Library:Prison Notebooks In Original Italian/Notebook 10: Difference between revisions
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Written in 1932-33
QUADERNO 10
LA FILOSOFIA DI BENEDETTO CROCE
Alcuni criteri generali metodici per la critica della filosofia del Croce. Conviene, in un primo momento, studiare la filosofia del Croce secondo alcuni criteri affermati dallo stesso Croce criteri, che a loro volta, fanno parte della concezione generale stessa:
1) Non cercare nel Croce un «problema filosofico generale», ma vedere nella sua filosofia, quel problema o quella serie di problemi che più interessano nel momento dato, che, cioè, sono più aderenti alla vita attuale e ne sono come il riflesso: questo problema o serie di problemi mi pare sia quello della storiografia da una parte e quello della filosofia della pratica, della scienza politica, dell’etica, dall’altra.
2) Occorre studiare attentamente gli scritti «minori» del Croce, cioè oltre le opere sistematiche e organiche, le raccolte di articoli, di postille, di piccole memorie, che hanno un maggiore e più evidente legame con la vita, col movimento storico concreto.
3) Occorre stabilire una «biografia filosofica» del Croce, cioè identificare le diverse espressioni assunte dal pensiero del Croce, la diversa impostazione e risoluzione di certi problemi, i nuovi problemi sorti dal suo lavorio e impostisi alla sua attenzione, e per questa ricerca appunto è utile lo studio dei suoi scritti minori, nella collezione della «Critica» e nelle altre pubblicazioni che li contengono; la base di questa ricerca può essere data dal Contributo alla critica di me stesso e dagli scritti, certamente autorizzati, di Francesco Flora e di Giovanni Castellano.
4) Critici del Croce: positivisti, neoscolastici, idealisti attuali. Obbiezioni di questi critici.
Q10 §1 Come si può impostare per la filosofia del Croce il problema di «rimettere l’uomo sulle proprie gambe», di farlo camminare coi piedi e non con la testa? È il problema dei residui di «trascendenza, di metafisica, di teologia» nel Croce, è il problema della qualità del suo «storicismo». Il Croce afferma spesso e volentieri di aver fatto ogni sforzo per espungere dal suo pensiero ogni traccia residua di trascendenza, di teologia, di metafisica, fino a rifiutare in filosofia ogni idea di «sistema» e di «problema fondamentale». Ma è però esatto che ci sia riuscito?
Il Croce si afferma «dialettico» (sebbene introduca nella dialettica una «dialettica dei distinti», oltre alla dialettica degli opposti, che non è riuscito a dimostrare cosa sia dialettica o cosa sia esattamente) ma il punto da chiarire è questo: nel divenire vede egli il divenire stesso o il «concetto» di divenire? Questo mi pare il punto da cui occorre partire per approfondire: 1) lo storicismo del Croce, e in ultima analisi, la sua concezione della realtà, del mondo, della vita, cioè la sua filosofia «tout court»; 2) il suo dissenso dal Gentile e dall’idealismo attuale; 3) la sua incomprensione del materialismo storico, accompagnata dall’ossessione del materialismo storico stesso. Che il Croce sia stato sempre ossessionato dal materialismo storico e lo sia tuttora in forma anche più acuta che nel passato non è difficile dimostrare. Che una tale ossessione sia diventata spasmodica in questi ultimi anni è dimostrato: dagli accenni contenuti negli Elementi di politica, dal suo intervento a proposito dell’estetica del materialismo storico nel Congresso di Oxford (cfr notizia pubblicata nella «Nuova Italia»), dalla recensione delle opere complete di Marx Engels pubblicata nella «Critica» del 1930, dall’accenno contenuto nei Capitoli introduttivi di una Storia dell’Europa nel secolo XIX, dalle lettere al Barbagallo pubblicate nella «Nuova Rivista Storica» del 1928‑29 e specialmente dall’importanza data al libro del Fülöp‑Miller, come appare da alcune pubblicate nella «Critica» nel 1925 (mi pare).
Se è necessario, nel perenne fluire degli avvenimenti, fissare dei concetti, senza i quali la realtà non potrebbe essere compresa, occorre anche, ed è anzi imprescindibile, fissare e ricordare che realtà in movimento e concetto della realtà, se logicamente possono essere distinti, storicamente devono essere concepiti come unità inseparabile. Altrimenti avviene ciò che avviene al Croce, che la storia diventa una storia formale, una storia di concetti, e in ultima analisi una storia degli intellettuali, anzi una storia autobiografica del pensiero del Croce, una storia di mosche cocchiere. Il Croce sta cadendo in una nuova e strana forma di sociologismo «idealistico», non meno buffo e inconcludente del sociologismo positivistico.
Q10 §2 Identità di storia e filosofia. L’identità di storia e filosofia è immanente nel materialismo storico (ma, in un certo senso, come previsione storica di una fase avvenire). Ha preso il Croce l’abbrivo dalla filosofia della praxis di Antonio Labriola? In ogni modo questa identità è diventata, nella concezione del Croce, ben altra cosa da quella che è immanente nel materialismo storico: esempio gli ultimi scritti di storia etico‑politica del Croce stesso. La proposizione che il proletariato tedesco è l’erede della filosofia classica tedesca contiene appunto l’identità tra storia e filosofia; così la proposizione che i filosofi hanno finora solo spiegato il mondo e che ormai si tratta di trasformarlo.
Questa proposizione del Croce della identità di storia e di filosofia è la più ricca di conseguenze critiche: 1) essa è mutila se non giunge anche alla identità di storia e di politica (e dovrà intendersi politica quella che si realizza e non solo i tentativi diversi e ripetuti di realizzazione alcuni dei quali falliscono presi in sé) e, 2) quindi anche alla identità di politica e di filosofia. Ma se è necessario ammettere questa identità, come è più possibile distinguere le ideologie (uguali, secondo Croce, a strumenti di azione politica) dalla filosofia? Cioè la distinzione sarà possibile, ma solo per gradi (quantitativa) e non qualitativamente. Le ideologie, anzi, saranno la «vera» filosofia, perché esse risulteranno essere quelle «volgarizzazioni» filosofiche che portano le masse all’azione concreta, alla trasformazione della realtà. Esse, cioè, saranno l’aspetto di massa di ogni concezione filosofica, che nel «filosofo» acquista caratteri di universalità astratta, fuori del tempo e dello spazio, caratteri peculiari di origine letteraria e antistorica.
La critica del concetto di storia nel Croce è essenziale: non ha essa un’origine puramente libresca e erudita? Solo l’identificazione di storia e politica toglie alla storia questo suo carattere. Se il politico è uno storico (non solo nel senso che fa la storia, ma nel senso che operando nel presente interpreta il passato), lo storico è un politico e in questo senso (che del resto appare anche nel Croce) la storia è sempre storia contemporanea, cioè politica: ma il Croce non può giungere fino a questa conclusione necessaria, appunto perché essa porta all’identificazione di storia e politica e quindi di ideologia e filosofia.
Q10 §3 Croce e Bernstein [Trotzky ndc]. Nella lettera di Sorel a Croce del 9 settembre 1899 (confrontare tutta la lettera nella «Critica») è scritto: «Bernstein vient de m’écrire qu’il a indiqué dans la “Neue Zeit” n° 46, qu’il avait été inspiré, en une certaine mesure, par vos travaux. Cela est intéressant parce que les Allemands ne sont pas faits pour indiquer des sources étrangères à leurs idées».
Q10 §4 Croce e Hegel. Dall’articolo di Guido Calogero,Il neohegelismo nel pensiero italiano contemporaneo, Nuova Antologia, 16 agosto 1930 (si tratta della relazione letta in tedesco dal Calogero al l° Congresso internazionale hegeliano, tenutosi all’Aja dal 21 al 24 aprile 1930): «Per il Croce ... il pregio della dottrina hegeliana è anzitutto quello della sua “logica della filosofia” e cioè della sua teoria della dialettica, come unica forma del pensiero mediante cui esso possa realmente superare, unificandoli, tutti quei dualismi che sul piano della classica logica intellettualistica esso non può che constatare, smarrendo con ciò il senso dell’unità del reale. La conquista immortale di Hegel è l’affermazione dell’unità degli opposti, concepita non nel senso di una statica e mistica coincidentia oppositorum ma in quello di una dinamica concordia discors: la quale è assolutamente necessaria alla realtà perché essa possa esser pensata come vita, svolgimento, valore, in cui ogni positività sia costretta a realizzarsi insieme affermando ed eternamente superando la sua negatività. Nello stesso tempo, la conciliazione dialettica dei dualismi essenziali del reale (bene e male, vero e falso, finito e infinito ecc.) porta all’esclusione categorica di tutte quelle altre forme di dualismo, che si basano sulla fondamentale antitesi di un mondo della realtà e di un mondo dell’apparenza, di una sfera della trascendenza o del noumeno e di una sfera dell’immanenza o del fenomeno: antitesi che tutte si eliminano per la rigorosa dissoluzione del loro elemento trascendente o noumenico, che rappresenta la mera esigenza, per tal via insoddisfabile e ora altrimenti soddisfatta, di salire dal mondo delle antinomie e delle contraddizioni a quello della immota e pacifica realtà. Hegel è così il vero instauratore dell’immanentismo: nella dottrina dell’identità del razionale e del reale è consacrato il concetto del valore unitario del mondo nel suo concreto sviluppo, come nella critica dell’astratto sollen si esprime tipicamente l’antitesi ad ogni negazione di quell’unità e ad ogni ipostatizzazione dell’ideale in una sfera trascendente a quella della sua realizzazione effettiva. E da questo punto di vista, per la prima volta, il valore della realtà s’identifica assolutamente con quello della sua storia: nell’immanenza hegeliana è insieme, così, la fondazione capitale di tutto lo storicismo moderno.
Dialettica, immanentismo, storicismo: questi, si potrebbe riassumere, i meriti essenziali del hegelismo dal punto di vista del pensiero crociano, che sotto questo rispetto può realmente sentirsene seguace e continuatore».
Q10 §5 Scienza della politica. Cosa significa l’accusa di «materialismo» che spesso il Croce fa a determinate tendenze politiche? Si tratta di un giudizio di ordine teorico, scientifico, o di una manifestazione di polemica politica in atto? Materialismo, in queste polemiche, pare significhi «forza materiale», «coercizione», «fatto economico» ecc. Ma forse che la «forza materiale», la «coercizione», il «fatto economico» sono «materialistici»? Cosa significherebbe «materialismo» in questo caso? Cfr Etica e Politica, p. 341: «Vi sono tempi nei quali ecc.».
Q10 §6 Introduzione allo studio della filosofia.
I. Il termine di «catarsi». Si può impiegare il termine di «catarsi» per indicare il passaggio dal momento meramente economico (o egoistico‑passionale) al momento etico-politico, cioè l’elaborazione superiore della struttura in superstruttura nella coscienza degli uomini. Ciò significa anche il passaggio dall’«oggettivo al soggettivo» e dalla «necessità alla libertà». La struttura da forza esteriore che schiaccia l’uomo, lo assimila a sé, lo rende passivo, si trasforma in mezzo di libertà, in strumento per creare una nuova forma etico‑politica, in origine di nuove iniziative. La fissazione del momento «catartico» diventa così, mi pare, il punto di partenza per tutta la filosofia della praxis; il processo catartico coincide con la catena di sintesi che sono risultato dello svolgimento dialettico. (Ricordare i due punti tra cui oscilla questo processo: – che nessuna società si pone compiti per la cui soluzione non esistano già o siano in via di apparizione le condizioni necessarie e sufficienti – e che nessuna società perisce prima di aver espresso tutto il suo contenuto potenziale).
II. Concezione soggettiva della realtà e filosofia della praxis. La filosofia della praxis «assorbe» la concezione soggettiva della realtà (l’idealismo) nella teoria delle superstrutture, l’assorbe e lo spiega storicamente, cioè lo «supera», lo riduce a un suo «momento». La teoria delle superstrutture è la traduzione in termini di storicismo realistico della concezione soggettiva della realtà.
III. Realtà del mondo esterno. Oltre all’esempio di Tolstoi ricordare la forma faceta in cui un giornalista rappresentava il filosofo «professionale o tradizionale» (rappresentato dal Croce nel cap. «Il “Filosofo”») che da anni e anni sta seduto al suo tavolino, rimirando il calamaio e domandandosi: – Questo calamaio è dentro di me o è fuori di me?
IV. Traducibilità dei linguaggi scientifici. Le scritte in questa rubrica devono essere raccolte appunto nella rubrica generale sui rapporti delle filosofie speculative e la filosofia della praxis e della loro riduzione a questa come momento politico che la filosofia della praxis spiega «politicamente». Riduzione a «politica» di tutte le filosofie speculative, a momento della vita storico‑politica; la filosofia della praxis concepisce la realtà dei rapporti umani di conoscenza come elemento di «egemonia» politica.
Q10 §7 Identificazione di individuo e Stato. Per mostrare il verbalismo delle nuove enunciazioni di «economia speculativa» del gruppo Spirito e C. basta ricordare che l’identificazione di individuo e Stato è anche l’identificazione di Stato e individuo; un’identità non muta se un termine è primo o secondo nell’ordine grafico e fonico, evidentemente. Perciò dire che occorre identificare individuo e Stato è meno che nulla, è puro vaniloquio, se le cose stessero in questi termini. Se individuo significa «egoismo» in senso gretto, «sordidamente ebraico», la identificazione non sarebbe che un modo metaforico di accentuare l’elemento «sociale» dell’individuo, ossia di affermare che «egoismo» in senso economico significa qualcosa di diverso da «grettamente egoista». Mi pare che anche in questo caso si tratta della assenza di una chiara enunciazione del concetto di Stato, e della distinzione in esso tra società civile e società politica, tra dittatura ed egemonia, ecc.
Q10 §8 Libertà e «automatismo» o razionalità. Sono in contrasto la libertà e il così detto automatismo? L’automatismo è in contrasto con l’arbitrio, non con la libertà. L’automatismo è una libertà di gruppo, in opposizione all’arbitrio individualistico. Quando Ricardo diceva «poste queste condizioni» si avranno queste conseguenze in economia, non rendeva «deterministica» l’economia stessa, né la sua concezione era «naturalistica». Osservava che posta l’attività solidale e coordinata di un gruppo sociale, che operi secondo certi principii accolti per convinzione (liberamente) in vista di certi fini, si ha uno sviluppo che si può chiamare automatico e si può assumere come sviluppo di certe leggi riconoscibili e isolabili col metodo delle scienze esatte. In ogni momento c’è una scelta libera, che avviene secondo certe linee direttrici identiche per una gran massa di individui o volontà singole, in quanto queste sono diventate omogenee in un determinato clima etico‑politico. Né è da dire che tutti operano in modo uguale: gli arbitrî individuali sono anzi molteplici, ma la parte omogenea predomina e «detta legge». Che se l’arbitrio si generalizza, non è più arbitrio ma spostamento della base dell’«automatismo», nuova razionalità. Automatismo è niente altro che razionalità, ma nella parola «automatismo» è il tentativo di dare un concetto spoglio di ogni alone speculativo: è possibile che la parola razionalità finisca coll’attribuirsi all’automatismo nelle operazioni umane, mentre quella «automatismo» tornerà a indicare il movimento delle macchine, che diventano «automatiche» dopo l’intervento dell’uomo e il cui automatismo è solo una metafora verbale, come lo è detto delle operazioni umane.
Q10 §9 Introduzione allo studio della filosofia. Immanenza speculativa e immanenza storicistica o realistica. Si afferma che la filosofia della praxis è nata sul terreno del massimo sviluppo della cultura della prima metà del secolo XIX, cultura rappresentata dalla filosofia classica tedesca, dall’economia classica inglese, e dalla letteratura e pratica politica francese. All’origine della filosofia della praxis sono questi tre momenti culturali. Ma in che senso occorre intendere questa affermazione? Che ognuno di questi movimenti ha contribuito a elaborare rispettivamente la filosofia, l’economia, la politica della filosofia della praxis? Oppure che la filosofia della praxis ha elaborato sinteticamente i tre movimenti, cioè l’intera cultura dell’epoca, e che nella sintesi nuova, in qualsiasi momento la si esamini, momento teorico, economico, politico, si ritrova come «momento» preparatorio ognuno dei tre movimenti? Così appunto a me pare. E il momento sintetico unitario mi pare da identificare nel nuovo concetto di immanenza, che dalla sua forma speculativa, offerta dalla filosofia classica tedesca, è stato tradotto in forma storicistica coll’aiuto della politica francese e dell’economia classica inglese. Per ciò che riguarda i rapporti di identità sostanziale tra il linguaggio filosofico tedesco e il linguaggio politico francese cfr le contenute sparsamente nei diversi quaderni. Ma una ricerca delle più interessanti e feconde mi pare debba essere fatta a proposito dei rapporti tra filosofia tedesca, politica francese e economia classica inglese.
In un certo senso mi pare si possa dire che la filosofia della praxis è uguale a Hegel + Davide Ricardo. Il problema è da presentare inizialmente così: i nuovi canoni metodologici introdotti dal Ricardo nella scienza economica sono da considerarsi come valori meramente strumentali (per intendersi, come un nuovo capitolo della logica formale) o hanno avuto un significato di innovazione filosofica? La scoperta del principio logico formale della «legge di tendenza», che porta a definire scientificamente i concetti fondamentali nell’economia di «homo oeconomicus» e di «mercato determinato» non è stata una scoperta di valore anche gnoseologico? Non implica appunto una nuova «immanenza», una nuova concezione della «necessità» e della libertà ecc.? Questa traduzione mi pare appunto abbia fatto la filosofia della praxis che ha universalizzato le scoperte di Ricardo estendendole adeguatamente a tutta la storia, quindi ricavandone originalmente una nuova concezione del mondo. Sarà da studiare tutta una serie di quistioni: 1) riassumere i principî scientifici‑formali del Ricardo nella loro forma di canoni empirici; 2) ricercare l’origine storica di questi principî ricardiani che sono connessi al sorgere della scienza economica stessa, cioè allo sviluppo della borghesia come classe «concretamente mondiale» e al formarsi quindi di un mercato mondiale già abbastanza «denso» di movimenti complessi perché se ne possano isolare e studiare delle leggi di regolarità necessarie, cioè delle leggi di tendenza, che sono leggi non in senso naturalistico o del determinismo speculativo, ma in senso «storicistico» in quanto cioè si verifica il «mercato determinato», ossia un ambiente organicamente vivo e connesso nei suoi movimenti di sviluppo. (L’economia studia queste leggi di tendenza in quanto espressioni quantitative dei fenomeni; nel passaggio dall’economia alla storia generale il concetto di quantità è integrato da quello di qualità e dalla dialettica quantità che diventa qualità quantità = necessità; qualità = libertà. La dialettica quantità‑qualità è identica a quella necessità‑libertà); 3) porre in connessione Ricardo con Hegel e con Robespierre; 4) come la filosofia della praxis è giunta dalla sintesi di queste tre correnti vive alla nuova concezione dell’immanenza, depurata da ogni traccia di trascendenza e di teologia.
Q10 §10 Introduzione allo studio della filosofia. 1) Una serie di concetti da approfondire è anche quella di: empirismo ‑ realismo storicistico ‑ speculazione filosofica.
2) Accanto alla ricerca accennata nel paragrafo precedente e riguardante la quistione dell’apporto ricardiano alla filosofia della praxis, è da porre quella accennata a p. 49 di questo stesso quaderno e riguardante l’atteggiamento della filosofia della praxis verso l’attuale continuazione della filosofia classica tedesca rappresentata dalla moderna filosofia idealistica italiana di Croce e Gentile. Come occorre intendere la proposizione di Engels sull’eredità della filosofia classica tedesca?. Occorre intenderla come un circolo storico ormai chiuso, in cui l’assorbimento della parte vitale dell’hegelismo è già definitivamente compiuto, una volta per tutte, o si può intendere come un processo storico ancora in movimento, per cui si riproduce una necessità nuova di sintesi culturale filosofica? A me pare giusta questa seconda risposta: in realtà si riproduce ancora la posizione reciprocamente unilaterale criticata nella prima tesi su Feuerbach tra materialismo e idealismo e come allora, sebbene in un momento superiore, è necessaria la sintesi in un momento di superiore sviluppo della filosofia della praxis.
Q10 §11 Punti di riferimento per un saggio su B. Croce. Per comprendere l’atteggiamento del Croce nel secondo dopoguerra è utile ricordare la risposta inviata da Mario Missiroli a una inchiesta promossa dalla rivista il «Saggiatore» e pubblicata nel 1932 (sarebbe interessante conoscere tutte le risposte all’inchiesta). Il Missiroli ha scritto (cfr «Critica Fascista» del 15 maggio 1932): «Non vedo ancora nulla di bene delineato, ma solo degli stati d’animo, delle tendenze soprattutto morali. Difficile prevedere quale potrà essere l’orientamento della coltura; ma non esito a formulare l’ipotesi che si vada verso un positivismo assoluto, che rimetta in onore la scienza e il razionalismo nel senso antico della parola. La ricerca sperimentale potrà essere il vanto di questa nuova generazione, che ignora e vuole ignorare i verbalismi delle recentissime filosofie. Non mi pare temerario prevedere una ripresa dell’anticlericalismo, che, personalmente, sono lungi dall’augurare».
Cosa potrà significare «positivismo assoluto»? La «previsione» del Missiroli coincide con l’affermazione fatta varie volte in queste che tutta l’attività teorica più recente del Croce si spiega con la previsione di una ripresa in grande stile e con caratteri tendenzialmente egemonici della filosofia della praxis, che può riconciliare la cultura popolare e la scienza sperimentale con una visione del mondo che non sia il grossolano positivismo né l’alambiccato attualismo né il libresco neotomismo.
Q10 §12 Introduzione allo studio della filosofia. La proposizione contenuta nell’introduzione alla Critica dell’economia politica che gli uomini prendono coscienza dei conflitti di struttura nel terreno delle ideologie deve essere considerata come un’affermazione di valore gnoseologico e non puramente psicologico e morale. Da ciò consegue che il principio teorico‑pratico dell’egemonia ha anche esso una portata gnoseologica e pertanto in questo campo è da ricercare l’apporto teorico massimo di Ilici [Lenin ndc] alla filosofia della praxis. Ilici avrebbe fatto progredire effettivamente la filosofia come filosofia in quanto fece progredire la dottrina e la pratica politica. La realizzazione di un apparato egemonico, in quanto crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza, è un fatto di conoscenza, un fatto filosofico. Con linguaggio crociano: quando si riesce a introdurre una nuova morale conforme a una nuova concezione del mondo, si finisce con l’introdurre anche tale concezione, cioè si determina una intera riforma filosofica.
Q10 §13 Introduzione allo studio della filosofia. Nel brano sul «materialismo francese nel secolo XVIII» (Sacra Famiglia) è abbastanza bene e chiaramente accennata la genesi della filosofia della praxis: essa è il «materialismo» perfezionato dal lavoro della stessa filosofia speculativa e fusosi con l’umanismo. È vero che con questi perfezionamenti del vecchio materialismo rimane solo il realismo filosofico.
Altro punto da meditare è questo: se la concezione di «spirito» della filosofia speculativa non sia una trasformazione aggiornata del vecchio concetto di «natura umana» proprio sia della trascendenza che del materialismo volgare, se cioè nella concezione dello «spirito» non ci sia altro che il vecchio «Spirito santo» speculativizzato. Si potrebbe allora dire che l’idealismo è intrinsecamente teologico.
Q10 §14 Punti di riferimento per un saggio su B. Croce. La posizione relativa del Croce nella gerarchia intellettuale della classe dominante è mutata dopo il Concordato e l’avvenuta fusione in una unità morale dei due tronconi di questa stessa classe. Occorre una doppia opera di educazione da parte dei responsabili: educazione del nuovo personale dirigente da «trasformare» e assimilare e educazione della parte cattolica, che per lo meno dovrà essere subordinata (anche subordinare è educare, in certe condizioni). L’entrata in massa dei cattolici nella vita statale dopo il Concordato (e sono entrati questa volta come e in quanto cattolici e anzi con privilegi culturali) ha reso molto più difficile l’opera di «trasformismo» delle forze nuove d’origine democratica. Che il Gentile non abbia capito il problema e l’abbia capito il Croce, mostra la diversa sensibilità nazionale tra i due filosofi: che il Gentile, per lo meno, se ha capito il problema, si sia messo nelle condizioni di non poter far nulla, all’infuori del lavoro da Università popolare degli Istituti di Cultura (i rabbiosi scritti dei suoi discepoli nei «Nuovi Studi» contro il cattolicismo, hanno ben poca eco) mostra la sua riduzione a una condizione ben misera di subalternità intellettuale. Non si tratta infatti di una educazione «analitica», cioè di una «istruzione», di un immagazzinamento di nozioni, ma di una educazione «sintetica», della diffusione di una concezione del mondo divenuta norma di vita, di una «religione» nel senso crociano. Che il Concordato avesse posto il problema, moltiplicandolo e complicandolo, era stato compreso dal Croce, come appare dal suo discorso al Senato. D’altronde è appunto il Concordato, con la sua introduzione nella vita statale di una grande massa di cattolici come tali, e come tali privilegiati, che ha posto il problema dell’educazione della classe dirigente non nei termini di «Stato etico», ma nei termini di «società civile» educatrice, cioè di una educazione per iniziativa «privata», che entra in concorrenza con quella cattolica, che nella società civile occupa ora tanta parte e in condizioni speciali.
Per comprendere quanto possa essere apprezzata l’attività del Croce in tutta la sua perseverante inflessibilità, dalla parte più responsabile, chiaroveggente (e conservatrice) della classe dominante, oltre alla citata «previsione» del Missiroli (e occorre capire cosa può significare di implicito senso critico il termine di «previsione» in questo caso), sarà utile ricordare una serie di articoli pubblicati da Camillo Pellizzi nel «Selvaggio» di Mino Maccari (che esce ora a Roma in forma di rivista mensile e che sarebbe interessante analizzare in tutta la collezione e nelle varie fasi). Dall’«Italia Letteraria» del 29 maggio 1932 ricopio testualmente un pezzo della Rassegna della Stampa compilata da Corrado Pavolini che commenta un brano di uno di questi articoli del Pellizzi: «Credere in poche cose, ma crederci! Ed è massima bellissima, leggibile nell’ultimo numero del “Selvaggio” (1° maggio). Mi dispiace per Camillo Pellizzi, fascista dei primi, galantuomo di tre cotte e acutissimo ingegno: ma lo stile ingarbugliato della sua ultima lettera aperta a Maccari: Il Fascismo come libertà mi fa venire il dubbio che i concetti dei quali parla non siano ben chiari nella sua mente; o, se chiari, pensati troppo in astratto per poter ricevere pratica applicazione: “Il fascismo è nato come il supremo sforzo di un popolo civile (anzi, del popolo più intimamente civile fra tutti) per attuare una forma di comunismo civile. Ossia risolvere il problema del comunismo dentro il maggior problema della civiltà; ma poiché non è civiltà senza la spontanea manifestazione di quei valori individuali antichi sempre rinnovantisi, di cui si è detto, noi concludiamo che il fascismo è, nella sua intima ed universale significazione, un comunismo libero; nel quale, per intendersi, comunistico o collettivistico è il mezzo, l’organismo empirico, lo strumento d’azione rispondente al problema di un determinato momento della storia, mentre il fine reale, la destinazione ultima, è la civiltà, ossia, nel senso ormai detto e ripetuto, la libertà”. È linguaggio indigesto di filosofo. “Credere a poche cose...” Per esempio, semplicisticamente credere che il fascismo non è comunismo, mai, in nessun senso, né concreto né traslato, può riuscir più “utile” che non affaticarsi alla ricerca di definizioni troppo ingegnose per non essere, in ultima analisi, equivoche e nocive. (C’è poi la relazione Spirito al Convegno corporativo di Ferrara...)».
Appare abbastanza chiaramente che la serie di scritti del Pellizzi pubblicati dal «Selvaggio» è stata suggerita dal libro ultimo del Croce ed è un tentativo di assorbire la posizione del Croce in una nuova posizione che il Pellizzi ritiene superiore e tale da risolvere tutte le antinomie. In realtà il Pellizzi si muove tra concetti da Controriforma e le sue elucubrazioni intellettualmente possono dar luogo a una nuova «Città del Sole», praticamente a una costruzione come quella dei gesuiti nel Paraguay. Ma questo importa poco, perché non si tratta di possibilità pratiche vicine o remote, né per il Pellizzi, né per lo Spirito; si tratta del fatto che tali svolgimenti astratti di pensiero mantengono fermenti ideologici pericolosi, impediscono che si formi una unità etico-politica nella classe dirigente, minacciano di rimandare all’infinito la soluzione del problema di «autorità», cioè del ristabilimento per consenso della direzione politica da parte dei gruppi conservatori. L’atteggiamento del Pellizzi mostra che la posizione dello Spirito a Ferrara non era un «monstrum» culturale; ciò è dimostrato anche da alcune pubblicazioni in «Critica Fascista» più o meno impacciate ed equivoche.
Q10 §15 relle di economia. La discussione intorno al concetto di «homo oeconomicus» è diventata una delle tante discussioni sulla così detta «natura umana». Ognuno dei disputanti ha una sua «fede», e la sostiene con argomenti di carattere prevalentemente moralistico. L’«homo oeconomicus» è l’astrazione dell’attività economica di una determinata forma di società, cioè di una determinata struttura economica. Ogni forma sociale ha il suo «homo oeconomicus», cioè una sua attività economica. Sostenere che il concetto di homo oeconomicus scientificamente non ha valore non è che un modo di sostenere che la struttura economica e la sua attività conforme è radicalmente mutata, oppure che la struttura economica è talmente mutata che necessariamente deve mutare il modo di operare economico, perché diventi conforme alla nuova struttura. Ma appunto in ciò è dissenso, e non tanto dissenso scientifico obbiettivo, ma politico. Cosa significherebbe del resto un riconoscimento scientifico che la struttura economica è mutata radicalmente e che deve mutare l’operare economico per conformarsi alla nuova struttura? Avrebbe un significato di stimolo politico, nulla più. Tra la struttura economica e lo Stato con la sua legislazione e la sua coercizione sta la società civile, e questa deve essere radicalmente trasformata in concreto e non solo sulla carta della legge e dei libri degli scienziati; lo Stato è lo strumento per adeguare la società civile alla struttura economica, ma occorre che lo Stato «voglia» far ciò, che cioè a guidare lo Stato siano i rappresentanti del mutamento avvenuto nella struttura economica. Aspettare che, per via di propaganda e di persuasione, la società civile si adegui alla nuova struttura, che il vecchio «homo oeconomicus» sparisca senza essere seppellito con tutti gli onori che merita, è una nuova forma di retorica economica una nuova forma di moralismo economico vacuo e inconcludente.
Q10 §16 Punti di riferimento per un saggio su B. Croce. Possono avere avuto importanza per il Croce gli amichevoli avvertimenti di L. Einaudi a proposito del suo atteggiamento di critico «disinteressato» della filosofia della praxis? È la stessa quistione presentata in altra forma: quanto sia l’elemento pratico immediato che spinge il Croce alla sua posizione attuale «liquidazionista». Si può osservare infatti come il Croce non intenda per nulla entrare in polemica coi filosofi della praxis, e come questa polemica lo interessi così poco da non spingerlo neppure a ricercare informazioni un po’ più abbondanti ed esatte di quelle di cui evidentemente dispone. Si può dire che il Croce non tanto si interessi di combattere la filosofia della praxis quanto l’economismo storico, cioè l’elemento di filosofia della praxis che è penetrato nella concezione del mondo tradizionale, disgregandola e perciò rendendola meno resistente «politicamente»; non tanto si interessi di «convertire» gli avversari, quanto di rafforzare il suo campo; cioè il Croce presenta come «offensiva» una attività che è meramente «difensiva». Se così non fosse il Croce dovrebbe (avrebbe dovuto) rivedere «sistematicamente» la sua opera specializzata sulla filosofia della praxis, confessare di essersi sbagliato completamente allora, dimostrare questi errori passati in contrasto con le convinzioni attuali ecc. In un uomo così accurato e scrupoloso come il Croce, il nessun interesse verso l’obbiettiva esigenza di giustificare logicamente quest’ultimo passaggio dei suoi modi di pensare, è per lo meno strano e non può essere spiegato altrimenti che con interessi pratici immediati.
Q10 §17 Introduzione allo studio della filosofia. Principi e preliminari. (Cfr quad. I, p. 63 bis). Cosa occorra intendere per filosofia, per filosofia di un’epoca storica, e quale sia l’importanza e il significato delle filosofie dei filosofi in ognuna di tali epoche storiche. Assunta la definizione che B. Croce dà della religione, cioè di una concezione del mondo che sia diventata norma di vita, poiché norma di vita non si intende in senso libresco ma attuata nella vita pratica, la maggior parte degli uomini sono filosofi in quanto operano praticamente e nel loro pratico operare (nelle linee direttive della loro condotta) è contenuta implicitamente una concezione del mondo, una filosofia. La storia della filosofia come si intende comunemente, cioè la storia delle filosofie dei filosofi, è la storia dei tentativi e delle iniziative ideologiche di una determinata classe di persone per mutare, correggere, perfezionare le concezioni del mondo esistenti in ogni determinata epoca e per mutare quindi le conformi e relative norme di condotta, ossia per mutare la attività pratica nel suo complesso. Dal punto di vista che a noi interessa, lo studio della storia e della logica delle diverse filosofie dei filosofi non è sufficiente. Almeno come indirizzo metodico, occorre attirare l’attenzione sulle altre parti della storia della filosofia: cioè sulle concezioni del mondo delle grandi masse, su quelle dei più ristretti gruppi dirigenti (o intellettuali) e infine sui legami tra questi vari complessi culturali e la filosofia dei filosofi.
La filosofia di un’epoca non è la filosofia di uno o altro filosofo, di uno o altro gruppo di intellettuali, di una o altra grande partizione delle masse popolari: è una combinazione di tutti questi elementi che culmina in una determinata direzione, in cui il suo culminare diventa norma d’azione collettiva, cioè diventa «storia» concreta e completa (integrale). La filosofia di un’epoca storica non è dunque altro che la «storia» di quella stessa epoca, non è altro che la massa di variazioni che il gruppo dirigente è riuscito a determinare nella realtà precedente: storia e filosofia sono inscindibili in questo senso, formano «blocco». Possono però essere «distinti» gli elementi filosofici propriamente detti, e in tutti i loro diversi gradi: come filosofia dei filosofi, come concezione dei gruppi dirigenti (cultura filosofica) e come religioni delle grandi masse, e vedere come in ognuno di questi gradi si abbia a che fare con forme diverse di «combinazione» ideologica.
Q10 §18 Punti di riferimento per un saggio su B. Croce. A proposito della nota precedente di questa rubrica sui rapporti tra il Croce e l’Einaudi, in una nota si potrebbe osservare come l’Einaudi non sia sempre un lettore molto attento e accurato del Croce. A p. 277 dell’annata 1929 della «Riforma Sociale» l’Einaudi scrive: «Una teoria non va attribuita a chi la intuì, o per incidente la enunciò o espose un principio da cui poteva essere dedotta o raccontò slegatamente le diverse nozioni, le quali aspiravano ad essere ricomposte in unità». La parte positiva della proposizione è accennata in seguito così: «in quale altro libro fu assunta come oggetto “voluto” di “particolare” trattato la seguente proposizione, ecc.»?
Il Croce, nel Materialismo storico, IV, p. 26, aveva scritto: «Altro è metter fuori un’osservazione incidentale, che si lascia poi cadere senza svolgerla, ed altro stabilire un principio di cui si sono scorte le feconde conseguenze; altro enunciare un pensiero generico ed astratto ed altro pensarlo realmente e in concreto; altro finalmente, inventare, ed altro ripetere di seconda o di terza mano». L’enunciazione dell’Einaudi è derivata dal Croce con in più le curiose improprietà linguistiche e l’impaccio teoretico. Perché l’Einaudi non ha citato addirittura il Croce? Forse perché il brano del Croce è contenuto in uno scritto contro il prof. Loria. Un altro esempio di superficialità dell’Einaudi si può trovare in un numero successivo della «Riforma Sociale», nella lunga recensione dell’Autobiografia di R. Rigola.
Q10 §19 Bizantinismo francese. La tradizione culturale francese, che presenta i concetti sotto forma di azione politica, in cui speculazione e pratica si sviluppano in un solo nodo storico comprensivo, parrebbe esemplare. Ma questa cultura è rapidamente degenerata dopo gli avvenimenti della grande rivoluzione, è diventata una nuova Bisanzio culturale. Gli elementi di tale degenerazione, d’altronde, erano già presenti e attivi anche durante lo svolgersi del grande dramma rivoluzionario, negli stessi giacobini che lo impersonarono con maggiore energia e compiutezza. La cultura francese non è «panpolitica» come noi oggi intendiamo, ma giuridica. La forma francese non è quella attiva e sintetica dell’uomo o lottatore politico, ma quella del giurista sistematico di astrazioni formali; la politica francese è specialmente elaborazione di forme giuridiche. Il francese non ha una mentalità dialettica e concretamente rivoluzionaria neanche quando opera come rivoluzionario: la sua intenzione è «conservatrice» sempre, perché la sua intenzione è di dare una forma perfetta e stabile alle innovazioni che attua. Nell’innovare pensa già a conservare, a imbalsamare l’innovazione in un codice.
Q10 §20 Punti per lo studio dell’economia. Polemica Einaudi ‑ Spirito sullo Stato. È da connettere con la polemica Einaudi‑Benini (Cfr Riforma Sociale di settembre-ottobre 1931). Ma nella polemica Einaudi‑Spirito hanno torto ambedue i litiganti: essi si riferiscono a cose diverse e usano linguaggi diversi. La polemica Benini‑Einaudi illumina la precedente polemica. In ambedue queste polemiche l’Einaudi assume la stessa posizione di quando cerca di limitare, in polemica col Croce, ogni funzione scientifica della filosofia della praxis. La coerenza della posizione dell’Einaudi è mirabile «intellettualmente»: egli comprende che ogni concessione teorica all’avversario, sia pure solo intellettuale, può far franare tutto il proprio edificio.
Nella concezione dello Stato: Einaudi pensa all’intervento governativo nei fatti economici, sia come regolatore «giuridico» del mercato, cioè come la forza che dà al mercato determinato la forma legale, in cui tutti gli agenti economici si muovano a «parità di condizioni giuridiche», sia all’intervento governativo come creatore di privilegi economici, come perturbatore della concorrenza a favore di determinati gruppi. Lo Spirito invece si riferisce alla sua concezione speculativa dello Stato, per cui l’individuo si identifica con lo Stato. Ma c’è un terzo aspetto della quistione che è sottintesa nell’uno e nell’altro scrittore, ed è quello per cui, identificandosi lo Stato con un gruppo sociale, l’intervento statale non solo avviene nel modo accennato dall’Einaudi, o nel modo voluto dallo Spirito, ma è una condizione preliminare di ogni attività economica collettiva, è un elemento del mercato determinato, se non è addirittura lo stesso mercato determinato, poiché è la stessa espressione politico‑giuridica del fatto per cui una determinata merce (il lavoro) è preliminarmente deprezzata, è messa in condizioni di inferiorità competitiva, paga per tutto il sistema determinato. Questo punto è messo in luce dal Benini, e non si tratta certo di una scoperta; ma è interessante che il Benini vi sia giunto e in che modo vi è giunto. Poiché il Benini vi è giunto partendo da principi dell’economia classica, ciò che appunto irrita l’Einaudi.
Tuttavia l’Einaudi aveva, nella lettera pubblicata dai «Nuovi Studi», accennato alla «meravigliosa capacità» di Giovanni Vailati, di presentare un teorema economico (o anche filosofico) e la sua soluzione, nei diversi linguaggi scientifici sorti dal processo storico di sviluppo delle scienze, cioè aveva implicitamente ammesso la traducibilità reciproca di questi linguaggi: il Benini ha proprio fatto questo, ha presentato in linguaggio dell’economia liberale un fatto economico già presentato nel linguaggio della filosofia della praxis, pur con tutte le limitazioni e cautele del caso (l’episodio Benini è da avvicinare all’episodio Spirito al Convegno di Ferrara). Ricordare a questo proposito l’affermazione di Engels a proposito della possibilità di giungere, anche partendo dalla concezione marginalista del valore, alle stesse conseguenze (se pure in forma volgare) di quelle a cui giunse l’economia critica. L’affermazione di Engels va analizzata in tutte le sue conseguenze: una di esse mi pare questa, che se si vuole difendere la concezione critica dell’economia, bisogna sistematicamente insistere sul fatto che l’economia ortodossa tratta gli stessi problemi, in altro linguaggio, dimostrando tale identità di problemi trattati e dimostrando che la soluzione critica è superiore: insomma occorre che i testi siano sempre «bilingui», il testo autentico, e la traduzione «volgare» o dell’economia liberale, a lato, o interlineata.
Q10 §21 Introduzione allo studio della filosofia. Filosofia «scientifica» e filosofia intesa nel senso volgare di insieme di idee e opinioni. Ma possono essere disgiunte? – Si dice «prender le cose con filosofia», «avere della filosofia», «prenderla filosoficamente», ecc. (Si potrebbero raggruppare i modi di dire popolari e le espressioni degli scrittori di carattere popolare – prendendole dai grandi vocabolari – in cui entrano le espressioni filosofia e filosoficamente, che hanno un significato molto preciso, di un superamento delle passioni elementari e bestiali in una concezione delle cose «ragionata», per cui, rendendosi conto della loro razionalità e necessità, non ci si abbandona ad escandescenze e ad atti impulsivi e irrazionali, ma si dà al proprio operare una direzione consapevole).
Q10 §22 Punti di riferimento per un saggio su Croce. Perché occorre scrivere nel senso in cui è stato redatto il primo paragrafo a p. 42. Occorre dare il senso dell’importanza culturale che ha il Croce non solo in Italia, ma in Europa, e quindi del significato che ha la rapida e grande diffusione dei suoi più recenti libri quali sono le Storie d’Italia e d’Europa. Che il Croce si proponga l’educazione delle classi dirigenti non mi par dubbio. Ma come effettivamente viene accolta la sua opera educativa, a quali «leghe» ideologiche dà luogo? Quali sentimenti positivi fa nascere? È un luogo comune pensare che l’Italia ha attraversato tutte le esperienze politiche dello sviluppo storico moderno e che pertanto ideologie e istituzioni conformi a queste ideologie sarebbero per il popolo italiano cavoli rifatti, repugnanti al palato. Intanto non è vero che si tratti di cavoli riscaldati: il «cavolo» è stato mangiato solo «metaforicamente» dagli intellettuali, e sarebbe riscaldato solo per questi. Non è «riscaldato» e quindi disgustoso per il popolo (a parte il fatto che il popolo, quando ha fame, mangia cavoli riscaldati anche due o tre volte). Il Croce ha un bel corazzarsi di sarcasmo per l’eguaglianza, la fratellanza, ed esaltare la libertà – sia pure speculativa –. Essa sarà compresa come eguaglianza e fratellanza e i suoi libri appariranno come l’espressione e la giustificazione implicita di un costituentismo che trapela da tutti i pori di quell’Italia «qu’on ne voit pas» e che solo da dieci anni sta facendo il suo apprendissaggio politico.
Cercare nei libri del Croce i suoi accenni alla funzione del capo dello Stato. (Un cenno può trovarsi nella Seconda Serie delle Conversazioni critiche a p. 176, nella recensione del libro di Ernesto Masi: Asti e gli Alfieri nei ricordi della villa di S. Martino: «Anche la vita moderna può avere la sua alta moralità e il suo semplice eroismo, quantunque sopra diverse fondamenta. E queste diverse fondamenta le ha poste la storia, che non consente l’antica semplicistica fede nel re, nel dio dei padri, nelle idee tradizionali, ed impedisce il rinserrarsi durevole, come una volta accadeva, nella breve cerchia della vita familiare e di classe», Mi pare di ricordare che il D’Andrea, nella recensione della Storia d’Europa pubblicata in «Critica Fascista», rimproveri al Croce un’altra di queste espressioni che il D’Andrea ritiene deleteria). (Il libro del Masi è del 1903 e quindi è probabile che la recensione del Croce sia stata pubblicata nella «Critica» poco dopo, nello stesso 1903 o nel 1904). Si può supporre che il Croce, accanto alla parte polemica, abbia una parte ricostruttiva nel suo pensiero? E che tra l’una e l’altra possa esserci un «salto»? Dagli scritti non mi pare che appaia. Ma appunto questa incertezza, penso sia uno dei motivi per cui anche molti che pensano come il Croce, si mostrino freddi o almeno preoccupati. Il Croce dirà: alla parte ricostruttiva pensino i pratici, i politici e nel suo sistema di distinzioni teoriche, la risposta è formalmente congruente. Ma solo «formalmente» e in ciò ha buon gioco il Gentile nelle sue aggressioni più o meno filosofiche, che mi paiono tanto più esasperate, in quanto non può e non vuole porre tutto il problema (posizione del Vaticano verso il libro Una storia e un’idea), non può e non vuole parlare chiaramente al Croce, fargli vedere dove può condurre la sua posizione polemica ideologica e di principio. Ma bisognerebbe vedere se proprio questo il Croce non si proponga, per ottenere un’attività riformistica dall’alto, che attenui le antitesi e le concilii in una nuova legalità ottenuta «trasformisticamente». Ma non ci può essere un neomalthusianismo voluto nel Croce, la volontà di non «impegnarsi» a fondo, che è il modo di badare solo al proprio «particulare» del moderno guicciardinismo proprio di molti intellettuali per i quali pare che basti il «dire»: «Dixi, et salvavi animam meam», ma l’anima non si salva per solo dire. Ci vogliono le opere, e come!
Q10 §23 Punti di meditazione per lo studio dell’economia. Dove batte specialmente l’accento nelle ricerche scientifiche dell’economia classica e dove invece in quelle dell’economia critica, e per quali ragioni, cioè in vista di quali fini pratici da raggiungere, o in vista di quali determinati problemi teorici e pratici da risolvere? Per l’economia critica, pare basti fissare il concetto di «lavoro socialmente necessario» per giungere al concetto di valore, perché si vuol partire dal lavoro di tutti i lavoratori per giungere a fissare la loro funzione nella produzione economica e giungere a fissare il concetto astratto e scientifico di valore e plusvalore e la funzione di tutti i capitalisti come insieme. Per l’economia classica invece ha importanza non il concetto astratto e scientifico di valore (al quale cerca di giungere per altra via, ma solo per fini formali, di sistema armonico logicamente‑verbalmente, e vi giunge, o crede di giungervi, attraverso ricerche psicologiche, con l’utilità marginale), ma quello concreto e più immediato di profitto individuale o d’azienda; ha perciò importanza lo studio della dinamica del «lavoro socialmente necessario», che assume varie impostazioni teoriche, – di teoria dei costi comparati, di equilibrio economico statico e dinamico. Per l’economia critica il problema interessante comincia dopo che il «lavoro socialmente necessario» è stato già stabilito in una formula matematica; per l’economia classica invece tutto l’interesse è nella fase dinamica della formazione del «lavoro socialmente necessario» locale, nazionale, internazionale, e nei problemi che le differenze dei «lavori analitici» pongono nelle varie fasi di tali lavori. È il costo comparato, cioè la comparazione del lavoro «particolare» cristallizzato nelle varie merci, che interessa l’economia classica.
Ma non interessa questa ricerca anche l’economia critica? Ed è «scientifico» che in un lavoro come il Précis non siano trattati anche questi nessi di problemi? L’economia critica ha diverse fasi storiche e in ognuna di esse è naturale che l’accento cada sul nesso teorico e pratico storicamente prevalente. Quando gestore dell’economia è la proprietà, l’accento cade sull’«insieme» del lavoro socialmente necessario, come sintesi scientifica e matematica, perché praticamente si vuole che il lavoro diventi consapevole del suo insieme, del fatto che è specialmente un «insieme» e che come «insieme» determina il processo fondamentale del movimento economico (invece alla proprietà interessa ben poco il lavoro socialmente necessario, anche ai fini della propria costruzione scientifica; importa il lavoro particolare, nelle condizioni determinate da un dato apparato tecnico e da un dato mercato di viveri immediato, e da un dato ambiente immediato ideologico e politico, per cui, dovendosi fondare un’azienda si ricercherà di identificare queste condizioni più conformi al fine del massimo profitto «particolare» e non si ragionerà per «medie» socialmente necessarie). Ma quando il lavoro è diventato esso stesso gestore dell’economia, anch’esso dovrà, per il suo essere cambiato fondamentalmente di posizione, preoccuparsi delle utilità particolari e delle comparazioni fra queste utilità per trarne iniziative di movimento progressivo. Cosa sono poi le «gare», se non un modo di preoccuparsi di questo nesso di problemi e di comprendere che il movimento progressivo avviene per «spinte» particolari, cioè un modo di «comparare» i costi e di insistere per ridurli continuamente, identificando e anche suscitando le condizioni oggettive e soggettive in cui ciò è possibile?
Q10 §24 Introduzione allo studio della filosofia. Nell’impostazione dei problemi storico‑critici, non bisogna concepire la discussione scientifica come un processo giudiziario, in cui c’è un imputato e c’è un procuratore che, per obbligo d’ufficio, deve dimostrare che l’imputato è colpevole e degno di essere tolto dalla circolazione. Nella discussione scientifica, poiché si suppone che l’interesse sia la ricerca della verità e il progresso della scienza, si dimostra più «avanzato» chi si pone dal punto di vista che l’avversario può esprimere un’esigenza che deve essere incorporata, sia pure come momento subordinato, nella propria costruzione. Comprendere e valutare realisticamente la posizione e le ragioni dell’avversario (e talvolta è avversario tutto il pensiero passato) significa appunto essersi liberato dalla prigione delle ideologie (nel senso deteriore, di cieco fanatismo ideologico), cioè porsi da un punto di vista «critico», l’unico fecondo nella ricerca scientifica.
Q10 §25 Punti di meditazione per lo studio dell’economia. Quando si può parlare di un inizio della scienza economica? (cfr Luigi Einaudi, Di un quesito intorno alla nascita della scienza economica, nella Riforma Sociale, marzo‑aprile 1932, a proposito di alcune pubblicazioni di Mario De Bernardi su Giovanni Botero). Se ne può parlare da quando si fece la scoperta che la ricchezza non consiste nell’oro (e quindi tanto meno nel possesso dell’oro) ma consiste nel lavoro. William Petty (A treatise of taxes and contributions, 1662, e Verbum Sapientis, 1666) intravvide e Cantillon (1730) esplicitamente affermò che la ricchezza non consiste nell’oro: «... la Richesse en elle‑même n’est autre chose que la nourriture, les commodités et les agréments de la vie... le travail de l’homme donne la forme de richesse à tout cela». Il Botero si era avvicinato a una affermazione molto somigliante, in un brano del suo lavoro Delle cause della grandezza della città stampato nel 1588 (ristampato ora dal De Bernardi di su questa edizione‑principe, nei Testi inediti e rari pubblicati sotto la direzione dell’Istituto giuridico della R. Università di Torino, Torino, 1930, in 8°, pp. XII‑84, L. 10): «E perché l’arte gareggia con la natura, m’adimanderà alcuno quale delle due cose importi più per ringrandire e per rendere popoloso un luogo, la fecondità del terreno o l’industria dell’huomo? L’industria senza dubbio.
Prima perché le cose prodotte dall’artificiosa mano dell’huomo sono molto più e di molto maggior prezzo che le cose generate dalla natura, conciosia che la natura dà la materia e ’l soggetto, ma la sottigliezza e l’arte dell’huomo dà l’inennarrabile varietà delle forme, ecc.». Secondo l’Einaudi però non si può rivendicare al Botero né la teoria della ricchezza‑lavoro né la paternità della scienza economica, di contro al Cantillon, per il quale «non si tratta più solo di un paragone atto a farci sapere quale di due fattori: la natura o il lavoro, dia il maggior prezzo alle cose, come ricerca il Botero; ma della ricerca teorica intorno a che cosa sia la ricchezza».
Se questo è il punto di partenza della scienza economica e se in tal modo è stato fissato il concetto fondamentale dell’economia, ogni ulteriore ricerca non potrà che approfondire teoricamente il concetto di «lavoro», che intanto non potrà essere annegato nel concetto più generico di industria e di attività, ma dovrà invece essere fissato in quella attività umana che in ogni forma sociale è ugualmente necessaria. Questo approfondimento è stato compiuto dall’economia critica.
Sarà da vedere La Storia delle dottrine economiche (Das Mehrwert); del Cannan, A Review of economic Theory.
Q10 §26 Punti di riferimento per un saggio sul Croce. Giudizi del Croce sul libro del De Man Il superamento mostrano che nell’atteggiamento del Croce, nel periodo attuale, l’elemento «pratico» immediato soverchia la preoccupazione e gli interessi teorici e scientifici. Il De Man è infatti una derivazione della corrente psicanalitica e tutta la presunta originalità delle sue ricerche è data dall’impiego di una terminologia psicanalitica esteriore e appiccicata. La stessa osservazione si può fare per il De Ruggiero che ha recensito non solo il Superamento ma anche La gioia del lavoro e ha poi scritto una stroncatura un po’ affrettata e superficiale di Freud e della psicanalisi, senza però aver rilevato che il De Man ne dipende strettamente.
Q10 §27 Punti di meditazione per lo studio dell’economia. A proposito del così detto homo oeconomicus, cioè dell’astrazione dei bisogni dell’uomo, si può dire che una tale astrazione non è per nulla fuori della storia, e quantunque si presenti sotto l’aspetto delle formulazioni matematiche, non è per nulla della stessa natura delle astrazioni matematiche. L’homo oeconomicus è l’astrazione dei bisogni e delle operazioni economiche di una determinata forma di società, così come l’insieme delle ipotesi poste dagli economisti nelle loro elaborazioni scientifiche non è altro che l’insieme delle premesse che sono alla base di una determinata forma di società. Si potrebbe fare un lavoro utile raccogliendo sistematicamente le «ipotesi» di qualche grande economista «puro», per esempio di M. Pantaleoni, e coordinandole in modo da mostrare che esse appunto sono la «descrizione» di una determinata forma di società.
Q10 §28 Introduzione allo studio della filosofia. 1) Cfr Pietro Lippert, S. J., Visione Cattolica del Mondo (Die Weltanschauung des Katholizismus), traduzione di Ernesto Peternolli. Prefazione di M. Bendiscioli («Il pensiero cattolico moderno», n° 4), Brescia, «Morcelliana», 1931, pp. 190, L. 10. È da leggere, sia per il testo del padre Lippert, che è uno dei più noti scrittori gesuiti tedeschi, sia per la prefazione del Bendiscioli. Il libro è apparso nella collezione «Metaphysik und Weltanschauung» diretta dal Driesch e dallo Schingnitz. Il Lippert, come i gesuiti tedeschi, si preoccupa di dare una soddisfazione alle esigenze che erano alla base del modernismo, ma senza cadere nelle deviazioni dall’ortodossia che furono caratteristiche del modernismo perché in questa impostazione del problema cattolico non vi è traccia di immanentismo; il Lippert e i gesuiti tedeschi non si allontanano dai dogmi sistemati dalla Chiesa coi sussidi logici e metafisici della filosofia aristotelico‑tomistica e neppure li interpretano in modo nuovo, ma intendono tradurli per l’uomo moderno nella terminologia della filosofia moderna, «rivestire realtà eterne di forme mutevoli» dice letteralmente il Lippert.
2) È da osservare che l’attuale discussione tra «storia e antistoria» non è altro che la ripetizione nei termini della cultura filosofica moderna della discussione, avvenuta alla fine del secolo scorso, nei termini del naturalismo e positivismo, se la natura e la storia procedano per «salti» o solo per evoluzione graduale e progressiva. La stessa discussione si ritrova svolta anche dalle generazioni precedenti, sia nel campo delle scienze naturali (dottrine del Cuvier) sia nel campo filosofico (e si trova la discussione nello Hegel) Si dovrebbe fare la storia di questo problema in tutte le sue manifestazioni concrete e significative e si troverebbe che esso è sempre stato attuale, perché in ogni tempo ci sono stati conservatori e giacobini, progressisti e retrivi. Ma il significato «teorico» di questa discussione mi pare consistere in ciò: essa indica il punto di passaggio «logico» di ogni concezione del mondo alla morale che le è conforme, di ogni «contemplazione» all’«azione», di ogni filosofia all’azione politica che ne dipende. È il punto cioè in cui la concezione del mondo, la contemplazione, la filosofia diventano «reali» perché tendono a modificare il mondo, a rovesciare la prassi. Si può dire perciò che questo è il nesso centrale della filosofia della prassi, il punto in cui essa si attualizza, vive storicamente, cioè socialmente e non più solo nei cervelli individuali, cessa dall’essere «arbitraria» e diventa necessaria‑razionale‑reale. Il problema è da vedere storicamente, appunto. Che i tanti mascherotti nietzschiani rivoltati verbalmente contro tutto l’esistente, contro i convenzionalismi ecc. abbiano finito con lo stomacare e col togliere serietà a certi atteggiamenti, può essere ammesso, ma non bisogna, nei propri giudizi, lasciarsi guidare dai mascherotti. Contro il titanismo di maniera, il velleitarismo, l’astrattismo occorre avvertire la necessità di essere «sobri» nelle parole e negli atteggiamenti esteriori, appunto perché ci sia più forza nel carattere e nella volontà concreta. Ma questa è quistione di stile, non «teoretica».
La forma classica di questi passaggi dalla concezione del mondo alla norma pratica di condotta, mi pare quella per cui dalla predestinazione calvinistica sorge uno dei maggiori impulsi all’iniziativa pratica che si sia avuto nella storia mondiale. Così ogni altra forma di determinismo a un certo punto si è sviluppata in spirito di iniziativa e in tensione estrema di volontà collettiva.
Q10 §29 Punti di riferimento per un saggio sul Croce.
I. Premesso che le due ultime storie, quella d’Italia e quella d’Europa, sono state pensate all’inizio della guerra mondiale, per concludere un processo di meditazioni e di riflessioni sulle cause di quegli avvenimenti del 1914 e 1915, si può domandare quale preciso scopo «educativo» esse abbiano. Preciso, specialmente preciso. E si conclude che non l’hanno, che anche esse rientrano in quella letteratura sul «Risorgimento» di carattere spiccatamente letterario e ideologico, che nella realtà non riuscì a interessare che ristretti gruppi intellettuali: tipico esempio il libro di Oriani sulla Lotta politica. Sono stati notati gli interessi attuali del Croce e quindi gli scopi pratici che ne scaturiscono: si nota appunto che essi sono «generici», di educazione astratta e «metodologica», per così dire, «predicatorii» in una parola. L’unico punto preciso la quistione «religiosa», ma anche esso si può dire «preciso»? La posizione anche nel problema della religione rimane da intellettuale e sebbene non si possa negare che anche tale posizione sia importante, occorre dire che essa è insufficiente.
II. Il saggio potrebbe avere come nucleo centrale l’esame del concetto di storiografia etico‑politica, che realmente corona tutto il lavoro filosofico del Croce. Si potrebbe quindi esaminare l’operosità del Croce come tutta conducente a questo sbocco, nei suoi vari atteggiamenti verso la filosofia della prassi, e giungere alla conclusione appunto che lo stesso lavorio del Croce era stato compiuto parallelamente dai migliori teorici della filosofia della prassi, sicché l’affermazione di «definitivo superamento» è semplicemente una millanteria critica, ciò insieme alla dimostrazione analitica che ciò che vi è di «sano» e di progressivo nel pensiero del Croce non è altro che filosofia della praxis presentata in linguaggio speculativo.
Q10 §30 Punti di meditazione per lo studio dell’economia. Osservazioni sui Principî di economia pura di M. Pantaleoni (nuova edizione 1931, Treves‑Treccani-Tumminelli).
1) A rileggere il libro del Pantaleoni si comprendono meglio i motivi delle abbondanti scritture di Ugo Spirito.
2) La parte prima del libro, dove si tratta del postulato edonistico, potrebbe più acconciamente servire come introduzione a un raffinato manuale di arte culinaria o ad un ancor più raffinato manuale sulle posizioni degli amanti. È un peccato che gli scrittori di arte culinaria non studino l’economia pura, perché coi sussidi di gabinetti di psicologia sperimentale e del metodo statistico potrebbero giungere a trattazioni ben più complete e sistematiche di quelle volgarmente diffuse: lo stesso si dica della più clandestina ed esoterica attività scientifica che si affatica ad elaborare l’arte dei godimenti sessuali.
3) La filosofia del Pantaleoni è il sensismo del secolo XVIII, sviluppato nel positivismo del secolo XIX: il suo «uomo» è l’uomo in generale, nelle premesse astratte, cioè l’uomo della biologia, un insieme di sensazioni dolorose e piacevoli, che però diventa l’uomo di una determinata forma sociale ogni qualvolta dall’astratto si passa al concreto, cioè ogni qualvolta si parla di economia e non di scienza naturale in genere. Il libro del Pantaleoni è quello che si può chiamare un’«opera materialistica» in senso «ortodosso» e scientifico!
4) Questi economisti «puri» pongono l’origine della scienza economica nella scoperta fatta da Cantillon che la ricchezza è il lavoro, è l’industria umana. Quando però cercano di fare scienza essi stessi, dimenticano le origini e affogano nell’ideologia che prima sviluppò, secondo i suoi metodi, la scoperta iniziale. Delle origini essi sviluppano non il nucleo positivo, ma l’alone filosofico legato al mondo culturale del tempo, quantunque questo mondo sia stato criticato e superato dalla cultura successiva.
5) Cosa dovrebbe sostituirsi al così detto «postulato edonistico» dell’economia «pura» in un’economia critica e storicistica? La descrizione del «mercato determinato», cioè la descrizione della forma sociale determinata, del tutto in confronto della parte, del tutto che determina, in quella determinata misura, quell’automatismo e insieme di uniformità e regolarità che la scienza economica cerca di descrivere col massimo di esattezza e precisione e completezza. Si può dimostrare che una tale impostazione della scienza economica è superiore a quella dell’economia «pura»? Si può dire che il postulato edonistico non è astratto, ma generico: infatti esso può essere premesso non alla sola economia, ma a tutta una serie di operazioni umane, che possono chiamarsi «economiche» solo allargando e genericizzando enormemente la nozione di economia fino a renderla empiricamente vuota di significato o a farla coincidere con una categoria filosofica, come infatti ha cercato di fare il Croce.
Q10 §31 Punti di riferimento per un saggio sul Croce. I. Nesso tra filosofia, religione, ideologia (nel senso crociano). Se per religione si ha da intendere una concezione del mondo (una filosofia) con una norma di condotta conforme, quale differenza può esistere tra religione e ideologia (o strumento d’azione) e in ultima analisi, tra ideologia e filosofia? Esiste o può esistere filosofia senza una volontà morale conforme? I due aspetti della religiosità, la filosofia e la norma di condotta, possono concepirsi come staccate e come possono essere state concepite come staccate? E se la filosofia e la morale sono sempre unitarie, perché la filosofia deve essere logicamente precedente alla pratica e non viceversa? O non è un assurdo una tale impostazione e non deve concludersi che «storicità» della filosofia significa niente altro che sua «praticità»? Si può forse dire che il Croce ha sfiorato il problema in Conversazioni critiche, I, pp. 298‑99‑300, dove analizzando alcune delle Glosse al Feuerbach giunge alla conclusione che in esse «dinanzi alla filosofia preesistente» prendono la parola «non già altri filosofi, come si aspetterebbe, ma i rivoluzionari pratici», che il Marx «non tanto capovolgeva la filosofia hegeliana, quanto la filosofia in genere, ogni sorta di filosofia; e il filosofare soppiantava con l’attività pratica». Ma non si tratta io, invece della rivendicazione, di fronte alla filosofia «scolastica», puramente teorica o contemplativa, di una filosofia che produca una morale conforme, una volontà attualizzatrice e in essa si identifichi in ultima analisi? La tesi XI: «I filosofi hanno soltanto variamente interpretato il mondo; si tratta ora di cangiarlo», non può essere interpretata come un gesto di ripudio di ogni sorta di filosofia, ma solo di fastidio per i filosofi e il loro psittacismo e l’energica affermazione di una unità tra teoria e pratica. Che una tale soluzione da parte del Croce sia criticamente inefficiente si può osservare anche da ciò che, anche ammesso per ipotesi assurda che Marx¹ volesse «soppiantare» la filosofia in genere con l’attività pratica, sarebbe da «sfoderare» l’argomento perentorio che non si può negare la filosofia se non filosofando, cioè riaffermando ciò che si era voluto negare, e lo stesso Croce, in una nota del volume Materialismo storico ed economia marxistica riconosce (aveva riconosciuto) esplicitamente come giustificata l’esigenza di costruire una filosofia della praxis posta da Antonio Labriola.
Questa interpretazione delle Glosse al Feuerbach come rivendicazione di unità tra teoria e pratica, e quindi come identificazione della filosofia con ciò che il Croce chiama ora religione (concezione del mondo con una norma di condotta conforme) – ciò che poi non è che l’affermazione della storicità della filosofia fatta nei termini di un’immanenza assoluta, di una «terrestrità assoluta» – si può ancora giustificare con la famosa proposizione che «il movimento operaio tedesco è l’erede della filosofia classica tedesca», la quale non significa già, come scrive il Croce: «erede che non continuerebbe già l’opera del predecessore, ma ne imprenderebbe un’altra, di natura diversa e contraria» ma significherebbe proprio che l’«erede» continua il predecessore, ma lo continua «praticamente» poiché ha dedotto una volontà attiva, trasformatrice del mondo, dalla mera contemplazione e in questa attività pratica è contenuta anche la «conoscenza» che solo anzi nell’attività pratica è «reale conoscenza» e non «scolasticismo». Se ne deduce anche che il carattere della filosofia della praxis è specialmente quello di essere una concezione di massa, una cultura di massa e di massa che opera unitariamente, cioè che ha norme di condotta non solo universali in idea, ma «generalizzate» nella realtà sociale. E l’attività del filosofo «individuale» non può essere pertanto concepita che in funzione di tale unità sociale, cioè anch’essa come politica, come funzione di direzione politica.
Anche da questo punto appare come il Croce abbia saputo mettere bene a profitto il suo studio della filosofia della praxis. Cosa è infatti la tesi crociana dell’identità di filosofia e di storia se non un modo, il modo crociano, di presentare lo stesso problema posto dalle glosse al Feuerbach e confermato dall’Engels nel suo opuscolo su Feuerbach? Per Engels «storia» è pratica (l’esperimento, l’industria) per Croce Storia è ancora un concetto speculativo; cioè Croce ha rifatto a rovescio il cammino – dalla filosofia speculativa si era giunti a una filosofia «concreta e storica», la filosofia della praxis; il Croce ha ritradotto in linguaggio speculativo le acquisizioni progressive della filosofia della praxis e in questa ritraduzione è il meglio del suo pensiero.
Si può vedere con maggiore esattezza e precisione il significato che la filosofia della praxis ha dato alla tesi hegeliana che la filosofia si converte nella storia della filosofia, cioè della storicità della filosofia. Ciò porta alla conseguenza che occorre negare la «filosofia assoluta» astratta o speculativa, cioè la filosofia che nasce dalla precedente filosofia e ne eredita i «problemi supremi», così detti, o anche solo il «problema filosofico», che diventa pertanto un problema di storia, di come nascono e si sviluppano i determinati problemi della filosofia. La precedenza passa alla pratica, alla storia reale dei mutamenti dei rapporti sociali, dai quali quindi (e quindi, in ultima analisi, dall’economia) sorgono (o sono presentati) i problemi che il filosofo si propone ed elabora.
Per il concetto più largo di storicità della filosofia, che cioè una filosofia è «storica» in quanto si diffonde, in quanto diventa concezione della realtà di una massa sociale (con un’etica conforme), si capisce che la filosofia della praxis, nonostante la «sorpresa» e lo «scandalo» del Croce, studi «nei filosofi proprio (!) ciò che non è filosofico: le tendenze pratiche, e gli affetti sociali e di classe, che quelli rappresentano. Onde nel materialismo del secolo decimottavo essi scorgevano la vita francese di allora, volta tutta all’immediato presente, al comodo e all’utile; nello Hegel, lo Stato prussiano; nel Feuerbach, gli ideali della vita moderna, ai quali la società germanica non si era ancora innalzata; nello Stirner, l’anima dei merciai; nello Schopenhauer, quella dei piccoli borghesi; e via discorrendo».
Ma non era ciò appunto uno «storicizzare» le rispettive filosofie, un ricercare il nesso storico tra i filosofi e la realtà storica da cui erano stati mossi? Si potrà dire e si dice infatti: ma la «filosofia» non è invece proprio ciò che «residua» dopo questa analisi per la quale si identifica ciò che è «sociale» nell’opera del filosofo? Intanto occorre porre questa rivendicazione e giustificarla mentalmente. Dopo aver distinto ciò che è sociale o «storico» in una determinata filosofia, ciò che corrisponde a una esigenza della vita pratica, a una esigenza che non sia arbitraria e cervellotica (e certo non è sempre facile una tale identificazione, specialmente se tentata immediatamente, senza cioè una sufficiente prospettiva) sarà da valutare questo «residuo», che poi non sarà così grande come apparirebbe a prima vista, se il problema fosse posto partendo dal pregiudizio crociano che esso sia una futilità o uno scandalo. Che una esigenza storica sia concepita da un filosofo «individuo» in modo individuale e personale e che la particolare personalità del filosofo incida profondamente sulla concreta forma espressiva della sua filosofia, è evidente senz’altro. Che questi caratteri individuali abbiano importanza, è anche senz’altro da concedere. Ma che significato avrà questa importanza? Non sarà puramente strumentale e funzionale, dato che se è vero che la filosofia non si sviluppa da altra filosofia ma è una continua soluzione di problemi che lo sviluppo storico propone, è anche vero che ogni filosofo non può trascurare i filosofi che l’hanno preceduto e anzi di solito opera proprio come se la sua filosofia fosse una polemica o uno svolgimento delle filosofie precedenti, delle concrete opere individuali dei filosofi precedenti. Talvolta anzi «giova» proporre una propria scoperta di verità come se fosse svolgimento di una tesi precedente di altro filosofo, perché è una forza innestarsi nel particolare processo di svolgimento della particolare scienza cui si collabora.
In ogni modo appare quale sia stato il nesso teorico per cui la filosofia della praxis, pur continuando l’hegelismo, lo «capovolge», senza perciò, come crede il Croce, voler «soppiantare» ogni sorta di filosofia. Se la filosofia è storia della filosofia, se la filosofia è «storia», se la filosofia si sviluppa perché si sviluppa la storia generale del mondo (e cioè i rapporti sociali in cui gli uomini vivono) e non già perché a un grande filosofo succede un più grande filosofo e così via, è chiaro che lavorando praticamente a fare storia, si fa anche filosofia «implicita», che sarà «esplicita» in quanto dei filosofi la elaboreranno coerentemente, si suscitano dei problemi di conoscenza che oltre alla forma «pratica» di soluzione troveranno, prima o poi, la forma teorica per opera degli specialisti, dopo aver immediatamente trovato la forma ingenua del senso comune popolare cioè degli agenti pratici delle trasformazioni storiche. Si vede come i crociani non capiscano questo modo di porre la quistione dalla loro maraviglia (cfr recensione del De Ruggiero del libro di Arthur Feiler nella «Critica» del 20 marzo 1932) di fronte a certi avvenimenti: «... si presenta il fatto paradossale di un’ideologia grettamente, aridamente materialistica, che dà luogo, in pratica, a una passione dell’ideale, a una foga di rinnovamento, a cui non si può negare una certa (!) sincerità», e la spiegazione astratta cui ricorrono: «Tutto ciò è vero in linea di massima (!) ed è anche provvidenziale, perché mostra che l’umanità ha grandi risorse interiori, che entrano in gioco nel momento stesso che una ragione superficiale pretenderebbe negarle», coi giochetti di dialettica formale d’uso: «La religione del materialismo, per il fatto stesso che è religione, non è più materia (!?); l’interesse economico, quando è elevato ad etica, non è più mera economia». Questo arzigogolo del De Ruggiero o è una futilità oppure è da riallacciarsi a una proposizione del Croce che ogni filosofia in quanto tale non è che idealismo: ma posta questa tesi, perché allora tanta battaglia di parole? Sarà solo per una quistione di terminologia?
Il Masaryk nel suo libro di memorie (La Résurrection d’un Etat. Souvenirs et reflexions. 1914‑1918. Parigi, Plon) riconosce l’apporto positivo del materialismo storico, attraverso l’opera del gruppo che l’incarna, nel determinare un nuovo atteggiamento verso la vita, attivo, di intraprendenza e di iniziativa, cioè nel campo in cui precedentemente egli aveva teorizzato la necessità di una riforma religiosa.
All’accenno del De Ruggiero si possono fare altre notazioni critiche che non sono fuori posto in questi appunti sul Croce (si potrebbe questo brano ridurlo a una nota): 1) che questi filosofi speculativi quando non sanno spiegarsi un fatto, ricorrono subito alla solita astuzia della provvidenza che naturalmente spiega tutto; 2) che di superficiale c’è solo l’informazione «filologica» del De Ruggiero, il quale si vergognerebbe di non conoscere tutti i documenti su un minuscolo fatto di storia della filosofia, ma trascura di informarsi con maggiore sostanziosità su avvenimenti giganteschi come quelli sfiorati nella sua recensione. La posizione di cui parla il De Ruggiero per cui un’ideologia «grettamente ecc.» dà luogo in pratica a una passione dell’ideale ecc. non è poi nuova nella storia: basta accennare alla teoria della predestinazione e della grazia propria del calvinismo e al suo dar luogo a una vasta espansione dello spirito d’iniziativa. In termini di religione è lo stesso fatto cui accenna il De Ruggiero, che il De Ruggiero non riesce a penetrare forse per la sua mentalità ancora fondamentalmente cattolica e antidialettica (cfr come il cattolico Jemolo, nella sua storia del giansenismo in Italia non riesca a comprendere questa conversione attivistica della teoria della grazia, ignori la letteratura in proposito e si domandi donde l’Anzilotti abbia attinto una tale corbelleria).
II. La critica crociana della filosofia della praxis può prendere le mosse dalle sue affermazioni perentorie in proposito nella Storia d’Italia e nella Storia d’Europa, in cui il Croce dà come definitive e ormai comunemente accettate le sue conclusioni, ma sarà esposta in forma sistematica. Intanto occorre notare che le affermazioni del Croce sono state molto meno assiomatiche e formalmente decise di quanto egli voglia oggi fare apparire. La teoria del valore è tutt’altro che intrinsecamente negata nel suo saggio principale: egli afferma che sola «teoria del valore» scientifica è quella del grado finale d’utilità, e che la teoria del valore marxista è «un’altra cosa», ma come «altra cosa» ne riconosce la saldezza e l’efficacia e domanda agli economisti di ribatterla con ben altri argomenti da quelli che di solito impiegano il Böhm‑Bawerk e C. La sua tesi sussidiaria, poi, che si tratti di un paragone ellittico, oltre che non giustificata, è di fatto inficiata subito dall’osservazione che si tratta di una continuazione logica della teoria ricardiana del valore e che il Ricardo non faceva certo «paragoni ellittici». La riduzione della filosofia della praxis a canone empirico di interpretazione è solamente affermata con metodo indiretto di esclusione, cioè ancora non dall’intrinseco. Per il Croce si tratta certamente di «qualche cosa» di importante, ma siccome non può essere né questo né quello ecc. sarà un canone d’interpretazione. Non pare che la dimostrazione sia conclusiva. La stessa prudenza formale appare nello scritto sulla caduta del saggio di profitto: cosa avrà voluto dire l’autore della teoria? Se ha voluto dir questo, non è esatto. Ma ha voluto dir questo? Dunque occorre ancora pensarci su, ecc. È anzi da porre in rilievo come questo atteggiamento prudente sia completamente mutato in questi anni e tutto sia diventato perentorio e definitivo nello stesso momento in cui è maggiormente acritico e ingiustificato.
Q10 §32 Punti di meditazione per lo studio dell’economia. Intorno ai Principî di Economia Pura del Pantaleoni.
I. È da fissare con esattezza il punto in cui si distingue tra «astrazione» e «generizzazione». Gli agenti economici non possono essere sottoposti a un processo di astrazione per cui l’ipotesi di omogeneità diventa l’uomo biologico; questa non è astrazione ma generizzazione o «indeterminazione». Astrazione sarà sempre astrazione di una categoria storica determinata, vista appunto in quanto categoria e non in quanto molteplice individualità. L’homo oeconomicus è anch’esso storicamente determinato pur essendo insiememente indeterminato: è un’astrazione determinata. Questo processo nell’economia critica avviene ponendo come valore il valore di scambio e non quello d’uso e riducendo quindi il valore d’uso al valore di scambio, potenzialmente, nel senso che una economia di scambio modifica anche le abitudini fisiologiche e la scala psicologica dei gusti e dei gradi finali d’utilità, che appaiono così come «superstrutture» e non dati economici primari, oggetto della scienza economica.
II. Occorre fissare il concetto di mercato determinato. Come viene assunto nell’economia «pura» e come nell’economia critica. Mercato determinato nell’economia pura è una astrazione arbitraria, che ha un valore puramente convenzionale ai fini di un’analisi pedantesca e scolastica. Mercato determinato per l’economia critica sarà invece l’insieme delle attività economiche concrete di una forma sociale determinata, assunte nelle loro leggi di uniformità, cioè «astratte», ma senza che l’astrazione cessi di essere storicamente determinata. Si astrae la molteplicità individuale degli agenti economici della società moderna quando si parla di capitalisti, ma appunto l’astrazione è nell’ambito storico di una economia capitalistica e non di una generica attività economica che astragga nelle sue categorie tutti gli agenti economici apparsi nella storia mondiale riducendoli genericamente e indeterminatamente all’uomo biologico.
III. Si può domandare se l’economia pura sia una scienza oppure se essa sia «un qualche cosa d’altro» che però si muove con un metodo che in quanto metodo ha un suo rigore scientifico. Che esistano attività di questo genere è mostrato dalla teologia. Anche la teologia parte da una certa serie di ipotesi e quindi costruisce su di esse tutto un massiccio edifizio dottrinale saldamente coerente e rigorosamente dedotto. Ma la teologia è perciò una scienza? L’Einaudi (cfr Ancora intorno al modo di scrivere la storia del dogma economico in «Riforma Sociale» del maggio‑giugno 1932) scrive che l’economia è «una dottrina avente la medesima indole delle scienze matematiche e fisiche (affermazione questa, si osservi, la quale non ha alcun necessario legame con l’altra che sia necessario od utile nel suo studio l’impiego dello strumento matematico)», ma sarebbe difficile dimostrare coerentemente e rigorosamente questa affermazione. Lo stesso concetto è stato espresso dal Croce («Critica», fascicolo del gennaio 1931) con le parole: «L’Economia non cangia natura quali che siano gli ordinamenti sociali, capitalistici o comunistici, quale che sia il corso della storia, al modo stesso che non cangia natura l’aritmetica pel variare delle cose da numerare». Intanto mi pare non sia da confondere la matematica e la fisica. La matematica si può chiamare una scienza puramente «strumentale», complementare di tutta una serie di scienze naturali «quantitative», mentre la fisica è una scienza immediatamente «naturale». Alla matematica può essere paragonata la logica formale con la quale del resto la matematica superiore si è unificata sotto molti aspetti. Può dirsi lo stesso della economia pura? La discussione è ancora vivace e non pare stia per finire. Del resto già nei cosiddetti economisti puri non c’è grande compattezza. Per alcuni è economia pura solo quella ipotetica, che imposta le sue dimostrazioni con un «supposto che», cioè è economia pura anche quella che rende astratti ossia generalizza tutti i problemi economici storicamente posti. Per altri invece è economia pura solo quella che si può dedurre dal principio economico o postulato edonistico, che cioè astrae completamente da ogni storicità e presuppone solo una generica «natura umana» uguale nel tempo e nello spazio. Ma se si tiene conto della lettera aperta dell’Einaudi a Rodolfo Benini, pubblicata nei «Nuovi Studi» qualche tempo fa, si vede che la posizione degli economisti puri è tentennante e mal sicura.
Q10 §33 Punti di riferimento per un saggio su Croce. Nello scritto sulla caduta tendenziale del saggio del profitto è da notare un errore fondamentale del Croce. Questo problema è già impostato nel I volume della Critica dell’economia politica, là dove si parla del plusvalore relativo e del progresso tecnico come causa appunto di plusvalore relativo; nello stesso punto si osserva come in questo processo si manifesti una contraddizione, cioè mentre da un lato il progresso tecnico permette una dilatazione del plusvalore, dall’altro determina, per il cangiamento che introduce nella composizione del capitale, la caduta tendenziale del saggio del profitto e ciò è dimostrato nel III volume della Critica dell’Economia Politica. Il Croce presenta come obbiezione alla teoria esposta nel III volume quella parte di trattazione che è contenuta nel I volume, cioè espone come obbiezione alla legge tendenziale della caduta del saggio del profitto la dimostrazione dell’esistenza di un plusvalore relativo dovuto al progresso tecnico, senza però mai accennare una sola volta al I volume, come se l’obbiezione fosse scaturita dal suo cervello, o addirittura fosse un portato del buon senso. (Tuttavia occorrerà rivedere i testi della Critica dell’Economia politica prima di presentare questa critica all’obbiezione del Croce, cautela che d’altronde si intende necessaria per tutte queste , che sono state scritte in grandissima parte fondandosi sulla memoria).
In ogni caso è da fissare che la quistione della legge tendenziale del saggio del profitto non può essere studiata solamente sull’esposizione data dal III volume; questa trattazione è l’aspetto contraddittorio della trattazione esposta nel I volume, da cui non può essere staccata. Inoltre occorrerà forse meglio determinare il significato di legge «tendenziale»: poiché ogni legge in Economia politica non può non essere tendenziale, dato che si ottiene isolando un certo numero di elementi e trascurando quindi le forze controperanti, sarà forse da distinguere un grado maggiore o minore di tendenzialità e mentre di solito l’aggettivo «tendenziale» si sottintende come ovvio, si insiste invece su di esso quando la tendenzialità diventa un carattere organicamente rilevante come in questo caso in cui la caduta del saggio del profitto è presentata come l’aspetto contraddittorio di un’altra legge, quella della produzione del plusvalore relativo, in cui una tende ad elidere l’altra con la previsione che la caduta del saggio del profitto sarà la prevalente.
Quando si può immaginare che la contraddizione giungerà a un nodo di Gordio, insolubile normalmente, ma domandante l’intervento di una spada di Alessandro? Quando tutta l’economia mondiale sarà diventata capitalistica e di un certo grado di sviluppo: quando cioè la «frontiera mobile» del mondo economico capitalistico avrà raggiunto le sue colonne d’Ercole. Le forze controperanti della legge tendenziale e che si riassumono nella produzione di sempre maggiore plusvalore relativo hanno dei limiti, che sono dati, per esempio, tecnicamente dall’estensione della resistenza elastica della materia e socialmente dalla misura sopportabile di disoccupazione in una determinata società. Cioè la contraddizione economica diventa contraddizione politica e si risolve politicamente in un rovesciamento della praxis.
Sull’argomento della caduta tendenziale del saggio del profitto ricordare un lavoro recensito nella prima annata di «Nuovi Studi» e dovuto a un economista tedesco, scolaro dissidente di Franz Oppenheimer, e un più recente volume del Grossmann recensito nella rivista «Economia» di Trieste e nella «Critique Sociale» da Lucien Laurat.
Q10 §34 Punti di riferimento per un saggio sul Croce. Quanto grande sia il mutamento avvenuto nella posizione critica del Croce verso la filosofia della praxis si può vedere confrontando questo brano dello scritto Il libro del prof. Stammler: «Ma, per lui (Stammler), nell’opera del Marx non si tratta di simili “piccole considerazioni”: che la cosidetta vita economica eserciti un’efficacia sulle idee, sulle scienze, sulle arti, e simili: roba vecchia, di poca conseguenza. Come il materialismo filosofico non consiste nell’affermare che i fatti corporali abbiano efficacia sugli spirituali, ma nel far di questi una mera apparenza, irreale, di quelli; così il materialismo storico deve consistere nell’affermare che l’economia è la vera realtà e il diritto è l’ingannevole apparenza» – con i capitoli finali della Storia della storiografia italiana nel secolo XIX: in questi il Croce assume proprio questa posizione dello Stammler senza neanche cercare di giustificarla con un principio o un accenno di dimostrazione. Ciò che nel 1898 era semplicemente una sforzatura arbitraria dello Stammler nel 1915 diventa verità ovvia che neanche vale la pena di svolgere.
Q10 §35 Introduzione allo studio della filosofia. Si può osservare il parallelo svolgersi della democrazia moderna e di determinate forme di materialismo metafisico e di idealismo. L’uguaglianza è ricercata dal materialismo francese del secolo XVIII nella riduzione dell’uomo a categoria della storia naturale, individuo di una specie biologica, distinto non per qualificazioni sociali e storiche, ma per doti naturali; in ogni caso essenzialmente uguale ai suoi simili. Questa concezione è passata nel senso comune, che ha come affermazione popolare che «siamo nati tutti nudi» (se pure l’affermazione di senso comune non è precedente alla discussione ideologica degli intellettuali). Nell’idealismo si ha l’affermazione che la filosofia è la scienza democratica per eccellenza in quanto si riferisce alla facoltà di ragionare comune a tutti gli uomini, cosa per cui si spiega l’odio degli aristocratici per la filosofia e le proibizioni legali contro l’insegnamento e la cultura da parte delle classi del vecchio regime.
Q10 §36 Punti di riferimento per un saggio su Croce. Dopo aver notato che nel suo scritto sulla caduta del saggio del profitto il Croce non fa che presentare come obbiezione l’altro aspetto contraddittorio del processo legato al progresso tecnico cioè la teoria del plusvalore relativo, già studiato nel I volume della Critica dell’economia politica, occorre notare che il Croce dimentica nella sua analisi un elemento fondamentale nella formazione del valore e del profitto cioè il «lavoro socialmente necessario», la cui formazione non può essere studiata e rilevata in una sola fabbrica o impresa. Il progresso tecnico dà appunto alla singola impresa la chance molecolare di aumentare la produttività del lavoro al di sopra della media sociale e quindi di realizzare profitti eccezionali (come è stato studiato nel I volume), ma appena il progresso dato si socializza, questa posizione iniziale viene perduta gradatamente e funziona la legge della media sociale del lavoro che attraverso la concorrenza abbassa prezzi e profitti: in quel punto si ha una caduta del saggio del profitto, perché la composizione organica del capitale si manifesta sfavorevole. Gli impresari tendono a prolungare per quanto è possibile la chance iniziale anche per mezzo dell’intervento legislativo: difesa dei brevetti, dei segreti industriali ecc., che però non può che essere limitato ad alcuni aspetti del progresso tecnico, forse secondari, ma che in ogni modo hanno il loro peso non certo irrilevante. Il mezzo più efficace degli impresari singoli per sfuggire alla legge della caduta è quello di introdurre incessantemente nuove modificazioni progressive in tutti i campi del lavoro e della produzione, senza trascurare gli apporti minimi di progresso che nelle grandissime aziende, moltiplicati per una grande scala, danno risultati molto apprezzabili.
Tutta l’attività industriale di Henry Ford si può studiare da questo punto di vista: una lotta continua, incessante per sfuggire alla legge della caduta del saggio del profitto, mantenendo una posizione di superiorità sui concorrenti. Il Ford è dovuto uscire dal campo strettamente industriale della produzione per organizzare anche i trasporti e la distribuzione della sua merce, determinando così una distribuzione della massa del plusvalore più favorevole all’industriale produttore.
L’errore del Croce è di varia natura: parte dal presupposto che ogni progresso tecnico determini immediatamente, come tale, una caduta del saggio del profitto, ciò che è erroneo perché la Critica dell’economia politica afferma solo che il progresso tecnico determina un processo di sviluppo contradditorio, uno dei cui aspetti è la caduta tendenziale. Afferma di tener conto di tutte le premesse teoriche dell’economia critica e dimentica la legge del lavoro socialmente necessario. Dimentica del tutto la parte della quistione trattata nel I volume, ciò che gli avrebbe risparmiato tutta questa serie di errori, dimenticanza tanto più grave in quanto egli stesso riconosce che nel III volume la sezione dedicata alla legge della caduta tendenziale è incompiuta, solo abbozzata, ecc.; una ragione perentoria per studiare tutto ciò che altrove lo stesso autore aveva scritto sull’argomento. (La quistione del testo del III volume può essere ristudiata ora che si ha a disposizione, come credo, l’edizione diplomatica dell’insieme di appunti e di che avrebbero dovuto servire alla sua stesura definitiva. Non è da escludere che nell’edizione tradizionale siano stati trascurati dei passi che, dopo le polemiche avvenute, potrebbero avere un’importanza ben maggiore di quella che il primo riordinatore del materiale frammentario potesse immaginare).
Un tecnico dell’economia dovrebbe poi riprendere la formula generale della legge della caduta tendenziale, che fissa il momento in cui la legge stessa si verifica e criticamente stabilire tutta la serie di passaggi che tendenzialmente ad essa conducono come conclusione logica.
È da svolgere l’accenno sul significato che «tendenziale» deve avere, riferito alla legge della caduta del profitto. È evidente che in questo caso la tendenzialità non può riferirsi solo alle forze controperanti nella realtà ogni volta che da essa si astraggono alcuni elementi isolati per costruire un’ipotesi logica. Poiché la legge è l’aspetto contraddittorio di un’altra legge, quella del plusvalore relativo che determina l’espansione molecolare del sistema di fabbrica e cioè lo sviluppo stesso del modo di produzione capitalistico, non può trattarsi di tali forze controperanti come quelle delle ipotesi economiche comuni. In questo caso la forza controperante è essa stessa studiata organicamente e dà luogo a una legge altrettanto organica che quella della caduta. Il significato di «tendenziale» pare dover essere pertanto di carattere «storico» reale e non metodologico: il termine appunto serve a indicare questo processo dialettico per cui la spinta molecolare progressiva porta a un risultato tendenzialmente catastrofico nell’insieme sociale, risultato da cui partono altre spinte singole progressive in un processo di continuo superamento che però non può prevedersi infinito, anche se si disgrega in un numero molto grande di fasi intermedie di diversa misura e importanza.
Per la stessa ragione non è completamente esatto dire come fa il Croce nella prefazione alla seconda edizione del suo libro che la legge circa la caduta del saggio del profitto, se fosse esattamente stabilita, come credeva il suo autore, «importerebbe né più né meno che la fine automatica e imminente della società capitalistica». Niente di automatico e tanto meno di imminente. Questa illazione del Croce è dovuta appunto all’errore di aver esaminato la legge della caduta del saggio del profitto isolandola dal processo in cui è stata concepita e isolandola non ai fini scientifici di una migliore esposizione, ma come se essa fosse valida «assolutamente» e non invece come termine dialettico di un più vasto processo organico. Che in molti la legge sia stata interpretata nello stesso modo del Croce, non esonera questo da una certa responsabilità scientifica. Molte affermazioni dell’economia critica sono state così «mitizzate» e non è detto che una tale formazione di miti non abbia avuto la sua importanza pratica immediata e non possa ancora averla. Ma si tratta di un altro aspetto della quistione, che non ha che poco da vedere con l’impostazione scientifica del problema e con la deduzione logica: potrà essere esaminata in sede di critica dei metodi politici e dei metodi di politica culturale. È probabile che in questa sede sia da dimostrare inetto in ultima analisi e produttivo di maggior danno che utile in definitiva il metodo politico di forzare arbitrariamente una tesi scientifica per trarne un mito popolare energetico e propulsivo: il metodo potrebbe paragonarsi all’uso degli stupefacenti che creano un istante di esaltazione delle forze fisiche e psichiche ma debilitano permanentemente l’organismo.
Q10 §37 Punti di meditazione per lo studio dell’economia.
I Nell’esame della quistione del metodo di ricerca economica e del concetto di astrazione, è da vedere se l’appunto critico che il Croce fa all’economia critica di procedere attraverso «una continua mescolanza di deduzione teorica e di descrizione storica, di nessi logici e di nessi di fatto» (MSEM 4a, p. 160) non sia invece uno dei tratti caratteristici della superiorità dell’economia critica sull’economia pura e una delle forze che la rendono più feconda per il progresso scientifico. Del resto sono da notare le manifestazioni dell’insoddisfazione e del fastidio da parte dello stesso Croce per i procedimenti più comuni dell’economia pura, coi suoi bizantinismi e la sua mania scolastica di rivestire di un pomposo mantello scientifico le più triviali banalità di senso comune e le più vuote generalità. L’economia critica ha cercato un giusto contemperamento tra il metodo deduttivo e il metodo induttivo, cioè di costruire ipotesi astratte non sulla base indeterminata di un uomo in generale, storicamente indeterminato e che da nessun punto di vista può essere riconosciuto astrazione di una realtà concreta, ma sulla realtà effettuale, «descrizione storica», che dà la premessa reale per costruire ipotesi scientifiche, cioè per astrarre l’elemento economico o quelli tra gli aspetti dell’elemento economico su cui si vuole attrarre l’attenzione ed esercitare l’esame scientifico. In tal modo non può esistere l’homo oeconomicus generico, ma può astrarsi il tipo di ognuno degli agenti o protagonisti dell’attività economica che si sono successi nella storia; il capitalista, il lavoratore, lo schiavo, il padrone di schiavi, il barone feudale, il servo della gleba. Non per nulla la scienza economica è nata nell’età moderna, quando il diffondersi del sistema capitalistico ha diffuso un tipo relativamente omogeneo di uomo economico, cioè ha creato le condizioni reali per cui un’astrazione scientifica diveniva relativamente meno arbitraria e genericamente vacua di quanto fosse prima possibile.
II. È da riflettere su questo punto: come potrebbe e dovrebbe essere compilato modernamente un sommario di scienza critica economica che riproducesse il tipo rappresentato nel passato e per le passate generazioni dai compendi del Cafiero, del Deville, del Kautsky, dell’Aveling, del Fabietti, più modernamente dal compendio del Borchardt e, in una serie distinta, dalla letteratura economica di divulgazione scolastica che nelle lingue occidentali è rappresentata dal Precis d’Économie politique di Lapidus e Ostrovitianov, ma che nella lingua originale deve essere rappresentato ormai da una quantità ragguardevole di compendi di diverso tipo e di mole molto variabile a seconda del pubblico cui i compendi stessi sono dedicati.
Si osserva: 1) che oggi dopo l’avvenuta pubblicazione dell’edizione critica delle diverse opere di economia critica, il problema del rifacimento di tali compendi è divenuto di soluzione necessaria, scientificamente doverosa; 2) che il compendio del Borchardt, in quanto non è compilato sul solo I volume della Critica dell’Economia politica ma su i tre volumi, è superiore evidentemente a quelli del Deville, del Kautsky ecc. (lasciando da parte, per il momento, il valore intrinseco delle diverse trattazioni); 3) che il tipo del compendio moderno dovrebbe ancora essere più esteso di quello del Borchardt, in quanto dovrebbe tener conto di tutta la trattazione economica dovuta allo stesso autore e presentarsi come un compendio e una esposizione di tutto il corpo dottrinale dell’Economia critica e non solo come un sunto di determinate opere sia pure fondamentali; 4) che il metodo dell’esposizione non dovrebbe essere determinato dalle fonti letterarie date, ma dovrebbe nascere ed essere dettato dalle esigenze critiche e culturali di attualità cui si vuole dare una soluzione scientifica e organica; 5) che pertanto, sono da escludere senz’altro i sunti pedissequi e materiali, ma tutto il materiale deve essere rifuso e riorganizzato in modo «originale», preferibilmente sistematico, secondo uno schema che faciliti «didatticamente» lo studio e l’apprendimento; 6) che tutto il corredo di esempi e di fatti concreti deve essere aggiornato e quelli contenuti nei testi originari devono e possono essere riferiti solo nella misura in cui la storia economica e la legislazione del paese per cui il compendio è fatto, non ne offrano di corrispondenti per un diverso sviluppo del processo storico o non così rilevanti ed espressivi; 7) che l’esposizione deve essere critica e polemica, nel senso che deve rispondere, sia pure implicitamente e per sottinteso, all’impostazione che dei problemi economici è data, nel paese determinato, dalla cultura economica più diffusa e dagli economisti ufficiali e in auge. Il manuale del Lapidus e Ostrovitianov da questo punto di vista è «dogmatico», presenta le sue affermazioni e i suoi svolgimenti come se essi non fossero «contestati» e rigettati radicalmente da nessuno, ma fossero l’espressione di una scienza che dal periodo di lotta e di polemica per affermarsi e trionfare è già entrata nel periodo classico della sua espansione organica. Evidentemente questo non è il caso, invece. Il compendio deve essere appunto energicamente polemico ed aggressivo e non lasciare senza risposta (implicita e sottintesa nella propria autonoma impostazione, se così forse è meglio) ogni quistione essenziale o che come essenziale è presentata dall’economia volgare, in modo da cacciare questa qui da tutti i suoi ripari e le sue difese e squalificarla al cospetto delle giovani generazioni di studiosi; 8) il compendio di scienza economica non può andare disgiunto da un corso di storia delle dottrine economiche. Il così detto IV volume della Critica dell’Economia politica è appunto una storia delle dottrine economiche e con questo titolo appunto è stato tradotto in francese. Tutta la concezione dell’economia critica è storicistica (ciò che non vuol dire che essa debba confondersi con la così detta scuola storica dell’economia) e la sua trattazione teorica non può scompagnarsi da una storia della scienza economica, il cui nucleo centrale oltre che nel detto IV volume può ricostruirsi in parte almeno da accenni contenuti dispersamente in tutta l’opera degli scrittori originari; 9) così non si può fare a meno di una sia pur breve introduzione generale che sulla traccia della prefazione alla 2a edizione del I volume dia un’esposizione riassuntiva della filosofia della prassi e dei principi metodologici più importanti ed essenziali, estraendoli dall’insieme delle opere economiche, dove sono incorporati nella trattazione o dispersi e accennati quando se ne presenta l’opportunità concreta. Q10 §38 Punti di riferimento per un saggio su Croce.
I. Che la teoria del valore nella economia critica non sia una teoria del valore, ma «qualcosa d’altro» fondato su un paragone ellittico, cioè con riferimento a una ipotetica società avvenire ecc. Ma la dimostrazione non è riuscita e la confutazione di essa è contenuta implicitamente nello stesso Croce (cfr il primo capitolo del saggio Per la interpretazione e la critica ecc.). Occorre dire che la trovata del paragone ellittico è puramente letteraria; infatti la teoria del valore‑lavoro ha tutta una storia che culmina nelle dottrine di Ricardo e i rappresentanti storici di tale dottrina non intendevano fare certo dei paragoni ellittici. (Questa obbiezione è stata enunziata dal prof. Graziadei nel volumetto Capitale e salari; sarebbe da vedere se fu presentata prima e da chi. Essa è così ovvia che dovrebbe venire subito sulla punta del pennino). È da vedere anche se il Croce conoscesse il volume Das Mehrwert, in cui l’esposizione dello svolgimento storico della teoria del valore‑lavoro è contenuta. (Confronti cronologici tra la pubblicazione del Mehrwert, avvenuta postuma e dopo i volumi 2 e 3 della Critica dell’Economia politica, e il saggio del Croce). La quistione quindi è questa: il tipo di ipotesi scientifica propria dell’Economia critica che astrae non principii economici dell’uomo in generale, di tutti i tempi e luoghi, ma delle leggi di un determinato tipo di società, è arbitrario o invece più concreto del tipo di ipotesi dell’economia pura? E posto che un tipo di società si presenta pieno di contraddizioni, è corretto astrarre solo uno dei termini di questa contraddizione? D’altronde ogni teoria è un paragone ellittico, poiché c’è sempre un paragone tra i fatti reali e l’«ipotesi» depurata di questi fatti. Quando il Croce dice che la teoria del valore non è la «teoria del valore» ma qualcosa d’altro, in realtà non distrugge la teoria stessa ma pone una quistione formale di nomenclatura: ecco perché gli economisti ortodossi non furono contenti del suo saggio (cfr nel libro MSEM l’articolo in polemica col prof. Racca). Così non è valida l’osservazione a proposito del termine «plusvalore», il quale invece esprime con molta chiarezza ciò che si vuol dire appunto per le ragioni per cui il Croce lo critica; si tratta della scoperta di un fatto nuovo, il quale viene espresso con un termine la cui novità consiste nella formazione, appunto contradditoria in confronto della scienza tradizionale; che non possano esistere «plusvalori» alla lettera può esser giusto, ma il neologismo ha un significato metaforico, non letterale, cioè è una nuova parola che non si risolve nel valore letterale delle originarie forme etimologiche.
II. Forse sarebbe opportuno, secondo l’ampiezza del Saggio, dare uno schizzo della tradizione intellettuale del Mezzogiorno (specialmente nel pensiero politico e filosofico) in contrapposizione col resto d’Italia, specialmente la Toscana, così come si riflette fino alla generazione del Croce (e Giustino Fortunato). Il libro di Luigi Russo sul De Sanctis e l’Università napoletana può essere molto utile, anche per vedere come la tradizione meridionale abbia col De Sanctis raggiunto un grado di sviluppo teorico‑pratico di fronte al quale l’atteggiamento del Croce rappresenta un arretramento, senza che l’atteggiamento del Gentile, che tuttavia più del Croce si è impegnato nell’azione pratica, possa giudicarsi una continuazione dell’attività desanctisiana per altre ragioni. A proposito del contrasto culturale tra la Toscana e il Mezzogiorno si può ricordare (a titolo di curiosità) l’epigramma di Ardengo Soffici (credo nel Giornale di Bordo) sul «carciofo». Il carciofo toscano, scrive su per giù il Soffici, non si presenta a prima vista così vistoso e allettante come il carciofo napoletano; è ispido, duro, tutto spine, irsuto. Ma sfogliatelo; dopo le prime foglie legnose e immangiabili, da buttar via, sempre più aumenta la parte commestibile e saporita, finché, nel mezzo, si trova il nucleo compatto, polposo, saporitissimo. Prendete il carciofo napoletano; subito dalle prime foglie c’è qualcosa da mangiare, ma quale acquosità e banalità di sapore; sfogliate sempre, il sapore non migliora e nel centro trovate nulla, un vuoto pieno di pagliosità disgustevole. Opposizione tra la cultura scientifica e sperimentale dei toscani e la cultura speculativa dei napoletani. Solo che la Toscana oggi non ha una particolare funzione nella cultura nazionale e si nutre della boria dei ricordi passati.
Q10 §39 Punti di riferimento per un saggio sul Croce. Nota su Luigi Einaudi. Non pare che Einaudi abbia studiato direttamente le opere di Economia critica e di filosofia della praxis; si può anzi dire che egli ne parla, specialmente della filosofia della praxis, da orecchiante, per sentito dire, spesso di terza o quarta mano. Le nozioni principali le ha prese dal Croce (MSEM) ma in modo superficiale e spesso sgangherato (confronta un paragrafo precedente). Ciò che più interessa è il fatto che della «Riforma Sociale» è sempre stato scrittore apprezzato (e per qualche tempo, credo, anche membro della redazione) Achille Loria cioè il divulgatore di una derivazione deteriore della filosofia della praxis. Si può dire anzi che in Italia ciò che passa sotto la bandiera di filosofia della praxis non è altro che contrabbando di paccotiglia scientifica loriana. Recentemente, proprio nella Riforma Sociale, il Loria ha pubblicato un suo zibaldone di schede caoticamente disposte, intitolandolo: Nuove conferme dell’economismo storico. Nella «Riforma Sociale» di novembre‑dicembre 1930 l’Einaudi ha pubblicato una nota: Il mito (!) dello strumento tecnico a proposito dell’autobiografia di Rinaldo Rigola che rinforza l’opinione accennata più su. Appunto il Croce aveva mostrato nel suo saggio sul Loria (nel MSEM) che il «mito (!) dello strumento tecnico» è stata una particolare invenzione del Loria, ciò di cui Einaudi non fa cenno, persuaso come è che si tratti invece di una dottrina della filosofia della praxis. L’Einaudi inoltre commette tutta una serie di errori per ignoranza dell’argomento: 1) confonde lo sviluppo dello strumento tecnico con lo sviluppo delle forze economiche; per lui parlare di sviluppo delle forze di produzione significa solo parlare dello sviluppo dello strumento tecnico; 2) ritiene che le forze di produzione per l’economia critica siano solo le cose materiali e non anche le forze e i rapporti sociali, cioè umani, che sono incorporati nelle cose materiali e di cui il diritto di proprietà è l’espressione giuridica; 3) risalta anche in questo scritto il solito «cretinismo» economistico che è proprio dell’Einaudi e di molti suoi amici liberoscambisti i quali come propagandisti sono dei veri illuminati. Sarebbe interessante rivedere la raccolta degli scritti di propaganda giornalistica dell’Einaudi; da essi apparirebbe che i capitalisti non hanno mai capito i loro veri interessi e si sono sempre comportati antieconomicamente.
Data la innegabile influenza intellettuale dell’Einaudi su un largo strato di intellettuali, varrebbe la pena di fare una ricerca di tutte le in cui egli accenna alla filosofia della praxis. È inoltre da ricordare l’articolo necrologico su Piero Gobetti pubblicato dall’Einaudi nel «Baretti», che spiega l’attenzione con cui l’Einaudi rimbecca ogni scrittura dovuta a liberali in cui si riconoscono alla filosofia della praxis l’importanza e l’influsso avuti nello svolgimento della cultura moderna. È anche da ricordarle a questo proposito il brano sul Gobetti nel Piemonte di Giuseppe Prato.
Q10 §40 Introduzione allo studio della filosofia. Il «noumeno» kantiano. Se la realtà è come noi la conosciamo e la nostra conoscenza muta continuamente, se cioè nessuna filosofia è definitiva ma è storicamente determinata, è difficile immaginare che la realtà oggettivamente muti col nostro mutare ed è difficile ammetterlo non solo per il senso comune ma anche per il pensiero scientifico. Nella Sacra Famiglia si dice che la realtà si esaurisce tutta nei fenomeni e che al di là dei fenomeni non c’è nulla, e così è certamente. Ma la dimostrazione non è agevole. Cosa sono i fenomeni? Sono qualcosa di oggettivo, che esistono in sé e per sé, o sono qualità che l’uomo ha distinto in conseguenza dei suoi interessi pratici (la costruzione della sua vita economica) e dei suoi interessi scientifici, cioè della necessità di trovare un ordine nel mondo e di descrivere e classificare le cose (necessità che è anch’essa legata a interessi pratici mediati e futuri)? Posta l’affermazione che ciò che noi conosciamo nelle cose è niente altro che noi stessi, i nostri bisogni e i nostri interessi, cioè che le nostre conoscenze sono soprastrutture (o filosofie non definitive) è difficile evitare che si pensi a qualcosa di reale al di là di queste conoscenze, non nel senso metafisico di un «noumeno», di un «dio ignoto» o di «un inconoscibile», ma nel senso concreto di una «relativa ignoranza» della realtà, di qualcosa di ancora «sconosciuto» che però potrà essere un giorno conosciuto quando gli strumenti «fisici» e intellettuali degli uomini saranno più perfetti, cioè quando saranno mutate, in senso progressivo le condizioni sociali e tecniche della umanità. Si fa quindi una previsione storica che consiste semplicemente nell’atto del pensiero che proietta nell’avvenire un processo di sviluppo come quello che si è verificato dal passato ad oggi. In ogni modo occorre studiare Kant e rivedere i suoi concetti esattamente.
Q10 §41 Punti di riferimento per un saggio sul Croce.
I. Discorso del Croce alla sezione di Estetica del Congresso filosofico di Oxford (riassunto nella «Nuova Italia» del 20 ottobre 1930): svolge in forma estrema le tesi sulla filosofia della praxis esposte nella Storia della Storiografia italiana nel secolo XIX. Questo più recente punto di vista critico del Croce sulla filosofia della praxis (che innova completamente quello sostenuto nel suo volume MSEM) come può essere giudicato criticamente? Si dovrà giudicare non come un giudizio da filosofo, ma come un atto politico di portata pratica immediata. È certo che della filosofia della praxis si è formata una corrente deteriore, che può essere considerata in rapporto alla concezione dei fondatori della dottrina come il cattolicismo popolare in rapporto a quello teologico o degli intellettuali: come il cattolicismo popolare può essere tradotto nei termini del paganesimo, o di religioni inferiori al cattolicismo per le superstizioni e le stregonerie da cui erano o sono dominate, così la filosofia della praxis deteriore può essere tradotta in termini «teologici» o trascendentali, cioè delle filosofie prekantiane e precartesiane. Il Croce si comporta come gli anticlericali massonici e razionalisti volgari che appunto combattono il cattolicismo con questi confronti e con queste traduzioni del cattolicismo volgare in linguaggio «feticista». Il Croce cade nella stessa posizione intellettualistica che il Sorel rimproverava al Clemenceau, di giudicare un movimento storico dalla sua letteratura di propaganda e di non capire che anche dei banali opuscoletti possono essere l’espressione di movimenti estremamente importanti e vitali.
Per una filosofia è una forza o una debolezza di avere oltrepassato i soliti limiti dei ristretti ceti intellettuali e di diffondersi nelle grandi masse sia pure adattandosi alla mentalità di queste e perdendo poco o molto del suo nerbo? E che significato ha il fatto di una concezione del mondo che in tal modo si diffonde e si radica e continuamente ha dei momenti di ripresa e di nuovo splendore intellettuale? È una ubbia da intellettuali fossilizzati credere che una concezione del mondo possa essere distrutta da critiche di carattere razionale: quante volte non si è parlato di «crisi» della filosofia della praxis? e che cosa significa questa crisi permanente? non significa forse la vita stessa che procede per negazioni di negazioni? Ora, chi ha conservato la forza delle successive riprese teoriche se non la fedeltà delle masse popolari che si erano appropriate la concezione, sia pure in forme superstiziose e primitive? Si parla spesso che in certi paesi il non esserci stata la riforma religiosa è causa di regresso in tutti i campi della vita civile e non si osserva che appunto la diffusione della filosofia della praxis è la grande riforma dei tempi moderni, è una riforma intellettuale e morale che compie su scala nazionale ciò che il liberalismo non è riuscito a compiere che per ristretti ceti della popolazione. Appunto l’analisi che il Croce ha fatto nella Storia dell’Europa delle religioni e il concetto che il Croce ha elaborato di religione servono a comprendere meglio il significato storico della filosofia della praxis e le ragioni della sua resistenza a tutti gli attacchi e a tutte le diserzioni.
La posizione del Croce è quella dell’uomo del Rinascimento verso la Riforma protestante con la differenza che il Croce rivive una posizione che storicamente si è dimostrata falsa e reazionaria e che egli stesso (e i suoi scolari: cfr il volume del De Ruggiero su Rinascimento e Riforma) ha contribuito a dimostrare falsa e reazionaria. Che Erasmo potesse dire di Lutero: «dove appare Lutero, muore la cultura» si può capire. Che oggi il Croce riproduca la posizione di Erasmo non si capisce, poiché il Croce ha visto come dalla primitiva rozzezza intellettuale dell’uomo della Riforma è tuttavia scaturita la filosofia classica tedesca e il vasto movimento culturale da cui è nato il mondo moderno. Ancora: tutta la trattazione che il Croce fa nella sua Storia d’Europa del concetto di religione è una critica implicita delle ideologie piccolo borghesi (Oriani, Missiroli, Gobetti, Dorso ecc.) che spiegano le debolezze dell’organismo nazionale e statale italiano con l’assenza di una Riforma religiosa, intesa in senso angustamente confessionale. Allargando e precisando il concetto di religione, il Croce mostra la meccanicità e lo schematismo astratto di queste ideologie, che erano niente altro che costruzioni di letterati. Ma appunto per ciò, più grave appunto gli si deve fare di non aver capito che appunto la filosofia della praxis, col suo vasto movimento di massa, ha rappresentato e rappresenta un processo storico simile alla Riforma, in contrasto col liberalismo, che riproduce un Rinascimento angustamente ristretto a pochi gruppi intellettuali e che a un certo punto ha capitolato di fronte al cattolicesimo, fino al punto che il solo partito liberale efficiente era il partito popolare, cioè una nuova forma di cattolicismo liberale.
Croce rimprovera alla filosofia della praxis il suo «scientismo», la sua superstizione «materialistica», un suo presunto ritorno al «medioevo intellettuale». Sono i rimproveri che Erasmo, nel linguaggio del tempo, muoveva al luteranismo. L’uomo del Rinascimento e l’uomo creato dallo sviluppo della Riforma si sono fusi nell’intellettuale moderno del tipo Croce, ma se questo tipo sarebbe incomprensibile senza la Riforma, esso non riesce più a comprendere il processo storico per cui dal «medioevale» Lutero si è necessariamente giunti allo Hegel e perciò di fronte alla grande riforma intellettuale e morale rappresentata dal diffondersi della filosofia della praxis riproduce meccanicamente l’atteggiamento di Erasmo. Questa posizione del Croce si può studiare con molta precisione nel suo atteggiamento pratico verso la religione confessionale.
Croce è essenzialmente anticonfessionale (non possiamo dire antireligioso data la sua definizione del fatto religioso), e per un largo gruppo di intellettuali italiani ed europei la sua filosofia, specialmente nelle sue manifestazioni meno sistematiche (come le recensioni, le postille ecc. raccolte nei volumi come Cultura e vita morale, Conversazioni critiche, Frammenti di Etica ecc.) è stata una vera e propria riforma intellettuale e morale di tipo «Rinascimento». «Vivere senza religione» (e s’intende senza confessione religiosa) è stato il succo che il Sorel ha tratto dalla lettura del Croce (cfr Lettere di G. Sorel a B. Croce pubblicate nella «Critica» del 1927 e sgg.). Ma il Croce non è «andato al popolo», non è voluto diventare un elemento «nazionale» (come non lo sono stati gli uomini del Rinascimento, a differenza dei luterani e calvinisti), non ha voluto creare una schiera di discepoli che, in sua sostituzione (dato che egli personalmente volesse serbare la sua energia per la creazione di un’alta coltura) potessero popolarizzare la sua filosofia, tentando di farla diventare un elemento educativo fin dalle scuole elementari (e quindi educativo per il semplice operaio e contadino, cioè per il semplice uomo del popolo). Forse ciò era impossibile, ma valeva la pena che fosse tentato e il non averlo tentato ha pure un significato.
Croce in qualche libro ha scritto qualcosa di questo genere: «Non si può togliere la religione all’uomo del popolo, senza subito sostituirla con qualcosa che soddisfi le stesse esigenze per cui la religione è nata e ancora permane». C’è del vero in questa affermazione, ma non contiene questa una confessione dell’impotenza della filosofia idealista a diventare una integrale (e nazionale) concezione del mondo? E infatti come si potrebbe distruggere la religione nella coscienza dell’uomo del popolo senza nello stesso tempo sostituirla? È possibile in questo caso solo distruggere senza creare? È impossibile. Lo stesso anticlericalismo volgare‑massonico, sostituisce una nuova concezione alla religione che distrugge (in quanto realmente distrugge) e se questa nuova concezione è rozza e bassa, significa che la religione sostituita era realmente ancor più rozza e bassa. L’affermazione del Croce pertanto non può essere che un modo ipocrita di ripresentare il vecchio principio che la religione è necessaria per il popolo. Il Gentile, meno ipocritamente, e più conseguentemente, ha rimesso l’insegnamento della religione nelle scuole elementari (si è andati ancora più oltre di ciò che intendeva fare il Gentile e si è allargato l’insegnamento religioso alle scuole medie) e ha giustificato il suo atto con la concezione hegeliana della religione come filosofia dell’infanzia dell’umanità (è da vedere il programma scolastico del Croce, caduto per le vicende parlamentari del governo Giolitti 1920‑21, ma che per rispetto alla religione non era molto diverso da quello che fu il programma Gentile, se ben ricordo), che è diventato un puro sofisma applicato ai tempi attuali, e un modo di rendere servizio al clericalismo.
È da ricordare il «frammento di Etica» sulla religione; perché non è stato svolto? Forse ciò era impossibile. La concezione dualistica e della «obbiettività del mondo esterno» quale è stata radicata nel popolo dalle religioni e dalle filosofie tradizionali diventate «senso comune» non può essere sradicata e sostituita che da una nuova concezione che si presenti intimamente fusa con un programma politico e una concezione della storia che il popolo riconosca come espressione delle sue necessità vitali. Non è possibile pensare alla vita e alla diffusione di una filosofia che non sia insieme politica attuale, strettamente legata all’attività preponderante nella vita delle classi popolari, il lavoro, e non si presenti pertanto, entro certi limiti, come connessa necessariamente alla scienza. Essa concezione nuova magari assumerà inizialmente forme superstiziose e primitive come quelle della religione mitologica, ma troverà in se stessa e nelle forze intellettuali che il popolo esprimerà dal suo seno gli elementi per superare questa fase primitiva. Questa concezione connette l’uomo alla natura per mezzo della tecnica, mantenendo la superiorità dell’uomo ed esaltandola nel lavoro creativo, quindi esalta lo spirito e la storia. (È da vedere l’articolo di M. Missiroli sulla scienza pubblicato dall’«Ordine Nuovo»).
A proposito dei rapporti tra l’idealismo e il popolo è interessante questo brano del Missiroli (cfr «L’Italia Letteraria», 23 marzo 1930, Calendario: Religione e filosofia): «È probabile che qualche volta, di fronte alla logica del professore di filosofia, specie se questo sarà un seguace dell’idealismo assoluto, il senso comune degli scolari e il buon senso degli insegnanti delle altre materie, siano tratti a dar ragione al teologo piuttosto che al filosofo. Non vorrei, in un eventuale contraddittorio, davanti ad un pubblico non iniziato, trovarmi a dover perorare le ragioni della filosofia moderna. L’umanità è ancora tutta quanta aristotelica e la comune opinione segue ancora quel dualismo, che è proprio del realismo greco‑cristiano. Che il conoscere sia un “vedere” anziché un “fare”, che la verità sia fuori di noi, esistente in sé e per sé, e non una nostra creazione, che la “natura” e il “mondo” siano delle intangibili realtà, nessuno dubita e si rischia di passare per pazzi quando si afferma il contrario. I difensori dell’oggettività del sapere, i difensori più rigidi della scienza positiva, della scienza e del metodo di Galileo contro la gnoseologia dell’idealismo assoluto, oggi si trovano fra i cattolici. Quelli che Croce chiama pseudoconcetti e quello che Gentile definisce come pensiero astratto, sono le ultime rocche dell’oggettivismo. Donde la tendenza, sempre più visibile, della coltura cattolica a valorizzare la scienza positiva e l’esperienza contro la nuova metafisica dell’assoluto. Non è da escludere che il pensiero cattolico possa ringiovanirsi rifugiandosi nella cittadella della scienza sperimentale. Da trent’anni i gesuiti lavorano per eliminare i contrasti – in realtà basati su equivoci – fra la religione e la scienza e non a caso Giorgio Sorel in uno scritto oggi rarissimo osservava che, fra tutti gli scienziati, i matematici sono i soli per i quali il miracolo non ha nulla di miracoloso».
Questo modo di vedere i rapporti tra scienza sperimentale e cattolicismo non è molto costante nel Missiroli e d’altronde la sua ipotesi non è molto fondata sui fatti reali. Nel volume Date a Cesare il quadro che Missiroli fa della cultura dei religiosi in Italia non è molto brillante e promettente di un qualsiasi sviluppo pericoloso per la cultura laica. In una recente risposta a un referendum del «Saggiatore» il Missiroli prevede nell’avvenire italiano un diffondersi generale delle scienze naturali a danno del pensiero speculativo e nello stesso tempo un’ondata di anticlericalismo, cioè prevede che lo sviluppo delle scienze sperimentali sarà in contrasto con le correnti religiose. Che i gesuiti da trent’anni lavorino per riconciliare scienza e religione non pare molto esatto, almeno in Italia. In Italia la filosofia neoscolastica, che si era assunta questa missione, è rappresentata piuttosto dai francescani (che nell’Università del Sacro Cuore si sono circondati di molti laici) che dai gesuiti, tra i quali pare abbondino soprattutto gli studiosi di psicologia sperimentale e di metodo erudito (scienza biblica ecc.). Anzi si ha l’impressione che i gesuiti (quelli della «Civiltà Cattolica» almeno) guardino con un certo sospetto gli studi scientifici e anche l’Università del Sacro Cuore per il fatto che i professori di essa civettano un po’ troppo con le idee moderne (la «Civiltà Cattolica» non cessa mai di censurare ogni adesione troppo spinta al darwinismo ecc. Del resto i neoscolastici del gruppo Gemelli hanno civettato non poco col Croce e col Gentile e ne hanno accolto particolari teorie: il libro di monsignor Olgiati su Carlo Marx – del 1920 – è tutto costruito con materiali critici crociani e il padre Chiocchetti che ha scritto un libro sul Croce accetta di questi la dottrina dell’origine pratica dell’errore che non si vede come possa essere isolata da tutto il sistema crociano).
L’atteggiamento del Croce verso il cattolicismo si è andato precisando dopo il 1925 e ha avuto la sua nuova manifestazione più cospicua con la Storia d’Europa nel secolo XIX, che è stata messa all’indice. Il Croce qualche anno fa si maravigliava perché i suoi libri non erano mai stati posti all’indice: ma perché ciò avrebbe dovuto avvenire? La Congregazione dell’Indice (che è poi il Santo Ufficio dell’Inquisizione) ha una sua politica accorta e prudente. Mette all’Indice librucciacci di poco conto, ma evita quanto può di indicare all’attenzione pubblica come contrarie alla fede le opere di grandi intellettuali. Si trincera dietro la scusa molto comoda che sono devono essere intesi come automaticamente all’Indice tutti i libri che sono contrari a certi principii elencati nelle introduzioni delle diverse edizioni degli Indici. Così per D’Annunzio si è decisa la messa all’Indice solo quando il governo decise di fare l’edizione nazionale delle opere e per il Croce per la Storia d’Europa. In realtà la Storia d’Europa è il primo libro del Croce in cui le opinioni antireligiose dello scrittore assumevano un significato di politica attiva e avevano una diffusione inaudita.
Il recente atteggiamento del Croce verso la filosofia della praxis (la cui manifestazione più cospicua è stata finora il discorso alla sezione di Estetica del Congresso di Oxford) non è solo un rinnegamento (anzi un capovolgimento) della prima posizione assunta dal Croce prima del 1900 (quando scriveva che il nome di «materialismo» era solo un modo di dire e polemizzava col Plekhanov dando ragione al Lange di non aver parlato della filosofia della praxis nella sua Storia del Materialismo), capovolgimento non giustificato logicamente, ma è anche un rinnegamento, anch’esso non giustificato, della sua propria filosofia passata (almeno di una parte cospicua di essa) in quanto il Croce era un filosofo della praxis «senza saperlo» (sarà da vedere il saggio di Gentile in proposito contenuto nel volume Saggi Critici, Serie seconda, ediz. Vallecchi, Firenze).
Alcune quistioni poste dal Croce sono puramente verbali. Quando egli scrive che le superstrutture sono concepite come apparenze, non pensa che ciò può significare semplicemente qualcosa di simile alla sua affermazione della non «definitività» ossia della «storicità» di ogni filosofia? Quando per ragioni «politiche», pratiche, per rendere indipendente un gruppo sociale dall’egemonia di un altro gruppo, si parla di «illusione», come si può confondere in buona fede un linguaggio polemico con un principio gnoseologico? E come spiega il Croce la non definitività delle filosofie? Da una parte egli fa questa affermazione gratuitamente, senza giustificarla altro che con il principio generale del «divenire», dall’altra riafferma il principio (già da altri affermato) che la filosofia non è una cosa astratta ma è la risoluzione dei problemi che la realtà nel suo svolgimento incessantemente presenta. La filosofia della praxis intende invece giustificare non con principi generici, ma con la storia concreta, la storicità delle filosofie, storicità che è dialettica perché dà luogo a lotte di sistemi, a lotte tra modi di vedere la realtà, e sarebbe strano che chi è convinto della propria filosofia, ritenesse concrete e non illusorie le credenze avversarie (e di questo si tratta, poiché altrimenti i filosofi della praxis dovrebbero ritenere illusorie le loro proprie concezioni o essere degli scettici e degli agnostici). Ma il più interessante è questo: che la dottrina dell’origine pratica dell’errore del Croce non è altro che la filosofia della praxis ridotta a una dottrina particolare. In questo caso l’errore del Croce è l’illusione dei filosofi della praxis.
Solo che errore e illusione deve significare nel caso di questa filosofia niente altro che «categoria storica» transeunte per i cambiamenti della pratica, cioè l’affermazione della storicità delle filosofie non solo, ma anche una spiegazione realistica di tutte le concezioni soggettivistiche della realtà. La teoria delle superstrutture non è che la soluzione filosofica e storica dell’idealismo soggettivistico. Accanto alla dottrina dell’origine pratica dell’errore è da porre la teoria delle ideologie politiche spiegate dal Croce nel loro significato di strumenti pratici d’azione: ma dove trovare il limite tra ciò che deve essere inteso come ideologia nel senso stretto crociano e l’ideologia nel senso della filosofia della praxis cioè tutto l’insieme delle soprastrutture? Anche in questo caso la filosofia della praxis ha servito al Croce per costruire una dottrina particolare. D’altronde sia l’«errore» che l’«ideologia come strumento pratico d’azione» anche per il Croce possono essere rappresentati da interi sistemi filosofici che sono tutti un errore perché originati da bisogni pratici e da necessità sociali. Sebbene non l’abbia finora esplicitamente scritto, non sarebbe maraviglioso se il Croce sostenesse l’origine pratica delle religioni mitologiche e quindi così spiegasse la loro erroneità da una parte e il loro resistere tenace alle critiche delle filosofie laiche, dall’altra, perché qualche accenno in questo senso si potrebbe trovare nei suoi scritti (il Machiavelli, con la sua concezione della religione come strumento di dominio, potrebbe avere già enunziato la tesi dell’origine pratica delle religioni).
L’affermazione del Croce che la filosofia della praxis «stacca» la struttura dalle superstrutture, rimettendo così in vigore il dualismo teologico e ponendo un «dio ignoto‑struttura» non è esatta e non è neanche molto profonda invenzione. L’accusa di dualismo teologico e di disgregazione del processo del reale è vacua e superficiale. È strano che una tale accusa sia venuta dal Croce, che ha introdotto il concetto di dialettica dei distinti e che per ciò è continuamente accusato dai gentiliani di aver appunto disgregato il processo del reale. Ma, a parte ciò, non è vero che la filosofia della praxis «stacchi» la struttura dalle superstrutture quando invece concepisce il loro sviluppo come intimamente connesso e necessariamente interrelativo e reciproco. Né la struttura è neanche per metafora paragonabile a un «dio ignoto»: essa è concepita in modo ultrarealistico, tale da poter essere studiata coi metodi delle scienze naturali ed esatte e anzi appunto per questa sua «consistenza» oggettivamente controllabile la concezione della storia è stata ritenuta «scientifica». Forse che la struttura è concepita come qualcosa di immobile ed assoluto o non invece come la realtà stessa in movimento e l’affermazione delle Tesi su Feuerbach dell’«educatore che deve essere educato» non pone un rapporto necessario di reazione attiva dell’uomo sulla struttura, affermando l’unità del processo del reale? Il concetto di «blocco storico» costruito dal Sorel coglieva appunto in pieno questa unità sostenuta dalla filosofia della praxis. È da notare quanto fosse cauto e prudente il Croce nei primi saggi raccolti in MSEM e quante riserve avanzasse nell’enunziare le sue critiche e le sue interpretazioni (sarà interessante registrare queste riserve cautelose) e come invece diverso sia il suo metodo in questi recenti scritti, che d’altronde, se colpissero nel segno, dimostrerebbero come egli abbia perduto il suo tempo nel primo periodo e sia stato di straordinaria semplicità e superficialità. Solo che allora il Croce tentava almeno di giustificare logicamente le sue caute affermazioni mentre oggi è diventato perentorio e non crede necessaria nessuna giustificazione. Si potrebbe trovare l’origine pratica del suo attuale errore ricordando il fatto che prima del 900 egli si riteneva onorato di passare anche politicamente per un seguace della filosofia della praxis, poiché allora la situazione storica faceva di questo movimento un alleato del liberalismo, mentre oggi le cose sono molto cambiate e certi scherzetti sarebbero pericolosi.
Q10 §41 II È da ricordare il giudizio del Croce su Giovanni Botero nel volume Storia dell’età barocca in Italia. Il Croce riconosce che i moralisti del 600, per quanto piccoli di statura al paragone del Machiavelli «rappresentavano, nella filosofia politica, uno stadio ulteriore e superiore». Questo giudizio è da avvicinarsi a quello del Sorel sul Clemenceau che non riusciva a vedere, anche «attraverso» una letteratura mediocre, le esigenze che tale letteratura rappresentava e che esse non erano mediocri. Un pregiudizio da intellettuali è quello di misurare i movimenti storici e politici col metro dell’intellettualismo, dell’originalità, della «genialità», cioè della compiuta espressione letteraria e delle grandi personalità brillanti e non invece della necessità storica e della scienza politica, cioè della capacità concreta e attuale di conformare il mezzo al fine. Questo pregiudizio è anche popolare, in certi stadi della organizzazione politica (stadio degli uomini carismatici) e si confonde spesso col pregiudizio dell’«oratore»: l’uomo politico deve essere grande oratore o grande intellettuale, deve avere il «crisma» del genio ecc. ecc. Si arriva poi allo stadio inferiore di certe regioni contadine o dei negri in cui per essere seguiti occorre avere la barba.
Q10 §41 III L’avvicinamento dei due termini etica e politica per indicare la più recente storiografia crociana è l’espressione delle esigenze in cui si muove il pensiero storico crociano: l’etica si riferisce all’attività della società civile, all’egemonia; la politica si riferisce all’iniziativa e alla coercizione statale‑governativa. Quando c’è contrasto tra etica e politica, tra esigenze della libertà ed esigenze della forza, tra società civile e Stato‑governo c’è crisi e il Croce giunge ad affermare che il vero «Stato», cioè la forza direttiva dell’impulso storico, occorre talvolta cercarlo non là dove si crederebbe, nello Stato giuridicamente inteso, ma nelle forze «private» e anche nei così detti rivoluzionari. Questa proposizione del Croce è molto importante per intendere appieno la sua concezione della storia e della politica. Sarebbe utile analizzare in concreto queste tesi nei libri di storia del Croce in quanto vi sono incorporate concretamente.
Q10 §41 IV Si potrebbe dire che il Croce è l’ultimo del Rinascimento e che esprime esigenze e rapporti internazionali e cosmopoliti. Ciò non vuol dire che egli non sia un «elemento nazionale», anche nel significato moderno del termine, vuol dire che anche dei rapporti ed esigenze nazionali egli esprime specialmente quelli che sono più generali e coincidono con nessi di civiltà più vasti dell’area nazionale: l’Europa, quella che suole chiamarsi civiltà occidentale ecc. Il Croce è riuscito a ricreare nella sua personalità e nella sua posizione di leader mondiale della cultura quella funzione di intellettuale cosmopolita che è stata svolta quasi collegialmente dagli intellettuali italiani dal Medio Evo fino alla fine del 600. D’altronde, se nel Croce sono vive le preoccupazioni di leader mondiale, che lo inducono ad assumere sempre atteggiamenti equilibrati, olimpici, senza impegni troppo compromettenti di carattere temporaneo ed episodico, è anche vero che egli stesso ha inculcato il principio che in Italia, se si vuole sprovincializzare la cultura e il costume (e il provincialismo ancora permane come residuo del passato di disgregazione politica e morale) occorre elevare il tono della vita intellettuale attraverso il contatto e lo scambio di idee col mondo internazionale (era questo il programma rinnovatore del gruppo fiorentino della «Voce»), quindi nel suo atteggiamento e nella sua funzione è immanente un principio essenzialmente nazionale.
La funzione del Croce si potrebbe paragonare a quella del papa cattolico e bisogna dire che il Croce, nell’ambito del suo influsso, talvolta ha saputo condursi più abilmente del papa: nel suo concetto di intellettuale, del resto, c’è qualcosa di «cattolico e clericale», come può vedersi dalle sue pubblicazioni del tempo di guerra e come risulta anche oggi da recensioni e postille; in forma più organica e stringata la sua concezione dell’intellettuale può avvicinarsi a quella espressa da Julien Benda nel libro La trahison des clercs.
Dal punto di vista della sua funzione culturale non bisogna tanto considerare il Croce come filosofo sistematico quanto alcuni aspetti della sua attività: 1) il Croce come teorico dell’estetica e della critica letteraria ed artistica (l’ultima edizione dell’Enciclopedia Britannica ha affidato al Croce la voce «Estetica», trattazione pubblicata in Italia fuori commercio col titolo Aestethica in nuce; il Breviario d’Estetica è stato compilato per gli Americani. In Germania sono molti i seguaci dell’Estetica crociana); 2) il Croce come critico della filosofia della praxis e come teorico della storiografia; 3) specialmente il Croce come moralista e maestro di vita, costruttore di principii di condotta che astraggono da ogni confessione religiosa, anzi mostrano come si può «vivere senza religione».
Quello del Croce è un ateismo da signori, un anticlericalismo che aborre la rozzezza e la grossolanità plebea degli anticlericali sbracati, ma si tratta sempre di ateismo e di anticlericalismo; si domanda perciò perché il Croce non si sia messo a capo, se non attivamente, almeno dando il suo nome e il suo patrocinio, a un movimento italiano di Kulturkampf, che avrebbe avuto un’enorme importanza storica (per l’atteggiamento ipocrita dei crociani verso il clericalismo è da vedere l’articolo di G. Prezzolini La paura del prete nel volume Mi pare... stampato dalla casa editrice Delta di Fiume). Né si può dire che egli non si sia impegnato nella lotta per considerazioni di carattere filisteo, per considerazioni personali ecc., perché egli ha dimostrato di non curarsi di queste vanità mondane convivendo liberamente con una donna molto intelligente, che manteneva vivacità al suo salotto napoletano frequentato da scienziati italiani e stranieri e sapeva destare l’ammirazione di questi frequentatori; questa unione libera impedì al Croce di entrare nel Senato prima del 1912, quando la signora era morta e il Croce era ridiventato per Giolitti una persona «rispettabile». È anche da notare, a proposito di religione, l’atteggiamento equivoco del Croce verso il modernismo: che il Croce dovesse essere antimodernista poteva intendersi, in quanto anticattolico, ma l’impostazione della lotta ideologica non fu questa.
Obbiettivamente il Croce fu un alleato prezioso dei gesuiti contro il modernismo (nel Date a Cesare il Missiroli esalta dinanzi ai cattolici l’atteggiamento del Croce e del Gentile contro il modernismo in questo senso) e la ragione di questa lotta, che tra religione trascendentale e filosofia immanentistica non può esistere un tertium quid ancipite ed equivoco, pare tutto un pretesto. Anche in questo caso appare l’uomo del Rinascimento, il tipo di Erasmo, con la stessa mancanza di carattere e di coraggio civile. I modernisti, dato il carattere di massa che era dato loro dalla contemporanea nascita di una democrazia rurale cattolica (legata alla rivoluzione tecnica che avveniva nella valle padana con la scomparsa della figura dell’obbligato o schiavandaro e l’espandersi del bracciante e di forme meno servili di mezzadria) erano dei riformatori religiosi, apparsi non secondo schemi intellettuali prestabiliti, cari allo hegelismo, ma secondo le condizioni reali e storiche della vita religiosa italiana. Era una seconda ondata di cattolicismo liberale, molto più esteso e di carattere più popolare che non fosse stato quello del neoguelfismo prima del 48 e del più schietto liberalismo cattolico posteriore al 48. L’atteggiamento del Croce e del Gentile (col chierichetto Prezzolini) isolò i modernisti nel mondo della cultura e rese più facile il loro schiacciamento da parte dei gesuiti, anzi parve una vittoria del papato contro tutta la filosofia moderna: l’enciclica antimodernista è in realtà contro l’immanenza e la scienza moderna e in questo senso fu commentata nei seminari e nei circoli religiosi (è curioso che oggi l’atteggiamento dei crociani verso i modernisti, o almeno i maggiori di essi – non però contro il Buonajuti – è cambiato di molto come può vedersi dalla elaborata recensione di Adolfo Omodeo, nella «Critica» del 20 luglio 1932, dei Mémoires pour servir à l’histoire religieuse de notre temps di Alfredo Loisy). Perché del modernismo il Croce non diede la stessa spiegazione logica che nella Storia d’Europa ha dato del cattolicismo liberale, come di una vittoria della «religione della libertà», che riusciva a penetrare anche nella cittadella del suo più acerrimo antagonista e nemico ecc.? (È da rivedere nella Storia d’Italia ciò che si dice del modernismo: ma ho l’impressione che il Croce sorvoli, mentre esalta la vittoria del liberalismo sul socialismo divenuto riformismo per l’attività scientifica del Croce stesso).
La stessa osservazione può farsi al Missiroli, anch’egli antimodernista e antipopolare: se il popolo non può giungere alla concezione della libertà politica e all’idea nazionale se non dopo aver attraversato una riforma religiosa, cioè dopo aver conquistato la nozione di libertà nella religione, non si capisce perché Missiroli e i liberali del «Resto del Carlino» siano stati così ferocemente antimodernisti: o si capisce anche troppo; perché modernismo significava politicamente democrazia cristiana, questa era particolarmente forte nell’Emilia‑Romagna e in tutta la valle padana e il Missiroli coi suoi liberali lottavano per l’Agraria.
Si pone il problema di chi rappresenti più adeguatamente la società contemporanea italiana dal punto di vista teorico e morale: il papa, Croce, Gentile; cioè: 1) chi abbia più importanza dal punto di vista dell’egemonia, come ordinatore dell’ideologia che dà il cemento più intimo alla società civile e quindi allo Stato; 2) chi all’estero rappresenti meglio l’influsso italiano nel quadro della cultura mondiale. Il problema non è di facile risoluzione, perché ognuno dei tre domina ambienti e forze sociali diverse. Il papa come capo e guida della maggioranza dei contadini italiani e delle donne, e perché la sua autorità e influsso operano con tutta una organizzazione accentrata e bene articolata, è una grande, la più grande forza politica del paese dopo il governo; ma è la sua una autorità diventata passiva e accettata per inerzia, che anche prima del Concordato era, di fatto, un riflesso dell’autorità statale. Per questa ragione è difficile fare un paragone tra l’influsso del papa e quello di un privato nella vita culturale. Un paragone più razionale può farsi tra il Croce e il Gentile, ed è subito evidente che l’influsso del Croce, nonostante tutte le apparenze, è di molto superiore a quello del Gentile. Intanto l’autorità del Gentile è tutt’altro che ammessa nella sua stessa parte politica (ricordare l’attacco di Paolo Orano in Parlamento contro la filosofia del Gentile e l’attacco personale contro il Gentile e i gentiliani nel settimanale «Roma» da parte di G. A. Fanelli). Mi pare che la filosofia del Gentile, l’attualismo, sia più nazionale solo nel senso che è strettamente legata a una fase primitiva dello Stato, allo stadio economico‑corporativo, quando tutti i gatti son bigi. Per questa stessa ragione si può credere alla maggiore importanza e influsso di questa filosofia, così come molti credono che in Parlamento un industriale sia più di un avvocato rappresentante degli interessi industriali (o di un professore o magari di un leader dei sindacati operai), senza pensare che, se l’intera maggioranza parlamentare fosse di industriali, il Parlamento perderebbe immediatamente la sua funzione di mediazione politica e ogni prestigio (per il corporativismo ed economismo del Gentile è da confrontare il suo discorso tenuto a Roma e pubblicato nel volume Cultura e Fascismo). L’influsso del Croce è meno rumoroso di quello del Gentile ma più profondo e radicato;
Croce è realmente una specie di papa laico, ma la morale del Croce è troppo da intellettuali, troppo del tipo Rinascimento, non può diventare popolare, mentre il papa e la sua dottrina influenzano masse sterminate di popolo con massime di condotta che si riferiscono anche alle cose più elementari. È vero che il Croce afferma che ormai questi modi di vita non sono più specificatamente cristiani e religiosi, perché «dopo Cristo siamo tutti cristiani», cioè il cristianesimo in ciò che è reale esigenza di vita e non mitologia è stato assorbito dalla civiltà moderna (questo aforisma di Croce ha certo molto di verità: il senatore Mariano D’Amelio, primo presidente di Cassazione, combatte l’obbiezione che i codici occidentali non possono introdursi in paesi non cristiani come il Giappone, la Turchia, ecc., appunto perché sono stati costruiti con molti elementi introdotti dal cristianesimo, ricordando questa «semplice verità» del Croce. Ora realmente i codici occidentali vengono introdotti nei paesi «pagani» come espressione della civiltà europea e non del cristianesimo come tale e i buoni mussulmani non credono di essere diventati cristiani e di aver abiurato l’islamismo).
Q10 §41 V Deve essere criticata l’impostazione che il Croce fa della scienza politica. La politica, secondo il Croce, è l’espressione della «passione». A proposito del Sorel il Croce ha scritto (Cultura e vita morale, 2a ed., p. 158): «Il “sentimento di scissione” non l’aveva garantito (il sindacalismo) abbastanza, forse anche perché una scissione teorizzata è una scissione sorpassata; né il “mito” lo scaldava abbastanza, forse perché il Sorel, nell’atto stesso di crearlo, lo aveva dissipato, dandone la spiegazione dottrinale». Ma il Croce non si è accorto che le osservazioni fatte al Sorel si possono ritorcere contro il Croce stesso: la passione teorizzata non è anch’essa sorpassata? La passione di cui si dà una spiegazione dottrinale, non è anch’essa «dissipata»? Né si dica che la «passione» del Croce sia cosa diversa dal «mito» soreliano, che la passione significhi la categoria, il momento spirituale della pratica, mentre il mito sia una determinata passione che come storicamente determinata può essere sorpassata e dissipata senza che perciò si annichili la categoria che è un momento perenne dello spirito; l’obbiezione è vera nel solo senso che Croce non è Sorel, cosa ovvia e banale. Intanto è da osservare come l’impostazione del Croce sia intellettualistica e illuministica. Poiché neanche il mito concretamente studiato dal Sorel era una cosa di carta, una costruzione arbitraria dell’intelletto soreliano, esso non poteva essere dissipato da qualche paginetta dottrinale, conosciuta da ristretti gruppi di intellettuali, che poi diffondevano la teoria come prova scientifica della verità scientifica del mito quale ingenuamente appassionava le grandi masse popolari.
Se la teoria del Croce fosse reale, la scienza politica dovrebbe essere niente altro che una nuova «Medicina» delle passioni e non è da negare che una gran parte degli articoli politici del Croce sia proprio una intellettualistica e illuministica Medicina delle passioni, così come finisce con l’essere comica la sicurezza del Croce d’aver ammazzato vasti movimenti storici nella realtà perché crede d’averli «sorpassati e dissolti» in idea. Ma in realtà non è neanche vero che il Sorel abbia solo teorizzato e spiegato dottrinalmente un determinato mito: la teoria dei miti è per il Sorel il principio scientifico della scienza politica, è la «passione» del Croce studiata in modo più concreto, è ciò che il Croce chiama «religione» cioè una concezione del mondo con un’etica conforme, è un tentativo di ridurre a linguaggio scientifico la concezione delle ideologie della filosofia della praxis vista attraverso appunto il revisionismo crociano. In questo studio del mito come sostanza dell’azione politica, il Sorel ha anche studiato diffusamente il mito determinato che era alla base di una certa realtà sociale e ne era la molla di progresso. La sua trattazione ha perciò due aspetti: uno propriamente teorico, di scienza politica e un aspetto politico immediato, programmatico. È possibile, sebbene sia molto discutibile, che l’aspetto politico e programmatico del sorelismo sia stato sorpassato e dissipato; oggi si può dire che esso è stato superato nel senso che è stato integrato e depurato di tutti gli elementi intellettualistici e letterari, ma anche oggi occorre riconoscere che il Sorel aveva lavorato sulla realtà effettuale e che tale realtà non è stata sorpassata e dissipata.
Che il Croce non sia uscito da queste contraddizioni e che in parte ne abbia coscienza, si capisce dal suo atteggiamento verso i «partiti politici» quale appare dal capitolo «Il partito come giudizio e come pregiudizio» del volume Cultura e vita morale e da ciò che dei partiti si dice negli Elementi di politica, quest’ultimo ancor più significativo. Il Croce riduce l’atto politico all’attività dei singoli «capipartito» che per soddisfare la loro passione si costruiscono, nei partiti, gli strumenti adatti al trionfo (sicché la medicina delle passioni basterebbe propinarla a pochi individui). Ma anche ciò spiega nulla. Si tratta di questo: i partiti sono sempre esistiti, permanentemente, anche se con altre forme ed altri nomi, ed una passione permanente è un controsenso (solo per metafora si parla di pazzi ragionanti ecc.), ed ancor di più è sempre esistita una organizzazione permanentemente militare, la quale educa a compiere a sangue freddo, senza passione l’atto pratico più estremo, l’uccisione di altri uomini che non sono singolarmente odiati dai singoli ecc. D’altronde l’esercito è l’attore politico per eccellenza anche in tempo di pace: come mettere d’accordo la passione con la permanenza, con l’ordine e la disciplina sistematica ecc.? La volontà politica deve avere qualche altra molla oltre la passione, una molla di carattere anch’essa permanente, ordinata, disciplinata ecc. Non è detto che la lotta politica, come la lotta militare, si risolvano sempre sanguinosamente, con sacrifizi personali che giungono fino al sacrifizio supremo della vita. La diplomazia è appunto quella forma di lotta politica internazionale (e non è detto che non esista una diplomazia anche per le lotte nazionali fra partiti) che influisce per ottenere vittorie (che non sono sempre di poco momento) senza spargimento di sangue, senza guerra. Il solo paragone «astratto» fra le forze militari e politiche (alleanze ecc.) di due Stati rivali, convince il più debole a fare delle concessioni. Ecco un caso di «passione» ammaestrata e ragionevole. Nel caso dei capi e dei gregari, avviene che i capi e i gruppi dirigenti suscitano le passioni delle folle artatamente e le conducono alla lotta e alla guerra, ma in questo caso non la passione è causa e sostanza della politica ma la condotta dei capi che si mantengono freddamente ragionatori. L’ultima guerra ha poi mostrato che non la passione manteneva le masse militari in trincea, ma o il terrore dei tribunali militari o un senso del dovere freddamente ragionato e riflessivo.
Q10 §41 VI La teoria del valore come paragone ellittico. Oltre all’obbiezione che la teoria del valore ha la sua origine nel Ricardo, che certamente non intendeva fare un paragone ellittico nel senso che pensa il Croce, è da aggiungere qualche altra serie di ragionamenti. Era arbitraria la teoria del Ricardo ed è arbitraria la soluzione più precisa dell’economia critica? E in che punto del ragionamento starebbe l’arbitrio o il sofisma? Bisognerebbe studiare bene la teoria di Ricardo e specialmente la teoria di Ricardo sullo Stato come agente economico, come la forza che tutela il diritto di proprietà, cioè il monopolio dei mezzi di produzione. È certo che lo Stato ut sic non produce la situazione economica ma è l’espressione della situazione economica, tuttavia si può parlare dello Stato come agente economico in quanto appunto lo Stato è sinonimo di tale situazione. Se si studia infatti l’ipotesi economica pura, come Ricardo intendeva fare, non occorre prescindere da questa situazione di forza rappresentata dagli Stati e dal monopolio legale della proprietà? Che la quistione non sia oziosa è dimostrato dai cambiamenti apportati nella situazione di forza esistente nella società civile dalla nascita delle Trade‑Unions, quantunque lo Stato non abbia mutato di natura. Non si trattava dunque per nulla di un paragone ellittico, fatto in vista di una futura forma sociale diversa da quella studiata, ma di una teoria risultante dalla riduzione della società economica alla pura «economicità» cioè al massimo di determinazione del «libero gioco delle forze economiche», in cui essendo l’ipotesi quella dell’homo oeconomicus, non poteva non prescindersi dalla forza data dall’insieme di una classe organizzata nello Stato, di una classe che aveva nel Parlamento la sua Trade‑Union, mentre i salariati non potevano coalizzarsi e far valere la forza data dalla collettività a ogni singolo individuo. Ricardo, come del resto gli altri economisti classici, erano estremamente spregiudicati e la teoria ricardiana del valore‑lavoro non sollevò nessuno scandalo quando fu espressa (cfr la Storia delle dottrine economiche di Gide e Rist) perché allora non rappresentava nessun pericolo, appariva solo, come era, una constatazione puramente oggettiva e scientifica. Il valore polemico e di educazione morale e politica, pur senza perdere la sua oggettività, doveva acquistarla solo con la Economia critica. Il problema è poi legato al problema fondamentale della scienza economica «pura», cioè alla identificazione di quello che deve essere il concetto e il fatto storicamente determinato, indipendente dagli altri concetti e fatti pertinenti alle altre scienze: il fatto determinato della scienza economica moderna non può essere che quello di merce, di produzione e distribuzione di merci e non un concetto filosofico come vorrebbe il Croce per il quale anche l’amore è un fatto economico e tutta la «natura» è ridotta al concetto di economia.
Sarebbe ancora da notare che, se si vuole, tutto il linguaggio è una serie di paragoni ellittici, che la storia è un paragone implicito tra il passato e il presente (l’attualità storica) o tra due momenti distinti dello svolgimento storico. E perché l’ellissi è illecita se il paragone avviene con un’ipotesi avvenire, mentre sarebbe lecita se il paragone è fatto con un fatto passato (il quale in tal caso è assunto proprio come ipotesi, come punto di riferimento utile per meglio comprendere il presente)? Lo stesso Croce, parlando delle previsioni, sostiene che la previsione non è altro che uno speciale giudizio sull’attualità che sola si conosce, poiché non si può conoscere l’avvenire per definizione poiché esso non esiste e non è esistito e non si può conoscere l’inesistente (cfr Conversazioni Critiche, Serie prima, pp. 150‑153). Si ha l’impressione che il ragionamento del Croce sia piuttosto da letterato e da costruttore di frasi ad effetto.
Q10 §41 VII Sulla caduta tendenziale del saggio del profitto. Questa legge dovrebbe essere studiata sulla base del taylorismo e del fordismo. Non sono questi due metodi di produzione e di lavoro dei tentativi progressivi di superare la legge tendenziale, eludendola col moltiplicare le variabili nelle condizioni dell’aumento progressivo del capitale costante? Le variabili sono queste (tra le più importanti, ma dai libri del Ford si potrebbe costruire un registro completo e molto interessante): 1) le macchine continuamente introdotte sono più perfette e raffinate; 2) i metalli più resistenti e di durata maggiore; 3) si crea un tipo nuovo di operaio monopolizzato con gli alti salari; 4) diminuzione dello scarto nel materiale di fabbricazione; 5) utilizzazione sempre più vasta di sempre più numerosi sottoprodotti, cioè risparmio di scarti che prima erano necessari e che è stato reso possibile dalla grande ampiezza delle imprese; 6) utilizzazione dello scarto di energie caloriche: per esempio il calore degli alti forni che prima si disperdeva nell’atmosfera viene immesso in tubatura e riscalda gli ambienti d’abitazione, ecc. (La selezione di un nuovo tipo di operaio rende possibile, attraverso la razionalizzazione taylorizzata dei movimenti, una produzione relativa e assoluta più grande di quella precedente con la stessa forza di lavoro). Con ognuna di queste innovazioni l’industriale passa da un periodo di costi crescenti (cioè di caduta del saggio del profitto) a un periodo di costi decrescenti, in quanto viene a godere di un monopolio di iniziativa che può durare abbastanza a lungo (relativamente). Il monopolio dura a lungo anche a causa degli alti salari che tali industrie progressive «devono» dare, se vogliono formare una maestranza selezionata e se vogliono contendere ai concorrenti gli operai più predisposti, dal punto di vista psicotecnico, alle nuove forme di produzione e di lavoro (ricordare il fatto simile del senatore Agnelli che, per assorbire nella Fiat le altre imprese automobilistiche, bloccò tutti gli operai battilastra della piazza con gli alti salari; le fabbriche, private così dei loro reparti specializzati per la produzione dei parafanghi, cercarono di resistere tentando di fabbricare parafanghi di legno compensato, ma l’innovazione fallì e dovettero capitolare). L’estensione dei nuovi metodi determina una serie di crisi, ognuna delle quali ripropone gli stessi problemi dei costi crescenti e il cui ciclo si può immaginare ricorrente finché: 1) non si sia raggiunto il limite estremo di resistenza del materiale; 2) non si sia raggiunto il limite nell’introduzione di nuove macchine automatiche, cioè il rapporto ultimo tra uomini e macchine; 3) non si sia raggiunto il limite di saturazione di industrializzazione mondiale, tenendo conto del saggio di aumento della popolazione (che d’altronde declina con l’estendersi dell’industrialismo) e della produzione per rinnovare la merce d’uso e i beni strumentali. La legge tendenziale della caduta del profitto sarebbe quindi alla base dell’americanismo, cioè sarebbe la causa del ritmo accelerato nel progresso dei metodi di lavoro e di produzione e di modificazione del tipo tradizionale dell’operaio.
Q10 §41 VIII Il punto più importante in cui il Croce riassume le critiche, secondo lui decisive e che avrebbero rappresentato un’epoca storica, è la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 nel capitolo in cui accenna alla fortuna della filosofia della praxis e dell’economia critica. Nella prefazione alla seconda edizione del volume MSEM egli fissa in quattro le tesi principali del suo revisionismo: la prima che la filosofia della praxis debba valere come semplice canone di interpretazione, e la seconda che la teoria del valore‑lavoro sia niente altro che il risultato di un paragone ellittico tra due tipi di società, egli afferma essere «state generalmente accolte», «sono divenute usuali, e si odono ormai ripetere quasi senza che si ricordi chi le ha messe pel primo in circolazione». La terza tesi, critica della legge circa la caduta del saggio del profitto («legge che, se fosse esattamente stabilita, ... importerebbe né più né meno che la fine automatica e imminente (!?) della società capitalistica») «è forse più dura ad accettare»; ma il Croce si allieta dell’adesione dell’«economista e filosofo» Ch. Andler (nelle s critiques de science sociale, Parigi, anno I, n. 5, 10 marzo 1900, p. 77). La quarta tesi, quella di un’economia filosofica, «è offerta più propriamente alla meditazione dei filosofi» e il Croce rimanda al suo futuro volume sulla pratica. Per i rapporti tra filosofia della praxis e lo hegelismo rimanda al suo saggio sullo Hegel.
Nella «Conclusione» al suo saggio Per la interpretazione e la critica di alcuni concetti (MSEM, pp. 55‑113, la conclusione è a pp. 110‑113) il Croce riassume in quattro punti i risultati positivi della sua indagine: 1) Sotto il rispetto della scienza economica, la giustificazione dell’economia critica, intesa non in quanto scienza economica generale, ma in quanto economia sociologica comparativa, che tratta delle condizioni del lavoro nelle società; 2) Sotto il rispetto della scienza della storia, la liberazione della filosofia della praxis da ogni concetto aprioristico (sia esso eredità hegeliana o contagio di volgare evoluzionismo), e l’intendimento della dottrina come fecondo bensì, ma semplice canone d’interpretazione storica; 3) Sotto il rispetto pratico l’impossibilità di dedurre il programma sociale del movimento (come anche ogni altro programma sociale) da proposizioni di pura scienza, dovendosi portare il giudizio dei programmi sociali nel campo dell’osservazione empirica e delle pratiche persuasioni; 4) Sotto il rispetto etico, la negazione della intrinseca amoralità o dell’intrinseca antieticità della filosofia della praxis. (Sarà utile ricavare altri punti di discussione e di critica da tutti gli scritti del Croce sull’argomento, riassumendoli attentamente con tutti i richiami bibliografici del caso, pur mantenendo un posto speciale a questi punti che dal Croce stesso sono indicati come quelli che maggiormente hanno attratto il suo interesse e la sua riflessione più metodica e sistematica).
Q10 §41 IX Per comprendere meglio la teoria crociana esposta nella relazione al Congresso di Oxford su «Storia e Antistoria» (e che in altro punto è stata riavvicinata alla discussione svolta dalla generazione passata sul punto della possibilità dei «salti» nella storia e nella natura) occorre studiare lo studio del Croce Interpretazione storica delle proposizioni filosofiche nel quale oltre l’argomento da cui deriva il titolo, di per sé molto interessante e che non è dal Croce osservato nella sua polemica ultima contro la filosofia della praxis, è contenuta una interpretazione restrittiva e capziosa della proposizione hegeliana: «ciò che è reale è razionale e ciò che è razionale è reale», appunto nel senso dell’antistoria.
Q10 §41 X L’importanza che hanno avuto il machiavellismo e l’antimachiavellismo in Italia per lo sviluppo della scienza politica e il significato che in questo svolgimento hanno avuto recentemente la proposizione del Croce sull’autonomia del momento politico‑economico e le pagine dedicate al Machiavelli. Si può dire che il Croce non sarebbe giunto a questo risultato senza l’apporto culturale della filosofia della praxis? È da ricordare in proposito che il Croce ha scritto di non poter capire come mai nessuno abbia pensato di svolgere il concetto che il fondatore della filosofia della praxis ha compiuto, per un gruppo sociale moderno, la stessa opera compiuta dal Machiavelli al suo tempo. Da questo paragone del Croce si potrebbe dedurre tutta l’ingiustizia dell’attuale suo atteggiamento culturale, anche perché il fondatore della filosofia della praxis ha avuto interessi molto più vasti del Machiavelli e dello stesso Botero (che per il Croce integra Machiavelli nello svolgimento della scienza politica, sebbene ciò non sia molto esatto, se del Machiavelli non si considera solo il Principe ma anche i Discorsi) non solo, ma in lui è contenuto in nuce anche l’aspetto etico‑politico della politica o la teoria dell’egemonia e del consenso, oltre all’aspetto della forza e dell’economia.
La quistione è questa: dato il principio crociano della dialettica dei distinti (che è da criticare come soluzione puramente verbale di una reale esigenza metodologica, in quanto è vero che non esistono solo gli opposti, ma anche i distinti) quale rapporto che non sia quello di «implicazione nell’unità dello spirito» esisterà tra il momento economico‑politico e le altre attività storiche? È possibile una soluzione speculativa di questi problemi, o solo una soluzione storica, data dal concetto di «blocco storico» presupposto dal Sorel? Intanto si può dire che mentre l’ossessione politico‑economica (pratica, didascalica) distrugge l’arte, la morale, la filosofia, invece queste attività sono anche «politica». Cioè la passione economico‑politica è distruttiva quando è esteriore imposta con la forza, secondo un piano prestabilito (e anche che sia così può essere necessario politicamente e si hanno periodi in cui l’arte, la filosofia ecc. s’addormentano, mentre l’attività pratica è sempre vivace) ma può diventare implicita nell’arte ecc. quando il processo è normale, non violento, quando tra struttura e superstrutture c’è omogeneità e lo Stato ha superato la sua fase economico‑corporativa. Lo stesso Croce (nel volume Etica e politica) accenna a queste diverse fasi, una di violenza, di miseria, di lotta accanita, di cui non si può fare storia etico-politica (nel suo senso ristretto) e una di espansione culturale che sarebbe la «vera» storia.
Nei suoi due recenti libri: Storia d’Italia e Storia d’Europa sono precisamente omessi i momenti della forza, della lotta, della miseria e la storia comincia in una dopo il 1870 e nell’altra dal 1815. Secondo questi criteri schematici si può dire che lo stesso Croce riconosce implicitamente la priorità del fatto economico, cioè della struttura come punto di riferimento e di impulso dialettico per le superstrutture, ossia i «momenti distinti dello spirito». Il punto della filosofia crociana su cui occorre insistere pare appunto debba essere la così detta dialettica dei distinti.
C’è una esigenza reale nel distinguere gli opposti dai distinti, ma c’è anche una contraddizione in termini, perché dialettica si ha solo degli opposti. Vedere le obbiezioni non verbalistiche presentate dai gentiliani a questa teoria crociana e risalire allo Hegel? È da vedere se il movimento da Hegel a Croce‑Gentile non sia stato un passo indietro, una riforma «reazionaria». Non hanno essi reso più astratto Hegel? Non ne hanno tagliato via la parte più realistica, più storicistica? e non è invece proprio di questa parte che solo la filosofia della praxis, in certi limiti, è una riforma e un superamento? E non è stato proprio l’insieme della filosofia della praxis a far deviare in questo senso il Croce e il Gentile, sebbene essi di questa filosofia si siano serviti per dottrine particolari? (cioè per ragioni implicitamente politiche?) Tra Croce‑Gentile ed Hegel si è formato un anello tradizione Vico‑Spaventa‑(Gioberti). Ma ciò non significò un passo indietro rispetto ad Hegel?
Hegel non può essere pensato senza la Rivoluzione francese e Napoleone con le sue guerre, senza cioè le esperienze vitali e immediate di un periodo storico intensissimo di lotte, di miserie, quando il mondo esterno schiaccia l’individuo e gli fa toccare la terra, lo appiattisce contro la terra, quando tutte le filosofie passate furono criticate dalla realtà in modo così perentorio? Cosa di simile potevano dare Vico e Spaventa? (Anche Spaventa che partecipò a fatti storici di portata regionale e provinciale, in confronto a quelli dall’89 al 1815 che sconvolsero tutto il mondo civile d’allora e costrinsero a pensare «mondialmente»? Che misero in movimento la «totalità» sociale, tutto il genere umano concepibile, tutto lo «spirito»? Ecco perché Napoleone può apparire ad Hegel lo «spirito del mondo» a cavallo!) A quale movimento storico di grande portata partecipa il Vico? Quantunque la sua genialità consista appunto nell’aver concepito un vasto mondo da un angoletto morto della «storia» aiutato dalla concezione unitaria e cosmopolita del cattolicismo... In ciò la differenza essenziale tra Vico ed Hegel, tra dio e la provvidenza e Napoleone ‑ spirito del mondo, tra una astrazione remota e la storia della filosofia concepita come sola filosofia, che porterà all’identificazione sia pure speculativa tra storia e filosofia, del fare e del pensare, fino al proletariato tedesco come solo erede della filosofia classica tedesca.
Q10 §41 XI La biografia politico‑intellettuale del Croce non è raccolta tutta nel Contributo alla critica di me stesso. Per ciò che riguarda i suoi rapporti con la filosofia della praxis, molti elementi e spunti essenziali sono disseminati in tutte le opere. Nel volume Cultura e vita morale (2a ed., p. 45, ma anche in altre pagine, come quelle in cui si spiega l’origine delle sue simpatie per il Sorel) egli afferma che, nonostante le sue tendenze naturaliter democratiche (poiché il filosofo non può non essere democratico), il suo stomaco si rifiutò di digerire la democrazia, finché essa non prese qualche condimento di filosofia della praxis, la quale, «cosa notissima, è imbevuta di filosofia classica tedesca». Durante la guerra egli afferma che questa è proprio la guerra della filosofia della praxis (cfr l’intervista col Croce del De Ruggiero riportata nella «Révue de métaphysique et de morale», le Pagine di guerra, e l’introduzione del 1917 al MSEM.
Q10 §41 XII Uno dei punti che più interessa di esaminare ed approfondire è la dottrina crociana delle ideologie politiche. Non basta perciò leggere gli Elementi di politica con l’appendice, ma occorre ricercare le recensioni pubblicate nella «Critica» (tra le altre quella all’opuscolo del Malagodi sulle Ideologie politiche di cui un capitolo era dedicato al Croce; questi scritti sparsi forse saranno raccolti nel 3° e 4° volume delle Conversazioni Critiche).
Il Croce dopo aver sostenuto nel MSEM che la filosofia della praxis non era che un modo di dire e che bene aveva fatto il Lange a non parlarne nella sua storia del materialismo (sui rapporti tra il Lange e la filosofia della praxis, che furono molto oscillanti e incerti è da vedere il saggio di R. D’Ambrosio La dialettica nella natura nella «Nuova Rivista Storica», volume del 1932, pp. 223‑52) a un certo punto ha mutato idea radicalmente e ha fatto perno della sua nuova revisione proprio la definizione costruita dal prof. Stammler sul Lange e che il Croce stesso nel MSEM (IV ed., p. 118) così riferisce: «Come il materialismo filosofico non consiste nell’affermare che i fatti corporali abbiano efficacia sugli spirituali, ma nel far di questi una mera apparenza, irreale, di quelli; così la “filosofia della praxis” deve consistere nell’affermare che l’economia è la vera realtà e il diritto è l’ingannevole apparenza».
Adesso anche per il Croce le superstrutture sono mere apparenze e illusioni, ma è poi ragionata questa mutazione del Croce e specialmente corrisponde alla sua attività di filosofo? La dottrina del Croce sulle ideologie politiche è di evidentissima derivazione dalla filosofia della praxis: esse sono costruzioni pratiche, strumenti di direzione politica, cioè si potrebbe dire, le ideologie sono per i governati delle mere illusioni, un inganno subito, mentre sono per i governanti un inganno voluto e consapevole. Per la filosofia della praxis le ideologie sono tutt’altro che arbitrarie; esse sono fatti storici reali, che occorre combattere e svelare nella loro natura di strumenti di dominio non per ragioni di moralità ecc. ma proprio per ragioni di lotta politica: per rendere intellettualmente indipendenti i governati dai governanti, per distruggere un’egemonia e crearne un’altra, come momento necessario del rovesciamento della praxis. Pare che all’interpretazione materialistica volgare si avvicini più il Croce che la filosofia della praxis.
Per la filosofia della praxis le superstrutture sono una realtà (o lo diventano, quando non sono pure elucubrazioni individuali) oggettiva ed operante; essa afferma esplicitamente che gli uomini prendono conoscenza della loro posizione sociale e quindi dei loro compiti sul terreno delle ideologie, ciò che non è piccola affermazione di realtà; la stessa filosofia della praxis è una superstruttura, è il terreno in cui determinati gruppi sociali prendono coscienza del proprio essere sociale, della propria forza, dei propri compiti, del proprio divenire. In questo senso è giusta l’affermazione dello stesso Croce (MSEM, IV ed., p. 118) che la filosofia della praxis «è storia fatta o in fieri». C’è però una differenza fondamentale tra la filosofia della praxis e le altre filosofie: le altre ideologie sono creazioni inorganiche perché contraddittorie, perché dirette a conciliare interessi opposti e contraddittori; la loro «storicità» sarà breve perché la contraddizione affiora dopo ogni avvenimento di cui sono state strumento. La filosofia della praxis invece non tende a risolvere pacificamente le contraddizioni esistenti nella storia e nella società, anzi è la stessa teoria di tali contraddizioni; non è lo strumento di governo di gruppi dominanti per avere il consenso ed esercitare l’egemonia su classi subalterne; è l’espressione di queste classi subalterne che vogliono educare se stesse all’arte di governo e che hanno interesse a conoscere tutte le verità, anche le sgradevoli e ad evitare gli inganni (impossibili) della classe superiore e tanto più di se stesse. La critica delle ideologie, nella filosofia della praxis, investe il complesso delle superstrutture e afferma la loro caducità rapida in quanto tendono a nascondere la realtà, cioè la lotta e la contraddizione, anche quando sono «formalmente» dialettiche (come il crocismo) cioè spiegano una dialettica speculativa e concettuale e non vedono la dialettica nello stesso divenire storico.
Si veda un aspetto della posizione del Croce che nella prefazione del 1917 al MSEM scrive che al fondatore della filosofia della praxis «serberemo ... altresì la nostra gratitudine per aver conferito a renderci insensibili alle alcinesche seduzioni ... della Dea Giustizia e della Dea Umanità»: e perché no della Dea Libertà? Anzi la Libertà è stata dal Croce deificata ed egli è diventato il pontefice di una religione della Libertà. È da notare che il significato di ideologia non è lo stesso in Croce e nella filosofia della praxis. In Croce il significato è ristretto in modo un po’ indefinibile, sebbene per il suo concetto di «storicità» anche la filosofia acquisti il valore di una ideologia. Si può dire che per il Croce ci siano tre gradi di libertà: il liberismo economico e il liberalismo politico che non sono né la scienza economica né la scienza politica (sebbene per il liberalismo politico il Croce sia meno esplicito) ma appunto «ideologie politiche» immediate; la religione della libertà; l’idealismo. Anche la religione della libertà essendo, come ogni concezione del mondo necessariamente connessa con un’etica conforme, non dovrebbe essere scienza ma ideologia. Scienza pura sarebbe solo l’idealismo, poiché il Croce afferma che tutti i filosofi, in quanto tali, non possono non essere idealisti, nolenti o volenti.
Il concetto del valore concreto (storico) delle superstrutture nella filosofia della praxis deve essere approfondito accostandolo al soreliano concetto di «blocco storico». Se gli uomini acquistano coscienza della loro posizione sociale e dei loro compiti nel terreno delle superstrutture, ciò significa che tra struttura e superstruttura esiste un nesso necessario e vitale. Bisognerebbe studiare contro quali correnti storiografiche la filosofia della praxis ha reagito nel momento della sua fondazione e quali erano le opinioni più diffuse in quel tempo anche riguardo alle altre scienze. Le stesse immagini e metafore cui ricorrono spesso i fondatori della filosofia della praxis danno indizi in proposito: l’affermazione che l’economia è per la società ciò che l’anatomia nelle scienze biologiche; ed è da ricordare la lotta che nelle scienze naturali è avvenuta per scacciare dal terreno scientifico principi di classificazione basati su elementi esteriori e labili. Se gli animali fossero classificati dal colore della pelle, o del pelo o delle piume, tutti oggi protesterebbero. Nel corpo umano non si può certo dire che la pelle (e anche il tipo di bellezza fisica storicamente prevalente) siano mere illusioni e che lo scheletro e l’anatomia siano la sola realtà, tuttavia per molto tempo si è detto qualcosa di simile. Mettendo in valore l’anatomia e la funzione dello scheletro nessuno ha voluto affermare che l’uomo (e tanto meno la donna) possano vivere senza di essa. Continuando nella metafora si può dire che non è lo scheletro (in senso stretto) che fa innamorare di una donna, ma che tuttavia si comprende quanto lo scheletro contribuisca alla grazia dei movimenti ecc. ecc.
Un altro elemento contenuto nella prefazione del Zur Kritik è certo da connettere con la riforma della legislazione processuale e penale. È detto nella prefazione che come non si giudica un individuo da ciò che esso pensa di se stesso, così non si può giudicare una società dalle ideologie. Si può forse dire che questa affermazione è connessa con la riforma per cui nei giudizi penali le prove testimoniali e materiali hanno finito col sostituire le affermazioni dell’imputato con relativa tortura ecc.
Accennando alle così dette leggi naturali e al concetto di natura (diritto di natura, stato di natura ecc.) «che sorto nella filosofia del secolo decimosettimo, fu dominante nel decimottavo» il Croce (p. 93 del MSEM) accenna che «simile concezione è colpita in verità solo di sbieco dalla critica del Marx, il quale, analizzando il concetto di natura, mostrava com’esso fosse il complemento ideologico dello svolgimento storico della borghesia, un’arma potentissima di cui questa si valse contro i privilegi e le oppressioni, che mirava ad abbattere». L’accenno serve al Croce per l’affermazione metodica seguente: «Quel concetto potrebbe essere sorto come strumento per un fine pratico e occasionale ed essere nondimeno intrinsecamente vero. “Leggi naturali” equivale, in quel caso, a “leggi razionali”; e la razionalità e l’eccellenza di esse leggi occorre negare. Ora appunto per essere di origine metafisica, quel concetto si può rigettare radicalmente, ma non si può confutare in particolare. Esso tramonta con la metafisica di cui faceva parte; e pare ormai che sia tramontato davvero. Sia pace alla “gran bontà” delle leggi naturali». Il brano non è molto chiaro e perspicuo nel suo complesso. È da riflettere sul fatto che in generale (cioè talvolta) un concetto può sorgere come strumento per un fine pratico e occasionale ed essere nondimeno intrinsecamente vero. Ma non credo che siano molti a sostenere che mutatasi una struttura, tutti gli elementi della corrispondente soprastruttura debbano necessariamente cadere. Avviene anzi che di una ideologia sorta per guidare le masse popolari e che pertanto non può non tener conto di alcuni loro interessi, sopravvivano più elementi: lo stesso diritto di natura, se è tramontato per le classi colte, è conservato dalla religione cattolica ed è vivace nel popolo, più di quanto si creda. D’altronde nella critica del fondatore della filosofia della praxis si affermava la storicità del concetto, la sua caducità, e il suo valore intrinseco era limitato a tale storicità ma non negato.
Nota I. I fenomeni della moderna decomposizione del parlamentarismo possono offrire molti esempi sulla funzione e il valore concreto delle ideologie. Come questa decomposizione viene presentata per nascondere le tendenze reazionarie di certi gruppi sociali è del più alto interesse. Su questi argomenti sono state scritte molte sparse in vari quaderni (per es. sulla quistione della crisi del principio d’autorità ecc.) che raccolte insieme sono da rimandare a queste sul Croce.
Q10 §41 XIII In un articolo su Clemenceau pubblicato nella «Nuova Antologia» del 16 dicembre 1929 e in un altro pubblicato nell’«Italia Letteraria» il 15 dicembre (il primo firmato «Spectator», il secondo col nome e cognome), Mario Missiroli riproduce due importanti brani di lettere inviategli dal Sorel e riguardanti Clemenceau (nella Nuova Antologia i due brani sono stampati come un tutto organico; nell’«Italia Letteraria» invece come distinti e tra il primo e il secondo il Missiroli intercala un «altrove», ciò che fa meglio comprendere stilisticamente il contesto): 1) «Egli (Clemenceau) giudica la filosofia di Marx, che costituisce l’ossatura del socialismo contemporaneo, come una dottrina oscura, buona per i barbari di Germania, come sempre è apparsa alle intelligenze pronte e brillanti, abituate alle facili letture. Spiriti leggeri come il suo non riescono a capire ciò che Renan capiva così bene, che, cioè, valori storici di grande importanza possono apparire congiunti con una produzione letteraria di evidente mediocrità, quale è appunto la letteratura socialista offerta al popolo». 2) «Io credo che se Clemenceau ha fatto per lungo tempo poco conto del socialismo, meno ancora dovette farne quando vide Jaurès diventare l’idolo dei partiti socialisti. La faconda oratoria di Jaurès lo inaspriva. Nella sua “estrema leggerezza” – la definizione è di Giuseppe Reinach – giudicò che il socialismo non potesse contenere nulla di serio, dal momento che un professore di università, riconosciuto capo della nuova dottrina, non riusciva a ricavarne che vento.
Non si curava di sapere se le masse, una volta scosse dalle vacue declamazioni dei capi, non avrebbero saputo trovare nel loro seno dei direttori capaci di condurle verso delle regioni che i capi della democrazia non potevano neppure sospettare. Clemenceau non crede all’esistenza di una classe che si travaglia a formarsi la coscienza di una grande missione storica da compiere, missione che ha per iscopo il rinnovamento totale della nostra civiltà. Crede che il dovere delle democrazie sia quello di venire in soccorso dei diseredati che assicurano la produzione delle ricchezze materiali, delle quali nessuno può fare a meno. Nei momenti difficili un potere intelligente deve fare delle leggi per imporre ai ricchi dei sacrifici, destinati a salvare la solidarietà nazionale. Un’evoluzione bene ordinata, che conduca ad una vita relativamente dolce, ecco quanto il popolo reclamerebbe in nome della scienza, se avesse dei buoni consiglieri. Ai suoi occhi i socialisti sono dei cattivi pastori quando introducono, nella politica di un paese democratico, la nozione della rivoluzione. Come tutti gli uomini della sua generazione, Clemenceau ha conservato un vivo ricordo della Comune. Credo fermamente che egli non abbia ancora perdonato al popolo di Parigi la brutalità con la quale le guardie nazionali insorte lo cacciarono dal palazzo del Comune di Montmartre».
Q10 §41 XIV Le origini «nazionali» dello storicismo crociano. È da ricercare cosa significa esattamente e come è giustificata in Edgar Quinet la formula dell’equivalenza di rivoluzione‑restaurazione nella storia italiana. Secondo Daniele Mattalia (Gioberti in Carducci nella «Nuova Italia» del 20 novembre 1931) la formula del Quinet sarebbe stata adottata dal Carducci attraverso il concetto giobertiano di «classicità nazionale» (Rinnovamento, ediz. Laterza, III, 88; Primato, ed. Utet, 1, 5, 6, 7,-…). È da vedere se la formula del Quinet può essere avvicinata a quella di «rivoluzione passiva» del Cuoco; esse forse esprimono il fatto storico dell’assenza di una iniziativa popolare unitaria nello svolgimento della storia italiana e l’altro fatto che lo svolgimento si è verificato come reazione delle classi dominanti al sovversivismo sporadico, elementare, disorganico delle masse popolari con «restaurazioni» che hanno accolto una qualche parte delle esigenze dal basso, quindi «restaurazioni progressive» o «rivoluzioni‑restaurazioni» o anche «rivoluzioni passive». Si potrebbe dire che si è sempre trattato di rivoluzioni dell’«uomo del Guicciardini» (nel senso desanctisiano), in cui i dirigenti hanno sempre salvato il loro «particulare»: il Cavour avrebbe appunto «diplomatizzato» la rivoluzione dell’uomo del Guicciardini ed egli stesso si avvicinava come tipo al Guicciardini.
Lo storicismo del Croce sarebbe quindi niente altro che una forma di moderatismo politico, che pone come solo metodo d’azione politica quello in cui il progresso, lo svolgimento storico, risulta dalla dialettica di conservazione e innovazione. Nel linguaggio moderno questa concezione si chiama riformismo. Il contemperamento di conservazione e di innovazione costituisce appunto il «classicismo nazionale» del Gioberti, così come costituisce il classicismo letterario e artistico dell’ultima estetica crociana. Ma questo storicismo da moderati e da riformisti non è per nulla una teoria scientifica, il «vero» storicismo; è solo il riflesso di una tendenza pratico‑politica, una ideologia nel senso deteriore. Infatti perché la «conservazione» deve essere proprio quella data «conservazione», quel dato elemento del passato? E perché si deve essere «irrazionalisti» e «antistoricisti» se non si conserva proprio quel determinato elemento?
In realtà, se è vero che il progresso è dialettica di conservazione e innovazione e l’innovazione conserva il passato superandolo, è anche vero che il passato è cosa complessa, un complesso di vivo e di morto, in cui la scelta non può essere fatta arbitrariamente, a priori, da un individuo o da una corrente politica. Se la scelta è stata fatta in tal modo (sulla carta) non può trattarsi di storicismo ma di un atto di volontà arbitrario, del manifestarsi di una tendenza pratico‑politica, unilaterale, che non può dare fondamento a una scienza, ma solo a una ideologia politica immediata. Ciò che del passato verrà conservato nel processo dialettico non può essere determinato a priori, ma risulterà dal processo stesso, avrà un carattere di necessità storica e non di scelta arbitraria da parte dei così detti scienziati e filosofi. E intanto è da osservare che la forza innovatrice, in quanto essa stessa non è un fatto arbitrario, non può non essere già immanente nel passato, non può non essere in un certo senso essa stessa il passato, un elemento del passato, ciò che del passato è vivo e in isviluppo, è essa stessa conservazione‑innovazione, contiene in sé l’intero passato, degno di svolgersi e perpetuarsi. Per questa specie di storicisti moderati (e si intende moderati in senso politico, di classe, cioè di quelle classi che operarono nella restaurazione dopo il 1815 e il 1848) irrazionale era il giacobinismo, antistoria era uguale a giacobinismo. Ma chi potrà mai provare storicamente che i giacobini siano stati guidati solo dall’arbitrio? E non è ormai una proposizione storica banale che né Napoleone né la Restaurazione hanno distrutto i «fatti compiuti» dai giacobini? O forse l’antistoricismo dei giacobini sarà consistito in ciò che delle loro iniziative non si è «conservato» il 100%, ma solo una certa percentuale? Non pare che ciò sia plausibile da sostenersi, perché la storia non si ricostruisce con calcoli matematici e d’altronde nessuna forza innovatrice si realizza immediatamente, ma appunto è sempre razionalità e irrazionalità, arbitrio e necessità, è «vita», cioè, con tutte le debolezze e le forze della vita, con le sue contraddizioni e le sue antitesi.
Fissare bene questo rapporto dello storicismo del Croce con la tradizione moderata del Risorgimento e col pensiero reazionario della Restaurazione. Osservare come la sua concezione della «dialettica» hegeliana abbia privato questa di ogni vigore e di ogni grandezza, rendendola una quistione scolastica di parole. Il Croce ripete oggi la funzione del Gioberti e a questi si applica la critica contenuta nella Miseria della filosofia sul modo di non comprendere l’hegelismo. E tuttavia questo dello «storicismo» è uno dei punti e dei motivi permanenti in tutta l’attività intellettuale e filosofica del Croce e una delle ragioni della fortuna e dell’influsso esercitato dalla sua attività da trent’anni. In realtà il Croce si inserisce nella tradizione culturale del nuovo Stato italiano e riporta la cultura nazionale alle origini sprovincializzandola e depurandola di tutte le scorie magniloquenti e bizzarre del Risorgimento. Stabilire con esattezza il significato storico e politico dello storicismo crociano significa appunto ridurlo alla sua reale portata di ideologia politica immediata, spogliandolo della grandezza brillante che gli viene attribuita come di manifestazione di una scienza obbiettiva, di un pensiero sereno e imparziale che si colloca al di sopra di tutte le miserie e le contingenze della lotta quotidiana, di una disinteressata contemplazione dell’eterno divenire della storia umana.
Q10 §41 XV Esaminare, ancora, il principio crociano (o accettato e svolto dal Croce) del «carattere volitivo dell’affermazione teoretica» (a questo proposito cfr il capitolo «La libertà di coscienza e di scienza» nel volume Cultura e Vita morale, 2a ediz., pp. 95 sgg.).
Q10 §41 XVI È da vedere se, a suo modo, lo storicismo crociano non sia una forma, abilmente mascherata, di storia a disegno, come tutte le concezioni liberali riformistiche. Se si può affermare, genericamente, che la sintesi conserva ciò che è vitale ancora della tesi, superata dall’antitesi, non si può affermare, senza arbitrio, ciò che sarà conservato, ciò che a priori si ritiene vitale, senza cadere nell’ideologismo, senza cadere nella concezione di una storia a disegno. Che cosa il Croce ritiene che della tesi sia da conservare, perché vitale? Non essendo che raramente un politico pratico, il Croce si guarda bene da ogni enumerazione di istituti pratici e di concezioni programmatiche, da affermare «intangibili», ma tuttavia essi possono essere dedotti dall’insieme della sua opera. Ma se anche ciò non fosse fattibile, rimarrebbe sempre l’affermazione che è «vitale» e intangibile la forma liberale dello Stato, la forma cioè che garantisce a ogni forza politica di muoversi e di lottare liberamente.
Ma come può confondersi questo fatto empirico col concetto di libertà, cioè di storia? Come domandare che le forze in lotta «moderino» la lotta entro certi limiti (i limiti della conservazione dello Stato liberale) senza cadere in arbitrio e nel disegno preconcetto? Nella lotta «i colpi non si danno a patti» e ogni antitesi deve necessariamente porsi come radicale antagonista della tesi, fino a proporsi di distruggerla completamente e completamente sostituirla. Concepire lo svolgimento storico come un gioco sportivo col suo arbitro e le sue norme prestabilite da rispettare lealmente, è una forma di storia a disegno, in cui l’ideologia non si fonda sul «contenuto» politico ma sulla forma e sul metodo della lotta.
È un’ideologia che tende a snervare l’antitesi, a spezzettarla in una lunga serie di momenti, cioè a ridurre la dialettica a un processo di evoluzione riformistica «rivoluzione-restaurazione», in cui solo il secondo termine è valido, poiché si tratta di rabberciare continuamente dall’esterno un organismo che non possiede internamente la propria ragion di salute. Del resto si potrebbe dire che un simile atteggiamento riformistico è un’«astuzia della Provvidenza» per determinare una maturazione più rapida delle forze interne tenute imbrigliate dalla pratica riformistica.
Q10 §42 Appendice. La conoscenza filosofica come atto pratico, di volontà. Si può studiare questo problema specialmente nel Croce, ma in generale nei filosofi idealisti, perché essi insistono specialmente sulla vita intima dell’individuo‑uomo, sui fatti e sull’attività spirituale. Nel Croce per la grande importanza che nel suo sistema ha la teoria dell’arte, l’estetica. Nell’attività spirituale, e per chiarezza d’esempio, nella teoria dell’arte (ma anche nella scienza economica, per cui il punto di partenza per l’impostazione di questo problema può essere il saggio Le due scienze mondane: l’Estetica e l’Economica pubblicato dal Croce nella «Critica» del 20 novembre 1931) le teorie dei filosofi scoprono verità fin allora ignorate, o «inventano», «creano» schemi mentali, nessi logici che mutano la realtà spirituale fin allora esistente, storicamente concreta come cultura diffusa in un gruppo di intellettuali, in una classe, in una civiltà? È questo uno dei tanti modi di porre la quistione della così detta «realtà del mondo esterno» e della realtà senza altro. Esiste una «realtà» esterna al singolo pensatore (il punto di vista del solipsismo può essere utile didascalicamente, le robinsonate filosofiche possono essere altrettanto utili praticamente, se impiegate con discrezione e con garbo, delle robinsonate economiche) sconosciuta (cioè non ancora conosciuta, ma non perciò «inconoscibile», noumenica) in senso storico, e che viene «scoperta» (nel senso etimologico), oppure nel mondo spirituale non si «scopre» niente (cioè non si rivela nulla) ma si «inventa» e si «impone» al mondo della cultura?
Q10 §43 Introduzione allo studio della filosofia. È da vedere, a questo proposito, l’opera di Vincenzo Gioberti, intitolata appunto: Introduzione allo studio della Filosofia, seconda edizione, riveduta e corretta dall’autore, Bruxelles, dalle stampe di Meline, Caus e compagnia, 1844, 4 voll., in‑8°. Non si tratta di un lavoro tecnicamente rivolto a «introdurre» didascalicamente allo studio della filosofia, ma di un lavoro enciclopedico che si propone di «rivoluzionare» un mondo culturale, in tutta la sua complessità, trattando tutti gli argomenti che possono interessare una «cultura» nazionale, una concezione del mondo nazionale. L’opera del Gioberti sarà da studiare proprio da questo punto di vista. Dati i tempi e le circostanze storiche e data la personalità del Gioberti, l’attività filosofica dell’uomo non poteva essere rinchiusa in ischemi da intellettuale professionale: il filosofo e pensatore non poteva essere staccato dall’uomo politico e di partito. Per questo riguardo la personalità storica del Gioberti può essere avvicinata a quella del Mazzini, con le differenze determinate dai diversi fini e dalle diverse forze sociali che rappresentavano i due, che appunto determinavano i fini. Mi pare che il prototipo possa ritrovarsi nel Fichte e nei suoi Discorsi alla nazione tedesca.
Q10 §44 Introduzione allo studio della filosofia. Il linguaggio, le lingue, il senso comune. Posta la filosofia come concezione del mondo e l’operosità filosofica non concepita più solamente come elaborazione «individuale» di concetti sistematicamente coerenti ma inoltre e specialmente come lotta culturale per trasformare la «mentalità» popolare e diffondere le innovazioni filosofiche che si dimostreranno «storicamente vere» nella misura in cui diventeranno concretamente cioè storicamente e socialmente universali, la quistione del linguaggio e delle lingue «tecnicamente» deve essere posta in primo piano. Saranno da rivedere le pubblicazioni in proposito dei pragmatisti. Cfr gli Scritti di G. Vailati (Firenze, 1911), tra i quali lo studio Il linguaggio come ostacolo alla eliminazione di contrasti illusori.
Nel caso dei pragmatisti, come in generale nei confronti di qualsiasi altro tentativo di sistemazione organica della filosofia, non è detto che il riferimento sia alla totalità del sistema o al nucleo essenziale di esso. Mi pare di poter dire che la concezione del linguaggio del Vailati e di altri pragmatisti non sia accettabile: tuttavia pare che essi abbiano sentito delle esigenze reali e le abbiano «descritte» con esattezza approssimativa, anche se non sono riusciti a impostare i problemi e a darne la soluzione. Pare si possa dire che «linguaggio» è essenzialmente un nome collettivo, che non presuppone una cosa «unica» né nel tempo né nello spazio. Linguaggio significa anche cultura e filosofia (sia pure nel grado di senso comune) e pertanto il fatto «linguaggio» è in realtà una molteplicità di fatti più o meno organicamente coerenti e coordinati: al limite si può dire che ogni essere parlante ha un proprio linguaggio personale, cioè un proprio modo di pensare e di sentire. La cultura, nei suoi vari gradi, unifica una maggiore o minore quantità di individui in strati numerosi, più o meno a contatto espressivo, che si capiscono tra loro in gradi diversi ecc. Sono queste differenze e distinzioni storico‑sociali che si riflettono nel linguaggio comune e producono quegli «ostacoli» e quelle «cause di errore» di cui i pragmatisti hanno trattato.
Da questo si deduce l’importanza che ha il «momento culturale» anche nell’attività pratica (collettiva): ogni atto storico non può non essere compiuto dall’«uomo collettivo», cioè presuppone il raggiungimento di una unità «culturale‑sociale» per cui una molteplicità di voleri disgregati, con eterogeneità di fini, si saldano insieme per uno stesso fine, sulla base di una (uguale) e comune concezione del mondo (generale e particolare, transitoriamente operante – per via emozionale – o permanente, per cui la base intellettuale è così radicata, assimilata, vissuta, che può diventare passione). Poiché così avviene, appare l’importanza della quistione linguistica generale, cioè del raggiungimento collettivo di uno stesso «clima» culturale.
Questo problema può e deve essere avvicinato all’impostazione moderna della dottrina e della pratica pedagogica, secondo cui il rapporto tra maestro e scolaro è un rapporto attivo, di relazioni reciproche e pertanto ogni maestro è sempre scolaro e ogni scolaro maestro. Ma il rapporto pedagogico non può essere limitato ai rapporti specificatamente «scolastici», per i quali le nuove generazioni entrano in contatto con le anziane e ne assorbono le esperienze e i valori storicamente necessari «maturando» e sviluppando una propria personalità storicamente e culturalmente superiore. Questo rapporto esiste in tutta la società nel suo complesso e per ogni individuo rispetto ad altri individui, tra ceti intellettuali e non intellettuali, tra governanti e governati, tra élites e seguaci, tra dirigenti e diretti, tra avanguardie e corpi di esercito. Ogni rapporto di «egemonia» è necessariamente un rapporto pedagogico e si verifica non solo nell’interno di una nazione, tra le diverse forze che la compongono, ma nell’intero campo internazionale e mondiale, tra complessi di civiltà nazionali e continentali.
Perciò si può dire che la personalità storica di un filosofo individuale è data anche dal rapporto attivo tra lui e l’ambiente culturale che egli vuole modificare, ambiente che reagisce sul filosofo e, costringendolo a una continua autocritica, funziona da «maestro». Così si è avuto che una delle maggiori rivendicazioni dei moderni ceti intellettuali nel campo politico è stata quella delle così dette «libertà di pensiero e di espressione del pensiero (stampa e associazione)» perché solo dove esiste questa condizione politica si realizza il rapporto di maestro‑discepolo nei sensi più generali su ricordati e in realtà si realizza «storicamente» un nuovo tipo di filosofo che si può chiamare «filosofo democratico», cioè del filosofo convinto che la sua personalità non si limita al proprio individuo fisico, ma è un rapporto sociale attivo di modificazione dell’ambiente culturale. Quando il «pensatore» si accontenta del pensiero proprio, «soggettivamente» libero, cioè astrattamente libero, dà oggi luogo alla beffa: l’unità di scienza e vita è appunto una unità attiva, in cui solo si realizza la libertà di pensiero, è un rapporto maestro-scolaro, filosofo‑ambiente culturale in cui operare, da cui trarre i problemi necessari da impostare e risolvere, cioè è il rapporto filosofia‑storia.
Q10 §45 Punti per un saggio sul Croce. È da confrontare a proposito della Storia d’Europa il saggio di Arrigo Cajumi Dall’Ottocento ad oggi (nella «Cultura» di aprile‑giugno 1932, pp. 323‑50). Il Cajumi si occupa del Croce specificamente nel I paragrafo dei VII che compongono lo studio, ma accenni al Croce (utili) sono contenuti qua e là anche negli altri sei paragrafi che riferiscono di altre pubblicazioni recenti di carattere storico‑politico. Il punto di vista del Cajumi nelle sue critiche e osservazioni è difficile da riassumere in breve: è quello dei principali scrittori della «Cultura», i quali rappresentano un gruppo di intellettuali ben definito nella vita culturale italiana e degni di studio nell’attuale fase della vita nazionale. Si riallacciano al De Lollis, loro maestro, e quindi a certe tendenze della cultura francese più seria e criticamente sostanziosa, ma ciò significa poco, perché il De Lollis non elaborò un metodo critico fecondo di sviluppi e di universalizzazioni. In realtà si tratta di una forma di «erudizione», ma non nel senso più comune e tradizionale del termine. Una erudizione «umanistica», che sviluppa il «buon gusto» e la «ghiottoneria» raffinata; nei collaboratori della «Cultura» ricorrono spesso gli aggettivi «ghiotto», «gustoso».
Il Caiumi, fra i redattori della «Cultura» è quello meno «universitario», nel senso, non che non ci tenga alla «tenuta» universitaria dei suoi scritti e delle sue ricerche, ma nel senso che la sua attività è stata spesso impegnata in imprese «pratiche» e politiche, dal giornalismo militante ad operazioni forse anche più pratiche (come la direzione dell’«Ambrosiano» datagli dal finanziere Gualino non certo solo per «mecenatismo»). Sul Cajumi sono scritte alcune pro memoria in altri quaderni. Su Riccardo Gualino il Cajumi ha scritto una nota molto vivace e pungente nella «Cultura» di gennaio‑marzo 1932 (Confessioni di un figlio del secolo, pp. 193‑95, a proposito del libro del Gualino Frammenti di vita), insistendo appunto sul fatto che il Gualino si serviva del suo «mecenatismo» e delle imprese di cultura per meglio infinocchiare i risparmiatori italiani. Ma anche il cav. Enrico Cajumi (così il Cajumi firmava la gerenza dell’«Ambrosiano») ha raccolto qualche briciola del mecenatismo gualinesco!
Q10 §46 Introduzione allo studio della filosofia. La quistione della «oggettività esterna del reale» in quanto è connessa col concetto della «cosa in sé» e del «noumeno» kantiano. Pare difficile escludere che la «cosa in sé» sia una derivazione dell’«oggettività esterna del reale» e del così detto realismo greco‑cristiano (Aristotele ‑ S. Tomaso) e ciò si vede anche dal fatto che tutta una tendenza del materialismo volgare e del positivismo ha dato luogo alla scuola neokantiana o neo‑critica. Cfr a proposito della kantiana «cosa in sé» ciò che è scritto nella Sacra Famiglia.
Q10 §47 Punti per un saggio su B. Croce. Croce e J. Benda. Si può fare un paragone tra le idee e la posizione assunta da B. Croce e il diluvio di scritti di J. Benda sul problema degli intellettuali (oltre al libro sul Tradimento degli intellettuali del Benda bisognerebbe esaminare gli articoli pubblicati nelle «Nouvelles Littéraires» e forse in altre riviste). In realtà tra il Croce e il Benda, nonostante certe apparenze, l’accordo è solo superficiale o per qualche particolare aspetto della quistione. Nel Croce esiste una costruzione organica di pensiero, una dottrina sullo Stato, sulla religione e sulla funzione degli intellettuali nella vita statale, che non esiste nel Benda, che è più che altro un «giornalista». Bisogna anche dire che la posizione degli intellettuali in Francia e in Italia è molto diversa, organicamente e immediatamente; le preoccupazioni politico‑ideologiche del Croce non sono quelle del Benda anche per questa ragione. Ambedue sono «liberali», ma con tradizioni nazionali e culturali ben diverse.
Croce e il modernismo. È da confrontare, nell’intervista sulla massoneria (Cultura e Vita Morale, II ed.) ciò che il Croce dice del modernismo con quanto scrive A. Omodeo nella «Critica» del 20 luglio 1932 recensendo i tre volumi di Alfred Loisy (Mémoires pour servir à l’histoire religieuse): a p. 291 per es.: «Ai facili alleati acattolici di Pio X, della stessa repubblica anticlericale (e in Italia, il Croce), il Loisy rinfaccia l’ignoranza di ciò che sia il cattolicesimo assolutistico e del pericolo rappresentato da questo impero internazionale in mano al papa; rinfaccia il danno (già rilevato ai suoi tempi dal Quinet) di lasciare ridurre tanta parte dell’umanità a stupido gregge vuoto di pensiero e di vita morale e solo animato da una passiva acquiescenza. Indubbiamente in queste osservazioni v’è molta parte di verità».
Q10 §48 Introduzione allo studio della filosofia.
I. Il senso comune o buon senso. In che consiste esattamente il pregio di quello che suol chiamarsi «senso comune» o «buon senso»? Non solamente nel fatto che, sia pure implicitamente, il senso comune impiega il principio di causalità, ma nel fatto molto più ristretto, che in una serie di giudizi il senso comune identifica la causa esatta, semplice e alla mano, e non si lascia deviare da arzigogolature e astruserie metafisiche, pseudo‑profonde, pseudo‑scientifiche ecc. Il «senso comune» non poteva non essere esaltato nei secoli XVII e XVIII, quando si reagì al principio di autorità rappresentato dalla Bibbia e da Aristotele: si scoprì infatti che nel «senso comune» c’era una certa dose di «sperimentalismo» e di osservazione diretta della realtà, sia pure empirica e limitata. Anche oggi, in rapporti simili, si ha lo stesso giudizio di pregio del senso comune, sebbene la situazione sia mutata e il «senso comune» odierno abbia molta più limitatezza nel suo pregio intrinseco.
II. Progresso e divenire. Si tratta di due cose diverse o di aspetti diversi di uno stesso concetto? Il progresso è una ideologia, il divenire è una concezione filosofica. Il «progresso» dipende da una determinata mentalità, a costituire la quale entrano certi elementi culturali storicamente determinati; il «divenire» è un concetto filosofico, da cui può essere assente il «progresso». Nell’idea di progresso è sottintesa la possibilità di una misurazione quantitativa e qualitativa: più e meglio. Si suppone quindi una misura «fissa» o fissabile, ma questa misura è data dal passato, da una certa fase del passato, o da certi aspetti misurabili ecc. (Non che si pensi a un sistema metrico del progresso). Come è nata l’idea del progresso? Rappresenta questa nascita un fatto culturale fondamentale, tale da fare epoca? Pare di sì.
La nascita e lo sviluppo dell’idea del progresso corrisponde alla coscienza diffusa che è stato raggiunto un certo rapporto tra la società e la natura (incluso nel concetto di natura quello di caso e di «irrazionalità») tale per cui gli uomini, nel loro complesso, sono più sicuri del loro avvenire, possono concepire «razionalmente» dei piani complessivi della loro vita. Per combattere l’idea di progresso il Leopardi deve ricorrere alle eruzioni vulcaniche, cioè a quei fenomeni naturali che sono ancora «irresistibili» e senza rimedio. Ma nel passato c’erano ben più numerose forze irresistibili: carestie, epidemie, ecc. che entro certi limiti sono state dominate. Che il progresso sia stata una ideologia democratica è indubbio; che abbia servito politicamente alla formazione dei moderni Stati costituzionali ecc. pure. Che oggi non sia più in auge, anche; ma in che senso? Non in quello che si sia perduto la fede nella possibilità di dominare razionalmente la natura e il caso, ma in senso «democratico»; cioè che i «portatori» ufficiali del progresso sono divenuti incapaci di questo dominio, perché hanno suscitato forze distruttive attuali altrettanto pericolose e angosciose di quelle del passato (ormai dimenticate «socialmente» se non da tutti gli elementi sociali, perché i contadini continuano a non comprendere il «progresso», cioè credono di essere, e sono ancora troppo in balia delle forze naturali e del caso, conservano quindi una mentalità «magica», medioevale, «religiosa») come le «crisi», la disoccupazione ecc. La crisi dell’idea di progresso non è quindi crisi dell’idea stessa, ma crisi dei portatori di essa idea, che sono diventati «natura» da dominare essi stessi. Gli assalti all’idea di progresso, in questa situazione, sono molto interessati e tendenziosi.
Può disgiungersi l’idea di progresso da quella di divenire? Non pare. Esse sono nate insieme, come politica (in Francia), come filosofia (in Germania, poi sviluppata in Italia). Nel «divenire» si è cercato di salvare ciò che di più concreto è nel «progresso», il movimento e anzi il movimento dialettico (quindi anche un approfondimento, perché il progresso è legato alla concezione volgare dell’evoluzione).
Da un articoluccio di Aldo Capasso nell’«Italia Letteraria» del 4 dicembre 1932 riporto alcuni brani che presentano i dubbi volgari su questi problemi: «Anche da noi è comune l’irrisione verso l’ottimismo umanitario e democratico di stile ottocentesco, e Leopardi non è un solitario quando parla delle “sorti progressive” con ironia; ma s’è escogitato quell’astuto travestimento del “Progresso” ch’è l’idealistico “Divenire”: idea che resterà nella storia, crediamo, più ancora come italiana che come tedesca. Ma che senso può avere un Divenire che si prosegue ad infinitum, un miglioramento che non sarà mai paragonabile ad un bene fisico? Mancando il criterio di un ultimo gradino stabile, manca, del “miglioramento”, l’unità di misura. E inoltre non si può arrivare nemmeno a pascersi della fiducia di essere, noi uomini reali e viventi, migliori, che so io, dei Romani o dei primi Cristiani, perché il “miglioramento” andando inteso in un senso tutto ideale, è perfettamente ammissibile che noi oggi siamo tutti “decadenti” mentre, allora, fossero quasi tutti uomini pieni o magari santi. Sicché, dal punto di vista etico, l’idea d’ascesa ad infinitum implicita nel concetto di Divenire resta alquanto ingiustificabile, dato che il “melioramento” etico è fatto individuale e che nel piano individuale è proprio possibile concludere, procedendo caso per caso, che tutta l’epoca ultima è deteriore... E allora il concetto del Divenire ottimistico si fa inafferrabile tanto sul piano ideale quanto nel piano reale (...). È noto come il Croce negasse il valore raziocinativo del Leopardi, asserendo che pessimismo e ottimismo sono atteggiamenti sentimentali, non filosofici. Ma il pessimista (...) potrebbe osservare che, per l’appunto, la concezione del Divenire idealistica, è un fatto d’ottimismo e di sentimento: perché il pessimista e l’ottimista (se non animati di fede nel Trascendente) concepiscono allo stesso modo la Storia: come lo scorrere di un fiume senza foce; e poi collocare l’accento sulla parola «fiume» o sulle parole «senza foce», secondo il loro stato sentimentale. Dicono gli uni: non c’è foce, ma, come in un fiume armonioso, c’è la continuità delle onde e la sopravvivenza, sviluppata, nell’oggi, dello ieri... E gli altri: c’è la continuità di un fiume, ma non c’è la foce... Insomma, non dimentichiamo che l’ottimismo è sentimento, non meno del pessimismo. Resta che ogni “filosofia” non può fare a meno di atteggiarsi sentimentalmente, come pessimismo o come ottimismo» ecc. ecc.
Non c’è molta coerenza nel pensiero del Capasso, ma il suo modo di pensare è espressivo di uno stato d’animo diffuso, molto snobistico e incerto, molto sconnesso e superficiale e talvolta anche senza molta onestà e lealtà intellettuale e senza la necessaria logicità formale.
La quistione è sempre la stessa: cos’è l’uomo? cos’è la natura umana? Se si definisce l’uomo come individuo, psicologicamente e speculativamente, questi problemi del progresso e del divenire sono insolubili o rimangono di mera parola. Ma se si concepisce l’uomo come l’insieme dei rapporti sociali, intanto appare che ogni paragone tra uomini nel tempo è impossibile, perché si tratta di cose diverse, se non eterogenee. D’altronde, poiché l’uomo è anche l’insieme delle sue condizioni di vita, si può misurare quantitativamente la differenza tra il passato e il presente, poiché si può misurare la misura in cui l’uomo domina la natura e il caso. La possibilità non è la realtà, ma è anch’essa una real‑tà: che l’uomo possa fare una cosa o non possa farla, ha la sua importanza per valutare ciò che realmente si fa. Possibilità vuol dire «libertà». La misura delle libertà entra nel concetto d’uomo. Che ci siano le possibilità obbiettive di non morire di fame, e che si muoia di fame ha la sua importanza, a quanto pare. Ma l’esistenza delle condizioni obbiettive, o possibilità o libertà non è ancora sufficiente: occorre «conoscerle» e sapersene servire. Volersene servire.
L’uomo, in questo senso, è volontà concreta, cioè applicazione effettuale dell’astratto volere o impulso vitale ai mezzi concreti che tale volontà realizzano. Si crea la propria personalità: 1) dando un indirizzo determinato e concreto («razionale») al proprio impulso vitale o volontà; 2) identificando i mezzi che rendono tale volontà concreta e determinata e non arbitraria; 3) contribuendo a modificare l’insieme delle condizioni concrete che realizzano questa volontà nella misura dei propri limiti di potenza e nella forma più fruttuosa.
L’uomo è da concepire come un blocco storico di elementi puramente individuali e soggettivi e di elementi di massa e oggettivi o materiali coi quali l’individuo è in rapporto attivo. Trasformare il mondo esterno, i rapporti generali, significa potenziare se stesso, sviluppare se stesso. Che il «miglioramento» etico sia puramente individuale è illusione ed errore: la sintesi degli elementi costitutivi dell’individualità è «individuale», ma essa non si realizza e sviluppa senza un’attività verso l’esterno, modificatrice dei rapporti esterni, da quelli verso la natura a quelli verso gli altri uomini in vari gradi, nelle diverse cerchie sociali in cui si vive, fino al rapporto massimo, che abbraccia tutto il genere umano. Perciò si può dire che l’uomo è essenzialmente «politico», poiché l’attività per trasformare e dirigere coscientemente gli altri uomini realizza la sua «umanità», la sua «natura umana».
Q10 §49 Punti per un saggio sul Croce. Dall’«Italia Letteraria» del 20 marzo 1932 riporto alcuni brani dell’articolo di Roberto Forges Davanzati sulla Storia d’Europa del Croce, pubblicato nella «Tribuna» del 10 marzo (La storia come azione e la storia come dispetto): «Croce è senza dubbio un uomo tipico, ma tipico appunto di quella mostruosità culturale, raziocinante, enciclopedica che ha accompagnato il liberalismo politico ed è in bancarotta, perché è l’antitesi della Poesia, della Fede, dell’Azione credente, e cioè della vita militante. Croce è statico, retrospettivo, analitico, anche quando sembra ricercare una sintesi. Il suo odio puerile per la gioventù guerriera, sportiva è anche l’odio fisico di un cervello che non sa uscire a contatto con l’infinito, con l’eterno, che il mondo ci mostra quando si viva nel mondo, e quando si abbia la ventura di vivere nella parte del mondo che si chiama Italia, ove il divino più manifestamente si rivela. Nessuna sorpresa pertanto se questo cervello passato dalla erudizione alla filosofia abbia mancato di spirito creatore e nella sua intelligenza dialettica non abbia brillato alcuna luce di fresca, ingenua o profonda intuizione; passato dalla filosofia alla critica letteraria abbia confessato di non aver quel tanto di propria poesia che è necessaria per intendere la Poesia; e finalmente entrato nella storia politica abbia mostrato e mostri di non capire la storia del tempo suo, e si ponga fuori e contro la Fede, ... massimamente contro la Fede rivelata e custodita da quella Chiesa che in Roma ha il suo centro millenario. Nessuna sorpresa se questo cervello è oggi condannato ad essere sequestrato fuori dell’Arte, della Patria vivente, della Fede cattolica, dello spirito e del governo degli uomini del suo tempo, e sia incapace di portare a conclusioni credute e animose la grave mora delle sue cognizioni, cui si può attingere senza credere e senza seguire».
Il Forges Davanzati è davvero un tipo, e un tipo da farsa intellettuale. Si potrebbe così delineare il suo carattere: egli è il «superuomo» rappresentato da un romanziere o drammaturgo minchione ed è nello stesso tempo questo romanziere o drammaturgo. La vita come opera d’arte, ma opera d’arte d’un minchione. È noto che molti giovanotti vogliono rappresentare il genio, ma per rappresentare il genio occorre essere genio e infatti la maggior parte di questi genii rappresentati sono dei solennissimi imbecilli: il Forges Davanzati rappresenta se stesso ecc.
Q10 §50 Introduzione allo studio della filosofia. I. È da vedere il
libretto di Paul Nizan Les chiens de garde, Paris, Rieder, 1932;
polemica contro la filosofia moderna, pare in sostegno della filosofia
della prassi. Su questo volumetto cfr due articolucci in «Critica
Fascista» del 1° febbraio 1933, di Giorgio Granata e Agostino Nasti.
Poiché il Granata aveva scritto che la filosofia della prassi «è
derivata proprio essa dai sistemi idealistici e si rivela astratta
quant’altra mai», il Nasti ci tiene a far sapere che: «Se con le parole
“sistemi idealistici” il Granata intende alludere a quella che si chiama
filosofia idealistica, da Hegel a Gentile, egli ripete un’affermazione
che si fa da alcuni, in questi tempi, con l’ingenuo scopo di gettare il
discredito su quella filosofia» ecc.; «Che Marx, lui, abbia creduto di
prendere le mosse da Hegel, può anche darsi; ma che noi gli si debba
riconoscere, oltre all’aver adottato come strumento utile o conveniente
alle sue concezioni il meccanismo (!) logico, puramente formale (!),
della dialettica di essere ‑ non essere ‑ divenire (!?), anche una
filiazione o collegazione sostanziale con la filosofia idealistica,
questo ci parrebbe uno sproposito assolutamente gratuito».
II. Quantità è qualità. Poiché non può esistere quantità senza qualità e qualità senza quantità (economia senza cultura, attività pratica senza intelligenza e viceversa) ogni contrapposizione dei due termini è un non senso razionalmente. E infatti, quando si contrappone la qualità alla quantità con tutte le variazioni melense alla Guglielmo Ferrero e Co., in realtà si contrappone una certa qualità ad altra qualità, una certa quantità ad altra quantità, cioè si fa una certa politica e non si fa un’affermazione filosofica. Se il nesso quantità‑qualità è inscindibile si pone la quistione: ove sia più utile applicare la propria forza di volere: a sviluppare la quantità o la qualità? quale dei due aspetti è più controllabile? quale più facilmente misurabile? su quale si possono fare previsioni, costruire piani di lavoro? La risposta non pare dubbia: sull’aspetto quantitativo. Affermare pertanto che si vuole lavorare sulla quantità, che si vuole sviluppare l’aspetto «corposo» del reale non significa che si voglia trascurare la «qualità», ma significa invece che si vuole porre il problema qualitativo nel modo più concreto e realistico, cioè si vuole sviluppare la qualità nel solo modo in cui tale sviluppo è controllabile e misurabile.
La quistione è connessa all’altra espressa nel proverbio: «Primum vivere, deinde philosophari». In realtà non è possibile staccare il vivere dal filosofare; tuttavia il proverbio ha un significato pratico: vivere significa occuparsi specialmente dell’attività pratica economica, filosofare occuparsi di attività intellettuali, di otium litteratum. Tuttavia c’è chi «vive» solamente, chi è costretto a un lavoro servile, estenuante ecc., senza di cui alcuni non potrebbero avere la possibilità di essere esonerati dall’attività economica per filosofare.
Sostenere la «qualità» contro la quantità significa proprio solo questo: mantenere intatte determinate condizioni di vita sociale in cui alcuni sono pura quantità, altri qualità. E come è piacevole ritenersi rappresentanti patentati della qualità, della bellezza, del pensiero ecc. Non c’è signora del bel mondo che non creda di adempiere a tale funzione di conservare sulla terra la qualità e la bellezza!
Q10 §51 Punti per un saggio sul Croce. Sul concetto di «libertà». Dimostrare che eccettuati i «cattolici», tutte le altre correnti filosofiche e pratiche si svolgono sul terreno della filosofia della libertà e dell’attuazione della libertà. Questa dimostrazione è necessaria, perché è vero che si è formata una mentalità sportiva che ha fatto della libertà un pallone con cui giocare al football. Ogni «villan che parteggiando viene» immagina se stesso dittatore e il mestiere del dittatore sembra facile: dare ordini imperiosi, firmare carte ecc. poiché si immagina che «per grazia di dio» tutti ubbidiranno e gli ordini verbali e scritti diverranno azione: il verbo si farà carne. Se non si farà, vuol dire che occorrerà attendere ancora finché la «grazia» (ossia le cosiddette «condizioni obbiettive») lo renderanno possibile.
Q10 §52 Introduzione allo studio della filosofia. Posto il principio che tutti gli uomini sono «filosofi», che cioè tra i filosofi professionali o «tecnici» e gli altri uomini non c’è differenza «qualitativa» ma solo «quantitativa» (e in questo caso «quantità» ha un significato suo particolare, che non può essere confuso con somma aritmetica, poiché indica maggiore o minore «omogeneità», «coerenza», «logicità» ecc., cioè quantità di elementi qualitativi), è tuttavia da vedere in che consista propriamente la differenza. Così non sarà esatto chiamare «filosofia» ogni tendenza di pensiero, ogni orientamento generale ecc. e neppure ogni «concezione del mondo e della vita». Il filosofo si potrà chiamare «un operaio qualificato» in confronto ai manovali, ma neanche questo è esatto, perché nell’industria, oltre al manovale e all’operaio qualificato c’è l’ingegnere, il quale non solo conosce il mestiere praticamente, ma lo conosce teoricamente e storicamente.
Il filosofo professionale o tecnico non solo «pensa» con maggior rigore logico, con maggiore coerenza, con maggiore spirito di sistema degli altri uomini, ma conosce tutta la storia del pensiero, cioè sa rendersi ragione dello sviluppo che il pensiero ha avuto fino a lui ed è in grado di riprendere i problemi dal punto in cui essi si trovano dopo aver subito il massimo di tentativo di soluzione ecc. Hanno nel campo del pensiero la stessa funzione che nei diversi campi scientifici hanno gli specialisti. Tuttavia c’è una differenza tra il filosofo specialista e gli altri specialisti: che il filosofo specialista si avvicina più agli altri uomini di ciò che avvenga per gli altri specialisti. L’avere fatto del filosofo specialista una figura simile, nella scienza, agli altri specialisti, è appunto ciò che ha determinato la caricatura del filosofo. Infatti si può immaginare un entomologo specialista, senza che tutti gli altri uomini siano «entomologhi» empirici, uno specialista della trigonometria, senza che la maggior parte degli altri uomini si occupino di trigonometria ecc. (si possono trovare scienze raffinatissime, specializzatissime, necessarie, ma non perciò «comuni»), ma non si può pensare nessun uomo che non sia anche filosofo, che non pensi, appunto perché il pensare è proprio dell’uomo come tale (a meno che non sia patologicamente idiota).
Q10 §53 Punti di meditazione sull’economia. Distribuzione delle forze umane di lavoro e di consumo. Si può osservare come vadano sempre più crescendo le forze di consumo in confronto a quelle di produzione. La popolazione economicamente passiva e parassitaria. Ma il concetto di «parassitario» deve essere ben precisato. Può avvenire che una funzione parassitaria intrinsecamente si dimostri necessaria date le condizioni esistenti: ciò rende ancor più grave tale parassitismo. Appunto quando un parassitismo è «necessario», il sistema che crea tali necessità è condannato in se stesso. Ma non solo i puri consumatori aumentano di numero, aumenta anche il loro tenore di vita, cioè aumenta la quota di beni che da essi è consumata (o distrutta). Se si osserva bene si deve giungere alla conclusione che l’ideale di ogni elemento della classe dirigente è quello di creare le condizioni in cui i suoi eredi possano vivere senza lavorare, di rendita: come è possibile che una società sia sana quando si lavora per essere in grado di non lavorare più? Poiché questo ideale è impossibile e malsano, significa che tutto l’organismo è viziato e malato. Una società che dice di lavorare per creare dei parassiti, per vivere sul così detto lavoro passato (che è metafora per indicare il presente lavoro degli altri) in realtà distrugge se stessa.
Q10 §54 Introduzione allo studio della filosofia. Che cosa è l’uomo? È questa la domanda prima e principale della filosofia. Come si può rispondere. La definizione si può trovare nell’uomo stesso; e cioè in ogni singolo uomo. Ma è giusta? In ogni singolo uomo si può trovare che cosa è ogni «singolo uomo». Ma a noi non interessa che cosa è ogni singolo uomo, che poi significa che cosa è ogni singolo uomo in ogni singolo momento. Se ci pensiamo, vediamo che ponendoci la domanda che cosa è l’uomo vogliamo dire: che cosa l’uomo può diventare, se cioè l’uomo può dominare il proprio destino, può «farsi», può crearsi una vita. Diciamo dunque che l’uomo è un processo e precisamente è il processo dei suoi atti.
Se ci pensiamo, la stessa domanda: cosa è l’uomo? non è una domanda astratta, o «obbiettiva». Essa è nata da ciò che abbiamo riflettuto su noi stessi e sugli altri e vogliamo sapere, in rapporto a ciò che abbiamo riflettuto e visto, cosa siamo e cosa possiamo diventare, se realmente ed entro quali limiti, siamo «fabbri di noi stessi», della nostra vita, del nostro destino. E ciò vogliamo saperlo «oggi», nelle condizioni date oggi, della vita «odierna» e non di una qualsiasi vita e di un qualsiasi uomo. La domanda è nata, riceve il suo contenuto da speciali, cioè determinati modi di considerare la vita e l’uomo: il più importante di questi modi è la «religione» ed una determinata religione, il cattolicismo. In realtà, domandandoci: «cos’è l’uomo», quale importanza ha la sua volontà e la sua concreta attività nel creare se stesso e la vita che vive, vogliamo dire: «è il cattolicismo una concezione esatta dell’uomo e della vita? essendo cattolici, cioè facendo del cattolicismo una norma di vita, sbagliamo o siamo nel vero?» Tutti hanno la vaga intuizione che facendo del cattolicismo una norma di vita sbagliano, tanto vero che nessuno si attiene al cattolicismo come norma di vita, pur dichiarandosi cattolico. Un cattolico integrale, che cioè applicasse in ogni atto della vita le norme cattoliche, sembrerebbe un mostro, ciò che è, a pensarci, la critica più rigorosa del cattolicismo stesso e la più perentoria. I cattolici diranno che nessuna altra concezione è seguita puntualmente, ed hanno ragione, ma ciò dimostra solo che non esiste di fatto, storicamente, un modo di concepire ed operare uguale per tutti gli uomini e niente altro; non ha nessuna ragione favorevole al cattolicismo, sebbene questo modo di pensare ed operare da secoli sia organizzato a questo scopo, ciò che ancora non è avvenuto per nessun’altra religione con gli stessi mezzi, con lo stesso spirito di sistema, con la stessa continuità e centralizzazione.
Dal punto di vista «filosofico» ciò che non soddisfa nel cattolicismo è il fatto che esso, nonostante tutto, pone la causa del male nell’uomo stesso individuo, cioè concepisce l’uomo come individuo ben definito e limitato. Tutte le filosofie finora esistite può dirsi che riproducono questa posizione del cattolicismo, cioè concepiscono l’uomo come individuo limitato alla sua individualità e lo spirito come tale individualità. È su questo punto che occorre riformare il concetto dell’uomo.
Cioè occorre concepire l’uomo come una serie di rapporti attivi (un processo) in cui se l’individualità ha la massima importanza, non è però il solo elemento da considerare. L’umanità che si riflette in ogni individualità è composta di diversi elementi: 1) l’individuo; 2) gli altri uomini; 3) la natura. Ma il 2° e il 3° elemento non sono così semplici come potrebbe apparire. L’individuo non entra in rapporti con gli altri uomini per giustapposizione, ma organicamente, cioè in quanto entra a far parte di organismi dai più semplici ai più complessi. Così l’uomo non entra in rapporto con la natura semplicemente, per il fatto di essere egli stesso natura, ma attivamente, per mezzo del lavoro e della tecnica. Ancora. Questi rapporti non sono meccanici. Sono attivi e coscienti, cioè corrispondono a un grado maggiore o minore d’intelligenza che di essi ha il singolo uomo. Perciò si può dire che ognuno cambia se stesso, si modifica, nella misura in cui cambia e modifica tutto il complesso di rapporti di cui egli è il centro di annodamento. In questo senso il filosofo reale è e non può non essere altri che il politico, cioè l’uomo attivo che modifica l’ambiente, inteso per ambiente l’insieme dei rapporti di cui ogni singolo entra a far parte.
Se la propria individualità è l’insieme di questi rapporti, farsi una personalità significa acquistare coscienza di tali rapporti, modificare la propria personalità significa modificare l’insieme di questi rapporti. Ma questi rapporti, come si è detto, non sono semplici. Intanto, alcuni di essi sono necessari, altri volontari. Inoltre averne coscienza più o meno profonda (cioè conoscere più o meno il modo con cui si possono modificare) già li modifica. Gli stessi rapporti necessari in quanto sono conosciuti nella loro necessità, cambiano d’aspetto e d’importanza. La conoscenza è potere, in questo senso. Ma il problema è complesso anche per un altro aspetto: che non basta conoscere l’insieme dei rapporti in quanto esistono in un momento dato come un dato sistema, ma importa conoscerli geneticamente, nel loro moto di formazione, poiché ogni individuo non solo è la sintesi dei rapporti esistenti ma anche della storia di questi rapporti, cioè è il riassunto di tutto il passato. Si dirà che ciò che ogni singolo può cambiare è ben poco, in rapporto alle sue forze. Ciò che è vero fino a un certo punto. Poiché il singolo può associarsi con tutti quelli che vogliono lo stesso cambiamento e, se questo cambiamento è razionale, il singolo può moltiplicarsi per un numero imponente di volte e ottenere un cambiamento ben più radicale di quello che a prima vista può sembrare possibile.
Società alle quali un singolo può partecipare: sono molto numerose, più di quanto può sembrare. È attraverso queste «società» che il singolo fa parte del genere umano. Così sono molteplici i modi con cui il singolo entra in rapporto colla natura, poiché per tecnica, deve intendersi non solo quell’insieme di nozioni scientifiche applicate industrialmente che di solito s’intende, ma anche gli strumenti «mentali», la conoscenza filosofica.
Che l’uomo non possa concepirsi altro che vivente in società è luogo comune, tuttavia non se ne traggono tutte le conseguenze necessarie anche individuali: che una determinata società umana presupponga una determinata società delle cose e che la società umana sia possibile solo in quanto esiste una determinata società delle cose è anche luogo comune. È vero che finora a questi organismi oltre individuali è stato dato un significato meccanicistico e deterministico (sia la societas hominum che la societas rerum): quindi la reazione. Bisogna elaborare una dottrina in cui tutti questi rapporti sono attivi e in movimento, fissando ben chiaro che sede di questa attività è la coscienza dell’uomo singolo che conosce, vuole, ammira, crea, in quanto già conosce, vuole, ammira, crea ecc. e si concepisce non isolato ma ricco di possibilità offertegli dagli altri uomini e dalla società delle cose, di cui non può non avere una certa conoscenza. (Come ogni uomo è filosofo, ogni uomo è scienziato ecc.).
Q10 §55 Punti di meditazione sull’economia. Le idee di Agnelli. (Cfr Riforma Sociale, gennaio‑febbraio 1933). Alcune osservazioni preliminari sul modo di porre il problema tanto da parte di Agnelli che di Einaudi: 1) Intanto il progresso tecnico non avviene «evolutivamente», un tanto per volta, per cui si possano fare delle previsioni oltre certi limiti: il progresso avviene per spinte determinate, in certi campi. Se fosse così come ragiona specialmente Einaudi, si giungerebbe all’ipotesi del paese di Cuccagna, in cui le merci si ottengono senza lavoro alcuno. 2) La quistione poi più importante è quella della produzione di alimenti: non si pensa che «finora», data la molteplicità di livelli di lavoro tecnicamente più o meno progrediti, il salario è stato «elastico» solo perché è stata permessa, entro certi limiti, una ridistribuzione degli alimenti e specialmente di alcuni di essi (di quelli che danno il tono alla vita) (con gli alimenti occorre porre l’abbigliamento e l’abitazione). Ora, nella produzione degli alimenti i limiti alla produttività del lavoro sono più segnati che nella produzione dei beni manufatti (e si intende «quantità globale» degli alimenti, non loro modificazioni merceologiche, che non ne aumentano la quantità). Le possibilità di «ozio» (nel senso dell’Einaudi) oltre certi limiti, sono date dalla possibilità della moltiplicazione degli alimenti come quantità, e non dalla produttività del lavoro e la «superficie della terra» con il regime delle stagioni ecc. pongono limiti ferrei quantunque sia da ammettere che prima di raggiungere tali limiti ci sia ancora molto viaggio.
Le polemiche tipo Agnelli‑Einaudi fanno pensare al fenomeno psicologico che durante la fame si pensa di più all’abbondanza di cibo: sono ironiche, per dire il meno. Intanto la discussione è sbagliata psicologicamente, perché tende a far credere che l’attuale disoccupazione sia «tecnica», mentre ciò è falso. La disoccupazione «tecnica» è poca cosa in confronto della disoccupazione generale. Inoltre. Il ragionamento è fatto come se la società fosse costituita di «lavoratori» e di «industriali» (datori di lavoro in senso stretto, tecnico), ciò che è falso e porta a ragionamenti illusori. Se così fosse, dato che l’industriale ha bisogni limitati, la quistione sarebbe semplice realmente: la quistione di ricompensare l’industriale con plus salari o premi di capacità sarebbe cosa da nulla e che nessun uomo sensato rifiuterebbe di prendere in considerazione: il fanatismo dell’eguaglianza non nasce dai «premi» che vengono dati agli industriali valenti. Il fatto è questo: che, date le condizioni generali, il maggior profitto creato dai progressi tecnici del lavoro, crea nuovi parassiti, cioè gente che consuma senza produrre, che non «scambia» lavoro con lavoro, ma lavoro altrui con «ozio» proprio (e ozio nel senso deteriore). Dato il rapporto prima notato sul progresso tecnico nella produzione degli alimenti, avviene una selezione dei consumatori di alimenti, in cui i «parassiti» entrano nel conto prima dei lavoratori effettivi e specialmente prima dei lavoratori potenziali (cioè attualmente disoccupati). È da questa situazione che nasce il «fanatismo dell’eguaglianza» e rimarrà «fanatismo» cioè tendenza estrema e irrazionale, finché tale situazione durerà. Si vede che esso scompare già dove si vede che per lo meno si lavora a far scomparire o attenuare tale situazione generale.
Il fatto che la «società industriale» non è costituita solo di «lavoratori» e di «imprenditori», ma di «azionisti» vaganti (speculatori) turba tutto il ragionamento di Agnelli: avviene che se il progresso tecnico permette un più ampio margine di profitto, questo non sarà distribuito razionalmente ma «sempre» irrazionalmente agli azionisti e affini. Né oggi si può dire che esistano «imprese sane». Tutte le imprese sono divenute malsane, e ciò non si dice per prevenzione moralistica o polemica, ma oggettivamente. È la stessa «grandezza» del mercato azionario che ha creato la malsania: la massa dei portatori di azioni è così grande che essa ormai ubbidisce alle leggi di «folla» (panico, ecc. che ha i suoi termini tecnici speciali nel «boom», nel «run» ecc.) e la speculazione è diventata una necessità tecnica, più importante del lavoro degli ingegneri e degli operai.
L’osservazione sulla crisi americana del 1929 appunto questo ha messo in luce: l’esistenza di fenomeni irrefrenabili di speculazione, da cui sono travolte anche le aziende «sane» per cui si può dire che «aziende sane» non ne esistono più: si può pertanto usare la parola «sana» accompagnandola da un riferimento storico: «nel senso di una volta», cioè quando esistevano certe condizioni generali che permettevano certi fenomeni generali non solo in senso relativo, ma anche in senso assoluto. (Su molte di questo paragrafo è da vedere il libro di Sir Artur Salter: Ricostruzione: come finirà la crisi, Milano, Bompiani, 1932, pp. 398, L. 12).
Q10 §56 Punti per un saggio su B. Croce. Passione e politica. Che il Croce abbia identificato la politica con la passione può spiegarsi col fatto che egli si è avvicinato seriamente alla politica, interessandosi all’azione politica delle classi subalterne, che «essendo costrette», «sulla difensiva», trovandosi in caso di forza maggiore, cercando di liberarsi da un male presente (sia pure presunto ecc.) o come altrimenti si vuol dire, realmente confondono politica con passione (anche nel senso etimologico). Ma la scienza politica non solo (secondo il Croce) deve spiegare una parte, l’azione di una parte, ma anche l’altra parte, l’azione dell’altra parte. Ciò che si deve spiegare è l’iniziativa politica, sia essa «difensiva», quindi «appassionata», ma anche «offensiva» cioè non diretta ad evitare un male presente (sia pure presunto, poiché anche il male presunto fa soffrire e in quanto fa soffrire è un male reale). Se si esamina bene questo concetto crociano di «passione» escogitato per giustificare teoricamente la politica, si vede che esso a sua volta non può essere giustificato che dal concetto di lotta permanente, per cui l’«iniziativa» è sempre «appassionata» perché la lotta è incerta e si attacca continuamente per evitare di essere sconfitto non solo, ma per tenere in soggezione l’avversario che «potrebbe vincere» se non fosse continuamente persuaso di essere il più debole, cioè continuamente sconfitto. Insomma non può esserci «passione» senza antagonismo ed antagonismo tra gruppi d’uomini, perché nella lotta tra l’uomo e la natura la passione si chiama «scienza» e non «politica». Si può dire pertanto che nel Croce il termine di «passione» è uno pseudonimo per lotta sociale.
Q10 §57 Punti di meditazione sull’economia. Impostare il problema se può esistere una scienza economica e in che senso. Può darsi che la scienza economica sia una scienza sui generis, anzi unica nel suo genere. Si può vedere in quanti sensi è impiegata la parola scienza, dalle varie correnti filosofiche, e se qualcuno di questi sensi si possa applicare alle ricerche economiche. A me pare che la scienza economica stia a sé, cioè sia una scienza unica, poiché non si può negare che sia scienza e non solo nel senso «metodologico», cioè non solo nel senso che i suoi procedimenti sono scientifici e rigorosi. Mi pare anche che non possa avvicinarsi l’economia alla matematica, sebbene tra le varie scienze la matematica forse si avvicini più di tutte all’economia. In ogni modo l’economia non può essere ritenuta una scienza naturale (qualunque sia il modo di concepire la natura o il mondo esterno, soggettivistico od oggettivistico) né una scienza «storica» nel senso comune della parola, ecc.
Uno dei pregiudizi contro i quali bisogna forse ancora lottare è che per essere «scienza» una ricerca debba aggrupparsi con altre ricerche in un tipo e che tale «tipo» sia la «scienza». Può invece avvenire che l’aggruppamento sia impossibile non solo, ma che una ricerca sia «scienza» in un certo periodo storico e non in un altro: infatti altro pregiudizio è che se una ricerca è «scienza» avrebbe potuto esserlo sempre e sempre lo sarà. (Non lo fu perché mancarono gli «scienziati», non la materia della scienza). Per l’economia appunto questi elementi critici sono da esaminare: c’è stato un periodo in cui non poteva esserci «scienza» non solo perché mancavano gli scienziati, ma perché mancavano certe premesse che creavano quella certa «regolarità» o quel certo «automatismo», il cui studio dà origine appunto alla ricerca scientifica. Ma la regolarità o l’automatismo possono essere di tipi diversi nei diversi tempi e ciò creerà diversi tipi di «scienze». Non è da credere che essendo sempre esistita una «vita economica» debba sempre essere esistita la possibilità di una «scienza economica», così come essendo sempre esistito un movimento degli astri è sempre esistita la «possibilità» di un’astronomia, anche se gli astronomi si chiamavano astrologi ecc. Nell’economia l’elemento «perturbatore» è la volontà umana, volontà collettiva, diversamente atteggiata a seconda delle condizioni generali in cui gli uomini vivevano, cioè diversamente «cospirante» o organizzata.
Q10 §58 Punti per un saggio su B. Croce. Passione e politica. Può nascere passione dalla preoccupazione del prezzo che può assumere la sugna di porco? Una vecchia signora che ha venti servitori può sentir passione dal pensiero di doverli ridurre a diciannove? Passione può essere un sinonimo di economia, nel senso non di produzione economica o di ricerca dell’ofelimità, ma nel senso di continuo studio perché un determinato rapporto non muti sfavorevolmente, anche se lo sfavore sia «utilità generale», libertà generale; ma allora «passione» ed «economia» significano «personalità umana» determinata storicamente in una certa società «gerarchica». Cos’è il «punto d’onore» della malavita se non un patto economico? Ma non è anche una forma di manifestarsi (polemica, di lotta) della personalità? Essere «deprezzato» (spregiato), è il timore morboso di tutti gli uomini nelle forme di società in cui la gerarchia si manifesta in modi «raffinati» (capillari), in minuzie ecc. Nella malavita la gerarchia si fonda sulla forza fisica e sulla furberia: essere «presi in giro», essere fatti apparire sciocchi, lasciare che un oltraggio sia impunito ecc. degrada. Perciò tutto un protocollo e un cerimoniale di convenzione, ricco di sfumature e di sottintesi nelle relazioni reciproche dei soci; venir meno al protocollo è un’ingiuria. Ma ciò non avviene solo nella malavita: le quistioni di rango si verificano in ogni forma di rapporto: da quello tra gli Stati a quello tra famigliari. Chi deve fare un servizio per un certo tempo e non viene sostituito all’ora esatta, s’infuria e reagisce anche con atti di violenza estrema (perfino criminosa); ciò anche se dopo il servizio non ha niente che fare o non acquista la piena libertà di movimento (per es.: un soldato che deve fare la sentinella e dopo il suo turno deve tuttavia rimanere in caserma). Che in questi episodi sia una manifestazione di «personalità» vuol dire solo che la personalità di molti uomini è meschina, angusta: essa è sempre personalità. Ed è innegabile che esistono delle forze che tendono a mantenerla tale e anche ad immeschinirla di più: per troppi essere «qualcosa» significa solo che altri uomini sono ancora «meno cosa» (qualcosa di meno). Che però anche queste piccole cose, queste inezie siano «tutto» o «gran cosa» per certuni risulta da ciò che tali episodi determinano appunto reazioni in cui si arrischia la vita e la libertà personale.
Q10 §59 per un saggio su B. Croce. I. Il Croce come uomo di partito. Distinzione del concetto di partito: 1) Il partito come organizzazione pratica (o tendenza pratica), cioè come strumento per la soluzione di un problema o di un gruppo di problemi della vita nazionale e internazionale. In questo senso il Croce non appartenne mai esplicitamente a nessuno dei gruppi liberali, anzi esplicitamente combatté l’idea stessa e il fatto dei partiti permanentemente organizzati (Il Partito come giudizio e pregiudizio, in Cultura e Vita Morale, saggio pubblicato in uno dei primi numeri della «Unità» fiorentina) e si pronunziò a favore dei movimenti politici che non si pongono un «programma» definito, «dogmatico», permanente, organico, ma tendono volta per volta a risolvere problemi politici immediati. D’altronde tra le varie tendenze liberali il Croce manifestò la sua simpatia per quella conservatrice, rappresentata dal «Giornale d’Italia». Il «Giornale d’Italia» non solo per lungo tempo pubblicò articoli della «Critica» prima che i fascicoli della rivista fossero divulgati, ma ebbe il «monopolio» delle lettere che il Croce scriveva di tanto in tanto per esprimere le sue opinioni su argomenti di politica e di politica culturale che lo interessavano e intorno ai quali riteneva necessario pronunciarsi. Nel dopoguerra anche la «Stampa» pubblicò le primizie della «Critica» (o di scritti del Croce pubblicati in Atti accademici), ma non ebbe le lettere che continuarono ad essere pubblicate dal «Giornale» d’Italia» per il primo e furono riprodotte dalla «Stampa» e da altri giornali. 2) Il partito come, ideologia generale, superiore ai vari aggruppamenti più immediati. In realtà il modo di essere del partito liberale in Italia dopo il 1876 fu quello di presentarsi al paese come un «ordine sparso» di frazioni e di gruppi nazionali e regionali. Erano frazioni del liberalismo politico tanto il cattolicismo liberale dei popolari, come il nazionalismo (il Croce collaborò a «Politica» di A. Rocco e F. Coppola), tanto le unioni monarchiche come il partito repubblicano e gran parte del socialismo, tanto i radicali democratici come i conservatori, tanto Sonnino‑Salandra, come Giolitti, Orlando, Nitti e Co. Il Croce fu il teorico di ciò che tutti questi gruppi e gruppetti, camarille e mafie avevano di comune, il capo di un ufficio centrale di propaganda di cui tutti questi gruppi beneficiavano e si servivano, il leader nazionale dei movimenti di cultura che nascevano per rinnovare le vecchie forme politiche.
Come è stato osservato altrove il Croce divise con Giustino Fortunato questo ufficio di leader nazionale della cultura liberale democratica. Dal 1900 al 1914 e anche dopo (ma come risoluzione) Croce e Fortunato apparivano sempre come ispiratori (come fermenti) di ogni nuovo movimento giovanile serio che si proponesse di rinnovare il «costume» politico e la vita dei partiti borghesi: così per la «Voce», l’«Unità», l’«Azione Liberale», la «Patria» (di Bologna) ecc. Con la «Rivoluzione Liberale» di Piero Gobetti avviene una innovazione fondamentale: il termine «liberalismo» viene interpretato nel senso più «filosofico» o più astratto e dal concetto di libertà nei termini tradizionali della personalità individuale si passa al concetto di libertà nei termini di personalità collettiva dei grandi gruppi sociali e della gara non più tra individui ma tra gruppi. Di questo ufficio di leader nazionale del liberalismo occorre tener conto per comprendere come il Croce abbia ampliato il cerchio della sua influenza direttrice oltre l’Italia, sulla base di un elemento della sua «propaganda»: quella revisionistica.
Q10 §59 II Come occorre intendere l’espressione «condizioni materiali» e l’«insieme» di queste condizioni? Come il «passato», la «tradizione», concretamente intesi, obbiettivamente constatabili e «misurabili» con metodi di accertamento «universalmente» soggettivi, cioè appunto «oggettivi». Il presente operoso non può non continuare, sviluppandolo, il passato, non può non innestarsi nella «tradizione». Ma come riconoscere la «vera» tradizione, il «vero» passato ecc.? Cioè la storia reale, effettiva e non la velleità di fare nuova storia che cerca nel passato una sua giustificazione tendenziosa, di «superstruttura»? È passato reale la struttura appunto, perché essa è la testimonianza, il «documento» incontrovertibile di ciò che è stato fatto e continua a sussistere come condizione del presente e dell’avvenire. Si potrà osservare che nell’esame della «struttura» i singoli critici possono sbagliare, affermando vitale ciò che è morto, o non è germe di nuova vita da sviluppare, ma il metodo stesso non può essere confutato perentoriamente. Che esista possibilità di errore è ammissibile senz’altro, ma sarà errore dei singoli critici (uomini politici, statisti) non errore di metodo. Ogni gruppo sociale ha una «tradizione», un «passato» e pone questo come il solo e totale passato. Quel gruppo che comprendendo e giustificando tutti questi «passati», saprà identificare la linea di sviluppo reale, perciò contraddittoria, ma nella contraddizione passibile di superamento, commetterà «meno errori», identificherà più elementi «positivi» su cui far leva per creare nuova storia.
Q10 §59 III Vedere se il principio di «distinzione», cioè quella che il Croce chiama «dialettica dei distinti» non sia stato determinato dalla riflessione sul concetto astratto di «homo oeconomicus» proprio dell’economia classica. Posto che tale astrazione ha una portata e un valore puramente «metodologici» o addirittura di tecnica della scienza (cioè immediato ed empirico), è da vedere come il Croce abbia elaborato tutto il sistema dei «distinti». In ogni modo tale elaborazione, come del resto molte altre parti del sistema crociano, avrebbe avuto origine dallo studio dell’economia politica e più precisamente dallo studio della filosofia della prassi, ciò che però non può non significare che il sistema crociano abbia avuto un’origine e una determinazione immediata «economica». La stessa difficoltà che molti filosofi attualisti incontrano nel comprendere il concetto di «homo oeconomicus», trovano nel comprendere il significato e la portata della «dialettica dei distinti». La ricerca ha due aspetti: uno di carattere logico e l’altro di carattere storico. La prima «distinzione» posta dal Croce mi pare sia stata «storicamente» proprio quella del «momento dell’economia o dell’utilità», che non coincide e non può coincidere con quella degli economisti nel senso stretto, poiché nel momento dell’utilità o economico il Croce fa rientrare una serie di attività umane che ai fini della scienza economica sono irrilevanti (per es. l’amore).
Q10 §59 IV L’idealismo attuale fa coincidere verbalmente ideologia e filosofia (ciò che, in ultima analisi, non è altro che uno degli aspetti dell’unità superficiale postulata da esso fra reale e ideale, fra teoria e pratica ecc.) ciò che rappresenta una degradazione della filosofia tradizionale rispetto all’altezza cui l’aveva portata il Croce con la cosiddetta dialettica dei «distinti». Tale degradazione è visibilissima negli sviluppi (o involuzioni) che l’idealismo attuale mostra nei discepoli del Gentile: i «Nuovi Studi» di Ugo Spirito e A. Volpicelli sono il documento più vistoso di questo fenomeno. L’unità di ideologia e filosofia, quando è affermata in questa forma, crea una nuova forma di sociologismo, né storia né filosofia, cioè, ma un insieme di schemi verbali astratti, sorretti da una fraseologia tediosa e pappagallesca. La resistenza del Croce a questa tendenza è veramente «eroica»: il Croce ha viva la consapevolezza che tutti i movimenti del pensiero moderno conducono a una rivalutazione trionfale della filosofia della prassi, cioè al capovolgimento della posizione tradizionale dei problemi filosofici e alla dissoluzione della filosofia intesa nel modo tradizionale. Il Croce resiste con tutte le sue forze alla pressione della realtà storica, con una intelligenza eccezionale dei pericoli e dei mezzi idonei per ovviarli. Perciò lo studio dei suoi scritti dal 19 ad oggi ha un grandissimo significato. La preoccupazione del Croce nasce con la guerra mondiale che egli stesso affermò essere la «guerra del materialismo storico». La sua posizione «au dessus», in un certo senso, è già indice di questa preoccupazione ed è una posizione di allarme (durante la guerra, filosofia e ideologia entrarono in frenetico connubio). Anche l’atteggiamento del Croce verso libri come quello del De Man, dello Zibordi ecc., non possono spiegarsi altrimenti perché in stridente contraddizione con le sue posizioni ideologiche e pratiche di prima della guerra.
Questo spostamento del Croce dalla posizione «critica» a una posizione tendenzialmente pratica e di preparazione all’azione politica effettiva (nei limiti consentiti dalle circostanze e dalla posizione sociale del Croce) è molto significativo. Che importanza può aver avuto il suo libro sulla Storia d’Italia? Qualcosa può dedursi dal libro del Bonomi su Bissolati, da quello dello Zibordi su citato, dalla prefazione di Schiavi al libro del De Man. Il De Man serve anch’esso di ponte di passaggio.
È da ricordare tuttavia la lettera di Orazio Raimondo riportata da G. Castellano nella sua Introduzione allo studio delle opere di Benedetto Croce. La lettera dimostra l’influsso che il Croce esercitava in certi ambienti, penetrando per meati che rimanevano incontrollati. E si tratta del Raimondo, massone, realmente imbevuto dell’ideologia massonica fino alle midolla e «francesamente» democratico, come appare in molte sue orazioni ma specialmente in quella di difesa della Tiepolo (o della dama che assassinò l’attendente Polidori) dove appare il teismo massonico in tutta la sua spiegatezza ed evidenza.
Q10 §60 La proposizione che occorre rimettere «l’uomo sui suoi piedi». Nell’esame dell’influsso esercitato dall’hegelismo sul fondatore della filosofia della prassi occorre ricordare (tenuto conto specialmente del carattere eminentemente pratico‑critico del Marx che il Marx¹ partecipò alla vita universitaria tedesca poco dopo la morte dello Hegel, quando doveva essere ancora vivissimo il ricordo dell’insegnamento orale dello Hegel e delle discussioni appassionate, con riferimento alla storia effettuale recente, che tale insegnamento aveva suscitato, discussioni nelle quali la concretezza storica del pensiero hegeliano doveva risultare molto più evidente di quanto risulti dagli scritti sistematici. Alcune proposizioni della filosofia della prassi pare siano da ritenere specialmente legate a questa vivacità conversativa: per esempio, l’affermazione che lo Hegel fa camminare gli uomini sulla testa. Hegel impiega questa espressione parlando della Rivoluzione francese, quando dice che in un certo momento pareva che il mondo camminasse sulla testa (da verificare con esattezza). Il Croce si domanda (verificare dove e come) da dove Marxa abbia preso questa immagine, come se essa non fosse stata impiegata dallo Hegel nei suoi scritti. L’immagine è cosi poco «libresca», che dà l’impressione di essere scaturita da una conversazione.
Antonio Labriola nello scritto Da un secolo all’altro scrive: «Gli è proprio quel codino di Hegel che disse come quegli uomini (della Convenzione) avessero pei primi, dopo Anassagora, tentato di capovolgere la nozione del mondo, poggiando questo sulla ragione» (ed. Dal Pane, p. 45).
Questa proposizione, sia nell’impiego fattone da Hegel, sia in quello fattone dalla filosofia della prassi, è da confrontare col parallelo, fatto dallo stesso Hegel e che ha uno spunto nella Sacra Famiglia, tra il pensiero pratico‑giuridico francese e quello speculativo tedesco (a questo proposito è da vedere il quaderno su «Introduzione allo studio della filosofia» p. 59).
Q10 §61 Punti per un saggio critico sulle due Storie del Croce: d’Italia e d’Europa. Rapporto storico tra lo Stato moderno francese nato dalla Rivoluzione e gli altri Stati moderni dell’Europa continentale. Il confronto è di importanza vitale, purché non sia fatto in base ad astratti schemi sociologici. Esso può risultare dall’esame di questi elementi: 1) esplosione rivoluzionaria in Francia con radicale e violenta mutazione dei rapporti sociali e politici; 2) opposizione europea alla Rivoluzione francese e alla sua diffusione per i «meati» di classe; 3) guerra della Francia, con la Repubblica e con Napoleone, contro l’Europa, prima per non essere soffocata, poi per costituire una egemonia permanente francese con la tendenza a formare un impero universale; 4) riscosse nazionali contro l’egemonia francese e nascita degli Stati moderni europei per piccole ondate riformistiche successive, ma non per esplosioni rivoluzionarie come quella originaria francese. Le «ondate successive» sono costituite da una combinazione di lotte sociali, di interventi dall’alto di tipo monarchia illuminata e di guerre nazionali, con prevalenza di questi ultimi due fenomeni. Il periodo della «Restaurazione» è il più ricco di sviluppi da questo punto di vista: la restaurazione diventa la forma politica in cui le lotte sociali trovano quadri abbastanza elastici da permettere alla borghesia di giungere al potere senza rotture clamorose, senza l’apparato terroristico francese. Le vecchie classi feudali sono degradate da dominanti a «governative», ma non eliminate, né si tenta di liquidarle come insieme organico: da classi diventano «caste» con determinati caratteri culturali e psicologici, non più con funzioni economiche prevalenti.
Questo «modello» della formazione degli Stati moderni può ripetersi in altre condizioni? È ciò da escludere in senso assoluto, oppure può dirsi che almeno in parte si possono avere sviluppi simili, sotto forma di avvento di economie programmatiche? Può escludersi per tutti gli Stati o solo per i grandi? La quistione è di somma importanza, perché il modello Francia‑Europa ha creato una mentalità, che per essere «vergognosa di sé» oppure per essere uno «strumento di governo» non è perciò meno significativa.
Una quistione importante connessa alla precedente è quella dell’ufficio che hanno creduto di avere gli intellettuali in questo lungo processo di fermentazione politico‑sociale covata dalla Restaurazione. La filosofia classica tedesca è la filosofia di questo periodo, essa vivifica i movimenti liberali nazionali dal 48 al 70. A questo proposito è anche da richiamare il parallelo hegeliano (e della filosofia della prassi) tra la pratica francese e la speculazione tedesca. In realtà il parallelo può essere esteso: ciò che è «pratica» per la classe fondamentale diventa «razionalità» e speculazione per i suoi intellettuali (su questa base di rapporti storici è da spiegare tutto l’idealismo filosofico moderno).
Quistione più vasta: se è possibile pensare la storia come solo «storia nazionale» in qualunque momento dello svolgimento storico, – se il modo di scrivere la storia (e di pensare) non sia sempre stato «convenzionale». Il concetto hegeliano sullo «spirito del mondo» che si impersona in questo o quel paese è un modo «metaforico» o immaginoso di attirare l’attenzione su questo problema metodologico, alla cui compiuta spiegazione si oppongono limitazioni di origine diversa: la «boria» delle nazioni, cioè limitazioni di carattere politico‑pratico nazionale (che non sono sempre deteriori); limitazioni intellettuali (non comprensione del problema storico nella sua totalità) e intellettuali‑pratiche (assenza di informazioni, sia perché mancano i documenti, sia perché è difficile averli a disposizione e interpretarli). (Come per es. fare una storia integrale del cristianesimo se in essa si vuole comprendere il cristianesimo popolare e non solo quello degli intellettuali? In questo caso solo il successivo svolgimento storico è documento del precedente svolgimento, ma documento parziale).
La concezione dello Stato secondo la funzione produttiva delle classi sociali non può essere applicata meccanicamente all’interpretazione della storia italiana ed europea dalla Rivoluzione francese fino a tutto il secolo XIX. Sebbene sia certo che per le classi fondamentali produttive (borghesia capitalistica e proletariato moderno) lo Stato non sia concepibile che come forma concreta di un determinato mondo economico, di un determinato sistema di produzione, non è detto che il rapporto di mezzo e fine sia facilmente determinabile e assuma l’aspetto di uno schema semplice e ovvio a prima evidenza. È vero che conquista del potere e affermazione di un nuovo mondo produttivo sono inscindibili, che la propaganda per l’una cosa è anche propaganda per l’altra e che in realtà solo in questa coincidenza risiede l’unità della classe dominante che è insieme economica e politica; ma si presenta il problema complesso dei rapporti delle forze interne del paese dato, del rapporto delle forze internazionali, della posizione geopolitica del paese dato. In realtà la spinta al rinnovamento rivoluzionario può essere originata dalle necessità impellenti di un paese dato, in circostanze date, e si ha l’esplosione rivoluzionaria della Francia, vittoriosa anche internazionalmente; ma la spinta al rinnovamento può essere data dalla combinazione di forze progressive scarse e insufficienti di per sé (tuttavia ad altissimo potenziale perché rappresentano l’avvenire del loro paese) con una situazione internazionale favorevole alla loro espansione e vittoria.
Il libro di Raffaele Ciasca sulle Origini del programma nazionale, mentre dà la prova che esistevano in Italia gli stessi problemi impellenti che nella Francia dell’antico regime e una forza sociale che interpretava e rappresentava tali problemi nello stesso senso francese, dà anche la prova che tali forze erano scarse e i problemi si mantenevano al livello della «piccola politica». In ogni caso si vede come, quando la spinta del progresso non è strettamente legata a un vasto sviluppo economico locale che viene artificiosamente limitato e represso, ma è il riflesso dello sviluppo internazionale che manda alla periferia le sue correnti ideologiche, nate sulla base dello sviluppo produttivo dei paesi più progrediti, allora il gruppo portatore delle nuove idee non è il gruppo economico, ma il ceto degli intellettuali e la concezione dello Stato di cui si fa la propaganda, muta d’aspetto: esso è concepito come una cosa a sé, come un assoluto razionale. La quistione può essere impostata così: essendo lo Stato la forma concreta di un mondo produttivo ed essendo gli intellettuali l’elemento sociale da cui si trae il personale governativo, è proprio dell’intellettuale non ancorato fortemente a un forte gruppo economico, di presentare lo Stato come un assoluto: così è concepita come assoluta e preminente la stessa funzione degli intellettuali, è razionalizzata astrattamente la loro esistenza e la loro dignità storica. Questo motivo è basilare per comprendere storicamente l’idealismo filosofico moderno ed è connesso al modo di formazione degli Stati moderni nell’Europa continentale come «reazione‑superamento nazionale» della Rivoluzione francese che con Napoleone tendeva a stabilire una egemonia permanente (motivo essenziale per comprendere il concetto di «rivoluzione passiva», di «restaurazione‑rivoluzione» e per capire l’importanza del confronto hegeliano tra i principii dei giacobini e la filosofia classica tedesca).
A questo proposito si può osservare che alcuni criteri tradizionali di valutazione storica e culturale del periodo del Risorgimento devono essere modificati e talvolta capovolti: 1) le correnti italiane che vengono «bollate» di razionalismo francese e di illuminismo astratto sono invece forse le più aderenti alla realtà italiana, in quanto, in realtà, concepiscono lo Stato come forma concreta di uno sviluppo economico italiano in divenire: a ugual contenuto conviene uguale forma politica; 2) sono invece proprio «giacobine» (nel senso deteriore che il termine ha assunto per certe correnti storiografiche) le correnti che appaiono più autoctone, in quanto pare sviluppino una tradizione italiana. Ma in realtà questa corrente è «italiana» solo perché la «cultura» per molti secoli è stata la sola manifestazione «nazionale» italiana. Si tratta di una illusione verbale. Dove era la base di questa cultura italiana? Essa non era in Italia: questa cultura «italiana» è la continuazione del cosmopolitismo medioevale legato alla tradizione dell’Impero e alla Chiesa, concepiti universali con sede «geografica» in Italia. Gli intellettuali italiani erano funzionalmente una concentrazione culturale cosmopolita, essi accoglievano ed elaboravano teoricamente i riflessi della più soda e autoctona vita del mondo non italiano. Anche nel Machiavelli si vede questa funzione, sebbene il Machiavelli cerchi di volgerla a fini nazionali (senza fortuna e senza seguito apprezzabile): il Principe infatti è una elaborazione degli avvenimenti spagnoli, francesi, inglesi nel travaglio dell’unificazione nazionale, che in Italia non ha forze sufficienti e neppure interessa molto. Poiché i rappresentanti della corrente tradizionale realmente vogliono applicare all’Italia schemi intellettuali e razionali, elaborati sì in Italia, ma su esperienze anacronistiche, e non sui bisogni immediati nazionali, essi sono i giacobini nel senso deteriore.
La quistione è complessa, irta di contraddizioni e perciò deve essere approfondita. In ogni modo, gli intellettuali meridionali nel Risorgimento appaiono con chiarezza essere questi studiosi del «puro» Stato, dello Stato in sé. E ogni volta che gli intellettuali dirigono la vita politica, alla concezione dello Stato in sé segue tutto il corteo reazionario che ne è la compagnia d’obbligo.
QUADERNO 10b
PUNTI DI RIFERIMENTO PER UN SAGGIO SU B. CROCE
Introduzione. generali: 1) Appunti metodici (cfr 1a nota); 2) L’uomo di partito: il partito come risoluzione pratica di problemi particolari, come programma organico politico (collaborazione a «Giornale d’Italia» conservatore, «Stampa» ecc., «Politica»); il partito come tendenza generale ideologica, come forma culturale (p. 37 bis); 3) Croce e G. Fortunato come «fermenti» (più che guide) dei movimenti italiani culturali dal 900 al 914 («Voce», «Unità» ecc. fino a «Rivoluzione Liberale»).
1°. L’atteggiamento del Croce durante la guerra mondiale come punto di orientamento per comprendere i motivi della sua attività posteriore di filosofo e di leader della cultura europea.
2°. Croce come leader intellettuale delle tendenze revisionistiche degli anni 90: Bernstein in Germania, Sorel in Francia, la scuola economico‑giuridica in Italia.
3°. Croce dal 1912 al 1932 (elaborazione della teoria della storia etico‑politica) tende a rimanere il leader delle tendenze revisioniste per condurle fino a una critica radicale ed alla liquidazione (politico‑ideologica) anche del materialismo storico attenuato e della teoria economico‑giuridica cfr nota in margine nella pagina seguente.
4°. Elementi della relativa popolarità del Croce: a) elemento stilistico‑letterario mancanza di pedanteria e di astruseria, b) elemento filosofico‑metodico (unità di filosofia e senso comune), c) elemento etico (serenità olimpica).
5°. Croce e la religione: a) il concetto crociano di religione lo spunto per il saggio Religione e serenità è preso dal saggio del De Sanctis La Nerina del Leopardi del 1877 («Nuova Antologia», gennaio 1877), b) Croce e il cristianesimo, c) fortune e sfortune del crocismo tra i cattolici italiani (neoscolastici italiani e vari stadi delle loro manifestazioni filosofiche, filopositiviste, filoidealiste, e ora per un ritorno al tomismo «puro»; carattere eminentemente «pratico» dell’attività del padre Gemelli e suo agnosticismo filosofico), d) articoli del Papini e del Ferrabino nella «Nuova Antologia», come manifestazioni eminenti del pensiero del laicismo cattolico quattro articoli della «Civiltà Cattolica» (del 1932 e 1933), tutti dedicati solo all’introduzione della Storia d’Europa; dopo il 3° articolo il libro è posto all’Indice, e) è Croce un riformatore «religioso»? cfr alcuni brevi saggi pubblicati nella «Critica» in cui si traducono in linguaggio «speculativo» alcuni punti della teologia cattolica (la grazia ecc.) e nel saggio sul «Caracciolo» della teologia calvinista ecc. «Traduzioni» e interpretazioni simili sono contenute incidentalmente in numerosi scritti del Croce.
6°. Croce e la tradizione italiana o una corrente determinata della tradizione italiana: teorie storiche della Restaurazione; scuola dei moderati; la rivoluzione passiva del Cuoco divenuta formula d’«azione» da «avvertimento» di energetica etico‑nazionale; dialettica «speculativa» della storia, meccanicismo arbitrario di essa (cfr la posizione del Proudhon criticata nella Miseria della filosofia); dialettica degli «intellettuali» che concepiscono se stessi come impersonanti la tesi e l’antitesi e quindi elaboranti la sintesi; questo non «impegnarsi» interamente nell’atto storico non è poi una forma di scetticismo? o di poltroneria? almeno non è esso stesso un «atto» politico?
7°. Significato reale della formula «storia etico‑politica». È una ipostasi arbitraria e meccanica dei momento dell’«egemonia». La filosofia della praxis non esclude la storia etico‑politica. L’opposizione tra le dottrine storiche crociane e la filosofia della praxis è nel carattere speculativo della concezione del Croce. Concezione dello Stato in Croce.
8°. Trascendenza‑teologia‑speculazione. storicismo speculativo e storicismo realistico. Soggettivismo idealistico e concezione delle superstrutture nella filosofia della praxis. Gherminella polemica del Croce che «oggi» dà un significato metafisico, trascendente speculativo ai termini della filosofia della praxis, quindi l’«identificazione» della «struttura» con un «dio ascoso». Dalle diverse edizioni dei libri e saggi del Croce estrarre i giudizi successivi, sempre mutati, senza una giustificazione specifica, sull’importanza e la statura filosofica dei fondatori della filosofia della prassi.
9°. La storia d’Europa vista come «rivoluzione passiva». Può farsi una storia d’Europa del secolo XIX senza trattare organicamente della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche? E può farsi una storia d’Italia nel tempo moderno senza le lotte del Risorgimento? In un caso e nell’altro il Croce, per ragioni estrinseche e tendenziose, prescinde dal momento della lotta, in cui la struttura viene elaborata e modificata, e placidamente assume come storia il momento dell’espansione culturale o etico‑politico. Ha un significato «attuale» la concezione della «rivoluzione passiva»? Siamo in un periodo di «restaurazione‑rivoluzione» da assestare permanentemente, da organizzare ideologicamente, da esaltare liricamente? L’Italia avrebbe nei confronti con l’urss la stessa relazione che la Germania e l’Europa di Kant‑Hegel con la Francia di Robespierre‑Napoleone?
10°. La «libertà» come identità di storia e di spirito e la «libertà» come ideologia immediatamente circostanziata, come «superstizione», come strumento pratico di governo. Se si dice che la «natura dell’uomo è lo spirito» si dice che essa è la «storia», cioè l’insieme dei rapporti sociali in processo di sviluppo, cioè ancora l’insieme della natura e della storia, delle forze materiali e di quelle spirituali o culturali ecc..
11°. Tuttavia, si può dire che nella concezione del Croce, anche dopo l’elaborazione subita in questi ultimi anni, non ci sia traccia di filosofia della praxis? Il suo storicismo non risente di nessun influsso della sua esperienza intellettuale degli anni dal 90 al 900? La posizione del Croce a questo proposito risulta dalla prefazione del 1917 alla nuova edizione del Materialismo storico: il Croce vorrebbe far credere che il valore di questa esperienza sia stato essenzialmente negativo, nel senso che avrebbe contribuito a distruggere pregiudizi ecc. Ma lo stesso accanimento del Croce in questi ultimi tempi contro ogni elemento di filosofia della praxis è sospetto (specialmente la presentazione del libro del De Man, mediocrissimo): impressione che Croce combatta troppo per non avere una richiesta di conti. Le tracce di una filosofia della praxis si trovano nella soluzione di problemi particolari è da vedere se l’insieme di questi problemi particolari non contenga implicitamente una elaborazione totale della filosofia della prassi, cioè tutta la metodologia o filosofia del Croce, cioè se i problemi non direttamente collegabili con quelli corrispondenti della filosofia della prassi, non lo siano però con gli altri direttamente collegabili: la dottrina dell’errore mi pare la più tipica. In generale si può dire che la polemica contro la filosofia dell’atto puro ha costretto il Croce a un maggior realismo e a sentire un certo fastidio almeno per le esagerazioni nel linguaggio speculativo degli attualisti.
Sui «residui» o sopravvivenze (ma in realtà sono elaborazioni che hanno una loro peculiare organicità) nella filosofia del Croce della dottrina della filosofia della prassi si sta costituendo una certa letteratura: cfr per esempio il saggio di Enzo Tagliacozzo In memoria di Antonio Labriola («Nuova Italia», 20 dicembre 1934 ‑ 20 gennaio 1935, specialmente nella seconda puntata), e il saggio di Edmondo Cione La logica dello storicismo, Napoli 1933 (forse estratto dagli atti dell’Accademia Reale di scienze morali e politiche). (Da una recensione che di questo saggio pubblica la «Nuova Rivista Storica» gennaio‑febbraio 1935, pp. 132-134, pare che per il Cione solo con la Storia d’Europa il Croce si liberi completamente delle sopravvivenze della filosofia della praxis. Questo e altri saggi del Cione sono da vedere). Nota: In una recensione di alcune pubblicazioni di Guido Calogero («Critica», maggio 1935) il Croce accenna al fatto che il Calogero chiama «filosofia della praxis» una propria interpretazione dell’attualismo gentiliano. Quistioni di terminologia (ma forse non solo di terminologia) che occorre chiarire.
12°. La concezione della storia come storia etico‑politica sarebbe dunque una futilità? Occorre fissare che il pensiero storiografico del Croce, anche nella sua fase più recente, deve essere studiato e meditato con attenzione. Esso rappresenta essenzialmente una reazione all’«economismo» e al meccanicismo fatalistico, sebbene si presenti come superamento della filosofia della praxis. Anche per il Croce vale il criterio che il suo pensiero deve essere criticato e valutato non per quello che pretende di essere, ma per ciò che è realmente e che si manifesta nelle opere storiche concrete. Per la filosofia della praxis lo stesso metodo speculativo non è futilità ma è stato fecondo di valori «strumentali» del pensiero, che la filosofia della praxis si è incorporata (la dialettica, per es.). Il pensiero del Croce deve essere dunque apprezzato come valore strumentale e così si può dire che esso ha energicamente attirato l’attenzione allo studio dei fatti di cultura e di pensiero come elementi di dominio politico, alla funzione dei grandi intellettuali nella vita degli Stati, al momento dell’egemonia e del consenso come forma necessaria del blocco storico concreto. La storia etico‑politica è dunque uno dei canoni di interpretazione storica da tener sempre presente nell’esame e nell’approfondimento dello svolgimento storico, se si vuol fare storia integrale e non storie parziali od estrinseche.
Q10b §1 Atteggiamento del Croce durante la guerra mondiale. Scritti di Croce in proposito raccolti nelle Pagine sulla guerra (Laterza, 2a ed. accresciuta, L. 25); sarebbe interessante però rivederli nella prima stesura, a mano a mano che furono pubblicati nella «Critica» o in altri periodici e tener conto delle altre quistioni di carattere culturale e morale che contemporaneamente interessavano il Croce e mostrano a quali altri svolgimenti connessi più o meno direttamente alla situazione bellica egli credeva necessario reagire. L’atteggiamento del Croce durante la neutralità e la guerra indica quali interessi intellettuali e morali (e quindi sociali) predominano anche oggi nella sua attività letteraria e filosofica. Il Croce reagisce contro l’impostazione popolare (con la conseguente propaganda) della guerra come guerra di civiltà e quindi a carattere religioso, ciò che teoricamente dovrebbe portare all’annientamento del nemico.
Il Croce vede nel momento della pace quello della guerra e nel momento della guerra quello della pace e lotta perché non siano mai distrutte le possibilità di mediazione tra i due momenti. La pace dovrà succedere alla guerra e la pace può costringere ad aggruppamenti ben diversi da quelli della guerra: ma come sarebbe possibile una collaborazione tra Stati dopo lo scatenamento di fanatismi religiosi della guerra? Ne risulta che nessuna necessità immediata di politica può e deve essere innalzata a criterio universale. Ma questi termini non comprendono esattamente l’atteggiamento del Croce. Non si può dire, infatti, che egli sia contro l’impostazione «religiosa» della guerra in quanto ciò è necessario politicamente perché le grandi masse popolari mobilitate siano disposte a sacrificarsi in trincea e a morire: è questo un problema di tecnica politica che spetta di risolvere ai tecnici della politica.
Ciò che importa al Croce è che gli intellettuali non si abbassino al livello della massa, ma capiscano che altro è l’ideologia, strumento pratico per governare, e altro la filosofia e la religione che non deve essere prostituita nella coscienza degli stessi sacerdoti. Gli intellettuali devono essere governanti e non governati, costruttori di ideologie per governare gli altri e non ciarlatani che si lasciano mordere e avvelenare dalle proprie vipere. Il Croce quindi rappresenta la grande politica contro la piccola politica, il machiavellismo di Machiavelli contro il machiavellismo di Stenterello. Egli pone se stesso molto in alto e certamente pensa che anche le critiche furibonde e gli attacchi personali i più selvaggi sono «politicamente» necessari e utili perché questa sua alta posizione sia possibile da mantenere. L’atteggiamento di Croce durante la guerra può essere paragonato solo a quello del Papa, che era il capo dei vescovi che benedicevano le armi dei tedeschi e degli austriaci e di quelli che benedicevano le armi degli italiani e dei francesi, senza che in ciò ci fosse contraddizione. Cfr Etica e Politica, p. 343: «Uomini di Chiesa, che qui bisogna intendere, come la Chiesa stessa ecc.».
Questo stesso atteggiamento, che non è privo di inconvenienti, lo si trova in Croce verso il modernismo. Di fatto, poiché non è possibile pensare un passaggio delle masse popolari dallo stadio religioso a quello «filosofico», e il modernismo praticamente erodeva la massiccia struttura pratico‑ideologica della Chiesa, l’atteggiamento del Croce servì a rinsaldare le posizioni della Chiesa. Così il suo atteggiamento «revisionistico» servì a rinsaldare le correnti reazionarie (al Labriola che glielo faceva notare il Croce rispondeva: «quanto alla politica e ai conati reazionari, caveant consules»). Così il suo avvicinarsi a «Politica» nel 1920 e i suoi veri e propri atteggiamenti pratici a Napoli (discorsi ecc., partecipazione al governo Giolitti ecc.). La posizione di «puro intellettuale» diventa o un vero e proprio «giacobinismo» deteriore (e in tal senso, mutate le stature intellettuali, Amadeo può essere avvicinato al Croce, come forse non pensava Jacques Mesnil) o un «ponziopilatismo» spregevole, o successivamente l’uno e l’altro o anche simultaneamente l’uno e l’altro.
Per la guerra si può riferite al Croce l’osservazione di Lyautey: in realtà il sentimento nazionale dei sedicenti nazionalisti è «temperato» da un cosmopolitismo talmente accentuato, di casta, di cultura ecc., che può essere ritenuto un vero e proprio strumento di governo e le sue «passioni» essere ritenute non immediate, ma subordinate al possesso del potere.
Q10b §2 Croce come leader intellettuale delle correnti revisionistiche della fine del secolo XIX. Nella lettera di Giorgio Sorel al Croce in data 9 settembre 1899 è scritto: «Bernstein vient de m’écrire qu’il a indiqué dans la “Neue Zeit” n. 46 qu’il avait été inspiré, en une certaine mesure, par vos travaux. Cela est intéressant, parce que les Allemands ne sont pas faits pour indiquer des sources étrangères à leurs idées». Dei rapporti intellettuali tra il Sorel e il Croce esiste oggi una documentazione molto importante nell’epistolario del Sorel al Croce pubblicato dalla «Critica» (1927 sgg.): appare che la dipendenza intellettuale del Sorel dal Croce è stata più grande di ciò che prima potesse pensarsi. I saggi del Croce revisionista sono pubblicati nel volume sul Materialismo storico, ma ad essi occorre aggiungere il cap. XI del primo volume delle Conversazioni critiche. Nel revisionismo crociano occorre fissare dei limiti, e di questa prima fase mi pare il limite sia da trovare nella intervista col prof. Castellano pubblicata nella «Voce» e riprodotta nel volume Cultura e Vita Morale. La riduzione del Croce del materialismo storico a canone di interpretazione della storia irrobustisce criticamente l’indirizzo «economico‑giuridico» nella scuola italiana.
Q10b §3 Elaborazione della teoria della storia etico‑politica. Croce «approfondisce» sistematicamente i suoi studi di teoria della storia e questa nuova fase è rappresentata dal volume Teoria e storia della Storiografia. Ma il più significativo della biografia scientifica del Croce è che egli continua a considerarsi il leader intellettuale dei revisionisti e la sua ulteriore elaborazione della teoria storiografica è condotta con questa preoccupazione: egli vuole giungere alla liquidazione del materialismo storico ma vuole che questo svolgimento avvenga in modo da identificarsi con un movimento culturale europeo. L’affermazione, fatta durante la guerra, che la guerra stessa può dirsi la «guerra del materialismo storico»; gli sviluppi storici e culturali nell’Europa orientale dal 1917 in poi: questi due elementi determinano il Croce a svolgere con maggior precisione la sua teoria storiografica che dovrebbe liquidare ogni forma, anche attenuata, di filosofia della praxis (già prima della guerra teorie «attivistiche», fondate su concezioni irrazionalistiche – sviluppo di esse nel dopoguerra – reazione del Croce: cfr Storia d’Italia e poi discorsi e scritti su «Storia e Antistoria»). Che le teorie storiografiche siano rivolte contro la filosofia della praxis dice il Croce esplicitamente in una breve polemica con Corrado Barbagallo pubblicata nella «Nuova Rivista Storica» del 1928‑29. (È da notare l’atteggiamento del prof. Luigi Einaudi verso alcune pubblicazioni del Croce che esprimono questa fase «liquidazionista». Secondo Einaudi, il Croce fa ancora troppe concessioni alla filosofia della praxis, col riconoscere a questo movimento di cultura determinate benemerenze scientifiche).
La documentazione del fatto che il Croce sente con forza di essere il leader di una corrente intellettuale europea, e giudica di grande momento la sua posizione con gli obblighi che ne derivano si può vedere specialmente nella Storia d’Italia, ma risulta anche da tutta una serie di scritti occasionali e recensioni pubblicati nella «Critica». Occorre ricordare anche certi riconoscimenti che di tale funzione dirigente sono documentati: il più curioso è quello del Bonomi nel suo libro sul Bissolati (sarebbe interessante vedere se il Bonomi si riferiva al Croce nelle sue Vie Nuove). Prefazione dello Schiavi al libro del De Man. Per il periodo 90-900 è interessante la lettera di Orazio Raimondo stampata dal prof. Castellano nel suo volume sulla fortuna delle idee crociane (Introduzione allo studio delle opere di B. Croce, Laterza, Bari).
Q10b §4 Elementi della relativa popolarità del pensiero del Croce, tanto più notevole in quanto nel Croce non c’è niente che possa colpire la fantasia e suscitare forti passioni o dar luogo a movimenti di carattere romantico (non si tien conto, in questo punto, della popolarità delle idee estetiche del Croce che hanno alimentato una letteratura giornalistica da dilettanti). Un elemento è quello stilistico‑letterario. Beniamin Crémieux ha scritto che Croce è il più grande prosatore italiano dopo il Manzoni, ma forse questo riferimento può suscitare preconcetti errati; mi pare più esatto collocare gli scritti del Croce nella linea della prosa scientifica italiana che ha avuto scrittori come il Galileo. Altro elemento è quello etico e cioè risiede nella fermezza di carattere di cui il Croce ha dato prova in parecchi momenti della vita nazionale ed europea, come l’atteggiamento mantenuto durante la guerra e in seguito, atteggiamento che si può chiamare goethiano; mentre tanti intellettuali perdevano la testa, e non sapevano orientarsi nel caos generale, rinnegavano il proprio passato, ondeggiavano lamentosamente nel dubbio di chi fosse per essere il più forte, il Croce è rimasto imperturbabile nella sua serenità e nell’affermazione della sua fede che «metafisicamente il male non può prevalere e che la storia è razionalità».
Ma occorre dire che l’elemento più importante della popolarità del Croce è intrinseco al suo stesso pensiero e al metodo del suo pensare ed è da ricercare nella maggiore adesione alla vita della filosofia del Croce che di qualsiasi altra filosofia speculativa. Da questo punto di vista è interessante lo scritto di Croce intitolato «Il filosofo» (ristampato in Eternità e storicità della filosofia, Rieti, 1930; e tutti gli scritti raccolti in questo volumetto) in cui, in forma brillante, sono fissate le principali caratteristiche che distinguono l’attività del Croce da quella dei «filosofi» tradizionali. Dissoluzione del concetto di «sistema» chiuso e definito e quindi pedantesco e astruso in filosofia: affermazione che la filosofia deve risolvere i problemi che il processo storico nel suo svolgimento presenta volta a volta. La sistematicità è ricercata non in una esterna struttura architettonica ma nell’intima coerenza e feconda comprensività di ogni soluzione particolare. Il pensiero filosofico non è concepito quindi come uno svolgimento – da pensiero altro pensiero – ma pensiero dalla realtà storica. Questa impostazione spiega la popolarità del Croce nei paesi anglosassoni, superiore a quella dei paesi germanici; gli anglosassoni hanno sempre preferito le concezioni del mondo che non si presentavano come grandi e farraginosi sistemi ma come espressione del senso comune, integrato dalla critica e dalla riflessione, come soluzione di problemi morali e pratici.
Il Croce ha scritto centinaia e centinaia di brevi saggi (recensioni, postille) nei quali il suo pensiero idealistico circola intimamente, senza pedanterie scolastiche; ogni soluzione sembra a sé stante, accettabile indipendentemente dalle altre soluzioni, in quanto è appunto presentata come espressione del comune buon senso. Ancora: l’attività del Croce si presenta essenzialmente come critica, incomincia col distruggere una serie di pregiudizi tradizionali, col mostrare falsi e inconcludenti una serie di problemi che erano il comico «dada» dei filosofi precedenti, ecc., identificandosi in ciò con l’atteggiamento che verso questo vecchiume aveva sempre mostrato il senso comune.
Q10b §5 Croce e la religione. La posizione del Croce verso la religione è uno dei punti più importanti da analizzare per comprendere il significato storico del crocismo nella storia della cultura italiana. Per il Croce la religione è una concezione della realtà con una morale conforme a questa concezione, presentata in forma mitologica. Pertanto è religione ogni filosofia, cioè ogni concezione del mondo, in quanto è diventata «fede», cioè considerata non come attività teoretica (di creazione di nuovo pensiero) ma come stimolo all’azione (attività etico‑politica concreta, di creazione di nuova storia). Il Croce tuttavia è molto cauto nei suoi rapporti con la religione tradizionale: lo scritto più «avanzato», è il capitolo iv dei «Frammenti di Etica» (p. 23 del volume Etica e politica), Religione e serenità, che fu pubblicato la prima volta durante la guerra, verso la fine del 1916 o ai primi del 1917. Sebbene il Croce non pare voglia fare nessuna concessione intellettuale alla religione (neppure del genere molto equivoco di quelle che fa il Gentile) e a ogni forma di misticismo, tuttavia il suo atteggiamento è tutt’altro che combattivo e militante. Questa posizione è anzi molto significativa e da mettere in rilievo. Una concezione del mondo non può rivelarsi valida a permeare tutta una società e a diventare «fede» se non quando dimostra di essere capace di sostituire le concezioni e fedi precedenti in tutti i gradi della vita statale. Ricorrere alla teoria hegeliana della religione mitologica come filosofia delle società primitive l’infanzia dell’umanità per giustificare l’insegnamento confessionale sia pure nelle sole scuole elementari, non significa altro se non ripresentare sofisticata la formula della «religione buona per il popolo» e in realtà abdicare e capitolare dinanzi all’organizzazione clericale. Non può non essere rilevato inoltre che una fede che non si riesce a tradurre in termini «popolari» mostra per ciò stesso di essere caratteristica di un determinato gruppo sociale.
Nonostante questa posizione verso la religione, la filosofia del Croce è stata molto studiata dai cattolici del gruppo neo‑scolastico e soluzioni di problemi particolari sono state accolte dall’Olgiati e dal Chiocchetti (il libro dell’Olgiati su Marx è costruito con materiali critici crociani; il Chiocchetti nel suo volume sulla Filosofia di B. Croce difende l’accoglimento di alcune dottrine crociane, come quella dell’origine pratica dell’errore). C’è stato un periodo in cui i neo- scolastici, che avevano rappresentato il tentativo di incorporare nel tomismo le moderne dottrine scientifiche e il positivismo del secolo XIX, di fronte al discredito che il positivismo godeva fra gli intellettuali e alle fortune del neoidealismo, tentarono di trovare un terreno d’accordo tra il tomismo e l’idealismo e quindi una certa fortuna, tra loro, delle filosofie del Croce e del Gentile. Da qualche tempo i neoscolastici stanno concentrandosi su un terreno più ristretto e più proprio, e combattono contro ogni infiltrazione idealistica nelle loro dottrine: certo essi credono di poter ereditare tutto ciò che può essere salvato del positivismo e di appropriarselo, diventando i soli oppositori teorici dell’idealismo.
Oggi l’opposizione dei cattolici al Croce si va intensificando, per ragioni specialmente pratiche (è molto diverso l’atteggiamento critico della «Civiltà Cattolica» verso il Croce e verso il Gentile); i cattolici capiscono molto bene che il significato e la funzione intellettuale del Croce non sono paragonabili a quelli dei filosofi tradizionali, ma sono quelli di un vero riformatore religioso, che per lo meno riesce a mantenere il distacco tra intellettuali e cattolicismo e quindi a rendere, in una certa misura, difficile anche una forte ripresa clericale nelle masse popolari. Per il Croce, «dopo Cristo siamo diventati tutti cristiani», cioè la parte vitale del cristianesimo è stata assorbita dalla civiltà moderna e si può vivere senza «religione mitologica».
La polemica anticrociana da parte di cattolici laici non è di molto momento: sono da ricordare l’articolo di Giovanni Papini Il Crocee la Croce nella «Nuova Antologia» del 1° marzo 1932 e quello di Aldo Ferrabino L’Europa in Utopia nella «Nuova Antologia» del 1° aprile 1932.
Nota 1a. L’osservazione di maggior rilievo fatta dal Papini alla Storia d’Europa, e che sia congruente, è quella riguardante gli ordini religiosi. Ma l’osservazione non è valida, poiché è verissimo che dopo il Concilio di Trento e la fondazione della Compagnia di Gesù, non sorse più nessun grande ordine religiosamente attivo e fecondo di nuove o rinnovate correnti di sentimento cristiano; sorsero nuovi ordini, è vero, ma essi ebbero un carattere, per così dire, prevalentemente amministrativo e corporativo. Il giansenismo e il modernismo, che furono i due grandi movimenti religiosi e rinnovatori che sorsero nel seno della Chiesa in questo periodo, non hanno suscitato ordini nuovi o rinnovato i vecchi.
Nota 2a. L’articolo del Ferrabino è più notevole per una certa rivendicazione di realismo storico contro le astrazioni speculative. Ma è astratto anch’esso e presenta un’improvvisazione interpretativa della storia del secolo XIX molto sconnessa e di carattere cattolico‑rettorico, con prevalenza della rettorica. Il rilievo a p. 348 riguardante Marx è anacronistico, poiché le teorie marxiste sullo Stato erano tutte elaborate prima della fondazione dell’Impero tedesco e anzi furono abbandonate dalla socialdemocrazia proprio nel periodo di espansione del principio imperiale, ciò che mostra, al contrario di quanto scrive il Ferrabino, come l’Impero ebbe la capacità di influenzare e assimilare tutte le forze sociali della Germania.
Q10b §6 Croce e la tradizione storiografica italiana. Si può dire che la storiografia del Croce è una rinascita della storiografia della Restaurazione adattata alle necessità e agli interessi del periodo attuale. Il Croce continua la storiografia della corrente neoguelfa di prima del 48 come fu irrobustita attraverso l’hegelismo dai moderati che dopo il 48 continuarono la corrente neoguelfa. Questa storiografia è un hegelismo degenerato e mutilato, perché la sua preoccupazione fondamentale è un timor panico dei movimenti giacobini, di ogni intervento attivo delle grandi masse popolari come fattore di progresso storico. È da vedere come la formula critica di Vincenzo Cuoco sulle «rivoluzioni passive», che quando fu emessa (dopo il tragico esperimento della Repubblica Partenopea del 1799) aveva un valore di avvertimento e avrebbe dovuto creare una morale nazionale di maggiore energia e di iniziativa rivoluzionaria popolare, si convertì, attraverso il cervello e il panico sociale dei neoguelfi‑moderati, in una concezione positiva, in un programma politico e in una morale che dietro i rutilanti orpelli retorici e nazionalistici di «primato», di «iniziativa italiana», di «l’Italia farà da sé», nascondeva l’inquietezza dell’«apprendista negromante» e l’intenzione di abdicare e capitolare alla prima minaccia seria di una rivoluzione italiana profondamente popolare, cioè radicalmente nazionale.
Un fenomeno culturale paragonabile a quello dei neoguelfi‑moderati, sebbene in una posizione storico‑politica più avanzata, è il sistema di ideologia del Proudhon in Francia. Sebbene l’affermazione possa apparire paradossale, mi pare si possa dire che il Proudhon è il Gioberti della situazione francese poiché Proudhon ha verso il movimento operaio francese la stessa posizione del Gioberti di fronte al movimento liberale‑nazionale italiano. Si ha nel Proudhon una stessa mutilazione dell’hegelismo e della dialettica che nei moderati italiani e pertanto la critica a questa concezione politico‑storiografica è la stessa, sempre viva e attuale, contenuta nella Miseria della filosofia. Questa concezione fu definita da Edgar Quinet di «rivoluzione‑restaurazione» che non è se non la traduzione francese del concetto di «rivoluzione passiva» interpretato «positivamente» dai moderati italiani. L’errore filosofico (di origine pratica!) di tale concezione consiste in ciò che nel processo dialettico si presuppone «meccanicamente» che la tesi debba essere «conservata» dall’antitesi per non distruggere il processo stesso, che pertanto viene «preveduto», come una ripetizione all’infinito, meccanica, arbitrariamente prefissata. In realtà si tratta di uno dei tanti modi di «mettere le brache al mondo», di una delle tante forme di razionalismo antistoricistico. La concezione hegeliana, pur nella sua forma speculativa, non consente tali addomesticamenti e costrizioni mutilatrici, pur non dando luogo con ciò a forme di irrazionalismo e arbitrarietà, come quelle contenute nella concezione bergsoniana. Nella storia reale l’antitesi tende a distruggere la tesi, la sintesi sarà un superamento, ma senza che si possa a priori stabilire ciò che della tesi sarà «conservato» nella sintesi, senza che si possa a priori «misurare» i colpi come in un «ring» convenzionalmente regolato. Che questo poi avvenga di fatto è quistione di «politica» immediata, perché nella storia reale il processo dialettico si sminuzza in momenti parziali innumerevoli; l’errore è di elevare a momento metodico ciò che è pura immediatezza, elevando appunto l’ideologia a filosofia (sarebbe come se si ritenesse elemento «matematico» ciò che risulta da questo apologo: si domanda a un bambino: – tu hai una mela, ne dai la metà a tuo fratello; quanta mela mangerai tu? – Il bambino risponde: – una mela. – Ma come; non hai dato mezza mela a tuo fratello? – Ma io non gliela ho data, ecc. Nel sistema logico si introduce l’elemento passionale immediato e poi si pretende che rimanga valido il valore strumentale del sistema).
Che un tal modo di concepire la dialettica fosse errato e «politicamente» pericoloso, si accorsero gli stessi moderati hegeliani del Risorgimento come lo Spaventa: basta ricordare le sue osservazioni su quelli che vorrebbero, con la scusa che il momento dell’autorità è imprescindibile e necessario, conservare l’uomo sempre in «culla» e in schiavitù. Ma non potevano reagire oltre certi limiti, oltre i limiti del loro gruppo sociale che si trattava «concretamente» di far uscire di «culla»: la composizione fu trovata nella concezione «rivoluzione‑restaurazione» ossia in un conservatorismo riformistico temperato. Si può osservare che un tal modo di concepire la dialettica è proprio degli intellettuali, i quali concepiscono se stessi come gli arbitri e i mediatori delle lotte politiche reali, quelli che impersonano la «catarsi» dal momento economico al momento etico‑politico, cioè la sintesi del processo dialettico stesso, sintesi che essi «manipolano» speculativamente nel loro cervello dosandone gli elementi «arbitrariamente» (cioè passionalmente). Questa posizione giustifica il loro non «impegnarsi» interamente nell’atto storico reale ed è indubbiamente comoda: è la posizione di Erasmo nei confronti della Riforma.
Q10b §7 Definizione del concetto di storia etico‑politica. Si osserva che la storia etico‑politica è una ipostasi arbitraria e meccanica del momento dell’egemonia, della direzione politica, del consenso, nella vita e nello svolgimento dell’attività dello Stato e della società civile. Questa impostazione che il Croce ha fatto del problema storiografico riproduce la sua impostazione del problema estetico; il momento etico‑politico è nella storia ciò che il momento della «forma» è nell’arte; è la «liricità» della storia, la «catarsi» della storia. Ma le cose non sono così semplici nella storia come nell’arte. Nell’arte la produzione di «liricità» è individuata perfettamente in un mondo culturale personalizzato, nel quale si può ammettere l’identificazione di contenuto e forma e la così detta dialettica dei distinti nell’unità dello spirito (si tratta solo di tradurre in linguaggio storicistico il linguaggio speculativo, nel trovare cioè se questo linguaggio speculativo ha un valore strumentale concreto che sia superiore ai precedenti valori strumentali). Ma nella storia e nella produzione della storia la rappresentazione «individualizzata» degli Stati e delle Nazioni è una mera metafora.
Le «distinzioni» che in tali rappresentazioni occorre fare non sono e non possono essere presentate «speculativamente» sotto pena di cadere in una nuova forma di rettorica e in una nuova specie di «sociologia», che per essere «speculativa» non sarebbe meno un’astratta e meccanica sociologia: esse esistono come distinzioni di gruppi «verticali» e come stratificazioni «orizzontali», cioè come una coesistenza e giustapposizione di civiltà e culture diverse, connesse dalla coercizione statale e organizzate culturalmente in una «coscienza morale», contradditoria e nello stesso tempo «sincretistica». A questo punto occorre una critica della concezione crociana del momento politico come momento della «passione» (inconcepibilità di una «passione» permanente e sistematica), la sua negazione dei «partiti politici» (che sono appunto la manifestazione concreta della inconcepibile permanenza passionale, la prova della contraddizione intima del concetto «politica‑passione») e quindi l’inesplicabilità degli eserciti permanenti e dell’esistenza organizzata della burocrazia militare e civile, e la necessità per il Croce e per la filosofia crociana di essere la matrice dell’«attualismo» gentiliano. Infatti solo in una filosofia ultra speculativa come quella attualistica, queste contraddizioni e insufficienze della filosofia crociana trovano una composizione formale e verbale, ma nello stesso tempo l’attualismo mostra in modo più evidente il carattere poco concreto della filosofia, del Croce, così come il «solipsismo» documenta l’intima debolezza della concezione soggettiva‑speculativa della realtà.
Che la storia etico‑politica sia la storia del momento dell’egemonia si può vedere da tutta una serie di scritti teorici del Croce (e non solo da quelli contenuti nel volume Etica e politica); di questi scritti occorrerà fare un’analisi concreta. Si può vedere anche e specialmente da alcuni accenni sparsi sul concetto di Stato. Per esempio in qualche luogo il Croce ha affermato che non sempre occorre ricercare lo «Stato» là dove lo indicherebbero le istituzioni ufficiali, perché talvolta esso potrebbe trovarsi invece nei partiti rivoluzionari: l’affermazione non è paradossale secondo la concezione Stato ‑ egemonia ‑ coscienza morale, perché può infatti accadere che la direzione politica e morale del paese in un determinato frangente non sia esercitata dal governo legale ma da una organizzazione «privata» e anche da un partito rivoluzionario. Ma non è difficile mostrare quanto sia arbitraria la generalizzazione che fa il Croce di questa osservazione di senso comune.
Il problema più importante da discutere in questo paragrafo è questo: se la filosofia della praxis escluda la storia etico‑politica, cioè non riconosca la realtà di un momento dell’egemonia, non dia importanza alla direzione culturale e morale e giudichi realmente come «apparenze» i fatti di superstruttura. Si può dire che non solo la filosofia della praxis non esclude la storia etico‑politica, ma che anzi la fase più recente di sviluppo di essa consiste appunto nella rivendicazione del momento dell’egemonia come essenziale nella sua concezione statale e nella «valorizzazione» del fatto culturale, dell’attività culturale, di un fronte culturale come necessario accanto a quelli meramente economici e meramente politici. Il Croce ha il torto grave di non applicare alla critica della filosofia della praxis i criteri metodologici che applica allo studio di correnti filosofiche molto meno importanti e significative. Se questi criteri impiegasse potrebbe trovare che il giudizio contenuto nel termine «apparenze» per le superstrutture è niente altro che il giudizio della «storicità» di esse espresso in polemica con concezioni dogmatiche popolari e quindi con un linguaggio «metaforico» adatto al pubblico cui è destinato. La filosofia della praxis criticherà quindi come indebita e arbitraria la riduzione della storia a sola storia etico‑politica, ma non escluderà questa. L’opposizione tra il crocismo e la filosofia della praxis è da ricercare nel carattere speculativo del crocismo.
Rapporti delle teorie crociane sulla storia etico‑politica o storia «religiosa» con le teorie storiografiche di Fustel de Coulanges quali sono contenute nel libro sulla Città Antica. È da notare che la Città Antica è stata pubblicata dal Laterza proprio negli anni scorsi (forse nel 1928) più di 40 anni dopo che fu scritta (Fustel de Coulanges è morto nel 1889), e subito dopo che una traduzione ne era stata offerta dall’editore Vallecchi. È da pensare che l’attenzione del Croce sia stata attirata dal libro francese mentre elaborava le sue teorie e preparava i suoi libri. È da ricordare che nel Contributo alla critica di me stesso, nelle ultime righe (1915), il Croce annunzia di voler scrivere la Storia d’Europa. Sono le riflessioni sulla guerra che l’hanno orientato verso questi problemi storiografici e di scienza politica.
Q10b §8 Trascendenza – teologia – speculazione. Il Croce coglie ogni occasione per mettere in rilievo come egli, nella sua attività di pensatore, abbia studiosamente cercato di espungere dalla sua filosofia ogni traccia e residuo di trascendenza e di teologia e quindi di metafisica, intesa nel senso tradizionale. Così egli, in confronto del concetto di «sistema» ha messo in valore il concetto di problema filosofico, così egli ha negato che il pensiero produca altro pensiero, astrattamente, ed ha affermato che i problemi che il filosofo deve risolvere, non sono una filiazione astratta del precedente pensiero filosofico, ma sono proposti dallo svolgimento storico attuale, ecc. Il Croce è giunto fino ad affermare che la sua ulteriore e recente critica della filosofia della praxis è appunto connessa a questa sua preoccupazione antimetafisica e antiteologica, in quanto la filosofia della praxis sarebbe teologizzante e il concetto di «struttura» non sarebbe che la ripresentazione ingenua del concetto di un «dio ascoso».
Bisogna riconoscere gli sforzi del Croce per fare aderire alla vita la filosofia idealistica, e tra i suoi contributi positivi allo sviluppo della scienza sarà da annoverare la sua lotta contro la trascendenza e la teologia nelle loro forme peculiari al pensiero religioso‑confessionale. Ma che il Croce sia riuscito nel suo intento in modo conseguente non è possibile ammettere: la filosofia del Croce rimane una filosofia «speculativa» e in ciò non è solo una traccia di trascendenza e di teologia, ma è tutta la trascendenza e la teologia, appena liberate dalla più grossolana scorza mitologica. La stessa impossibilità in cui pare si trovi il Croce di comprendere l’assunto della filosofia della praxis (tanto da lasciare l’impressione che si tratti non di una grossolana ignorantia elenchi ma di una gherminella polemica meschina e avvocatesca) mostra come il pregiudizio speculativo lo acciechi e lo devii.
La filosofia della praxis deriva certamente dalla concezione immanentistica della realtà, ma da essa in quanto depurata da ogni aroma speculativo e ridotta a pura storia o storicità o a puro umanesimo. Se il concetto di struttura viene concepito «speculativamente», certo esso diventa un «dio ascoso»; ma appunto esso non deve essere concepito speculativamente, ma storicamente, come l’insieme dei rapporti sociali in cui gli uomini reali si muovono e operano, come un insieme di condizioni oggettive che possono e debbono essere studiate coi metodi della «filologia» e non della «speculazione». Come un «certo» che sarà anche «vero», ma che deve essere studiato prima di tutto nella sua «certezza» per essere studiato come «verità». Non solo la filosofia della praxis è connessa all’immanentismo, ma anche alla concezione soggettiva della realtà, in quanto appunto la capovolge, spiegandola come fatto storico, come «soggettività storica di un gruppo sociale», come fatto reale, che si presenta come fenomeno di «speculazione» filosofica ed è semplicemente un atto pratico, la forma di un contenuto concreto sociale e il modo di condurre l’insieme della società a foggiarsi una unità morale. L’affermazione che si tratti di «apparenza», non ha nessun significato trascendente e metafisico, ma è la semplice affermazione della sua «storicità», del suo essere «morte‑vita», del suo rendersi caduca perché una nuova coscienza sociale e morale si sta sviluppando, più comprensiva, superiore, che si pone come sola «vita», come sola «realtà» in confronto del passato morto e duro a morire nello stesso tempo. La filosofia della praxis è la concezione storicistica della realtà, che si è liberata da ogni residuo di trascendenza e di teologia anche nella loro ultima incarnazione speculativa; lo storicismo idealistico crociano rimane ancora nella fase teologico‑speculativa.
Q10b §9 Paradigmi di storia etico‑politica. La Storia dell’Europa nel secolo XIX pare sia il saggio di storia etico‑politica che deve diventare il paradigma della storiografia crociana offerto alla cultura europea. Ma occorre tener conto degli altri saggi: Storia del regno di Napoli, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, e anche La rivoluzione napoletana del 1799 e Storia dell’età barocca in Italia. I più tendenziosi e dimostrativi sono però la Storia d’Europa e la Storia d’Italia. Per questi due saggi si pongono subito le domande: è possibile scrivere (concepire) una storia d’Europa nel secolo XIX senza trattare organicamente della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche? e può farsi una storia d’Italia nell’età moderna senza trattare delle lotte del Risorgimento? Ossia: è a caso o per una ragione tendenziosa che il Croce inizia le sue narrazioni dal 1815 e dal 1871? cioè prescinde dal momento della lotta, dal momento in cui si elaborano e radunano e schierano le forze in contrasto? dal momento in cui un sistema etico‑politico si dissolve e un altro si elabora nel fuoco e col ferro? in cui un sistema di rapporti sociali si sconnette e decade e un altro sistema sorge e si afferma? e invece assume placidamente come storia il momento dell’espansione culturale o etico‑politico? Si può dire pertanto che il libro sulla Storia d’Europa non è altro che un frammento di storia, l’aspetto «passivo» della grande rivoluzione che si iniziò in Francia nel 1789, traboccò nel resto d’Europa con le armate repubblicane e napoleoniche, dando una potente spallata ai vecchi regimi, e determinandone non il crollo immediato come in Francia, ma la corrosione «riformistica» che durò fino al 1870.
Si pone il problema se questa elaborazione crociana, nella sua tendenziosità non abbia un riferimento attuale e immediato, non abbia il fine di creare un movimento ideologico corrispondente a quello del tempo trattato dal Croce, di restaurazione‑rivoluzione, in cui le esigenze che trovarono in Francia una espressione giacobino‑napoleonica furono soddisfatte a piccole dosi, legalmente, riformisticamente, e si riuscì così a salvare la posizione politica ed economica delle vecchie classi feudali, a evitare la riforma agraria e specialmente a evitare che le masse popolari attraversassero un periodo di esperienze politiche come quelle verificatesi in Francia negli anni del giacobinismo, nel 1831, nel 1848. Ma nelle condizioni attuali il movimento corrispondente a quello del liberalismo moderato e conservatore non sarebbe più precisamente il movimento fascista? Forse non è senza significato che nei primi anni del suo sviluppo il fascismo affermasse di riannodarsi alla tradizione della vecchia destra o destra storica. Potrebbe essere una delle tante manifestazioni paradossali della storia (un’astuzia della natura, per dirla vichianamente) questa per cui il Croce, mosso da preoccupazioni determinate, giungesse a contribuire a un rafforzamento del fascismo, fornendogli indirettamente una giustificazione mentale dopo aver contribuito a depurarlo di alcune caratteristiche secondare, di ordine superficialmente romantico ma non perciò meno irritanti per la compostezza classica del Goethe.
L’ipotesi ideologica potrebbe essere presentata in questi termini: si avrebbe una rivoluzione passiva nel fatto che per l’intervento legislativo dello Stato e attraverso l’organizzazione corporativa, nella struttura economica del paese verrebbero introdotte modificazioni più o meno profonde per accentuare l’elemento «piano di produzione», verrebbe accentuata cioè la socializzazione e cooperazione della produzione senza per ciò toccare (o limitandosi solo a regolare e controllare) l’appropriazione individuale e di gruppo del profitto. Nel quadro concreto dei rapporti sociali italiani questa potrebbe essere l’unica soluzione per sviluppare le forze produttive dell’industria sotto la direzione delle classi dirigenti tradizionali, in concorrenza con le più avanzate formazioni industriali di paesi che monopolizzano le materie prime e hanno accumulato capitali imponenti.
Che tale schema possa tradursi in pratica e in quale misura e in quali forme, ha un valore relativo: ciò che importa politicamente e ideologicamente è che esso può avere ed ha realmente la virtù di prestarsi a creare un periodo di attesa e di speranze, specialmente in certi gruppi sociali italiani, come la grande massa dei piccoli borghesi urbani e rurali, e quindi a mantenere il sistema egemonico e le forze di coercizione militare e civile a disposizione delle classi dirigenti tradizionali. Questa ideologia servirebbe come elemento di una «guerra di posizione» nel campo economico (la libera concorrenza e il libero scambio corrisponderebbero alla guerra di movimento) internazionale, così come la «rivoluzione passiva» lo è nel campo politico. Nell’Europa dal 1789 al 1870 si è avuta una guerra di movimento (politica) nella rivoluzione francese e una lunga guerra di posizione dal 1815 al 1870; nell’epoca attuale, la guerra di movimento si è avuta politicamente dal marzo 1917 al marzo 1921 ed è seguita una guerra di posizione il cui rappresentante, oltre che pratico (per l’Italia), ideologico, per l’Europa, è il fascismo.
Q10b §10 La libertà come identità di storia e di spirito e la libertà come religione-superstizione, come ideologia immediatamente circostanziata, come strumento pratico di governo. Se la storia è storia della libertà – secondo la proposizione di Hegel – la formula è valida per la storia di tutto il genere umano di ogni tempo e di ogni luogo, è libertà anche la storia delle satrapie orientali. Libertà allora significa solo «movimento», svolgimento, dialettica. Anche la storia delle satrapie orientali è stata libertà, perché è stata movimento e svolgimento, tanto è vero che quelle satrapie sono crollate. Ancora: la storia è libertà in quanto è lotta tra libertà e autorità, tra rivoluzione e conservazione, lotta in cui la libertà e la rivoluzione continuamente prevalgono sull’autorità e la conservazione. Ma ogni corrente e ogni partito non sono in tal caso espressioni della libertà, momenti dialettici del processo di libertà? Qual è dunque la caratteristica del secolo XIX in Europa? Non di essere storia della libertà consapevole di esser tale; nel secolo XIX in Europa esiste una coscienza critica prima non esistente, si fa la storia sapendo quello che si fa, sapendo che la storia è storia della libertà, ecc. L’accezione del termine «liberale», in Italia per esempio, è stata in questo periodo molto estesa e comprensiva.
Negli Annali d’Italia di Pietro Vigo liberali sono tutti i non clericali, tutti gli avversari del partito del Sillabo e quindi il liberalismo comprende anche gli Internazionalisti. Ma si è costituita una corrente e un partito che si è specificatamente chiamata liberale, che della posizione speculativa e contemplativa della filosofia hegeliana ha fatto una ideologia politica immediata, uno strumento pratico di dominio e di egemonia sociale, un mezzo di conservazione di particolari istituti politici ed economici fondati nel corso della Rivoluzione francese, e del riflusso che la Rivoluzione francese ebbe in Europa. Un nuovo partito conservatore era nato, una nuova posizione d’autorità si era costituita, e questo nuovo partito tendeva precisamente a fondersi col partito del Sillabo. E questa coalizione sarebbe ancora stata chiamata partito della libertà.
Si pongono alcuni problemi: 1) cosa significa concretamente «libertà» per ognuna delle tendenze europee del secolo XIX? 2) Queste tendenze si muovevano per il concetto di libertà o non piuttosto per il contenuto particolare con cui riempivano il formale concetto di libertà? E il non aver nessun partito centralizzato le aspirazioni delle grandi masse contadine per una riforma agraria non ha appunto impedito a queste masse di diventare fedeli della religione della libertà, ma libertà ha significato per esse solo la libertà e il diritto di conservare le loro superstizioni barbariche, il loro primitivismo e le ha perciò costituite in esercito di riserva del partito del Sillabo? Un concetto come quello di libertà che si presta ad essere impiegato dagli stessi gesuiti, contro i liberali, che diventano libertini di contro ai «veri» partigiani della giusta libertà, non è appunto solo un involucro concettuale che vale solo per il nocciolo reale che ogni gruppo sociale vi pone? E si può quindi parlare di «religione della libertà»? E intanto cosa significa in questo caso «religione»?
Per il Croce è religione ogni concezione del mondo che si presenti come una morale. Ma è avvenuto questo per la «libertà»? Essa è stata religione per un piccolo numero di intellettuali; nelle masse si è presentata come elemento costitutivo di una combinazione o lega ideologica, di cui era parte costitutiva prevalente la vecchia religione cattolica e di cui altro elemento importante, se non decisivo dal punto di vista laico, fu quello di «patria». Né si dica che il concetto di «patria» era un sinonimo di «libertà»; era certo un sinonimo, ma di Stato, cioè d’autorità e non di «libertà», era un elemento di «conservazione» e una sorgente di persecuzioni e di un nuovo Santo Uffizio. Mi pare che il Croce non riesca, neppure dal suo punto di vista, a mantenere la distinzione tra «filosofia» e «ideologia», tra «religione» e «superstizione» che nel suo modo di pensare e nella sua polemica con la filosofia della praxis è essenziale.
Crede di trattare di una filosofia e tratta di una ideologia, crede di trattare di una religione e tratta di una superstizione, crede di scrivere una storia in cui l’elemento di classe sia esorcizzato e invece descrive con grande accuratezza e merito il capolavoro politico per cui una determinata classe riesce a presentare e far accettare le condizioni della sua esistenza e del suo sviluppo di classe come principio universale, come concezione del mondo, come religione, cioè descrive in atto lo sviluppo di un mezzo pratico di governo e di dominio. L’errore di origine pratica non è stato commesso in tal caso dai liberali del secolo XIX, che anzi praticamente hanno trionfato, hanno raggiunto i fini propostisi; l’errore di origine pratica è commesso dal loro storico Croce che dopo aver distinto filosofia da ideologia finisce col confondere una ideologia politica con una concezione del mondo, dimostrando praticamente che la distinzione è impossibile, che non si tratta di due categorie, ma di una stessa categoria storica e che la distinzione è solo di grado; è filosofia la concezione del mondo che rappresenta la vita intellettuale e morale (catarsi di una determinata vita pratica) di un intero gruppo sociale concepito in movimento e visto quindi non solo nei suoi interessi attuali e immediati, ma anche in quelli futuri e mediati; è ideologia ogni particolare concezione dei gruppi interni della classe che si propongono di aiutare la risoluzione di problemi immediati e circoscritti.
Ma per le grandi masse della popolazione governata e diretta, la filosofia o religione del gruppo dirigente e dei suoi intellettuali si presenta sempre come fanatismo e superstizione, come motivo ideologico proprio di una massa servile. E il gruppo dirigente non si propone forse di perpetuare questo stato di cose? Il Croce dovrebbe spiegare come mai la concezione del mondo della libertà non possa diventare elemento pedagogico nell’insegnamento delle scuole elementari e come egli stesso, da ministro, abbia introdotto nelle scuole elementari l’insegnamento della religione confessionale. Questa assenza di «espansività» nelle grandi masse è la testimonianza del carattere ristretto, pratico immediatamente, della filosofia della libertà.
Nota I. A proposito del concetto di autorità e libertà è da meditare specialmente il capitolo «Stato e Chiesa in senso ideale e loro perpetua lotta nella storia» del libro Etica e Politica (pp. 339 e sgg.). Questo capitolo è di estremo interesse perché in esso sono attenuate implicitamente la critica e l’opposizione alla filosofia della praxis e l’elemento «economico» e pratico trova una considerazione nella dialettica storica.
Q10b §11 Si può dire, tuttavia, che nella concezione del Croce, pur dopo l’elaborazione subita in questi ultimi anni, non ci sia più traccia di filosofia della praxis? Lo storicismo del Croce non risente proprio più nessun influsso della sua esperienza intellettuale degli anni dal 90 al 900? La posizione del Croce per questo riguardo risulta da vari scritti; interessanti specialmente la prefazione del 1917 alla nuova edizione del Materialismo storico, la sezione dedicata al materialismo storico nella Storia della Storiografia italiana nel secolo XIX e il Contributo alla critica di me stesso. Ma se interessa ciò che il Croce pensa di se stesso, esso non è sufficiente e non esaurisce la quistione. Secondo il Croce, la sua posizione verso la filosofia della praxis non è quella di un ulteriore sviluppo (di un superamento) per cui la filosofia della praxis sia diventata un momento di una concezione più elaborata, ma il valore dell’esperienza sarebbe stato solo negativo, nel senso che avrebbe contribuito a distruggere pregiudizi, residui passionali, ecc. Per impiegare una metafora presa dal linguaggio della fisica, la filosofia della praxis avrebbe operato nella mentalità del Croce come un corpo catalitico, che è necessario per ottenere il nuovo prodotto, ma di cui non rimane traccia nel prodotto stesso. Ma è poi ciò vero? A me pare che sotto la forma e il linguaggio speculativo sia possibile rintracciare più di un elemento della filosofia della praxis nella concezione del Croce.
Si potrebbe forse dire di più e questa ricerca sarebbe di immenso significato storico e intellettuale nell’epoca presente e cioè: che come la filosofia della praxis è stata la traduzione dell’hegelismo in linguaggio storicistico, così la filosofia del Croce è in una misura volissima una ritraduzione in linguaggio speculativo dello storicismo realistico della filosofia della praxis. Nel febbraio 1917 in un breve corsivo che precedeva la riproduzione dello scritto del Croce Religione e serenità (cfr Etica e Politica, pp. 23‑25) allora uscito di recente nella «Critica» io scrissi che come l’hegelismo era stato la premessa della filosofia della praxis nel secolo XIX, alle origini della civiltà contemporanea, così la filosofia crociana poteva essere la premessa di una ripresa della filosofia della praxis nei giorni nostri, per le nostre generazioni. La quistione era appena accennata, in una forma certo primitiva e certissimamente inadeguata, poiché in quel tempo il concetto di unità di teoria e pratica, di filosofia e politica non era chiaro in me ed io ero tendenzialmente piuttosto crociano. Ma ora, sia pure non colla maturità e la capacità che all’assunto sarebbero necessarie, mi pare che la posizione sia da riprendere, e da presentare in forma criticamente più elaborata. E cioè: occorre rifare per la concezione filosofica del Croce la stessa riduzione che i primi teorici della filosofia della praxis hanno fatto per la concezione hegeliana. È questo il solo modo storicamente fecondo di determinare una ripresa adeguata della filosofia della praxis, di sollevare questa concezione che si è venuta, per la necessità della vita pratica immediata, «volgarizzando», all’altezza che deve raggiungere per la soluzione dei compiti più complessi che lo svolgimento attuale della lotta propone, cioè alla creazione di una nuova cultura integrale, che abbia i caratteri di massa della Riforma protestante e dell’illuminismo francese e abbia i caratteri di classicità della cultura greca e del Rinascimento italiano, una cultura che riprendendo le parole del Carducci sintetizzi Massimiliano Robespierre ed Emanuele Kant, la politica e la filosofia in una unità dialettica intrinseca ad un gruppo sociale non solo francese o tedesco, ma europeo e mondiale. Bisogna che l’eredità della filosofia classica tedesca sia non solo inventariata, ma fatta ridiventare vita operante, e per ciò fare occorre fare i conti con la filosofia di Croce, cioè per noi italiani essere eredi della filosofia classica tedesca significa essere eredi della filosofia crociana, che rappresenta il momento mondiale odierno della filosofia classica tedesca.
Il Croce combatte con troppo accanimento la filosofia della praxis e nella sua lotta ricorre ad alleati paradossali, come il mediocrissimo De Man. Questo accanimento è sospetto, può rivelarsi un alibi per negare una resa dei conti. Occorre invece venire a questa resa di conti, nel modo più ampio e approfondito possibile. Un lavoro di tal genere, un Anti‑Croce che nell’atmosfera culturale moderna potesse avere il significato e l’importanza che ha avuto l’Anti-Dühring per la generazione precedente la guerra mondiale, varrebbe la pena che un intero gruppo di uomini ci dedicasse dieci anni di attività.
Nota I. Le tracce della filosofia della praxis possono trovarsi specialmente nella soluzione che il Croce ha dato di problemi particolari. Un esempio tipico mi pare la dottrina dell’origine pratica dell’errore. In generale si può dire che la polemica contro la filosofia dell’atto puro di Giovanni Gentile ha costretto il Croce a un maggior realismo e a provare un certo fastidio e insofferenza almeno per le esagerazioni del linguaggio speculativo, divenuto gergo e «apriti, sesamo» dei minori fraticelli attualisti.
Nota II. Ma la filosofia del Croce non può essere tuttavia esaminata indipendentemente da quella del Gentile. Un Anti‑Croce deve essere anche un Anti‑Gentile; l’attualismo gentiliano darà gli effetti di chiaroscuro nel quadro che sono necessari per un maggior rilievo.
Q10b §12 Da tutto ciò che è detto precedentemente risulta che la concezione storiografica del Croce della storia come storia etico‑politica non deve essere giudicata una futilità da respingere senz’altro. Occorre invece fissare con grande energia che il pensiero storiografico del Croce, anche nella sua fase più recente, deve essere studiato e meditato con la massima attenzione. Esso rappresenta essenzialmente una reazione all’«economismo» e al meccanicismo fatalista, sebbene si presenti come superamento distruttivo della filosofia della praxis. Anche nel giudizio del pensiero crociano vale il criterio che una corrente filosofica deve essere criticata e valutata non per quello che pretende di essere, ma per quello che è realmente e si manifesta nelle opere storiche concrete. Per la filosofia della praxis lo stesso metodo speculativo non è futilità, ma è stato fecondo di valori «strumentali» del pensiero nello svolgimento della cultura, valori strumentali che la filosofia della praxis si è incorporata (la dialettica, per esempio).
Il pensiero del Croce deve dunque, per lo meno, essere apprezzato come valore strumentale, e così si può dire che esso ha energicamente attirato l’attenzione sull’importanza dei fatti di cultura e di pensiero nello sviluppo della storia, sulla funzione dei grandi intellettuali nella vita organica della società civile e dello Stato, sul momento dell’egemonia e del consenso come forma necessaria del blocco storico concreto. Che ciò non sia «futile» è dimostrato dal fatto che contemporaneamente al Croce, il più grande teorico moderno della filosofia della praxis, nel terreno della lotta e dell’organizzazione politica, con terminologia politica, ha in opposizione alle diverse tendenze «economistiche» rivalutato il fronte di lotta culturale e costruito la dottrina dell’egemonia come complemento della teoria dello Stato‑forza e come forma attuale della dottrina quarantottesca della «rivoluzione permanente». Per la filosofia della praxis, la concezione della storia etico‑politica, in quanto indipendente da ogni concezione realistica, può essere assunta come un «canone empirico» di ricerca storica da tener sempre presente nell’esame e nell’approfondimento dello sviluppo storico, se si vuol fare storia integrale e non storia parziale ed estrinseca (storia delle forze economiche come tali ecc.).
Q10b §13 . 1) Elementi di storia etico‑politica nella filosofia della praxis: concetto di egemonia, rivalutazione del fronte filosofico, studio sistematico della funzione degli intellettuali nella vita statale e storica, dottrina del partito politico come avanguardia di ogni movimento storico progressivo.
2) Croce‑Loria. Si può mostrare che tra il Croce e il Loria la differenza non è poi molto grande nel modo di interpretare la filosofia della praxis. Il Croce, riducendo la filosofia della praxis a un canone pratico di interpretazione storica, col quale si attira l’attenzione degli storici sull’importanza dei fatti economici, non ha fatto che ridurla ad una forma di «economismo». Se si spoglia il Loria di tutte le sue bizzarrie stilistiche e sfrenatezze fantasmagoriche (e certo molto di ciò che è caratteristico del Loria si viene così a perdere) si vede che egli si avvicina al Croce nel nucleo più serio della sua interpretazione (cfr a questo proposito Conversazioni Critiche, I, pp. 291 sgg.).
3) Storia speculativa e necessità di una più grassa Minerva. Leon Battista Alberti ha scritto dei matematici: «Quelli col solo ingegno, separata ogni materia, misurano le forme delle cose. Noi perché vogliamo le cose essere poste da vedere, per questo useremo più grassa Minerva».
4) Se fosse vero, in modo così generico che la storia dell’Europa del secolo XIX è stata storia della libertà, tutta la storia precedente sarebbe stata altrettanto genericamente storia dell’autorità; tutti i secoli precedenti sarebbero stati di uno stesso color bigio e indistinto, senza svolgimento, senza lotta. Inoltre: un principio egemonico (etico‑politico) trionfa dopo aver vinto un altro principio (e averlo assunto come suo momento, direbbe appunto il Croce). Ma perché lo vincerà? Per sue doti intrinseche di carattere «logico» e razionale astratto? Non ricercare le ragioni di questa vittoria significa fare storia esteriormente descrittiva, senza rilievo di nessi necessari e causali. Anche il Borbone rappresentava un principio etico‑politico, impersonava una «religione» che aveva i suoi fedeli nei contadini e nei lazzari.
C’è dunque sempre stata lotta tra due principii egemonici, tra due «religioni», e occorrerà non solo descrivere l’espansione trionfale di una di esse, ma giustificarla storicamente. Bisognerà spiegare perché nel 1848 i contadini croati combatterono contro i liberali milanesi e i contadini lombardo-veneti combatterono contro i liberali viennesi. Allora il nesso reale etico‑politico tra governanti e governati era la persona dell’imperatore o del re («abbiamo scritto ’n bronte, evviva Francische seconde!»), come più tardi il nesso sarà non quello del concetto di libertà, ma il concetto di patria e di nazione. La «religione» popolare sostituita al cattolicismo (o meglio in combinazione con esso) è stata quella del «patriottismo» e del nazionalismo.
Ho letto che durante l’affare Dreyfus uno scienziato francese massone e ministro esplicitamente disse che il suo partito voleva annientare l’influsso della Chiesa in Francia, e poiché la folla aveva bisogno di un fanatismo (i francesi usano in politica il termine «mystique») sarebbe stata organizzata l’esaltazione del sentimento patriottico. Bisogna ricordare, del resto, il significato che assunse il termine «patriotta» durante la Rivoluzione francese (significò certo «liberale» ma con un significato concreto nazionale) e come esso, attraverso le lotte del secolo XIX sia stato sostituito da quello di «repubblicano» per il nuovo significato assunto dal termine patriotta che è diventato monopolio dei nazionalisti e dei destri in generale. Che il contenuto concreto del liberalismo popolare sia stato il concetto di patria e di nazione si può vedere dal suo stesso svolgimento in nazionalismo, e nella lotta contro il nazionalismo da parte sia del Croce, rappresentante della religione della libertà, come del papa, rappresentante del cattolicismo. (In forma popolaresca una documentazione di questa religione popolare della patria si può ricavare dai sonetti sulla Scoperta dell’America di Pascarella).
5) La storia speculativa può essere considerata come un ritorno, in forme letterarie rese più scaltre o meno ingenue dallo sviluppo della capacità critica, a modi di storia già caduti in discredito come vuoti e retoriciNel ms: «cadute in discredito come vuote e retoriche». e registrati in diversi libri dallo stesso Croce. La storia etico‑politica, in quanto prescinde dal concetto di blocco storico in cui contenuto economico sociale e forma etico‑politica si identificano concretamente nella ricostruzione dei vari periodi storici, è niente altro che una presentazione polemica di filosofemi più o meno interessanti, ma non è storia. Nelle scienze naturali ciò equivarrebbe a un ritorno alle classificazioni secondo il colore della pelle, delle piume, del pelo degli animali, e non secondo la struttura anatomica. Il riferimento alle scienze naturali nel materialismo storico e il parlare di «anatomia» della società era solo una metafora e un impulso ad approfondire le ricerche metodologiche e filosofiche. Nella storia degli uomini, che non ha il compito di classificare naturalisticamente i fatti, il «colore della pelle» fa «blocco» con la struttura anatomica e con tutte le funzioni fisiologiche; non si può pensare un individuo «scuoiato» come il vero «individuo», ma neanche l’individuo «disossato» e senza scheletro. Uno scultore, Rodin, ha detto (cfr Maurice Barrès, Mes Cahiers, IV serie): «Si nous n’étions pas prévenus contre le squelette, nous verrions comme il est beau». In un quadro o in una statua di Michelangelo si «vede» lo scheletro delle figure ritratte, si sente la sodezza della struttura sotto i colori o il rilievo del marmo. La storia del Croce rappresenta «figure» disossate, senza scheletro, dalle carni flaccide e cascanti anche sotto il belletto delle veneri letterarie dello scrittore.
6) Il trasformismo come una forma della rivoluzione passiva nel periodo dal 1870 in poi.
7) Per valutare la funzione del Croce nella vita italiana ricordare che tanto le Memorie di Giolitti che quelle di Salandra si concludono con una lettera del Croce.
8) Con linguaggio crociano si può dire che la religione della libertà si oppone alla religione del Sillabo, che nega in tronco la civiltà moderna; la filosofia della praxis è un’«eresia» della religione della libertà, perché è nata nello stesso terreno della civiltà moderna.