo successivo, la seguente
nota: «Osservare che si cerca di educare stabilmente un ceto militare nella società, con le associazioni di ex‑combattenti, di ufficiali in congedo ecc. legato all’esercito permanente (cioè allo Stato Maggiore) e mobilitabile all’occorrenza senza bisogno di mobilitare l’esercito di leva, che mantiene la sua funzione di riserva allarmata, e che non può non essere influenzato da queste forze militari extraesercito».
La prima ricerca è questa: esiste in un determinato paese uno strato sociale diffuso per il quale la carriera militare e burocratica sia un elemento molto importante di vita economica e di affermazione politica (partecipazione effettiva al potere, sia pure indirettamente, per «ricatto»)? Nell’Europa moderna questo strato si può identificare nella borghesia rurale media e piccola, più o meno diffusa a seconda dello sviluppo delle forze industriali da una parte e della riforma agraria dall’altra. È evidente che la carriera militare e burocratica non può essere monopolio di questo strato; ma due elementi sono importanti nel determinare una particolare omogeneità ed energia di direttive in questo strato, dandogli un sopravvento politico e una funzione decisiva sull’insieme. La funzione sociale che compie e la psicologia che è determinata da questa funzione. Questo strato è abituato a comandare direttamente nuclei di uomini sia pure esigui, e a comandare «politicamente», non «economicamente»: esso non ha funzioni economiche nel senso moderno della parola; ha un reddito perché ha una «bruta» proprietà del suolo e impedisce al contadino di migliorare la propria esistenza: vive sulla miseria cronica e sul lavoro prolungato del contadino. Ogni minimo accenno di organizzazione del lavoro contadino (organizzazione autonoma) mette in pericolo il suo tenore di vita e la sua posizione sociale. Quindi energia massima nella resistenza e nel contrattacco.
Questo strato trova nella sua «inomogeneità» sociale e nella sua dispersione territoriale i suoi limiti: questi elementi spiegano altri fenomeni che gli sono proprii: la volubilità, la molteplicità dei sistemi seguiti, la stranezza delle ideologie accettate ecc. La volontà è decisa verso un fine, ma tarda e ha bisogno di un lungo processo per centralizzarsi organizzativamente e politicamente. Il processo si accelera quando la «volontà» specifica di questo strato coincide con una volontà generica o specifica della classe alta: non solo il processo si accelera, ma appare allora la «forza militare» di questo strato, che talvolta detta legge alla classe alta, per ciò che riguarda la soluzione specifica, ossia la «forma» della soluzione.
Qui funzionano le leggi altrove osservate dei rapporti città-campagna: la forza della città automaticamente diventa forza della campagna, ma in campagna i conflitti assumono subito forma acuta e personale, per l’assenza di margini economici e per la maggiore «normale» compressione esercitata dall’alto in basso, quindi le reazioni in campagna devono essere più rapide e decise. Questo strato capisce e vede che l’origine dei suoi guai è nelle città, nella forza delle città e perciò capisce di «dover» dettare la soluzione alle classi alte urbane, perché il focolaio sia spento, anche se ciò alle classi alte urbane non converrebbe immediatamente o perché troppo dispendioso o perché pericoloso a lungo andare (queste classi sono più raffinate e vedono cicli ampli di avvenimenti, non solo l’interesse «fisico» immediato). In questo senso deve intendersi la funzione direttiva di questo strato, e non in senso assoluto: tuttavia non è piccola cosa.
Dunque in una serie di paesi influenza dell’elemento militare nella politica non ha solo significato influenza e peso dell’elemento tecnico militare, ma influenza e peso dello strato sociale da cui l’elemento tecnico militare (ufficiali subalterni specialmente) trae specialmente origine. Questo criterio mi pare serva bene ad analizzare l’aspetto più riposto di quella determinata forma politica che si suole chiamare cesarismo o bonapartismo e a distinguerla da altre forme in cui l’elemento tecnico militare predomina, forse in forme ancora più appariscenti ed esclusive.
La Spagna e la Grecia offrono due esempi tipici, con tratti simili e dissimili. Nella Spagna occorre tener conto di alcuni particolari: grandezza del territorio e scarsa densità della popolazione contadina. Tra il nobile latifondista e il contadino non esiste una vasta borghesia rurale: scarsa importanza dell’ufficialità subalterna come forza a sé. I governi militari sono governi di grandi generali. Passività delle masse contadine come cittadinanza e come massa militare. Se nell’esercito si verifica disgregazione è in senso verticale, non orizzontale, per la concorrenza delle cricche dirigenti: le masse dei soldati seguono di solito i rispettivi capi in lotta tra loro. Il governo militare è una parentesi tra due governi costituzionali: l’elemento militare è la riserva permanente dell’«ordine», è una forza politica permanentemente operante «in modo pubblico».
Lo stesso avviene in Grecia con la differenza che il territorio greco è sparpagliato anche nelle isole e che una parte della popolazione più energica e attiva è sempre sul mare, ciò che rende ancora più facile l’intrigo e il complotto militare: il contadino greco è passivo come quello spagnolo, ma nel quadro della popolazione totale, il greco più energico e attivo essendo marinaio e quasi sempre lontano da casa sua, dal suo centro politico, la passività generale vuole essere analizzata diversamente e la soluzione del problema politico non può essere la stessa.
Ciò che è notevole è che in questi paesi l’esperienza del governo militare non crea una ideologia politica e sociale permanente, come avviene invece nei paesi «cesaristi», per così dire. Le radici sono le stesse: equilibrio delle classi urbane in lotta, che impedisce la «democrazia» normale, il governo parlamentare, ma diversa è l’influenza della campagna in questo equilibrio. In Ispagna la campagna, passiva completamente, permette ai generali della nobiltà terriera di servirsi politicamente dell’esercito per ristabilire l’ordine, cioè il sopravvento delle classi alte, dando una coloratura speciale al governo militare di transizione.
In altri paesi la campagna non è passiva, ma il suo movimento non è coordinato politicamente a quello urbano: l’esercito deve rimanere neutrale, finché è possibile, per evitarne la disgregazione orizzontale: entra in iscena la «classe militare‑burocratica», la borghesia rurale, che, con mezzi militari, soffoca il movimento nella campagna (immediatamente più pericoloso), in questa lotta trova una certa unificazione politica e ideologica, trova alleati nella città nelle classi medie (funzione degli studenti di origine rurale nelle città), impone i suoi metodi politici alle classi alte, che devono farle molte concessioni e permettere una determinata legislazione favorevole: insomma riesce a permeare lo Stato dei suoi interessi fino ad un certo punto e a sostituire il personale dirigente, continuando a mantenersi armata nel disarmo generale e minacciando continuamente la guerra civile tra i propri armati e l’esercito nazionale, se la classe alta non le dà certe soddisfazioni. Questo fenomeno assume sempre forme individuate storicamente: Cesare rappresenta una combinazione di elementi diversa da quella rappresentata da Napoleone I, questo diversa da quella di Napoleone III, o da quella di Bismarck ecc. Nel mondo moderno, Zivkovic si avvicina al tipo spagnolo (Zankof al cesarismo?) ecc. Queste osservazioni non sono cioè schemi sociologici, sono criteri pratici di interpretazione storica e politica che volta per volta dall’approssimazione schematica devono incorporarsi in una concreta analisi storica‑politica.
Q4 §67 Grandezza relativa delle potenze. Elementi su cui può calcolarsi la gerarchia di potenza degli Stati: 1) estensione del territorio, 2) forza economica, 3) forza militare, (4), possibilità di imprimere alla loro attività una direzione autonoma, di cui le altre potenze devono subire l’influsso). Il quarto elemento è la conseguenza dei primi tre ed è il modo in cui si esprime appunto l’essere grande potenza. Il terzo elemento è di carattere anch’esso riassuntivo dell’estensione territoriale (con una popolazione relativamente alta) e della forza economica. Nell’elemento territoriale è da considerare la posizione geografica: nella forza economica è da distinguere la capacità industriale e agricola (produzione) dalla forza finanziaria. Un elemento imponderabile è poi la posizione ideologica che una certa potenza occupa nel mondo in quanto rappresenta le forze progressive della storia.
Q4 §68 Il libro di don Chisciotte di E. Scarfoglio [Alfredo Oriani]. È un episodio della lotta per svecchiare la cultura italiana e sprovincializzarla. In sé il libro è mediocre. Vale per il tempo e perché forse è stato il primo tentativo del genere.
Dovendo scrivere su Oriani è da notare il brano che gli dedica lo Scarfoglio (p. 227 dell’edizione Mondadori, 1925). Per lo Scarfoglio (che scrive verso il 1884) l’Oriani e un debole, uno sconfitto, che si consola atterrando tutto e tutti: «Il signor di Banzole ha la memoria ammucchiata di letture frettolose e smozzicate, di teoriche male intese e mal digerite, di fantasmi malamente e fiaccamente formati; di più, l’instrumento della lingua non gli sta troppo sicuramente nelle mani». È interessante una citazione, forse dal libro Quartetto, in cui Oriani scrive: «Vinto ad ogni battaglia ed insultato come tutti i vinti, non scesi mai né scenderò mai alla scempiaggine della replica, alla bassezza del lamento: i vinti hanno torto». Questo tratto mi pare fondamentale del carattere di Oriani, che era un velleitario, sempre scontento di tutti perché nessuno riconosceva il suo genio e che, in fondo, rinunziava a combattere per imporsi, cioè aveva egli stesso una ben strana stima di sé. È uno pseudo‑titano; e nonostante certe sue innegabili doti, prevale in lui il «genio incompreso» di provincia che sogna la gloria, la potenza, il trionfo, proprio come la signorina sogna il principe azzurro.
Q4 §69 Sui partiti. A un certo punto dello sviluppo storico, le classi si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati uomini che li costituiscono o li dirigono, non rappresentano più la loro classe o frazione di classe. È questa la crisi più delicata e pericolosa, perché offre il campo agli uomini provvidenziali o carismatici. Come si forma questa situazione di contrasto tra rappresentati e rappresentanti, che dal terreno delle organizzazioni private (partiti o sindacati) non può non riflettersi nello Stato, rafforzando in modo formidabile il potere della burocrazia (in senso lato: militare e civile)? In ogni paese il processo è diverso, sebbene il contenuto sia lo stesso. La crisi è pericolosa quando essa si diffonde in tutti i partiti, in tutte le classi, quando cioè non avviene, in forma acceleratissima, il passaggio delle truppe di uno o vari partiti in un partito che meglio riassume gli interessi generali. Questo ultimo è un fenomeno organico e normale, anche se il suo ritmo di avveramento sia rapidissimo in confronto ai periodi normali: rappresenta la fusione di una classe sotto una sola direzione per risolvere un problema dominante ed esistenziale. Quando la crisi non trova questa soluzione organica, ma quella dell’uomo provvidenziale, significa che esiste un equilibrio statico, che nessuna classe, né la conservatrice né la progressiva hanno la forza di vincere, ma anche la classe conservatrice ha bisogno di un padrone.
Q4 §70 Sorel, i giacobini, la violenza. Vedere come Sorel concilia il suo odio contro i giacobini‑ottimisti e le sue teorie della violenza. Contro i giacobini sono continue le filippiche del Sorel. (Vedere la Lettre à M. Daniel Halévy nel «Mouvement Socialiste», 16 agosto e 15 settembre 1907).
Q4 §71 La scienza. Accanto alla più superficiale infatuazione per la scienza, esiste in realtà la più grande ignoranza dei fatti e dei metodi scientifici, che sono cose molto difficili e lo diventano sempre più per il progressivo specializzarsi di nuovi rami della conoscenza. Superstizione scientifica che porta con sé illusioni ridicole e concezioni più infantili ancora di quelle religiose. Nasce una specie di aspettazione del paese di Cuccagna, in cui le forze della natura, con quasi nessunintervento della fatica umana, daranno alla società in abbondanza il necessario per soddisfare i suoi bisogni. Contro questa infatuazione i cui pericoli ideologici sono evidenti (la superstiziosa fede nella forza dell’uomo porta paradossalmente a isterilire le basi di questa forza stessa), bisogna combattere con vari mezzi, di cui il più importante dovrebbe essere una maggiore conoscenza delle nozioni scientifiche essenziali, divulgando la scienza per opera di scienziati e di studiosi seri e non più di giornalisti onnisapienti e di autodidatti presuntuosi.
Si aspetta «troppo» dalla scienza, e perciò non si sa valutare ciò che di reale la scienza offre.
Q4 §72 Il nuovo intellettuale. Il tipo tradizionale dell’intellettuale: il letterato, il filosofo, il poeta. Perciò il giornalista volgare, che crede di essere letterato, filosofo, artista, crede di essere il «vero» intellettuale.
Nel mondo moderno, l’educazione tecnica, implicitamente legata al lavoro industriale anche più primitivo (manovale), forma la base del «nuovo intellettuale»: è su questa base che bisogna lavorare per sviluppare il «nuovo intellettualismo». Questa è stata la linea dell’«Ordine Nuovo» (ricordare lo spunto per il capitolo «Passato e presente»). L’avvocato, l’impiegato, sono il tipo corrente d’intellettuale, che si crede investito di una grande dignità sociale: il suo modo di essere è l’«eloquenza» motrice degli affetti. Nuovo intellettuale‑costruttore, organizzatore, «persuasore permanentemente» e pure superiore allo spirito astratto matematico: dalla tecnica‑lavoro giunge alla tecnica‑scienza e alla concezione «umanistico‑storica», senza la quale si rimane «specialista» e non si diventa «dirigente» (specialista della politica).
Q4 §73 Lorianismo. Ho già accennato alla necessità di mettere Corso Bovio nel quadro del Lorianismo? Bisogna metterlo, ricordando di mantenere le distanze per la prospettiva. Corso Bovio entra nel quadro in questo senso: come certi fiamminghi (mi pare il Téniers) mettono sempre un cagnolino nei loro quadri di genere, così Corso Bovio sta nel quadro del lorianismo. E forse il cagnolino è già un animale troppo grosso: una blatta sarebbe più adeguata a rappresentarlo
Q4 §74 G. B. Angioletti. Nell’«Italia Letteraria» del 18 maggio 1930 è riportata una serie di verbali per una vertenza tra l’Angioletti e Guglielmo Danzi, che, nel giornale «La Quarta Roma» del 30 aprile 1930, aveva attaccato l’Angioletti sul suo passato politico, a quanto pare. L’Angioletti consegnò ai suoi padrini Nosari e Ungaretti una nota coi dati essenziali del suo stato di servizio militare, politico, giornalistico. L’Angioletti avrebbe partecipato ai fatti di Milano del 15 aprile 1919 e sarebbe stato nel 1923 condirettore della «Scure» di Piacenza col Barbiellini.
Q4 §75 Passato e presente. Riforma luterana – calvinismo inglese – in Francia razionalismo settecentesco e pensiero politico concreto (azione di massa). In Italia non c’è mai stata una riforma intellettuale e morale che coinvolgesse le masse popolari. Rinascimento, filosofia francese del 700, filosofia tedesca dell’800 sono riforme che toccano solo le classi alte e spesso solo gli intellettuali: l’idealismo moderno, nella forma crociana, è una riforma indubbiamente, ed ha avuto una certa efficacia, ma non ha toccato masse voli e si è disgregato alla prima controoffensiva. Il materialismo storico perciò avrà o potrà avere questa funzione non solo totalitaria come concezione del mondo, ma totalitaria in quanto investirà tutta la società fin dalle sue più profonde radici. Ricordare le polemiche (Gobetti, Missiroli, ecc.) sulla necessità di una riforma, intesa meccanicamente.
Q4 §76 Vittorio Macchioro e l’America. Vittorio Macchioro ha scritto un libro: Roma capta. Saggio intorno alla religione romana, Casa Ed. G. Principato, Messina, in cui tutta la costruzione si basa sulla «povertà fantastica del popolo romano». Nel 1930 è andato in America e ha inviato delle corrispondenze al «Mattino» di Napoli e nella prima (del 7 marzo) ecco il motivo (cfr «Italia letteraria» del 16 marzo 1930): «L’americano non ha fantasia, non sa creare immagini. Non credo che, fuori dell’influenza europea (!), mai ci sarà un grande poeta o un grande pittore americano. La mentalità americana è essenzialmente pratica e tecnica: da ciò una particolare sensibilità per la quantità, cioè per le cifre. Come il poeta è sensibile verso le immagini, o il musicista è sensibile verso i suoni, così l’americano è sensibile verso le cifre. – Questa tendenza a concepire la vita come fatto tecnico, spiega la filosofia americana medesima. Il pragmatismo esce per l’appunto da questa mentalità che non pregia e non afferra l’astratto. James e più ancora Dewey sono i prodotti più genuini di questo inconsapevole bisogno di tecnicismo, per cui la filosofia viene scambiata con l’educazione, e un’idea astratta vale non in se stessa, ma solo in quanto si può tradurre in azione. (“La povertà fantastica del popolo romano avviò i Romani a concepire la divinità come un’energia astratta la quale si estrinseca solo nell’azione”; cfr Roma capta). E per questo l’America è la terra tipica delle chiese e delle scuole, dove la teoreticità si innesta alla vita».
Mi pare che la tesi del Macchioro sia un berretto per tutte le teste.
Q4 §77 Riviste tipo. Una rubrica permanente sulle correnti scientifiche. Ma non per divulgare nozioni scientifiche. Per esporre, criticare e inquadrare le «idee scientifiche» e le loro ripercussioni sulle ideologie e sulle concezioni del mondo e per promuovere il principio pedagogico‑didattico della «storia della scienza e della tecnica come base dell’educazione formativa‑storica nella nuova scuola».
IL CANTO DECIMO DELL’INFERNO
Q4 §78 Quistione su «struttura e poesia» nella Divina Commedia secondo B. Croce e Luigi Russo. Lettura di Vincenzo Morello come «corpus vile». Lettura di Fedele Romani su Farinata. De Sanctis. Quistione della «rappresentazione indiretta» e delle didascalie nel dramma: le didascalie hanno un valore artistico? contribuiscono alla rappresentazione dei caratteri? In quanto limitano l’arbitrio dell’attore e caratterizzano più concretamente il personaggio dato, certamente. Il caso del Don Giovanni di Shaw con l’appendice del manualetto di John Tanner: quest’appendice è una didascalia, da cui un attore intelligente può e deve trarre elementi per la sua interpretazione. La pittura pompeiana di Medea che uccide i figli avuti da Giasone: Medea è rappresentata col viso bendato: il pittore non sa o non vuole rappresentare quel viso. (C’è però il caso di Niobe, ma in opera di scultura: coprire il viso avrebbe significato togliere il contenuto proprio all’opera). Farinata e Cavalcante: il padre e il suocero di Guido. Cavalcante è il punito del girone. Nessuno ha osservato che se non si tien conto del dramma di Cavalcante, in quel girone non si vede in atto il tormento del dannato: la struttura avrebbe dovuto condurre a una valutazione estetica del canto piú esatta, poiché ogni punizione è rappresentata in atto. Il De Sanctis notò l’asprezza contenuta nel canto per il fatto che Farinata d’un tratto muta carattere: dopo essere stato poesia diventa struttura, egli spiega, fa da Cicerone a Dante. La rappresentazione poetica di Farinata è stata mirabilmente rivissuta dal Romani: Farinata è una serie di statue. Poi Farinata recita una didascalia. Il libro di Isidoro del Lungo sulla Cronica di Dino Compagni: in esso è stabilita la data della morte di Guido. È strano che gli eruditi non abbiano prima pensato a servirsi del Canto X per fissare approssimativamente questa data (qualcuno l’ha fatto?) Ma neanche l’accertamento fatto dal Del Lungo servì a interpretare la figura di Cavalcante e a dare una spiegazione dell’ufficio fatto fare da Dante a Farinata.
Qual’è la posizione di Cavalcante, qual’è il suo tormento? Cavalcante vede nel passato e vede nell’avvenire, ma non vede nel presente, in una zona determinata del passato e dell’avvenire in cui è compreso il presente. Nel passato Guido è vivo, nell’avvenire Guido è morto, ma nel presente? è morto o vivo? Questo è il tormento di Cavalcante, il suo assillo, il suo unico pensiero dominante. Quando parla, domanda del figlio; quando sente «ebbe», il verbo al passato, egli insiste e tardando la risposta, egli non dubita più: suo figlio è morto; egli scompare nell’arca infuocata.
Come Dante rappresenta questo dramma? Egli lo suggerisce al lettore, non lo rappresenta; egli dà al lettore gli elementi perché il dramma sia ricostruito e questi elementi sono dati dalla struttura. Tuttavia una parte drammatica c’è e precede la didascalia. Tre battute: Cavalcante appare, non dritto e virile come Farinata, ma umile, abbattuto, forse inginocchiato e domanda dubbiosamente del figlio. Dante risponde, indifferente o quasi e adopera il verbo che si riferisce a Guido al passato. Cavalcante coglie subito questo fatto e urla disperatamente. C’è il dubbio in lui, non la certezza; domanda altre spiegazioni con tre domande in cui c’è una gradazione di stati d’animo. «Come dicesti: egli “ebbe”?» – «Non vive egli ancora?» – «Non fiede gli occhi suoi lo dolce lome?» Nella terza domanda c’è tutta la tenerezza paterna di Cavalcante; la generica «vita» umana è vista in una condizione concreta, nel godimento della luce, che i dannati e i morti hanno perduto. Dante indugia a rispondere e allora il dubbio cessa in Cavalcante. Farinata invece non si scuote. Guido è il marito di sua figlia, ma questo sentimento non ha in lui potere in quel momento. Dante sottolinea questa sua forza d’animo. Cavalcante si affloscia ma Farinata non muta aspetto, non mosse collo, non piega costa. Cavalcante cade supino, Farinata non ha nessun gesto di abbattimento; Dante analizza negativamente Farinata per suggerire i (tre) movimenti di Cavalcante, lo stravolgimento del sembiante, la testa che ricade, il dorso che si piega. Tuttavia c’è qualcosa di mutato anche in Farinata. La sua ripresa non è più così altera come la prima sua apparizione.
Dante non interroga Farinata solo per «istruirsi», egli lo interroga perché è rimasto colpito della scomparsa di Cavalcante. Egli vuole che gli sia sciolto il nodo che gli impedì di rispondere a Cavalcante; egli si sente in colpa dinanzi a Cavalcante. Il brano strutturale non è solo struttura, dunque, è anche poesia, è un elemento necessario del dramma che si è svolto.
Q4 §79 Critica dell’«inespresso»? Le osservazioni da me fatte potrebbero dar luogo all’obbiezione: che si tratti di una critica dell’inespresso, di una storia dell’inesistito, di un’astratta ricerca di plausibili intenzioni mai diventate concreta poesia, ma di cui rimangono tracce esteriori nel meccanismo della struttura. Qualcosa come la posizione che spesso assume il Manzoni nei Promessi Sposi, come quando Renzo, dopo aver errato alla ricerca dell’Adda e del confine, pensa alla treccia nera di Lucia: «... e contemplando l’immagine di Lucia! non ci proveremo a dire ciò che sentisse: il lettore conosce le circostanze: se lo figuri». Si potrebbe anche qui trattare di cercare di «figurarsi» un dramma, conoscendone le circostanze.
L’obbiezione ha una parvenza di verità: se Dante non può immaginarsi, come il Manzoni, ponente dei limiti alla sua espressione per ragioni pratiche (il Manzoni si propose di non parlare dell’amore sessuale e di non rappresentarne le passioni nella loro pienezza, per ragioni di «morale cattolica»), il fatto sarebbe avvenuto per «tradizione di linguaggio poetico», che del resto Dante non avrebbe sempre osservato (Ugolino, Mirra, ecc.), «rincalzato» dai suoi speciali sentimenti per Guido. Ma si può ricostruire e criticare una poesia se non nel mondo dell’espressione concreta, del linguaggio storicamente realizzato? Non un elemento «volontario» dunque, «di carattere pratico o intellettivo» tarpò le ali a Dante: egli «volò con le ali che aveva» per così dire, e non rinunziò volontariamente a nulla.
Su questo argomento del neomaltusianismo artistico del Manzoni cfr il libretto del Croce e l’articolo di Giuseppe Citanna nella «Nuova Italia» del giugno 1930.
Q4 §80 Plinio ricorda che Timante di Sicione aveva dipinto la scena del sacrificio di Ifigenia effigiando Agamennone velato. Il Lessing, nel Laocoonte, per primo (?) riconobbe in questo artificio non l’incapacità del pittore a rappresentare il dolore del padre, ma il sentimento profondo dell’artista che attraverso gli atteggiamenti più strazianti del volto, non avrebbe saputo dare un’impressione tanto penosa d’infinita mestizia come con questa figura velata, il cui viso è coperto dalla mano. Anche nella pittura pompeiana del sacrifizio d’Ifigenia, diversa per la composizione generale dal dipinto di Timante, la figura di Agamennone è velata.
Di queste diverse rappresentazioni del sacrifizio di Ifigenia parla Paolo Enrico Arias nel «Bollettino dell’Istituto Nazionale del dramma antico di Siracusa», articolo riassunto dal «Marzocco» del 13 luglio 1930.
Nelle pitture pompeiane esistono altri esempi di figure velate: es. Medea che uccide i figli. La quistione è stata trattata dopo il Lessing, la cui interpretazione non è completamente soddisfacente?
Q4 §81 La data della morte di Guido Cavalcanti fu fissata criticamente per la prima volta da Isidoro Del Lungo nella sua opera Dino Compagni e la sua Cronica di cui nel 1887 fu pubblicato il «volume terzo, contenente gli indici storico e filologico a tutta l’opera e il testo della “Cronica” secondo il codice Laurenziano Ashburnhamiano»; i volumi I e II furono finiti nel 1880 e stampati poco dopo. Bisogna vedere se il Del Lungo, nel fissare la data della morte di Guido, pone in rapporto questa data con il Canto X: mi pare di ricordare di no. Sullo stesso argomento bisognerebbe vedere del Del Lungo: Dante nei tempi di Dante, Bologna 1888; Dal secolo e dal poema di Dante, Bologna 1898, e specialmente Da Bonifazio VIII ad Arrigo VII, pagine di storia fiorentina per la vita di Dante, che è una riproduzione, riveduta e corretta, e talvolta accresciuta, di una parte dell’opera su Dino Compagni e la sua Cronica.
Q4 §82 Il disdegno di Guido. Nella recensione scritta da G. S. Gargàno (La lingua nei tempi di Dante e L’interpretazione della poesia, «Marzocco», 14 aprile 1929) del libro postumo di Enrico Sicardi, La lingua italiana in Dante (Casa Ed. «Optima», Roma), si riporta l’interpretazione del Sicardi sul «disdegno» di Guido. Così, scrive il Sicardi, dovrebbe interpretarsi il passo: «Io non faccio il viaggio di mia libera scelta; non sono libero di venire o non venire; invece sono qui condotto da colui che m’aspetta lì fermo e col quale il vostro Guido ebbe a disdegno di venire qui, ossia di accompagnarsi qui con lui». L’interpretazione del Sicardi è formale, non sostanziale: egli non si ferma a spiegare in che consista il «disdegno» (o della lingua latina, o dell’imperialismo virgiliano o delle altre spiegazioni date dagli interpreti). Dante ebbe largita la «grazia» dal Cielo: come potevasi concedere la medesima grazia ad un ateo? (ciò non è esatto: perché la «grazia» per la sua stessa natura, non può essere limitata da nessuna ragione). Per il Sicardi nel verso: «Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno» il cui si riferisce certamente a Virgilio, ma non è un complemento oggetto, ma uno dei soliti pronomi a cui manca il segnacaso con. E l’oggetto di ebbe a disdegno? Si ricava dal precedente «da me stesso non vegno» ed è, mettiamo il caso, o il sostantivo venuta o, se si vuole, una proposizione oggettiva: di venire.
Nella sua recensione il Gargàno scrive a un certo punto: «L’amico di Guido dice al povero padre deluso di non veder vivo per l’Inferno anche il suo figliolo ecc.». Deluso? È troppo poco: si tratta di una parola del Gargàno o è ricavata dal Sicardi? Non si pone il problema: ma perché Cavalcante deve proprio aspettarsi che Guido venga con Dante nell’Inferno? «Per l’altezza d’ingegno»? Cavalcante non è mosso dalla «razionalità» ma dalla «passione»: non c’è nessuna ragione perch’é Guido dovesse accompagnare Dante; c’è solo che Cavalcante vuol sapere se Guido in quel momento è vivo o morto ed uscire così dalla sua pena.
La parola più importante del verso: «Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno» non è «cui» o «disdegno» ma è solo ebbe. Su «ebbe» cade l’accento «estetico» e «drammatico» del verso ed esso è l’origine del dramma di Cavalcante, interpretato nelle didascalie di Farinata: e c’è la «catarsi»; Dante si corregge, toglie dalla pena Cavalcante, cioè interrompe la sua punizione in atto.
Q4 §83 Vincenzo Morello. Dante, Farinata, Cavalcante, in 8º, p. 80, ed.
Mondadori, 1927. Contiene due scritti: 1) Dante e Farinata. Il canto X
dell’Inferno letto nella «Casa di Dante» in Roma il XXV aprile MCMXXV e
2) Cavalcanti e il suo disdegno. Nella scheda bibliografica dell’editore
è detto: «Le interpretazioni del Morello daranno occasione a discussioni
fra gli studiosi, perché si distaccano completamente da quelle
tradizionali, e vengono a conclusioni diverse e nuove». Ma il Morello
aveva una qualsiasi preparazione per questo lavoro e per questa
indagine? Egli inizia il primo scritto così: «La critica dell’ultimo
trentennio ha così profondamente esplorato le sorgenti (!) dell’opera
dantesca, che ormai i sensi più oscuri, i riferimenti più difficili, le
allusioni più astruse e perfino i particolari più intimi dei personaggi
delle Tre Cantiche, si può dire siano penetrati e chiarificati». Chi si
contenta gode! Ed è molto comodo muovere da una simile premessa: esime
dal fare un proprio lavoro e molto faticoso di scelta e di
approfondimento dei risultati raggiunti dalla critica storica ed
estetica. E continua: «Sì che, dopo la debita preparazione, noi possiamo
oggi leggere ed intendere la Divina Commedia, senza più smarrirci nei
labirinti delle vecchie congetture, che la incompleta informazione
storica e la deficiente disciplina intellettuale gareggiavano nel
costruire e rendere inestricabili». Il Morello dunque avrebbe fatto la
debita preparazione e sarebbe in possesso di una perfetta disciplina
intellettuale: non sarà difficile mostrare che egli ha letto
superficialmente lo stesso canto X e non ne ha compreso la lettera più
evidente. Il canto X è, secondo il Morello, «per eccellenza politico» e
«la politica, per Dante, è cosa tanto sacra, quanto la religione»,
quindi occorre una «disciplina più che mai rigida» nella interpretazione
del canto X per non sostituire le proprie tendenze e le proprie passioni
a quelle altrui e per non abbandonarsi alle più strane aberrazioni. Il
Morello afferma che il canto X è per eccellenza politico, ma non lo
dimostra e non lo può dimostrare perché non è vero: il canto X è
politico come politica è tutta la Divina Commedia, ma non è politico per
eccellenza. Ma al Morello questa affermazione fa comodo per non
affaticare le sue meningi; poiché egli si reputa grande uomo politico e
grande teorico della politica, gli sarà facile dare una interpretazione
politica del canto X dopo aver leggiucchiato il canto nella prima
edizione venuta alla mano, servendosi delle idee generali che circolano
sulla politica di Dante e di cui ogni buon giornalista di cartello, come
il Morello, deve avere una qualche infarinatura nonché un certo numero
di schede d’erudizione.
Che il Morello non abbia letto che superficialmente il canto X si vede dalle pagine in cui tratta dei rapporti tra Farinata e Guido Cavalcanti (p. 35). Il Morello vuol spiegare l’impassibilità di Farinata durante lo svolgimento «dell’episodio» di Cavalcante. Ricorda l’opinione del Foscolo, per il quale questa indifferenza dimostra la forte tempra dell’uomo, che «non permette agli affetti domestici di distoglierlo dal pensare alle nuove calamità della patria» e del De Sanctis, per il quale Farinata rimane indifferente, perché «le parole di Cavalcante giungono al suo orecchio, non all’anima, che è tutta fisa in un pensiero unico: l’arte mal appresa». Per il Morello vi può essere «forse una spiegazione più convincente». Cioè: «Se Farinata non muta aspetto, né muove collo, né piega costa, così come il poeta vuole, è, forse, non perché insensibile o non curante del dolore altrui, ma perché ignora la persona di Guido, come ignorava quella di Dante e perché ignora che Guido ha stretto matrimonio con sua figlia. Egli é morto nel 1264, tre anni prima del ritorno dei Cavalcanti a Firenze, quando Guido aveva sette anni; e si fidanzò con Bice all’età di nove anni (1269), cinque anni dopo la morte di Farinata. Se è vero che i morti non possono conoscere da sé i fatti dei vivi, ma soltanto per mezzo delle anime che li avvicinano, o degli angeli o dei demoni, Farinata può non conoscere la sua parentela con Guido e rimanere indifferente alle sorti di lui, se nessuna anima o nessun angelo o demone gliene abbian portata notizia. Cosa che non pare avvenuta». Il brano è strabiliante da parecchi punti di vista e mostra quanto siadeficiente la disciplina intellettuale del Morello. 1) Farinata stesso dice apertamente e chiaramente che gli eresiarchi del suo gruppo ignorano i fatti «quando s’approssiman e son», non sempre, e in ciò consiste la loro punizione specifica oltre l’arca infuocata «per avere voluto vedere nel futuro» e solamente in questo caso «s’altri non ci adduce» essi ignorano. Dunque il Morello non ha neanche letto bene il testo. 2) È proprio da dilettante, nei personaggi di un’opera d’arte, andare a cercare le intenzioni oltre la portata della espressione letterale dello scritto. Il Foscolo e il De Sanctis (specialmente il De Sanctis) non si allontanano dalla serietà critica; il Morello invece pensa realmente alla vita concreta di Farinata nell’Inferno oltre il canto di Dante e pensa persino poco probabile che i demoni o gli angeli abbiano potuto, a tempo perso, informare Farinata di ciò che gli era ignoto. È la mentalità dell’uomo del popolo che quando ha letto un romanzo vorrebbe sapere cosa hanno fatto ulteriormente tutti i personaggi (donde la fortuna delle avventure a catena): è la mentalità del Rosini che scrive la Monaca di Monza o di tutti gli scribacchiatori che scrivono le continuazioni di opere illustri o ne svolgono e amplificano episodi parziali.
Che tra Cavalcante e Farinata vi sia rapporto intimo nella poesia di Dante risulta dalla lettera del Canto e dalla sua struttura: Cavalcante e Farinata sono vicini (qualche illustratore immagina addirittura che siano nella stessa arca), i loro due drammi si intrecciano strettamente e Farinata viene ridotto alla funzione strutturale di «explicator» per far penetrare il lettore nel dramma di Cavalcante. Esplicitamente, dopo l’«ebbe», Dante contrappone Farinata a Cavalcante nell’aspetto fisico‑statuario che esprime la loro posizione morale: Cavalcante cade, si affloscia, né più appare fuori, Farinata «analiticamente» non muta aspetto né muove collo né piega costa.
Ma l’incomprensione della lettera del canto da parte del Morello si rivela anche dove egli parla di Cavalcante, pp. 31 e segg.:
«È rappresentato, in questo canto, anche il dramma della famiglia attraverso lo strazio delle guerre civili; ma non da Dante e da Farinata; sì bene da Cavalcante». Perché «attraverso lo strazio delle guerre civili»? Questa è un’aggiunta cervellotica del Morello. Il doppio elemento, famiglia‑politica, è in Farinata e infatti la politica lo sorregge sotto l’impressione del disastro famigliare della figlia. Ma in Cavalcante solo motivo drammatico è l’amore figliale e infatti egli crolla appena è certo che il figlio è morto. Secondo il Morello, Cavalcante «domanda a Dante piangendo: – Perché mio figlio non è teco? – Piangendo. Questo di Cavalcante si può veramente dire il pianto della guerra civile». Stupidaggine, conseguente all’affermazione che il canto X è «per eccellenza politico». E più oltre: «Guido era vivo all’epoca del mistico viaggio; ma era morto quando Dante scriveva. E dunque di un morto Dante realmente scriveva, non ostante, per la cronologia del viaggio, dovesse infine apprendere al padre il contrario», ecc.: passo che dimostra come il Morello abbia appena sfiorato il contenuto drammatico e poetico del canto e l’abbia, letteralmente, sorvolato nella lettera testuale.
Superficialità piena di contraddizioni perché poi il Morello si ferma sulla predizione di Farinata, senza pensare che se questi eresiarchi possono sapere il futuro, devono sapere il passato, dato che il futuro diventa sempre passato: ciò non lo porta a rileggersi il testo e ad accertarne il significato.
Ma anche la così detta interpretazione politica che il Morello fa del X canto è superficialissima: essa non è altro che la ripresa della vecchia quistione: Dante fu guelfo o ghibellino? Per il Morello, sostanzialmente, Dante fu ghibellino e Farinata è «il suo eroe», solo che Dante fu ghibellino come Farinata, cioè «uomo politico» più che «uomo di parte». Si può, in questo argomento dire tutto ciò che si vuole. In realtà Dante, come egli stesso dice, «fece parte per se stesso»: egli è essenzialmente un «intellettuale» e il suo settarismo e la sua partigianeria sono d’ordine intellettuale più che politico in senso immediato. D’altronde la posizione politica di Dante potrebbe esser fissata solo con un’analisi minutissima non solo di tutti gli scritti di Dante stesso, ma delle divisioni politiche del suo tempo che erano molto diverse da quelle di cinquant’anni prima. Il Morello è troppo irretito nella retorica letteraria per essere in grado di concepire realisticamente le posizioni politiche degli uomini del Medio Evo verso l’Impero, il Papato e la loro repubblica comunale.
Quello che fa sorridere nel Morello è il suo «disdegno» per i commentatori che affiora qua e là come a p. 52, nello scritto Cavalcanti e il suo disdegno dove dice che «la prosa dei commentatori spesso altera il senso dei versi»; ma guarda chi lo dice!
Questo scritto Cavalcanti e il suo disdegno appartiene precisamente a quella letteratura d’appendice intorno alla Divina Commedia, inutile e ingombrante con le sue congetture, le sue sottigliezze, le sue alzate d’ingegno da parte di gente che per avere la penna in mano, si crede in diritto di scrivere di qualunque cosa, sgomitolando le fantasticherie del suo talentaccio.
Q4 §84 Le «rinunzie descrittive» nella Divina Commedia. Da un articolo di Luigi Russo, Per la poesia del «Paradiso» dantesco (nel «Leonardo» dell’agosto 1927), tolgo alcuni accenni alle «rinunzie descrittive» di Dante che, in ogni caso, hanno diversa origine e spiegazione che per l’episodio di Cavalcante. Se ne è occupato A. Guzzo nella «Rivista d’Italia» del 15 novembre 1924, pp. 456‑79 (Il «Paradiso» e la critica del De Sanctis). Scrive il Russo: «Il Guzzo parla delle “rinunzie descrittive” che sono frequenti nel Paradiso: – Qui vince la memoria mia lo ingegno, – Se mò sonasser tutte quelle lingue – ecc., ed egli ritiene che questa è una prova che, dove Dante non può trasfigurare celestialmente la terra, egli “piuttosto rinunzia a descrivere il fenomeno celeste anziché, con astratta e artificiosa fantasia, capovolgere, invertire, violentare l’esperienza” (p. 478). Ora anche qui il Guzzo, come gli altri dantisti, riman vittima di una valutazione psicologica di parecchi versi di quel genere, che ricorrono nel Paradiso. Tipico il caso del Vossler che una volta si servì di queste “rinunzie descrittive” del poeta, come fossero confessioni d’impotenza fantastica, per concludere, sulla testimonianza dell’artista stesso, sull’inferiorità dell’ultima cantica; e, recentemente, nel suo ravvedimento critico, si richiamò invece proprio a quelle rinunzie descrittive, per attribuir loro un valore religioso, quasi il poeta volesse avvertire di tratto in tratto che quello è il regno dell’assoluto trascendente (Die Göttliche Komödie, 1925, II Band, pp. 771‑72). Ora a me pare che mai il poeta riesce tanto espressivo, come in queste sue confessioni di impotenza espressiva, le quali, invero, vanno considerate non nel loro contenuto (che è negativo), ma nel loro tono lirico (che è positivo, e qualche volta iperbolicamente positivo). Quella è la poesia dell’ineffabile; e non bisogna scambiare la poesia dell’ineffabile per ineffabilità poetica» ecc.
Per il Russo non si può parlare di rinunzie descrittive in Dante. Si tratta, in forma negativa, di espressioni piene, sufficienti, di tutto quello che si agita veramente nel petto del poeta.
Il Russo accenna in nota a un suo studio, Il Dante del Vossler e l’Unità poetica della Commedia, nel vol. XII degli «Studi Danteschi» diretti da M. Barbi, ma il richiamo al Vossler si deve riferire ai tentativi di gerarchizzare artisticamente le tre cantiche.
Q4 §85 Nel 1918, in un «Sotto la Mole» intitolato Il cieco Tiresia è pubblicato un cenno dell’interpretazione data in queste della figura di Cavalcante. Nella nota pubblicata nel 1918 si prendeva lo spunto dalla notizia pubblicata dai giornali che una ragazzina, in un paesello d’Italia, dopo aver preveduto la fine della guerra per il 1918 diventò cieca. Il nesso è evidente. Nella tradizione letteraria e nel folclore, il dono della previsione è sempre connesso con l’infermità attuale del veggente, che mentre vede il futuro non vede l’immediato presente perché cieco. (Forse ciò è legato alla preoccupazione di non turbare l’ordine naturale delle cose: perciò i veggenti non sono creduti, come Cassandra; se fossero creduti, le loro previsioni non si verificherebbero, in quanto gli uomini, posti sull’avviso, opererebbero diversamente e i fatti allora si svolgerebbero diversamente dalla previsione ecc.).
Q4 §86 Da una lettera del prof. U. Cosmo (dei primi mesi del 1932) riporto alcuni brani sull’argomento di Cavalcante e Farinata: «Mi pare che l’amico nostro abbia colpito giusto, e qualche cosa che s’avvicinava alla sua interpretazione ho sempre insegnato io. Accanto al dramma di Farinata c’è anche il dramma di Cavalcante, e male hanno fatto i critici, e fanno, a lasciarlo nell’ombra. L’amico farebbe dunque opera ottima a lumeggiarlo. Ma per lumeggiarlo bisognerebbe discendere un po’ più nell’anima medioevale. Ognuno dei due, Farinata e Cavalcante, soffre il suo dramma. Ma il proprio dramma non tocca l’altro. Sono legati dalla parentela dei figli, ma sono di parte avversa. Perciò non si incontrano. È la loro forza come dramatis personae, è il loro torto come uomini. Più difficile mi pare provare che l’interpretazione lede in modo vitale la tesi del Croce sulla poesia e la struttura della Commedia. Senza dubbio anche la struttura dell’opera ha valore di poesia. Con la sua tesi il Croce riduce la poesia della Commedia a pochi tratti e perde quasi tutta la suggestione che si sprigiona da essa. Cioè perde quasi tutta la sua poesia. La virtù della grande poesia è di suggerire più che non dica e suggerire sempre cose nuove. Di qui la sua eternità. Bisognerebbe dunque mettere bene in chiaro che tale virtù di suggestione che promana dal dramma di Cavalcante promana dalla struttura dell’opera (la previsione dei dannati del futuro e l’ignoranza del presente, il loro essere in quel determinato cono d’ombra, come dice assai felicemente l’amico, l’essere nella stessa tomba (!?) i due sofferenti, l’essere legati da quelle determinate leggi costruttive). Tutte parti della struttura che diventano fonte di poesia. Togliete queste e la poesia svanisce. – Per raggiungere più sicuro l’effetto, mi pare, sarebbe bene riprovare la tesi con qualche altro esempio. Io, scrivendo del Paradiso, sono arrivato alla conclusione che dove la costruzione è debole, è debole anche la poesia... Ma più efficace sarebbe forse di cercare la riprova in qualche episodio plastico dell’Inferno o del Purgatorio. Penso dunque che l’amico farebbe assai bene a svolgere con il rigore del suo raziocinio e la chiarezza della sua espressione la sua tesi. Il ravvicinamento con le Didascalie dei drammi propriamente detti è arguto e può illuminare. Ti soggiungo qualche indicazione bibliografica più facile. Lo studio del Russo si può vedere completo in L. Russo, Problemi di metodo critico, Bari, Laterza, 1929.
Nella «Critica» sarebbe bene vedere ciò che scrisse l’Arangio Ruiz («Critica», XX, 340‑57). L’articolo è dichiarato dal Barbi «bellissimo». Pretensioso nella sua filosofica sicumera, lo studio di Mario Botti (Per lo studio della genesi della poesia dantesca. La seconda cantica: poesia e struttura nel poema) in «Annali dell’Istruzione media», 1930, pp. 432‑73. Il Barbi se ne occupa, ma non dice nulla di nuovo, nell’ultimo fascicolo degli «Studi Danteschi» (XVI, pp. 47 sgg.), Poesia e struttura nella Divina Commedia. Per la genesi dell’ispirazione centrale della Divina Commedia. Anche il Barbi, in uno studio Con Dante e coi suoi interpreti (vol. XV, «Studi Danteschi»), passa in rivista le ultime interpretazioni del canto di Farinata. E pure il Barbi pubblicò un suo commento nel vol. VIII degli «Studi Danteschi».
Ci sarebbe da osservare molte cose su queste del prof. Cosmo.
Q4 §87 Poiché occorre infischiarsi del gravissimo compito di far progredire la critica dantesca o di portare la propria pietruzza all’edifizio commentatorio e chiarificatorio del divino poema ecc., il modo migliore di presentare queste osservazioni sul Canto decimo pare debba proprio essere quello polemico, per stroncare un filisteo classico come Rastignac [Vincenzo Morello], per dimostrare, in modo drastico e fulminante, e sia pure demagogico, che i rappresentanti di un gruppo sociale subalterno possono far le fiche, scientificamente e come gusto artistico, a ruffiani intellettuali come Rastignac. Ma Rastignac conta meno di un fuscello nel mondo culturale ufficiale! Non ci vuole molta bravura per mostrarne l’inettitudine e la zerità. Ma intanto la sua conferenza è stata tenuta alla Casa di Dante romana: da chi è diretta questa Casa di Dante della città eterna? Anche la Casa di Dante e i suoi dirigenti contano nulla? E se contano nulla perché la grande cultura non li elimina? E come è stata giudicata la conferenza dai dantisti? Ne ha parlato il Barbi, nelle sue rassegne degli «Studi Danteschi» per mostrarne la deficienza ecc.? Eppoi, piace poter prendere per il bavero un uomo come Rastignac e servirsene da palla per un gioco solitario del calcio.
Q4 §88 Shaw e Gordon Craig. Polemica tra i due sul teatro. Shaw difende le sue didascalie lunghissime come aiuto non alla rappresentazione ma alla lettura. Secondo Aldo Sorani («Marzocco» del 1° novembre 1931) queste didascalie dello Shaw «sono precisamente il contrario di quel che Gordon Craig desidera e richiede come atto a ridar vita sulla scena alla fantasia dell’autore drammatico, a ricreare quell’atmosfera da cui l’opera d’arte è sorta e si è imposta allo stesso autore»Il resto della pagina 7 bis è rimasto inutilizzato.
Finisce qui il gruppo di comprese sotto il titolo Il canto decimo dell’Inferno.
Q4 §89 Argomenti di cultura. Una serie di studi sul giornalismo delle capitali più importanti degli Stati del mondo seguendo questi criteri: 1) Esame dei giornali quotidiani che in un giorno determinato escono in una capitale (Londra, Parigi, Madrid, ecc.) per avere un termine omogeneo di comparazione, cioè la relativa somiglianza degli avvenimenti che riflettono in modo vario, a seconda dei partiti o tendenze di partito che rappresentano. Ma poiché il tipo di giornale non può essere conosciuto nell’esemplare di una sola giornata, occorrerà procurarsi gli esemplari di una settimana o del periodo in cui appaiono certe rubriche specializzate, certi supplementi, il cui complesso permette di comprendere la fortuna presso gli assidui, ecc. 2) Esame di tutta la stampa periodica, di ogni specie, (da quella sportiva a quella enigmistica, al bollettino parrocchiale) che completa l’esame dei quotidiani. Informazioni sulla tiratura, sul personale, sulla direzione, sui proventi della pubblicità.
Insomma si dovrebbe ricostruire per ogni capitale l’insieme delle forze ideologiche che operano continuamente e simultaneamente nelle pubblicazioni periodiche di ogni genere. Rapporto dei giornali della capitale con quelli provinciali in genere. Bisogna tener conto per certi paesi, dell’esistenza di altri centri dominanti oltre la capitale, come Milano in Italia, Barcellona in Spagna, Monaco in Germania, Manchester in Inghilterra (e Glasgow), ecc.
Q4 §90 Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. Monsignor Ugo Mioni, scrittore di romanzacci a serie di avventure per i giovanetti, era un tempo gesuita e ora non lo è più. Oggi appartiene certamente agli integralisti, come appare dalla recensione, pubblicata nella «Civiltà Cattolica» del 20 agosto 1932 del suo Manuale di sociologia (Torino, Marietti, 1932, in 16°, pp. 392, L. 12). Nella recensione si osserva che nel Manuale «traspare qua e là una diffidenza soverchia del nuovo, vero o presunto che sia». A pag. 121 si inveisce contro la diffusione della cultura: “Perché non vi potrebbe essere qualche analfabeta? ve ne furono tanti e tanti nei secoli passati; i quali vissero tranquilli, sereni e felici!... È poi tanto necessaria la cultura intellettuale e scientifica dei cittadini? Di alcuni, di parecchi, sì... Per tutti? No”». «A pag. 135 si legge che: “la sociologia cristiana è ostile a ogni partecipazione della donna alla vita pubblica”». La «Civiltà Cattolica» nega questa affermazione perentoria e ricorda che «una delle scuole oggi più rinomate della Sociologia cristiana (Le settimane sociali francesi) è tutt’altro che ostile alla partecipazione, di cui ha tanto orrore il nostro Autore». Cita anche il Précis de la doctrine sociale catholique (Editions Spes, p. 129) del gesuita Ferdinando Cavallera, prof. dell’Istituto di Tolosa, dove è scritto: «La partecipazione della donna alla vita pubblica non solleva alcuna obbiezione dal punto di vista cattolico». La «Civiltà Cattolica» rimprovera al Mioni di aver obliato nel suo trattato la vita internazionale che «ha oggi così decisiva importanza anche nelle questioni sociali» e di non aver fatto alcun cenno, parlando della tratta delle bianche, di quanto si è fatto di recente a Ginevra in una speciale commissione della Società delle nazioni.
L’opposizione al trattato del Mioni è dunque radicale. Questo trattato del Mioni può assumersi come uno dei documenti più importanti ideologici del cattolicismo integrale e ultrareazionario.
Q4 §91 Carattere cosmopolita degli intellettuali italiani. Da un articolo di Arturo Pompeati (Tre secoli d’italianismo in Europa, «Marzocco» del 6 marzo 1932) sul volume di Antero Meozzi: Azione e diffusione della letteratura italiana in Europa (sec. XV‑XVII), Pisa, Vallerini, 1932, in 8°, pp. XXXII‑304. È il primo volume di una serie. Il libro è composto di tre lunghi capitoli: Gli Italiani all’Estero, Stranieri in Italia, Le vie di diffusione dell’italianesimo. Capitolo per capitolo le suddivisioni sono metodiche: paese per paese le correnti, i gruppi, gli scrittori e non scrittori migrati dall’Italia o in Italia: e nell’ultimo capitolo i traduttori, i divulgatori, gli imitatori della nostra letteratura, genere per genere, autore per autore. Il libro ha l’andamento di un repertorio di nomi, a cui nelle corrisponde la bibliografia relativa. Ci sono così i materiali della «egemonia» letteraria italiana, durata appunto tre secoli, dal XV al XVII, quando è cominciata la reazione antitaliana: dopo non si può più parlare di influssi italiani in Europa (l’espressione «egemonia» è qui errata, perché gli intellettuali italiani non esercitarono l’influsso come gruppo nazionale, ma ogni individuo direttamente e per emigrazione di massa). Il Pompeati elogia il libro del Meozzi, sia per la raccolta dei materiali, sia per i criteri di ricerca e per l’ideologia moderata. È evidente che per molti aspetti il Meozzi si pone dei problemi inesistenti o retorici.
Molto severo è invece il Croce nella «Critica» del maggio 1932. Per il Croce il libro del Meozzi è una futilità inutile, una raccolta arida di nomi e di notizie né nuove né peregrine. «L’autore ha compilato da libri ed articoli notissimi, e, non avendo seguito ricerche originali in alcuno dei vari campi da lui toccati, non essendo pratico di essi, ha compilato senza discernimento». «Anche la materiale esattezza delle notizie e delle citazioni lascia assai da desiderare». Il Croce dà un mazzetto di errori di fatto e di metodo molto gravi. Tuttavia il libro del Meozzi potrebbe essere utile per questa rubrica come materiale di prima approssimazione.
Q4 §92 Argomenti di Cultura. L’influsso della cultura araba in Occidente. Ezio Levi ha pubblicato in volume Castelli di Spagna una serie di articoli pubblicati sparsamente nelle riviste e riguardanti i rapporti di cultura tra gli Arabi e l’Europa, realizzati specialmente attraverso la Spagna, dove gli studi di arabistica sono numerosi e contano molti specialisti. Nel «Marzocco» del 29 maggio 1932 recensisce la introduzione al libro L’eredità dell’Islam di Angel Gonzalez Palencia (l’introduzione è uscita in opuscolo: El Islam y Occidente, Madrid 1931) ed enumera tutta una serie di prestiti fatti dall’Islam all’Europa nella cucina: frutta, liquori, ecc.; nella medicina, nella chimica, ecc. Il libro del Gonzalez Palencia deve essere molto interessante per lo studio della civiltà europea e del contributo ad essa dato dagli Arabi.
Q4 §93 Intellettuali. relle sulla cultura inglese. Guido Ferrando, in un articolo del «Marzocco» (17 aprile 1932, Libri nuovi e nuove tendenze nella cultura inglese) analizza i mutamenti organici che si stanno verificando nella cultura moderna inglese, e che hanno le loro manifestazioni più vistose nel campo editoriale e nell’organizzazione complessiva degli istituti universitari del Regno Unito. «... in Inghilterra si va sempre più accentuando un orientamento verso una forma di cultura tecnica e scientifica, a scapito della cultura umanistica».
«In Inghilterra, fino a tutto il secolo scorso, si potrebbe quasi dire fino alla guerra mondiale, il fine educativo più alto che si proponevano le migliori scuole era quello di formare il gentleman. La parola gentleman, come tutti sanno, non corrisponde a gentiluomo italiano; e non può esser resa con precisione nella nostra lingua; indica una persona che abbia non solo buone maniere, ma che possegga un senso di equilibrio, una padronanza sicura di se stesso, una disciplina morale che gli permetta di subordinare volontariamente il proprio interesse egoistico a quelli più vasti della società in cui vive».
«Il gentleman è dunque la persona colta, nel significato più nobile del termine, se per cultura intendiamo non semplicemente ricchezza di cognizioni intellettuali, ma capacità di compiere il proprio dovere e di comprendere i propri simili, rispettando ogni principio, ogni opinione, ogni fede che sia sinceramente professata. È chiaro quindi che l’educazione inglese mirava non tanto a coltivare la mente, ad arricchirla di vaste cognizioni, quanto a sviluppare il carattere, a preparare una classe aristocratica la cui superiorità morale veniva istintivamente riconosciuta ed accettata dalle classi più umili. L’educazione superiore o universitaria, anche perché costosissima, era riservata ai pochi, ai figli di famiglie grandi per nobiltà o per censo, senza per questo esser del tutto preclusa ai più poveri, purché riuscissero, per virtù d’ingegno, a vincere una borsa di studio. Gli altri, la grande maggioranza, dovevano accontentarsi di un’istruzione, buona senza dubbio, ma prevalentemente tecnica e professionale, che li preparava per quegli uffici non direttivi, che sarebbero stati più tardi chiamati a coprire nelle industrie, nel commercio, nelle pubbliche amministrazioni».
Fino a qualche decennio fa esistevano in Inghilterra solo tre grandi università complete, Oxford, Cambridge e Londra, e una minore a Durham. Per entrare a Oxford e a Cambridge bisogna venire dalle così dette public schools che sono tutto, tranne che pubbliche. La più celebre di queste scuole, quella di Eton, fu fondata nel 1440 da Enrico VI per accogliere «settanta scolari poveri e indigenti» ed è diventata oggi la più aristocratica scuola dell’Inghilterra, con più di mille allievi; ci sono ancora i settanta posti interni che danno diritto all’istruzione e al mantenimento gratuito e vengono assegnati per concorso ai ragazzi più studiosi; gli altri sono esterni e pagano somme enormi. «I settanta collegiali... son quelli che poi all’università si specializzeranno e diventeranno i futuri professori e scienziati; gli altri mille, che in genere studiano meno, ricevono un’educazione soprattutto morale e diventeranno, attraverso il crisma universitario, la classe dirigente, destinata ad occupare i più alti posti nell’esercito, nella marina, nella vita politica, nell’amministrazione pubblica».
«Questa concezione dell’educazione, che è prevalsa finora in Inghilterra, è a base umanistica». Nella maggior parte delle public schools e nelle università di Oxford e Cambridge che hanno mantenuto la tradizione del Medio Evo e del Rinascimento, «la conoscenza dei grandi autori greci e latini viene ritenuta non solo utile, ma indispensabile per la formazione del gentleman, dell’uomo politico: serve a dargli quel senso di equilibrio, di armonia, quella raffinatezza di gusto che sono elemento integrante della vera cultura». L’educazione scientifica sta prendendo il sopravvento. «La cultura si va democratizzando e fatalmente livellando». Negli ultimi trenta o quaranta anni sono sorte nuove università nei grandi centri industriali, Manchester, Liverpool, Birmingham, Sheffield, Leeds, Bristol; il Galles volle la sua università e la fondò a Bangor, con ramificazioni a Cardiff, Swansea e Aberystwyth. Dopo la guerra e in questi ultimi anni le università si sono ancora moltiplicate; a Hull, a New Castle, a Southampton, a Exeter, a Reading e se ne annunziano altre due, a Nottingham e a Leicester. In tutti questi centri la tendenza è di dare alla cultura un carattere prevalentemente tecnico per soddisfare le richieste del gran pubblico degli studiosi. Le materie che più interessano sono, oltre le scienze applicate, fisica, chimica ecc., quelle professionali, medicina, ingegneria, economia politica, sociologia ecc. «Anche Oxford e Cambridge hanno dovuto far delle concessioni, e sviluppare sempre più la parte scientifica»; inoltre esse hanno istituito gli Extension Courses.
Il movimento verso la nuova cultura è generale: sorgono scuole e istituzioni private, serali, per adulti, con un insegnamento ibrido ma essenzialmente tecnico e pratico. Sorge intanto tutta una letteratura scientifica popolare. Infine l’ammirazione per la scienza è tanta che anche i giovani delle classi colte ed aristocratiche considerano gli studi classici come un inutile perditempo. Il fenomeno è mondiale. Ma l’Inghilterra aveva resistito più a lungo di altri e ora si orienta verso una forma di cultura prevalentemente tecnica. «Il tipo del perfetto gentleman non ha più ragione di essere; rappresentava l’ideale dell’educazione inglese, quando la Gran Bretagna, dominatrice dei mari e padrona dei grandi mercati del mondo, poteva permettersi il lusso di una politica di splendido isolamento, e di una cultura che aveva in sé, indubbiamente, una nota aristocratica. Oggi le cose son mutate». Perdita della supremazia navale e commerciale; dall’America è minacciata anche nella propria cultura. Il libro americano è stato commercializzato con la cultura e diventa un competitore sempre più minaccioso del libro inglese. Gli editori britannici, specialmente quelli che hanno succursali in America, hanno dovuto adottare i metodi di propaganda e di diffusione americani. «In Inghilterra il libro, appunto perché più letto e diffuso che da noi, esercita un’efficacia formativa ed educativa notevole, e rispecchia più fedelmente che da noi la vita intellettuale della nazione». In questa vita intellettuale sta avvenendo un mutamento.
Dei volumi pubblicati nel primo trimestre del 1932 (che numericamente sono cresciuti in confronto al 1° trimestre del 31), il romanzo mantiene il primo posto; il secondo posto non è più dei libri per bambini, ma dei libri pedagogici ed educativi in genere e c’è un sensibile aumento nelle opere storiche e biografiche e nei volumi di carattere tecnico e scientifico, soprattutto popolare.
Dai volumi inviati alla Fiera Internazionale del Libro a Firenze «noi vediamo che i recenti libri di carattere culturale sono più tecnici che educativi, tendono a discutere questioni scientifiche e aspetti della vita sociale, o a fornire cognizioni pratiche, più che a formare il carattere».
Q4 §94 Concordato. Il Direttore generale del Fondo per il culto Raffaele Jacuzio ha pubblicato un Commento della nuova legislazione in materia ecclesiastica con prefazione di Alfredo Rocco (Torino, Utet, 1932, in 8°, pp. 693, L. 60); dove raccoglie e commenta tutti gli atti sia degli organi statali italiani che di quelli vaticaneschi per la messa in esecuzione del Concordato. Accennando alla quistione dell’Azione Cattolica, lo Jacuzio scrive (p. 203): «Ma poiché nel concetto di politica non rientra soltanto la tutela dell’ordinamento giuridico dello Stato, ma anche tutto quanto si attiene alle provvidenze di ordine economico sociale, è ben difficile... ritenere nell’Azione cattolica a priori esclusa ogni azione politica, quando... si fanno rientrare in essa l’azione sociale ed economica e l’educazione spirituale della gioventù».
Q4 §95 Storia delle classi subalterne. Pietro Ellero, La quistione sociale, Bologna 1877.