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Library:Prison Notebooks In Original Italian/Notebook 17: Difference between revisions

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Written in 1933-35
   QUADERNO 17
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Written in 1933-35

 QUADERNO 17


         MISCELLANEA


Q17 §1 Umanesimo e Rinascimento. Cosa significa che il Rinascimento abbia scoperto «l’uomo», abbia fatto dell’uomo il centro dell’universo ecc. ecc.? Forse che prima del Rinascimento l’«uomo» non era il centro dell’universo ecc.? Si potrà dire che il Rinascimento ha creato una nuova cultura o civiltà in opposizione a quelle precedenti o che sviluppano quelle precedenti, ma occorre «limitare» ossia «precisare» in che questa cultura consista ecc. Davvero che prima del Rinascimento l’«uomo» era nulla ed è diventato tutto? o si è sviluppato un processo di formazione culturale in cui l’uomo tende a diventare tutto? Pare si debba dire che prima del Rinascimento il trascendente formasse la base della cultura medioevale, ma quelli che rappresentavano questa cultura erano forse «nulla» oppure quella cultura non era il modo di essere «tutto» per loro? Se il Rinascimento è una grande rivoluzione culturale, non è perché dal «nulla» tutti gli uomini abbiano cominciato a pensare di essere «tutto», ma perché questo modo di pensare si è diffuso, è diventato un fermento universale ecc. Non è stato «scoperto» l’uomo, ma è stata iniziata una nuova forma di cultura, cioè di sforzo per creare un nuovo tipo di uomo nelle classi dominanti.

Q17 §2 Passato e presente. Una definizione inglese della civiltà: «La civiltà è stata definita un sistema di controllo e di direzione che sviluppa nel modo più rigogliosamente economico la massima potenzialità di un popolo». La traduzione non pare esatta: «rigogliosamente economico» cosa significa? La definizione nel complesso dice poco perché è troppo generica. A «civiltà» può sostituirsi «regime politico», «governo», con un significato più preciso.

Q17 §3 Umanesimo e Rinascimento. Da una recensione («Nuova Antologia» del 1° agosto 1933) di Arminio Janner del libro: Ernst Walser, Gesammelte Studien zur Geistesgeschichte der Renaissance (ed. Benno Schwabe, Basilea, 1932). Secondo lo Janner l’idea che noi ci facciamo del Rinascimento è sopratutto determinata da due opere capitali: La civiltà del Rinascimento di Jacopo Burckhardt e la Storia della Letteratura Italiana del De Sanctis. Il libro del Burckhardt fu interpretato diversamente in Italia e fuori d’Italia. Uscito nel 1860 ebbe risonanza europea, influenzò le idee del Nietzsche sul superuomo e per questa via suscitò tutta una letteratura, specialmente nei paesi nordici, su artisti e condottieri del Rinascimento, letteratura in cui si proclama il diritto alla vita bella ed eroica, alla libera espansione della personalità senza riguardi a vincoli morali.

Il Rinascimento si riassume così in Sigismondo Malatesta, Cesare Borgia, Leone X, l’Aretino, con Machiavelli come teorico e a parte, solitario, Michelangelo. In Italia D’Annunzio rappresenta questa interpretazione del Rinascimento. Il libro del Burckhardt (tradotto dal Valbusa nel 1877) ebbe in Italia influenza diversa: la traduzione italiana metteva più in luce le tendenze anticuriali che il Burckhardt vide nel Rinascimento e che coincidevano con le tendenze della politica e della cultura italiana del Risorgimento. Anche l’altro elemento messo in luce dal Burckhardt nel Rinascimento, quello dell’individualismo e della formazione della mentalità moderna, fu in Italia visto come opposizione al mondo medioevale rappresentato dal papato. In Italia fu meno notata l’ammirazione per una vita energetica e di pura bellezza; i condottieri, gli avventurieri, gli immoralisti trovarono in Italia meno attenzione. (Queste osservazioni pare siano da tenere in conto: c’è una interpretazione del Rinascimento e della vita moderna che viene attribuita all’Italia come se fosse nata originariamente e nei fatti in Italia ma non è che l’interpretazione di un libro tedesco sull’Italia ecc.).

Il De Sanctis accentua nel Rinascimento i colori oscuri della corruzione politica e morale; nonostante tutti i meriti che si possono riconoscere al Rinascimento, esso disfece l’Italia e la condusse serva dello straniero.

Insomma, il Burckhardt vede il Rinascimento come punto di partenza di una nuova epoca della civiltà europea, progressiva, culla dell’uomo moderno: il De Sanctis dal punto di vista della storia italiana, e per l’Italia il Rinascimento fu il punto di partenza di un regresso ecc. Il Burckhardt e il De Sanctis però coincidono nei particolari dell’analisi del Rinascimento, sono d’accordo nel rilevare come elementi caratteristici il formarsi della nuova mentalità, il distacco da tutti i legami medioevali di fronte alla religione, all’autorità, alla patria, alla famiglia. (Queste osservazioni dello Janner sul Burckhardt e il De Sanctis sono da rivedere). Secondo lo Janner «negli ultimi dieci o quindici anni s’è però andata man mano formando una controcorrente di studiosi, per lo più cattolici, che contestano la realtà di questi (fatti risaltare dal Burckhardt e dal De Sanctis) caratteri del Rinascimento e tentano di farne risaltare altri in gran parte opposti. In Italia l’Olgiati, il Zabughin, il Toffanin, nei paesi tedeschi il Pastor, nei primi volumi della Storia dei Papi e il Walser». Del Walser è uno studio sulla religiosità del

Pulci (Lebens und Glaubensprobleme aus dem Zeitalter der Renaissance, in «Die Neueren Sprachen», 10° Beiheft). Egli (riprendendo gli studi del Volpi e di altri) analizza il tipo di eresia del Pulci e le vicende dell’abiura che ne dovette fare più tardi; ne mostra «in modo assai convincente» l’origine (averroismo e sette mistiche giudaiche) e mostra che nel Pulci non si tratta solo di stacco dai sentimenti religiosi ortodossi, ma di una sua nuova fede (intessuta di magia e di spiritismo) che più tardi si risolve in una larga comprensione e tolleranza di tutte le fedi. (È da vedere se lo spiritismo e la magia non sono necessariamente la forma che doveva prendere il naturalismo e il materialismo di quell’epoca, cioè la reazione al trascendente cattolico o la prima forma di immanenza primitiva e rozza). Nel volume che lo Janner recensisce, pare che tre studi specialmente interessino, in quanto illustrano la nuova interpretazione: «Il Cristianesimo e l’antichità nella concezione del primo Rinascimento italiano», «Studi sul pensiero del Rinascimento» e «Problemi umani e artistici del Rinascimento italiano».

Secondo il Walser l’affermazione del Burckhardt che il Rinascimento sia stato paganeggiante, critico, anticuriale e irreligioso non è esatta. Gli umanisti della prima generazione come Petrarca, Boccaccio, il Salutati, di fronte alla chiesa non si staccano dall’atteggiamento degli studiosi medioevali. Gli umanisti del Quattrocento, Poggio, il Valla, il Beccadelli sono più critici e indipendenti, ma di fronte alla verità rivelata tacciono anch’essi e accettano. In questa affermazione il Walser è d’accordo col Toffanin che nel suo libro Che cosa fu l’umanesimo? afferma che l’umanesimo, col suo culto della latinità e della romanità, fu assai più ortodosso che non la letteratura dotta in volgare del Duecento e Trecento. (Affermazione che può essere accettata, se si distingue nel moto del Rinascimento il distacco avvenuto con l’Umanesimo dalla vita nazionale che andò formandosi dopo il Mille, se si considera l’Umanesimo come un processo progressivo per le classi colte «cosmopolitiche» ma regressivo dal punto di vista della storia italiana).

(Il Rinascimento può essere considerato come l’espressione culturale di un processo storico nel quale si costituisce in Italia una nuova classe intellettuale di portata europea, classe che si divise in due rami: uno esercitò in Italia una funzione cosmopolitica, collegata al papato e di carattere reazionario, l’altro si formò all’estero, coi fuorusciti politici e religiosi, ed esercitò una funzione cosmopolita progressiva nei diversi paesi in cui si stabilì o partecipò all’organizzazione degli Stati moderni come elemento tecnico nella milizia, nella politica, nell’ingegneria ecc.).

Q17 §4 Passato e presente. Sarebbe interessante un confronto tra le concezioni monarchiche militanti proprie dell’Italia meridionale e di quella settentrionale. Per il Mezzogiorno si può risalire allo scritto di C. De Meis sul Sovrano, fino al saggio di Gino Doria pubblicato nella «Nuova Italia» qualche anno fa. Per il Settentrione le teoriche di Giuseppe Brunati, dei giornali «Il Sabaudo» e «La Monarchia». È certo che solo per l’Italia meridionale si può parlare di una ortodossia assoluta e conseguente. Nel Settentrione l’istituto della monarchia è sempre stato connesso a una ideologia generale di cui la monarchia dovrebbe essere lo strumento. In questo senso il monarchismo settentrionale può riallacciarsi al Gioberti.

Q17 §5 Argomenti di cultura. Risorgimento e Rinnovamento nel Gioberti. È da vedere la distinzione che il Gioberti fa tra Risorgimento e Rinnovamento, tra la situazione prima del 48 e dopo il 48, sia interna – rapporti tra i vari Stati italiani e le classi sociali italiane – sia internazionale, della posizione dell’Italia nel complesso dei rapporti tra gli Stati europei e le forze politiche di questi Stati.

Q17 §6 Introduzione allo studio della filosofia. In Tertulliano (De Anima, 16) si trova l’affermazione che «Il naturale è razionale» e viceversa, ciò che può essere connesso con la proposizione di Hegel: «Ciò che è reale è razionale ecc.». La proposizione di Tertulliano è riportata e commentata dal Gioberti (Rinnovamento civile, Parte II, cap. 1, p. 227 della riduzione fattane da P. A. Menzio e stampata dal Vallecchi).

È da pensare che il Gioberti abbia ricorso a Tertulliano per non ricorrere a Hegel e perciò appunto è da vedere ciò che precisamente Tertulliano vuol dire e se il Gioberti non l’abbia sforzato in senso hegeliano per non ricorrere ad Hegel per un concetto che gli era necessario.

Q17 §7 Machiavelli. La funzione degli intellettuali. Sulla funzione degli intellettuali nello sviluppo della vita politica, sui rapporti del popolo e degli intellettuali è da vedere ciò che scrive il Gioberti specialmente nel Rinnovamento. Il Gioberti non adopera il termine «intellettuali» ma parla dell’«ingegno». È da notare che il Gioberti distingue la democrazia dalla demagogia appunto dalla funzione che nella democrazia ha l’«ingegno».

Q17 §8 Umanesimo e Rinascimento (continuazione della nota riassuntiva che s’inizia alla prima pagina). (In ogni caso occorre distinguere le facezie contro il clero che sono tradizionali fin dal Trecento, dalle opinioni più o meno ortodosse sulla concezione religiosa della vita).

Il Walser, che visse a lungo in Italia, osserva che per comprendere il carattere del Rinascimento italiano è utile, in certi limiti, conoscere la psicologia degli italiani moderni. Osservazione che mi pare molto acuta, specialmente per quanto riguarda l’atteggiamento verso la religione e che pone il problema di ciò che sia lo spirito religioso in Italia modernamente, e se esso possa essere paragonato non dico allo spirito religioso dei protestanti, ma anche a quello di altri paesi cattolici, specialmente della Francia. Che la religiosità degli italiani sia molto superficiale è innegabile così come è innegabile che essa ha un carattere strettamente politico, di egemonia internazionale. A questa forma di religiosità è legato il Primato del Gioberti, che a sua volta contribuì a rassodare e sistemare ciò che esisteva già prima allo stato diffuso. Non bisogna dimenticare che dal Cinquecento in poi l’Italia contribuì alla storia mondiale specialmente perché sede del Papato e che il cattolicismo italiano era sentito come un surrogato dello spirito di nazionalità e statale, non solo, ma addirittura come una funzione egemonica mondiale, cioè come spirito imperialistico. Così è giusta l’osservazione che lo spirito anticuriale è una forma di lotta contro ceti privilegiati; e non si può negare che in Italia i ceti religiosi avessero una funzione (posizione) economica e politica molto più radicale che negli altri paesi, dove la formazione nazionale limitava la funzione ecclesiastica. L’anticurialismo degli intellettuali laici, le «facezie» anticlericali ecc. sono anche una forma di lotta tra intellettuali laici e intellettuali religiosi data la prevalenza che questi ultimi avevano.

Se lo scetticismo e il paganesimo degli intellettuali sonoin gran parte mere apparenze superficiali e possono allearsi a un certo spirito religioso, anche nel popolo (cfr il libro di Domenico Guerri sulle Correnti popolari nel Rinascimento) le manifestazioni licenziose (carri e canti carnascialeschi) che al Walser sembrano più gravi, possono spiegarsi allo stesso modo.

Come gli italiani di oggi quelli del Rinascimento, dice il Walser, sapevano «sviluppare separatamente e contemporaneamente i due fattori dell’umana capacità di comprensione, il razionale e il mistico, e in modo che il razionalismo condotto fino all’assoluto scetticismo, per un invisibile legame, inconcepibile all’uomo nordico, si riallaccia in modo saldo al più primitivo misticismo, al più cieco fatalismo, al feticismo e alla crassa superstizione». Queste sarebbero le più importanti correzioni che il Walser porta alla concezione del Rinascimento, propria del Burckhardt e del De Sanctis. Scrive lo Janner, che il Walser non riesce a distinguere l’Umanesimo dal Rinascimento, e che se forse senza l’Umanesimo non ci sarebbe stato il Rinascimento, questo però supera per importanza e per le conseguenze l’Umanesimo.

Anche questa distinzione deve essere più sottile e profonda: pare più giusta l’opinione che il Rinascimento è un movimento di grande portata, che si inizia dopo il Mille, di cui l’Umanesimo e il Rinascimento (in senso stretto) sono due momenti conclusivi, che hanno avuto in Italia la sede principale, mentre il processo storico più generale è europeo e non solo italiano. (L’Umanesimo e il Rinascimento come espressione letteraria di questo movimento storico europeo hanno avuto in Italia la sede principale, ma il movimento progressivo dopo il Mille, se ha avuto in Italia gran parte coi Comuni, proprio in Italia è decaduto e proprio coll’Umanesimo e il Rinascimento che in Italia sono stati regressivi, mentre nel resto d’Europa il movimento generale culminò negli Stati nazionali e poi nell’espansione mondiale della Spagna, della Francia, dell’Inghilterra, del Portogallo. In Italia, agli Stati nazionali di questi paesi, ha corrisposto l’organizzazione del Papato come Stato assoluto – iniziato da Alessandro VI – organizzazione che ha disgregato il resto d’Italia ecc.). Il Machiavelli è rappresentante in Italia della comprensione che il Rinascimento non può esser tale senza la fondazione di uno Stato nazionale, ma come uomo egli è il teorico di ciò che avviene fuori d’Italia, non di eventi italiani.

Q17 §9 Argomenti di cultura. Gioberti e il giacobinismo. Atteggiamento del Gioberti verso il giacobinismo prima e dopo il 48. Dopo il 48, nel Rinnovamento, non solo non c’è accenno al panico che il 93 aveva diffuso nella prima metà del secolo, ma anzi il Gioberti mostra chiaramente di avere simpatie per i giacobini (egli giustifica lo sterminio dei girondini e la lotta su due fronti dei giacobini: contro gli stranieri invasori e contro i reazionari interni, anche se, molto temperatamente, accenna ai metodi giacobini che potevano essere più dolci ecc.). Questo atteggiamento del Gioberti verso il giacobinismo francese dopo il 48 è da notare come fatto culturale molto importante: si giustifica con gli eccessi della reazione dopo il 48, che portavano a comprendere meglio e a giustificare la selvaggia energia del giacobinismo francese.

Ma oltre a questo tratto è da notare che nel Rinnovamento il Gioberti si manifesta un vero e proprio giacobino, almeno teoricamente, e nella situazione data italiana. Gli elementi di questo giacobinismo possono a grandi tratti così riassumersi: 1) Nell’affermazione dell’egemonia politica e militare del Piemonte che dovrebbe, come regione, essere quello che Parigi fu per la Francia: questo punto è molto interessante ed è da studiare nel Gioberti anche prima del 48. Il Gioberti sentì l’assenza in Italia di un centro popolare di movimento nazionale rivoluzionario come fu Parigi per la Francia e questa comprensione mostra il realismo politico del Gioberti. Prima del 48, Piemonte‑Roma dovevano essere i centri propulsori, per la politica‑milizia il primo, per l’ideologia‑religione la seconda. Dopo il 48, Roma non ha la stessa importanza, anzi: il Gioberti dice che il movimento deve essere contro il Papato. 2) Il Gioberti, sia pure vagamente, ha il concetto del «popolare‑nazionale» giacobino, dell’egemonia politica, cioè dell’alleanza tra borghesi‑intellettuali ingegno e il popolo; ciò in economia (e le idee del Gioberti in economia sono vaghe ma interessanti) e nella letteratura (cultura), in cui le idee sono più distinte e concrete perché in questo campo c’è meno da compromettersi. Nel Rinnovamento (Parte II, capitolo «Degli scrittori») scrive: «… Una letteratura non può essere nazionale se non è popolare; perché, se bene sia di pochi il crearla, universale dee esserne l’uso e il godimento. Oltre che, dovendo ella esprimere le idee e gli affetti comuni e trarre in luce quei sensi che giacciono occulti e confusi nel cuore delle moltitudini, i suoi cultori debbono non solo mirare al bene del popolo ma ritrarre del suo spirito; tanto che questo viene ad essere non solo il fine ma in un certo modo eziandio il principio delle lettere civili. E vedesi col fatto che esse non salgono al colmo della perfezione e dell’efficacia se non quando s’incorporano e fanno, come dire, una cosa colla nazione, ecc.».

In ogni modo che l’assenza di un «giacobinismo italiano» fosse sentita, appare dal Gioberti. E il Gioberti è da studiare da questo punto di vista. Ancora: è da notare come il Gioberti, sia nel Primato che nel Rinnovamento si mostri uno stratega del movimento nazionale e non solamente un tattico. Il suo realismo lo porta ai compromessi, ma sempre nella cerchia del piano strategico generale. La debolezza del Gioberti, come uomo di Stato, è da cercare nel fatto che egli fu sempre esule, non conosceva quindi gli uomini che doveva maneggiare e dirigere e non aveva amici fedeli (cioè un partito): quanto più egli fu stratega, tanto più doveva appoggiarsi su forze reali e queste non conosceva e non poteva dominare e dirigere. (Per il concetto di letteratura nazionale‑popolare bisogna studiare il Gioberti e il suo romanticismo temperato). Così occorre studiare il Gioberti per analizzare quello che in altre è indicato come «nodo storico del 48‑49» e il Risorgimento in generale, ma il punto culturale più importante mi pare sia questo di «Gioberti giacobino», giacobino teorico, s’intende, perché in pratica egli non ebbe modo di applicare le sue dottrine.

Q17 §10 Argomenti di cultura. Le discussioni sulla guerra futura. Guerra totale, importanza dell’aviazione, delle piccole armate professionali in confronto ai grandi eserciti di leva ecc. Questi argomenti sono importanti in sé e per sé e meritevoli di studio e di considerazione. La letteratura in proposito deve essere ormai imponente in tutti i paesi (vedo citato un volume: Rocco Morretta, Come sarà la guerra di domani?, Milano, Casa Ed. G. Agnelli, 1932, pp. 368, L. 18). Ma c’è un aspetto della quistione che pare anch’esso degno di considerazione: tutte queste dispute sulla guerra futura ipotetica sono il terreno di una «guerra» reale attuale: le vecchie strutture militari (stati maggiori ecc .) sono modificate per l’intervento, nell’equilibrio tra le vecchie armi, dell’aviazione e dei suoi ufficiali. Si sa che le vecchie strutture militari rappresentavano una determinata politica conservativa‑reazionaria di vecchio stile, difficile da vincere e da eliminare. Per parecchi governi attuali, l’aviazione, le discussioni sull’importanza dell’aviazione, sul modo come devono essere stabiliti i piani strategici di una guerra futura ecc., sono l’occasione per eliminare molecolarmente le vecchie personalità militari, legate a un vecchio costume politico e che potrebbero organizzare dei colpi di Stato ecc. Perciò l’importanza dell’aviazione è duplice: tecnico‑militare e politico‑immediata.

Q17 §11 Risorgimento italiano. Cfr il saggio di Gioacchino Volpe: Italia ed Europa durante il Risorgimento, nella «Nuova Antologia» del 16 agosto 1933. È un abbozzo molto «descrittivo» della politica internazionale europea nei riflessi con la situazione italiana. Utile come catalogo di fatti, ma senza studio e approfondimento dei nessi storici. Storia del tipo Rinaudo. Che l’equilibrio europeo sia stato un elemento del processo storico italiano e viceversa è appena accennato, ma quale nesso generale tra le due serie di eventi, tra i due processi? E si trattò di «due» processi o di uno solo? E se si trattò di un solo processo storico, quale peso dare all’iniziativa o alla passività italiana ecc.? (È da richiamare il libro di Omodeo L’età del Risorgimento che fin dal titolo, o almeno nel titolo, falsifica il giudizio storico e l’opera del Croce Storia d’Europa che ponendo un solo processo storico europeo, esalta la passività e tien conto solo di essa, in quanto tralascia il periodo storico «militante» ecc.). In ogni modo, lo studio del Volpe è utile perché riassume, «descrittivamente» sia pure, la situazione politica internazionale che condizionò il Risorgimento italiano.

Q17 §12 Argomenti di cultura. Filosofia della prassi ed «economismo storico». Confusione tra i due concetti. Tuttavia è da porre il problema: quale importanza ha da attribuirsi all’«economismo» nello sviluppo dei metodi di ricerca storiografica, ammesso che l’economismo non può essere confuso con la filosofia della prassi? Che un gruppo di finanzieri, che hanno interessi in un paese determinato possano guidare la politica di questo paese, attirarvi la guerra o allontanarla da esso, è indubitabile: ma l’accertamento di questo l’atto non è «filosofia della prassi», è «economismo storico» cioè è l’affermazione che «immediatamente», come «occasione», i fatti sono stati influenzati da determinati interessi di gruppo ecc. Che «l’odore del petrolio» possa attirar dei guai seri su un paese è anche certo, ecc., ecc. Ma queste affermazioni, controllate, dimostrate ecc., non sono ancora filosofia della prassi, anzi possono essere accettate e fatte da chi respinge in toto la filosofia della prassi. Si può dire che il fattore economico (inteso nel senso immediato e giudaico dell’economismo storico) non è che uno dei tanti modi con cui si presenta il più profondo processo storico (fattore di razza, religione ecc.) ma è questo più profondo processo che la filosofia della prassi vuole spiegare ed appunto perciò è una filosofia, una «antropologia», e non un semplice canone di ricerca storica.

Q17 §13 I nipotini delpadre Bresciani. G. Papini. Nell’«Italia Letteraria» del 27 agosto 1933 Luigi Volpicelli così scrive di Papini (incidentalmente, in un saggio su Problemi della letteratura d’oggi, uscito in varie puntate): «Non basta a cinquant’anni – voglia perdonare Papini la mia franchezza – non basta dire: lo scrittore dev’essere maestro, occorre poter dire almeno: ecco qui, gente ruffiana, l’arte vera, l’arte maestra. Ma limitarsi a proporre, nel cinquantesimo anno di età, o giù di lì, lo scrittore come maestro, quando maestri non si è mai stati, non vale nemmeno da mea culpa. E già, siamo alle solite, infatti! Papini ha esercitato tutti i mestieri, per poi sporcificarli tutti: il filosofo, per concludere che la filosofia è una specie di cancrena al cervelletto, il cattolico, per incenerare l’universo con un appropriato dizionario, il letterato, per sancir da ultimo che della letteratura non sappiamo che farcene. Ciò non toglie che Papini non si sia conquistato un posticino nella storia della letteratura dentro il capitolo i “polemisti”. Ma la polemica vale l’oratoria: è proprio la forma pura e vuota, è mero amor di parola e di tecnica, di gesto, un calligrafismo spirituale e congenito; insomma, la cosa più lontana possibile dallo scrittore come maestro».

Papini è sempre stato un «polemista» nel senso che dice il Volpicelli, e lo è ancor oggi, poiché non si sa se nell’espressione «polemista cattolico» a Papini interessi più il sostantivo o l’aggettivo. Col suo «cattolicismo» Papini avrebbe voluto dimostrare di non essere un puro «polemista», cioè un «calligrafo», un funambolo della parola e della tecnica, ma non c’è riuscito! Il Volpicelli ha torto nel non precisare: il polemista è polemista di una concezione del mondo, sia pure il mondo di Pulcinella, ma Papini è il polemista «puro», il boxeur di professione della parola qualsiasi: Volpicelli avrebbe dovuto giungere esplicitamente all’affermazione che il cattolicismo in Papini è un vestito da clown, non la «pelle» formata dal suo sangue «rinnovato», ecc.

Q17 §14 Argomenti di cultura. Discussioni sulla guerra futura (cfr la nota a p. 4 bis). Vedere l’articolo del generale Orlando Freri (L’agguerrimento delle nuove generazioni, nella «Gerarchia» dell’agosto 1933) che è interessante tanto più in quanto è stato pubblicato quasi simultaneamente alle dimissioni del generale Gazzera dal ministero della guerra e alla crociera Balbo in stormo da Roma a Chicago. L’articolo del Freri pone la quistione del «piccolo esercito» di pace come esercito di «graduati e specialisti» da crearsi in relazione allo svolgimento della Milizia Volontaria e per ragioni di bilancio (cioè in rapporto alle necessità moderne di un attrezzamento meccanico vasto e costoso che non può essere soddisfatto con un esercito di pace numeroso, ecc.).

Q17 §15 Umanesimo e Rinascimento. Le opere complete del Machiavelli furono stampate per l’ultima volta in Italia nel 1554, e nel 1557 il Decamerone integro: l’editore Giolito dopo il 1560 cessò di stampare anche il Petrarca. Da allora cominciano le edizioni castrate dei poeti, dei novellieri, dei romanzieri. La censura ecclesiastica infastidisce anche i pittori.

Il Pastor nella Storia dei Papi scrive: «Può essere che nei paesi cattolici il divieto generale di scritti in difesa del nuovo sistema terrestre (copernicano) ammorzasse la predilezione per l’astronomia; però in Francia i gallicani, riferendosi alla libertà della chiesa francese, non considerarono come obbligatorii i decreti dell’Indice e dell’Inquisizione e se in Italia non sorse un secondo Galilei o un Newton o un Bradley, difficilmente la colpa è da attribuire al decreto contro Copernico». Il Bruers nota però che i rigori dell’Indice suscitarono tra gli scienziati un panico spaventoso e che lo stesso Galilei nei 26 anni decorsi dal primo processo alla morte non poté liberamente approfondire e far studiare ai suoi discepoli la quistione copernicana.

Dallo stesso Pastor appare che specialmente in Italia la reazione culturale fu efficiente. I grandi editori deperiscono in Italia: Venezia resiste di più, ma infine gli autori italiani e le opere italiane (del Bruno, del Campanella, del Vanini, del Galilei) sono stampate integralmente solo in Germania, in Francia, in Olanda. Con la reazione ecclesiastica che culmina nella condanna di Galileo finisce in Italia il Rinascimento anche fra gli intellettuali.

Q17 §16 I nipotini di padre Bresciani. G. Papini. È da vedere la conferenza Carducci, alma sdegnosa, tenuta dal Papini a Forlì per l’inaugurazione della «Settimana romagnola di poesia» e pubblicata nella Nuova Antologia del 1° Settembre 1933. La falsità, l’insincerità istrionica di questa conferenza è tale da cavar gli occhi.

Sarebbe interessante, oltre che per il Papini, fare una ricerca dell’avversione contro Roma che fu di moda in Italia fino al 1919 nel movimento vociano e futurista. Discorso del Papini Contro Roma e B. Croce; del binomio odioso per il Papini del 1913 è rimasto odioso Benedetto Croce. Da confrontare l’atteggiamento verso il Croce apertamente triviale di questo discorso sul Carducci e quello untuosamente gesuitico e cristianuccio del saggio Il Croce e la Croce.

Q17 §17 Argomenti di cultura. Titolo esatto del Dizionario del linguaggio italiano storico ed amministrativo di Giulio Rezasco (Firenze, Le Monnier, 1881, pp. 1287).

Q17 §18 Introduzione allo studio della filosofia. Senso comune. I. I cattolici (gesuiti) chiamano «argumentum liminare» della possibilità di dimostrare l’esistenza di Dio quello che consiste nel così detto «consenso universale». Recensendo l’opera del padre Pedro Descoqs S. J. (Praelaectiones Theologiae Naturalis. Cours de Théodicée, tomo primo: De Dei cognoscibilitate, parte prima, Parigi,

Beauchesne, 1933, in 8° gr., pp. vi‑725, Franchi 100, scritto parte in latino e parte in francese e che può essere un utile repertorio di tutte le opinioni sull’esistenza di Dio), la «Civiltà Cattolica» del 2 settembre 1933 scrive: «Il fatto, ossia l’universalità morale della “credenza” in Dio, è stabilito in modo rigoroso e scientifico sulla scorta dei più accreditati studi di etnologia e di storia delle religioni. Questo accertamento, all’inizio della teodicea, ha un alto valore in quanto fa toccare con mano l’importanza e l’universalità del problema. Tuttavia il padre Descoqs non crede che esso da solo offra una prova apodittica e rigorosa dell’esistenza di Dio; sebbene l’argomento che se ne deduce abbia una forza vehementer suasiva e sia di mirabile conferma, dopo che l’esistenza di Dio sia stata provata per altre vie».

II. Federico Jodl, Critica dell’idealismo. Tradotta ed annotata da G. Rensi. Roma, Ediz. «Casa del Libro», 1932, in 16°, pp. 274, L. 10. È interessante la breve recensione della «Civiltà Cattolica» del 2 settembre 1933, perché mostra come la filosofia di S. Tommaso possa allearsi al materialismo volgare. Lo Jodl critica l’idealismo da un punto di vista meccanicistico e naturalistico (quistione della realtà del mondo esterno) e questa critica piace ai gesuiti fino al punto in cui non se ne deducono conclusioni ateistiche: «Come mai menti colte, come quelle dello Jodl e del Rensi, non riescono a percepire nella filosofia cristiana, in quella di S. Tommaso specialmente, il sistema necessario per mantenere la realtà del mondo materiale senza menomare le esigenze e il primato dello spirito? Quando lo Jodl spiega in ultima analisi il mondo come l’effetto delle leggi e del caso, non si accorge di perdersi in vuote parole? E quando, avendo sostenuto il paradosso che le mire degli idealisti siano di appoggiare la teologia chiesastica – si pensi a Croce, a Brunschvieg, a tanti altri! – finisce col proporre il suo ideale, “il Cielo sulla Terra”, non si avvede che quel motto, posto in fine del suo libro, non può significare se non la soppressione di ogni Cielo?» Giustamente la «Civiltà Cattolica» rimprovera allo Jodl di identificare «l’idealismo col platonismo», «come se da Kant a Gentile le Idee trascendenti non fossero state lo spauracchio degli idealisti». Il libro dello Jodl può essere interessante (come quelli del Rensi) per fissare la fase attuale del «materialismo volgare» che non può riuscire a sconfiggere qualsiasi forma di idealismo perché non riesce a capire che l’idealismo non è che un abbozzo di tentativo di storicizzare la filosofia. La polemica Carlini‑Olgiati Neoscolastica, idealismo e spiritualismo, Milano, «Vita e Pensiero», 1933, pp. 180, Lire 6 e l’articolo di Guido De Ruggiero sull’«Educazione Nazionale» (del Lombardo Radice) del marzo 1933 non possono servire a dimostrare che l’idealismo appoggia il clericalismo, ma che singoli idealisti non trovano nella loro filosofia un terreno solido di pensiero e di fede nella vita. (Su questa polemica cfr anche stesso numero della «Civiltà Cattolica» articolo Brancolando in cerca di una fede e articoli nei nn. sgg, della «Civiltà Cattolica»).

III. Dal cap. XI della II parte del Rinnovamento del Gioberti è da trarre questo brano di storia della filosofia: «L’umanismo si collega colle dottrine filosofiche anteriori ed è l’ultimo termine del psicologismo cartesiano, che, tenendo vie diverse in Francia e in Germania, riuscì nondimeno allo stesso esito. Imperocché, trasformato dal Locke e dal Kant in sensismo empirico e speculativo, partorì a poco andare per forza di logica l’ateismo materiale degli ultimi condillacchiani e l’ateismo raffinato dei nuovi hegelisti. Già Amedeo Fichte, movendo dai principi della scuola critica, aveva immedesimato Iddio coll’uomo; come dipoi Federico Schelling lo confuse con la natura; e Hegel, raccogliendo i loro dettati e consertandoli insieme, considerò lo spirito umano come la cima dell’assoluto; il quale, discorrendo dal punto astratto dell’idea nel concreto della natura e trapassando in quello dello spirito, acquista in esso la coscienza di se medesimo e diventa Dio. I nuovi hegelisti, accettando la conclusione, rigettano l’ipotesi insussistente dell’assoluto panteistico e l’edifizio fantastico delle premesse; onde, invece di affermare col maestro che lo spirito è Dio, insegnano che il concetto di Dio è una vana immagine e una larva chimerica dello spirito».

Pare interessante la nota del Gioberti che la filosofia classica tedesca e il materialismo francese siano la stessa cosa in linguaggio diverso ecc. Il brano è da avvicinare a quello della Sacra Famiglia dove si parla del materialismo francese. (Ricordare che nella Sacra Famiglia appunto l’espressione «umanismo» è impiegata nello stesso senso del Gioberti – non trascendenza – e che «neo‑umanismo» voleva chiamare l’autore la sua filosofia).

Q17 §19 Argomenti di cultura. Francesco Savorgnan di Brazzà ha raccolto in volume (Da Leonardo a Marconi, Milano, Hoepli, 1933, pp. VIII‑368, L. 15) una serie di suoi articoli che rivendicano a «individualità» italiane una serie di invenzioni e scoperte (termometro, barometro, dinamo, galvanoplastica, igrometro, telefono, paracadute ecc.) che pare siano state spesso «usurpate» da stranieri. In altra nota fu fatto notare come una tale «rivendicazione» sia da «italiano meschino», che in realtà riduce l’Italia alla funzione della Cina, dove, come è noto, è stato inventato «tutto». La nota riguardava anche Cristoforo Colombo e la scoperta dell’America ed era connessa a una serie di osservazioni sul fatto che nel Quattrocento gli italiani perdettero lo spirito di intrapresa (come collettività), mentre singoli italiani «intraprendenti» se vollero affermarsi, dovettero porsi al servizio di Stati stranieri o di capitalisti stranieri.

Q17 §20 Giorgio Sorel. Nella «Critica Fascista» del 15 settembre 1933 Gustavo Glaesser riassume il recente libro di Michael Freund (Georges Sorel. Der revolutionäre Konservatismus, Klostermann Verlag, Francoforte am Main, 1932) che mostra quale scempio possa fare un ideologo tedesco di un uomo come Sorel. È da notare che, se pure Sorel possa, per la varietà e incoerenza dei suoi punti di vista, essere impiegato a giustificare i più disparati atteggiamenti pratici, tuttavia è innegabile nel Sorel un punto fondamentale e costante, il suo radicale «liberalismo» (o teoria della spontaneità) che impedisce ogni conseguenza conservatrice delle sue opinioni. Bizzarrie, incongruenze, contraddizioni si trovano nel Sorel sempre e ovunque, ma egli non può essere distaccato da una tendenza costante di radicalismo popolare: il sindacalismo di Sorel non è un indistinto «associazionismo» di «tutti» gli elementi sociali di uno Stato, ma solo di uno di essi, e la sua «violenza» non è la violenza di «chiunque» ma di un solo «elemento» che il pacifismo democratico tendeva a corrompere ecc. Il punto oscuro nel Sorel è il suo antigiacobinismo e il suo economismo puro; e questo, che è, nel terreno storico francese, da connettersi col ricordo del Terrore e poi della repressione di Galliffet, oltre che con l’avversione ai Bonaparte, è il solo elemento della sua dottrina che può essere distorto e dar luogo a interpretazioni conservatrici.

Q17 §21 Argomenti di cultura. Cesare e il cesarismo. La teoria del cesarismo, che oggi predomina (cfr il discorso di Emilio Bodrero L’umanità di Giulio Cesare, nella Nuova Antologia del 16 settembre 1933) è stata immessa nel linguaggio politico da Napoleone III, il quale non fu certo un grande storico o filosofo o teorico della politica. È certo che nella storia romana la figura di Cesare non è caratterizzata solo o principalmente dal «cesarismo» in questo senso stretto. Lo sviluppo storico di cui Cesare fu l’espressione assume nella «penisola italica» ossia a Roma la forma del «cesarismo» ma ha come quadro l’intero territorio imperiale e in realtà consiste nella «snazionalizzazione» dell’Italia e nella sua subordinazione agli interessi dell’Impero. Né, come dice il Bodrero, Cesare trasformò Roma da Stato‑città in Capitale dell’Impero, tesi assurda e antistorica: la capitale nell’impero era dove risiedeva l’imperatore, un punto mobile; la cristallizzazione di una capitale portò alla scissione, all’emergere di Costantinopoli, di Milano ecc. Roma divenne una città cosmopolita, e l’Italia intera divenne centro di una cosmopoli. È da fare un paragone tra Catilina e Cesare: Catilina era più «italiano» di Cesare e la sua rivoluzione forse avrebbe, con un’altra classe al potere, conservato all’Italia la funzione egemonica del periodo repubblicano. Con Cesare la rivoluzione non è più soluzione di una lotta tra classi italiche, ma di tutto l’Impero, o almeno di classi con funzioni principalmente imperiali (militari, burocrati, banchieri, appaltatori ecc.).

Inoltre Cesare, con la conquista della Gallia aveva squilibrato il quadro dell’Impero: l’Occidente cominciò con Cesare a lottare con l’Oriente. Ciò si vede nelle lotte tra Antonio e Ottaviano e continuerà fino alla scissione della Chiesa su cui ebbe influenza il tentativo di Carlo Magno di restaurare l’Impero, così come la fondazione del potere temporale del papato romano. Dal punto di vista della cultura è interessante l’attuale mito di «Cesare» che non ha nessuna base nella storia, così come nessuna base aveva nel Settecento l’esaltazione della repubblica romana come di una istituzione democratica e popolare ecc.

Q17 §22 Introduzione allo studio della filosofia. Pragmatismo e politica. Il «pragmatismo» (di James, ecc.) non pare possa essere criticato se non si tiene conto del quadro storico anglosassone in cui è nato e si è diffuso. Se è vero che ogni filosofia è una «politica» e che ogni filosofo è essenzialmente un uomo politico, ciò tanto più si può dire per il pragmatista che costruisce la filosofia «utilitariamente» in senso immediato. Ma ciò non è pensabile (come movimento) in paesi cattolici, dove la religione e la vita culturale si sono scissi fin dal tempo del Rinascimento e della Controriforma, mentre è pensabile per i paesi anglosassoni, in cui la religione è molto aderente alla vita culturale di ogni giorno e non è centralizzata burocraticamente e dogmatizzata intellettualmente. In ogni caso il pragmatismo evade dalla sfera religiosa positiva e tende a creare una morale laica (di tipo non francese), tende a creare una «filosofia popolare» superiore al senso comune, è un «partito ideologico» immediato più che un sistema di filosofia. Se si prende il principio del pragmatista quale è esposto dal James: «il metodo migliore per discutere i punti diversi di qualche teoria si è di cominciare dal mettere in sodo quale differenza pratica risulterebbe dal fatto che l’una o l’altra delle due alternative fosse la vera» (W. James, Le varie forme della scienza religiosa. Studio sulla natura umana, trad. di G. C. Ferrari e M. Calderoni, ed. Bocca, 1904, pp. 382), si vede quale sia l’immediatezza del politicismo filosofico pragmatista. Il filosofo «individuale» tipo italiano o tedesco, è legato alla «pratica» mediatamente (e spesso la mediazione è una catena di molti anelli), il pragmatismo vi si vuole legare subito e in realtà appare così che il filosofo tipo italiano o tedesco è più «pratico» del pragmatista che giudica dalla realtà immediata, spesso volgare, mentre l’altro ha un fine più alto, pone il bersaglio più alto e quindi tende a elevare il livello culturale esistente (quando tende, si capisce). Hegel può essere concepito come il precursore teorico delle rivoluzioni liberali dell’Ottocento. I pragmatisti, tutt’al più, hanno giovato a creare il movimento del Rotary club o a giustificare tutti i movimenti conservatori e retrivi (a giustificarli di fatto e non solo per distorsione polemica come è avvenuto per Hegel e lo Stato prussiano).

Q17 §23 Saggio popolare di sociologia. Obbiezione all’empirismo: l’indagine di una serie di fatti per trovarne i rapporti presuppone un «concetto» che permetta di distinguere quella serie di fatti da altre serie possibili: come avverrà la scelta dei fatti da addurre come prova della verità del proprio assunto, se non preesiste il criterio di scelta? Ma cosa sarà questo criterio di scelta, se non qualcosa di superiore a ogni singolo fatto indagato? Una intuizione, una concezione, la cui storia è da ritenersi complessa, un processo da connettere a tutto il processo di sviluppo della cultura ecc. (Osservazione da connettere all’altra sulla «legge sociologica» in cui non si fa altro che ripetere due volte lo stesso fatto, una volta come fatto e una volta come legge. Sofisma del doppio fatto e non legge).

Q17 §24 I nipotini di padre Bresciani. G. Papini. In Papini manca la rettitudine: dilettantismo morale. Nel primo periodo della sua carriera letteraria questa deficienza non impressionava, perché Papini basava la sua autorità su se stesso, era il «partito di se stesso». Divertiva, non poteva essere preso sul serio, altro che da pochi filistei (ricordare la discussione con Annibale Pastore). Oggi Papini si è innestato in un vasto movimento da cui trae autorità: la sua attività è divenuta perciò canagliesca nel senso più spregevole, dello sparafucile, del sicario mercenario. Se un bambino rompe i vetri per divertirsi e per monelleria, sia pure artificiosa, è una cosa: ma se rompe i vetri per conto dei venditori di vetro è un’altra cosa.

Q17 §25 Argomenti di cultura. Opere di consultazione. I. E. Würzburger e E. Roesner, Hübners Geographisch-Statistiche Tabellen, Vienna, L. W. Seidel und Sohn, 1932, in 8°, pp. 564. Questa del 1932 è la 71a edizione. Indispensabile non solo per i geografi e i cultori di statistica, ma per chiunque voglia essere informato delle condizioni politiche, economiche, sociali, finanziarie, commerciali, demografiche ecc. di tutti i paesi del globo. Nella 71a edizione è aggiunta un’appendice sui partiti politici dei singoli Stati, oltre a elaborazioni più compiute di dati economici, industriali ecc.

II. A. Kriszties, Bibliographie des sciences sociales. Nel 1933 è uscito il IV volume (1927), Parigi, Giard, in 8°, pp. 1269, Frs. 170.

Q17 §26 L’Azione Cattolica. Nell’autunno del 1892 fu tenuto a Genova un Congresso cattolico italiano degli studiosi di scienze sociali; vi fu osservato che «il bisogno del momento presente, non certo unico bisogno, ma urgente quanto ogni altro, è la rivendicazione scientifica dell’idea cristiana. La scienza non può dare la fede, ma può imporre agli avversari il rispetto, e può condurre le intelligenze a riconoscere della fede la necessità sociale e l’individuale dovere (!)». Nel 1893, per impulso di tale Congresso, patrocinato da Leone XIII (l’enciclica Rerum Novarum è del 1891), fu fondata la «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie», che ancora si pubblica. Nel fascicolo del gennaio 1903 della rivista si riassume l’attività del decennio.

L’attività di questa rivista, che non è mai stata molto «chiassosa», è tuttavia da studiare anche in confronto a quella della «Critica Sociale» di cui doveva essere il controaltare ecc.

Q17 §27 Machiavelli. I. Cfr ciò che scrive l’Alfieri sul Machiavelli nel libro Del principe e delle lettere. Parlando delle «massime immorali e tiranniche» che si potrebbero ricavare «qua e là» dal Principe l’Alfieri nota: «e queste dall’autore sono messe in luce (a chi ben riflette) molto più per disvelare ai popoli le ambizioni ed avvedute crudeltà dei principi che non certamente per insegnare ai principi a praticarle: poiché essi più o meno sempre le adoprano, le hanno adoperate e le adopereranno, secondo il loro bisogno, ingegno e destrezza». A parte l’interpretazione democratica, la nota è giusta: ma certo il Machiavelli non voleva «solo» insegnare ai principi le «massime» che essi conoscevano e adoperavano. Voleva invece insegnare la «coerenza» nell’arte di governo e la coerenza impiegata ad un certo fine: la creazione di uno Stato unitario italiano. Cioè il Principe non è un libro di «scienza», accademicamente inteso, ma di «passione politica immediata», un «manifesto» di partito, che si fonda su una concezione «scientifica» dell’arte politica. Il Machiavelli insegna davvero la «coerenza» dei mezzi «bestiali», e ciò è contro la tesi dell’Alderisio (di cui occorre vedere lo scritto Intorno all’arte dello Stato del Machiavelli. Discussione ulteriore dell’interpretazione di essa come «pura politica», nei «Nuovi Studi» del giugno‑ottobre 1932) ma questa «coerenza» non è una cosa meramente formale, ma la forma necessaria di una determinata linea politica attuale. Che poi dalla esposizione del Machiavelli si possano trarre elementi di una «pura politica» è altra quistione: ciò riguarda il posto che il Machiavelli occupa nel processo di formazione della scienza politica «moderna», che non è piccolo. L’Alderisio imposta male tutto il problema, e le qualche buone ragioni che può avere si perdono nella sconnessione del quadro generale sbagliato.

II. La quistione del perché il Machiavelli abbia scritto il Principe e le altre opere non è una semplice quistione di cultura o di psicologia dell’autore: essa serve a spiegare in parte il fascino di questi scritti, la loro vivacità e originalità. Non si tratta certo di «trattati» del tipo medioevale; neppure si tratta di opere di un avvocato curiale che voglia giustificare le operazioni o il modo di operare dei suoi «sostentatori» o sia pure del suo principe. Le opere del Machiavelli sono di carattere «individualistico», espressioni di una personalità che vuole intervenire nella politica e nella storia del suo paese e in tal senso sono di origine «democratica». C’è la «passione» del «giacobino» nel Machiavelli e perciò egli doveva tanto piacere ai giacobini e agli illuministi: è questo un elemento «nazionale» in senso proprio e dovrebbe essere studiato preliminarmente in ogni ricerca sul Machiavelli.

Q17 §28 Risorgimento italiano. Cfr la recensione di A. Omodeo (nella «Critica» del 20 luglio 1933) del libro di N. Rosselli su Carlo Pisacane, che è interessante per molti aspetti. L’Omodeo ha l’occhio acuto nel rilevare non solo le deficienze organiche del libro, ma anche le deficienze organiche dell’impostazione che il Pisacane dava al problema del Risorgimento. Ma questa acutezza gli viene dal fatto che egli si pone dal punto di vista «conservatore e retrivo». Non pare esatta l’affermazione dell’Omodeo che il Pisacane sia stato «un frammento del 48 francese inserito nella storia d’Italia», così come non è esatto il riaccostamento fatto dal Rosselli del Pisacane coi sindacalisti moderni (Sorel ecc., in azione). Il Pisacane è da avvicinare ai rivoluzionari russi, ai narodnichi, e perciò è interessante l’accenno fatto dal Ginzburg all’influsso di Herzen sugli emigrati italiani. Che Bakunin, più tardi, abbia avuto tanta fortuna nel Mezzogiorno e in Romagna non è senza significato per comprendere ciò che il Pisacane espresse al suo tempo, e pare strano che proprio il Rosselli non abbia visto il nesso.

Il rapporto tra Pisacane e le masse plebee non è da vedere nell’espressione socialistica né in quella sindacalistica, ma piuttosto in quelle di tipo giacobino, sia pure estremo. La critica dell’Omodeo è troppo facile all’impostazione del problema del Risorgimento su basi plebee‑socialistiche, ma non sarebbe altrettanto facile a quella su basi «giacobine - riforma agraria», né sarebbe facile smentire l’egoismo gretto, angusto, antinazionale delle classi dirigenti, che in realtà erano rappresentate in questo caso dai nobili terrieri e dalla borghesia rurale assenteista, e non dalla borghesia urbana di tipo industriale e dagli intellettuali «ideologi», i cui interessi non erano «fatalmente» legati a quelli dei terrieri, ma avrebbero dovuto essere legati a quelli dei contadini, cioè furono scarsamente nazionali.

Così non è «tutto oro» l’osservazione dell’Omodeo che avere dei programmi definiti era nel periodo del Risorgimento una debolezza, poiché non si era elaborata la «tecnica» per realizzare i programmi stessi. A parte il fatto che in Pisacane programmi definiti non ci furono, ma solo una «tendenza generale» più definita che in Mazzini (e in realtà più nazionale che in Mazzini), la teoria contro i programmi definiti è di carattere schiettamente retriva e conservatrice. Che i programmi definiti debbano essere elaborati tecnicamente per essere applicabili è certo, e che i programmi definiti senza una elaborazione del processo tecnicoIn un primo momento Gramsci aveva scritto: «elaborazione tecnica». per cui essi si realizzeranno siano una vuotaggine è anche certo, ma è anche certo che i politici come Mazzini, che non hanno «programmi definiti» lavorano solo per il re di Prussia, sono fermenti di riscossa che infallantemente sarà monopolizzata dagli elementi più retrivi che attraverso la «tecnica» finiranno col prevalere su tutti. In conclusione anche per il Pisacane è da dire che non rappresentava nel Risorgimento una tendenza «realistica» perché isolato, senza un partito, senza quadri predisposti per il futuro Stato ecc. Ma la quistione non è tanto di storia del Risorgimento, quanto di storia del passato vista con interessi contemporanei molto immediati e da questo punto di vista la recensione dell’Omodeo, come altri scritti dello stesso autore, è tendenziosa in senso conservatore e retrivo. Del resto questa recensione è interessante per l’argomento delle «ideologie» moderne suscitate dal ripensamento sulla storia del Risorgimento, che tanta importanza hanno per comprendere la cultura italiana degli ultimi decenni.

Un argomento interessante, che è stato accennato dal Gioberti (nel Rinnovamento per esempio) è quello delle possibilità tecniche della rivoluzione nazionale in Italia durante il Risorgimento: quistione della capitale rivoluzionaria (come Parigi per la Francia), della disposizione regionale delle forze insurrezionali ecc. L’Omodeo critica ilRosselli per non aver indagato l’organizzazione meridionale che non doveva essere tanto inefficiente nel 1857 se nel 1860 fu sufficiente a immobilizzare le forze borboniche, ma la critica non pare molto fondata. Nel 1860 la situazione era completamente mutata e bastò la passività per immobilizzare i Borboni, mentre nel 1857 la passività e i quadri sulla carta erano inefficienti. Non si tratta dunque di confrontare l’organizzazione del 60 con quella del 57, ma le diverse situazioni specialmente «internazionali». È probabile anzi che come organizzazione nel 60 si stesse peggio che nel 57 per la reazione avvenuta.

Dalla recensione dell’Omodeo è opportuno citare questo brano: «Il Rosselli si entusiasma della maggiore ricchezza dei programmi. Ma il programma, riferito a un’ipotetica situazione futura, è spesso un ingombrante e inutile bagaglio: ciò che sopra tutto importa è la direzione, non la materiale specificazione delle opere. Abbiam veduto tutti quel che valevano i programmi per il dopo‑guerra, studiati quando non si sapeva ancora come si sarebbe usciti dal cimento, in quali stati d’animo, con quali bisogni incalzanti! Falsa concretezza perciò, al disotto della indeterminatezza tanto rimproverata al Mazzini. Inoltre, non pochi punti delle rivendicazioni socialistiche erano (e sono) postulati senza la determinazione del processo tecnico per conseguirli, e provocavano e provocano non solo o non tanto la reazione delle classi lese, quanto la repugnanza di chi, libero dagli interessi (!) di classe, sente che non è maturo né un nuovo ordine morale né un nuovo ordine giuridico: situazione nettamente antitetica a quella della rivoluzione francese che i diversi socialismi vogliono esemplare: perché l’ordine nuovo giuridico‑morale nel 1789 era vivo nella coscienza di tutti e si presentava di piana attuazione». («Critica», 20 luglio 1933, pp. 283‑84). L’Omodeo è molto superficiale e corrivo: le sue opinioni sono da porre a confronto col saggio del Croce sul /Partito come giudizio e come pregiudizio/ pubblicato nel 1911.

La verità è che il programma del Pisacane era altrettanto indeterminato di quello del Mazzini e anch’esso segnava solo una tendenza generale, che come tendenza era un po’ più precisa di quella del Mazzini. Ogni specificazione «concreta» di programma e ogni determinazione del processo tecnico per conseguirne i punti presuppongono un partito e un partito molto selezionato e omogeneo: il partito mancava sia al Mazzini che al Pisacane. L’assenza di programma concreto, con tendenza generale, è una forma di «mercenarismo» fluido, i cui elementi finiscono collo schierarsi col più forte, con chi paga meglio ecc. L’esempio del dopo‑guerra, invece che ragione, dà torto all’Omodeo: 1) perché programmi concreti in realtà non esistettero mai in quegli anni, ma appunto solo tendenze generali più o meno vaghe e fluttuanti; 2) perché appunto in quel periodo non esistettero partiti selezionati e omogenei ma solo bande zingaresche fluttuanti e incerte, che erano appunto simbolo dell’indeterminatezza dei programmi e non viceversa. Né il confronto con la Rivoluzione francese del 1789 è calzante, perché allora Parigi svolse un ruolo che nell’Italia del dopo 48 nessuna città poteva svolgere con qualsiasi programma.

La quistione deve essere impostata nei termini della «guerra di movimento – guerra d’assedio», cioè per cacciare gli Austriaci e i loro ausiliari italiani era necessario: 1) un forte partito italiano omogeneo e coerente: 2) che questo partito avesse un programma concreto e specificato; 3) che tale programma fosse condiviso dalle grandi masse popolari (che allora non potevano essere che agricole) e le avesse educate a insorgere «simultaneamente» su tutto il paese. Solo la profondità popolare del movimento e la simultaneità potevano rendere possibile la sconfitta dell’esercito austriaco e dei suoi ausiliari. Da questo punto di vista non tanto giova il contrapporre Pisacane al Mazzini, quanto il Pisacane al Gioberti, che aveva una visione strategica della rivoluzione italiana, strategica non nel senso strettamente militare (come il Mazzini riconosceva al Pisacane) ma politico‑militare. Ma anche al Gioberti mancava un partito, e non solo nel senso moderno della parola, ma anche nel senso che allora aveva la parola, cioè nel senso della Rivoluzione francese di movimento degli «spiriti». Del resto il programma del Mazzini politicamente era, per il tempo, troppo «determinato» e concreto in senso repubblicano e unitario, a differenza di quello del Gioberti che più si avvicina al tipo di giacobino quale era necessario all’Italia d’allora.

Anche l’Omodeo, in fondo (e ciò è il suo antistoricismo) si pone implicitamente dal punto di vista di una Italia preesistente al suo formarsi, quale esiste oggi e nella forma in cui si è costituita nel 1870. (Nonostante la sua avversione per la tendenza economico‑giuridica, l’Omodeo si pone dal punto di vista che è quello del Salvemini nel suo opuscolo sul Mazzini: la predicazione genericamente unitaria del Mazzini è il nucleo solido del mazzinianismo, il suo contributo reale al Risorgimento). Per ciò che riguarda l’atteggiamento dei «liberi dagli interessi di classe» essi nel dopoguerra si comportarono come nel Risorgimento: non seppero mai decidersi e si accodarono al vincitore che d’altronde, col non decidersi, avevano aiutato a vincere, perché si trattava di chi rappresentava la loro classe in senso angusto e meschino.

Q17 §29 Letteratura popolare. Articolo di Andrea Moufflet nel «Mercure de France» del 1° febbraio 1931 sul romanzo d’appendice. Il romanzo d’appendice, secondo il Moufflet, è nato dal bisogno di illusione, che infinite esistenze meschine provavano, e forse provano ancora, quasi a rompere la grama monotonia a cui si vedono condannate.

Osservazione generica: si può fare per tutti i romanzi e non solo d’appendice: occorre analizzare quale particolare illusione dà al popolo il romanzo d’appendice, e come questa illusione cambi coi periodi storico‑politici: c’è lo snobismo, ma c’è un fondo di aspirazioni democratiche che si riflettono nel romanzo d’appendice classico. Romanzo «tenebroso» alla Radcliffe, romanzo d’intrigo, d’avventura, poliziesco, giallo, della malavita ecc. Lo snob si vede nel romanzo d’appendice che descrive la vita dei nobili o delle classi alte in generale, ma questo piace alle donne e specialmente alle ragazze, ognuna delle quali, del resto, pensa che la bellezza può farla entrare nella classe superiore.

Esistono per il Moufflet i «classici» del romanzo d’appendice, ma ciò è inteso in un certo senso: pare che il romanzo d’appendice classico sia quello «democratico» con diverse sfumature da V. Hugo, a Sue, a Dumas. L’articolo del Moufflet sarà da leggere, ma occorre tener presente che egli esamina il romanzo d’appendice come «genere letterario», per lo stile ecc., come espressione di un’«estetica popolare» ciò che è falso. Il popolo è «contenutista», ma se il contenuto popolare è espresso da grandi artisti, questi sono preferiti. Ricordare ciò che ho scritto per l’amore del popolo per Shakespeare, per i classici greci, e modernamente per i grandi romanzieri russi (Tolstoi, Dostojevskij). Così, nella musica, Verdi.

Nell’articolo Le mercantilisme littéraire di J. H. Rosny aîné, nelle «Nouvelles Littéraires» del 4 ottobre 1930 si è detto che V. Hugo scrisse i Miserabili ispirato dai Misteri di Parigi di Eugenio Sue e dal successo che questi ebbero, tanto grande che quarant’anni dopo l’editore Lacroix ne era ancora stupefatto. Scrive il Rosny: «Le appendici, sia nell’intenzione del direttore del giornale, sia nell’intenzione dell’appendicista, furono prodotti ispirati dal gusto del pubblico e non dal gusto degli autori». Questa definizione è anch’essa unilaterale. E infatti il Rosny scrive solo una serie di osservazioni sulla letteratura «commerciale» in genere (quindi anche quella pornografica) e sul lato commerciale della letteratura. Che il «commercio» e un determinato «gusto» del pubblico si incontrino non è casuale, tanto è vero che le appendici scritte intorno al 48 avevano un determinato indirizzo politico‑sociale che ancora oggi le fa ricercare e leggere da un pubblico che vive gli stessi sentimenti del 48.

Q17 §30 Giornalismo. Mark Twain, quando era direttore di un giornale in California, pubblicò una vignetta che rappresentava un asino morto in fondo a un pozzo, con la dicitura: «Questo asino è morto per non aver ragliato». Il Twain voleva porre in evidenza l’utilità della réclame giornalistica, ma la vignetta può avere anche altri significati.

Q17 §31 Passato e presente. Discussioni sul Congresso internazionale hegeliano tenuto a Roma nel 1933 (III Congresso della Società internazionale hegeliana). Si è voluto vedere in esso un’affermazione tendenziosa dell’idealismo attualistico italiano (Gentile ecc.) nel mezzo dell’Anno Santo indetto dal Vaticano per il 1900 anniversario della morte di Cristo. Il Congresso fu così combattuto e dai cattolici e dagli epigoni del positivismo o neocriticismo.

Q17 §32 Funzione cosmopolita della letteratura italiana. Ancora del saggio di Augusto Rostagni su l’Autonomia della Letteratura romana, pubblicato in 4 puntate nell’«Italia Letteraria» del 21 maggio 1933 e sgg. Secondo il Rostagni la letteratura latina sorse al principio delle guerre puniche, come causa ed effetto dell’unificazione d’Italia, come espressione essenzialmente nazionale, «con l’istinto del progresso, della conquista, con l’impulso delle più alte e vigorose affermazioni». Concetto antistorico, perché allora non si poteva parlare di fenomeno «nazionale», ma solo di romanesimo che unifica giuridicamente l’Italia (e ancora un’Italia che non corrisponde a ciò che oggi intendiamo per Italia, poiché era esclusa l’Alta Italia, che oggi ha non poca importanza nel concetto d’Italia). Che il Rostagni abbia ragione di parlare di «autonomia» della letteratura latina, cioè di sostenere che questa è autonoma dalla letteratura greca, può accettarsi, – ma in realtà c’era più «nazionalità» nel mondo greco che in quello romano‑italico. D’altronde anche ammesso che con le prime guerre puniche qualcosa muti nei rapporti tra Roma e l’Italia, che si abbia una maggiore unità anche territoriale, ciò non toglie che questo periodo sia molto breve e abbia scarsa rilevanza letteraria: la letteratura latina fiorisce dopo Cesare, con l’Impero, cioè proprio quando la funzione dell’Italia diventa cosmopolita, quando non più si pone il problema del rapporto tra Roma e l’Italia, ma tra Roma‑Italia e l’Impero. Non si può parlare di nazionale senza il territoriale: in nessuno di questi periodi l’elemento territoriale ha importanza che non sia meramente giuridico‑militare, cioè «statale» in senso governativo, senza contenuto etico‑passionale.

Q17 §33 Umanesimo. Rinascimento. Può esser vero che l’Umanesimo nacque in Italia come studio della romanità e non del mondo classico in generale (Atene e Roma): ma occorre distinguere allora. L’Umanesimo fu «politico‑etico», non artistico, fu la ricerca delle basi di uno «Stato italiano» che avrebbe dovuto nascere insieme e parallelamente alla Francia, alla Spagna, all’Inghilterra: in questo senso l’Umanesimo e il Rinascimento hanno come esponente più espressivo il Machiavelli. Fu «ciceroniano» come sostiene il Toffanin, cioè ricercò le sue basi nel periodo che precedette l’Impero, la cosmopolis imperiale (e in tal senso Cicerone può essere un buon punto di riferimento per il suo opporsi a Catilina prima, a Cesare poi, cioè all’emergere delle nuove forze anti‑italiche, di classe cosmopolita). Il Rinascimento spontaneo italiano, che si inizia dopo il Mille e fiorisce artisticamente in Toscana, fu soffocato dall’Umanesimo e dal Rinascimento in senso culturale, dalla rinascita del latino come lingua degli intellettuali, contro il volgare, ecc. Che questo Rinascimento spontaneo (del Duecento specialmente) possa solo essere paragonato alla fioritura della letteratura greca, è innegabile, mentre il «politicismo» del Quattrocento‑Cinquecento è il Rinascimento che può essere riferito al Romanesimo.

Atene e Roma hanno la loro continuazione nelle chiese ortodossa e cattolica: anche qui è da sostenere che Roma fu continuata dalla Francia più che dall’Italia e Atene‑Bisanzio dalla Russia zarista. Civiltà occidentale e orientale. Ciò fino alla Rivoluzione francese e forse alla guerra del 1914.

Nel saggio del Rostagni molte osservazioni particolari acute, ma la prospettiva sbagliata. Il Rostagni intanto confonde la cultura libresca con quella spontanea. Che la svalutazione dei Romani sia dovuta al Romanticismo, specialmente tedesco (nel campo artistico) può essere vero; che abbia avuto motivi pratici immediati ecc., può anche essere vero. Ma il Rostagni avrebbe dovuto ricercare se tuttavia non ci fosse in questo unilateralismo una verità, sia pure unilaterale. Verità di cultura, non estetica, perché l’«autonomia» estetica è degli artisti singoli, tra l’altro, e non dei raggruppamenti culturali; e sia pure «autonomia di cultura» che certo dovrebbe esistere, come appunto dimostra il fatto della scissione culturale tra Oriente e Occidente, tra chiesa Cattolica e Ortodossismo bizantino ecc. Ma allora occorrevano non motivazioni superficiali, ma più approfondite ricerche non solo in letteratura ma nella cultura generale.

Q17 §34 Letteratura popolare. Il prigioniero che canta, di Johan Bojer (tradotto da L. Gray e G. Dauli, casa Editrice Bietti, Milano, 1930). Due aspetti culturali da osservare: 1) la concezione «pirandelliana» del protagonista, che continuamente ricrea la sua «personalità» fisica e morale, che è sempre diversa e pur sempre uguale. Può interessare per la fortuna del pirandellismo in Europa e allora occorre vedere quando il Bojer ha scritto il suo libro; 2) aspetto più strettamente popolare, contenuto nell’ultima parte del romanzo. Per esprimersi in termini «religiosi» l’autore sostiene in forma pirandelliana la vecchia concezione religiosa e riformistica del «male»: il male è nell’interno dell’uomo (in senso assoluto); in ogni uomo c’è per così dire un Caino e un Abele, che lottano tra loro: occorre, se si vuole eliminare il male dal mondo, che ognuno vinca in sé il Caino e faccia trionfare l’Abele: il problema del «male» non è dunque politico, o economico‑sociale, ma «morale» o «moralistico». Mutare il mondo esterno, l’insieme dei rapporti, non conta nulla: ciò che è importante è il problema individuale‑morale. In ognuno c’è il «giudeo» e il «cristiano», l’egoista e l’altruista: ognuno deve lottare in se stesso ecc., ammazzare il giudaismo che è in se stesso. È interessante che il pirandellismo sia servito al Bojer per cucinare questo vecchio piatto, che una teoria che passa per antireligiosa ecc. sia servita per ripresentare la vecchia impostazione cristiana del problema del male ecc.

Q17 §35 Passato e presente. «I luoghi comuni a rovescio». Per molti essere «originali» significa solo capovolgere i luoghi comuni dominanti in una certa epoca: per molti questo esercizio è il massimo dell’eleganza e dello snobismo intellettuale e morale. Ma il luogo comune rovesciato rimane sempre un luogo comune, una banalità. Forse il luogo comune rovesciato è ancora più banale del semplice luogo comune. Il bohémien è più filisteo del mercante di campagna. Da ciò quel senso di noia che viene col frequentare certi circoli che credono essere di eccezione, che si pongono come una aristocrazia distaccata dal vivere solito. Il democratico è stucchevole, ma quanto più stucchevole il sedicente reazionario che esalta il boia, e magari i roghi. Nell’ordine intellettuale Giovanni Papini è un grande fabbricatore di luoghi comuni rovesciati; nell’ordine politico erano tali i nazionalisti vecchio stile, come Coppola, Forges-Davanzati, Maraviglia e specialmente Giulio De Frenzi. Nella stessa serie intellettuale è da porre il Farinelli col suo lirismo e pateticismo che sono più stucchevolmente pedanteschi che non gli scritti dello Zumbini. (L’espressione «luogo comune a rovescio» è impiegata da Turgheniev in Padri e Figli. Bazarov ne enuncia il principio così: «È un luogo comune dire che l’istruzione pubblica è utile, è un luogo comune al rovescio dire che l’istruzione pubblica è dannosa» ecc.).

Q17 §36 Passato e presente. Dall’Enciclopedia Italiana (articolo «Guerra», p. 79): «Troppi scrittori del Secondo Impero sembrano convinti che la retorica – cui danno facile esca i grandi episodi guerrieri della Rivoluzione e del Primo Impero – basti a tener alto lo spirito militare e che l’alto spirito militare basti da solo a neutralizzare l’altrui eventuale superiorità tecnica».

Questa affermazione se è giusta nella critica militare è ancora più perentoria nella critica dell’azione politica. Forse in un solo aspetto dell’azione politica e cioè in quello elettoralistico nei regimi ultrademocratici liberali può esser vero che la retorica e «l’alto spirito» di lotta (cartacea) può sostituire la preordinazione tecnica minuziosa e organica e dare quindi «strepitose» vittorie. Questo giudizio può essere trasferito nella serie di «Machiavelli» nella parte in cui si analizzano i diversi momenti di una situazione e specialmente nel momento più immediato in cui ogni situazione culmina e si risolve effettivamente, cioè diventa storia.

Q17 §37 Machiavelli. È l’azione politica (in senso stretto) necessaria perché si possa parlare di «partito politico»? Si può osservare che nel mondo moderno in molti paesi i partiti organici e fondamentali, per necessità di lotta o per altra causa, si sono frazionati in frazioni, ognuna delle quali assume il nome di Partito e anche di Partito indipendente. Spesso perciò lo Stato Maggiore intellettuale del Partito organico non appartiene a nessuna di tali frazioni ma opera come se fosse una forza direttrice a sé stante, superiore ai partiti e talvolta è anche creduto tale dal pubblico. Questa funzione si può studiare con maggiore precisione se si parte dal punto di vista che un giornale (o un gruppo di giornali), una rivista (o un gruppo di riviste), sono anch’essi «partiti» o «frazioni di partito» o «funzione di determinati partiti». Si pensi alla funzione del «Times» in Inghilterra, a quella che ebbe il «Corriere della Sera» in Italia, e anche alla funzione della così detta «stampa d’informazione», sedicente «apolitica», e perfino alla stampa sportiva e a quella tecnica. Del resto il fenomeno offre aspetti interessanti nei paesi dove esiste un partito unico e totalitario di Governo: perché tale Partito non ha più funzioni schiettamente politiche ma solo tecniche di propaganda, di polizia, di influsso morale e culturale. La funzione politica è indiretta: poiché se non esistono altri partiti legali, esistono sempre altri partiti di fatto o tendenze incoercibili legalmente, contro i quali si polemizza e si lotta come in una partita di mosca cieca. In ogni caso è certo che in tali partiti le funzioni culturali predominano, dando luogo a un linguaggio politico di gergo: cioè le quistioni politiche si rivestono di forme culturali e come tali diventano irrisolvibili.

Ma un partito tradizionale ha un carattere essenziale «indiretto», cioè si presenta esplicitamente come puramente «educativo» (lucus ecc.), moralistico, di cultura (sic): ed è il movimento libertario: anche la cosidetta azione diretta («terroristica») è concepita come «propaganda» con l’esempio: da ciò si può ancora rafforzare il giudizio che il movimento libertario non è autonomo, ma vive al margine degli altri partiti, «per educarli», e si può parlare di un «libertarismo» inerente a ogni partito organico. (Cosa sono i «libertari intellettuali o cerebrali» se non un aspetto di tale «marginalismo» nei riguardi dei grandi partiti dei gruppi sociali dominanti?) La stessa «setta degli economisti» era un aspetto storico di questo fenomeno.

Si presentano pertanto due forme di «partito» che pare faccia astrazione (come tale) dall’azione politica immediata: quello costituito da una élite di uomini di cultura, che hanno la funzione di dirigere dal punto di vista della cultura, dell’ideologia generale, un grande movimento di partiti affini (che sono in realtà frazioni di uno stesso partito organico) e, nel periodo più recente, partito non di élite, ma di masse, che come masse non hanno altra funzione politica che quella di una fedeltà generica, di tipo militare, a un centro politico visibile o invisibile (spesso il centro visibile è il meccanismo di comando di forze che non desiderano mostrarsi in piena luce ma operare solo indirettamente per interposta persona e per «interposta ideologia»). La massa è semplicemente di «manovra» e viene «occupata» con prediche morali, con pungoli sentimentali, con miti messianici di attesa di età favolose in cui tutte le contraddizioni e miserie presenti saranno automaticamente risolte e sanate.

Q17 §38 Letteratura popolare. I. Accanto alle quistioni come: «Perché la letteratura italiana non è popolare in Italia», «Esiste un teatro italiano?» ecc. è da porre l’altra: «È necessario in Italia provocare una riforma religiosa come quella protestante» – e l’altra: «Dell’impopolarità del Risorgimento, ossia dell’indifferenza popolare nel periodo delle lotte per l’indipendenza e unità nazionali» (l’apoliticismo del popolo italiano e quindi l’astatalismo e ribellismo). Un «catalogo» esatto di tutte queste quistioni che da più di un secolo (dalla Rivoluzione francese) ossessionano gli intellettuali italiani (e infatti periodicamente si ripresentano in forme più o meno nuove: quella dell’unità della lingua, del rapporto tra arte e vita, del romanzo del teatro, del romanzo d’appendice si dibattono anche oggi e così quella di una riforma intellettuale e morale – cioè di una rivoluzione popolare – che abbia la stessa funzione della riforma protestantica e anche della popolarità del Risorgimento che sarebbe finalmente stata raggiunta con la guerra del 1915 e coi rivolgimenti posteriori, onde l’impiego a regime d’inflazione dei termini di rivoluzione e rivoluzionario) può dare la traccia migliore per ricostruire il carattere fondamentale della cultura italiana e le esigenze che da essa sono indicate e rese evidenti.

II. La parola d’ordine di Giovanni Gentile: «Torniamo al De Sanctis!» cosa significa? e cosa può e dovrebbe significare? Il De Sanctis, nell’ultima fase della sua vita e della sua attività, rivolse la sua attenzione al romanzo naturalista, che fu la forma «intellettualistica» assunta nell’Europa Occidentale dal movimento di «andare al popolo», del populismo degli intellettuali nello scorcio del secolo XIX dopo l’avvento delle grandi masse operaie per lo sviluppo dell’industria moderna e il tramonto definitivo della democrazia quarantottesca. Ricordare del De Sanctis lo studio Scienza e Vita, il suo passaggio alla Sinistra parlamentare, il suo timore di una ripresa reazionaria velata sotto forme pompose ecc. Giudizio del De Sanctis: «Manca la fibra perché manca la fede. E manca la fede perché manca la cultura». Ma cosa significa «cultura» in questo caso? Significa indubbiamente una coerente e unitaria, e di diffusione nazionale, «concezione della vita e dell’uomo», cioè una «filosofia» ma diventata appunto «cultura» cioè che ha generato un’etica, un modo di vivere, una condotta civile e individuale. Ciò domandava prima di tutto una unificazione della «classe colta» e in questo senso lavorò il De Sanctis con la fondazione del «Circolo filologico» che avrebbe dovuto determinare «l’unione di tutti gli uomini colti e intelligenti» di Napoli.

III. È interessante, da questo punto di vista, questa nota di Luigi Pirandello scritta a Bonn da studente, negli anni 1889‑90 (cfr Nuova Antologia del 1° gennaio 1934): «Noi lamentiamo che alla nostra letteratura manchi il dramma – e sul riguardo si dicono tante cose e tante altre se ne propongono – conforti, esortazioni, additamenti, progetti – opera vana: il vero marcio non si vede e non si vuol vedere. Manca la concezione della vita e dell’uomo. E pure noi abbiamo campo da dare all’epica e al dramma. Arido stupido alessandrinismo, il nostro». Forse però questo giudizio del Pirandello non fa che riecheggiare discussioni di studenti tedeschi sulla necessità generica di una Weltanschauung ed è più superficiale di quanto non paia. Del resto Pirandello si è fatta una concezione della vita e dell’uomo ma «individuale», incapace di diffusione nazionale‑popolare: come fermento critico ha avuto grande importanza culturale, come è notato altrove.

Q17 §39 Machiavelli. Il potere indiretto. Una serie di manifestazioni in cui la teoria e la pratica del potere indiretto, dalla sfera dell’organizzazione ecclesiastica e dei suoi rapporti con gli Stati, vengono applicate a rapporti tra partito e partito, tra gruppi intellettuali ed economici e partiti ecc. Caso classico quello del tentativo dell’Action Française e dei suoi capi atei e increduli che cercarono di valersi delle masse cattoliche organizzate dall’Azione Cattolica come truppa di manovra a favore della monarchia.

Q17 §40 Freudismo. Si può dire che la «libido» del Freud è lo sviluppo «medico» della Volontà di Schopenhauer? Qualche contatto tra Freud e Schopenhauer mi pare si possa identificare.

Q17 §41 Machiavelli. Scritto dal (generale) Luigi Bongiovanni nella Nuova Antologia del 16 gennaio 1934 (La Marna: giudizi in contrasto): «La guerra nel suo duro realismo avanza solo per via di fatti. Ciò che importa è vincere. La vittoria non si misura a sacrifici, ma a risultati. Di piu, la vittoria è sempre l’effetto di una superiorità: anzi, ne è la innegabile constatazione. Quando costa poco sangue, vuol dire che la superiorità era insita in uno dei due contendenti, per effetto di eventi anteriori».

Q17 §42 Passato e presente. Non esiste in Italia una traduzione dell’opera di Clausewitz sulla guerra. Né pare che Clausewitz fosse conosciuto dalla vecchia generazione: in un articolo della Nuova Antologia (16 dicembre 1933, Appunti sulla costituzione degli organi di comando in guerra) dell’ammiraglio Sirianni, il nome è sempre riferito come «Clausenwitz». Sarebbe da mettere in rapporto questo fatto con l’affermazione fatta dal Gen. De Bono (nelle sue memorie edite da Mondadori) che gli ufficiali della sua generazione non si occupavano di politica, non leggevano i giornali, non sapevano spesso neanche chi fossero i componenti del governo. Quale potesse essere il livello di cultura degli ufficiali della passata generazione è facile immaginare: un ufficiale che si disinteressa della vita politica del suo paese rassomiglia troppo a un soldato di ventura di tipo medioevale. Pare che il primo libro che riassume il pensiero militare (politico) del Clausewitz sia quello di Emilio Canevari, Clausewitz e la guerra odierna, Roma, 1934 (o 1933).

Q17 §43 Problemi di cultura. Il razzismo, Gobineau e le origini storiche della filosofia della prassi. È da leggere la Vita di Gobineau scritta da Lorenzo Gigli per vedere se il Gigli è riuscito a ricostruire esattamente la storia delle idee razziste e a inquadrarle nella cornice storica della cultura moderna. Occorre per ciò rifarsi alle tendenze storiografiche della Francia della Restaurazione e di Luigi Filippo (Thierry, Mignet, Guizot) e alla impostazione della storia francese come di una lotta secolare tra l’aristocrazia germanica (franca) e il popolo di origine gallica o gallo‑romana. La polemica su tale quistione, come è noto, non rimase ristretta al campo scientifico, ma dilagò nel campo della politica immediata e militante: qualche aristocratico rivendicò il dominio dei nobili come dovuto a un «diritto di conquista» e qualche scrittore democratico sostenne che la Rivoruzione francese e la decapitazione di Luigi XVI non furono altro che un’insurrezione dell’elemento gallico originario contro l’elemento germanico sovrappostosi alla antica nazionalità. È noto che molti e dei più popolari romanzi di Eugenio Sue (I Misteri del popolo, L’ebreo errante ecc.) drammatizzano questa lotta e che i Misteri del popolo sono intramezzati da lettere del Sue ai lettori (delle dispense) in cui tale lotta è esposta in forma storico‑politica, come il Sue poteva e sapeva fare. Alla polemica parteciparono giornali e riviste (per es. la «Revue des deux Mondes» nei primi anni di pubblicazione riassunse la quistione, in forma moderata, contro il fanatismo di qualche nobile che esagerava). La stessa quistione, nella storiografia francese, si ripresentò per i rapporti tra Galli e Romani e sono le voluminose trattazioni dello Jullian sulla storia della Gallia. È da notare che da tale discussione si originano (almeno parzialmente) due tendenze: 1) quella della filosofia della prassi, che dallo studio dei due strati della popolazione francese come strati di origine nazionale diversa passò allo studio della funzione economico‑sociale degli strati medesimi; 2) quella del razzismo e della superiorità della razza germanica, che, da elemento polemico dell’aristocrazia francese per giustificare una Restaurazione più radicale, un ritorno integrale alle condizioni del regime prerivoluzionario, divenne, attraverso Gobineau e Chamberlain, un elemento della cultura tedesca (d’importazione francese) con sviluppi nuovi e impensati.

In Italia la quistione non poteva attecchire perché la feudalità d’origine germanica fu distrutta dalle Rivoluzioni comunali (eccetto che nel Mezzogiorno e in Sicilia) dando luogo a una nuova aristocrazia d’origine mercantile e autoctona.

Che una tale quistione non sia astratta e libresca, ma abbia potuto diventare una ideologia politica militante ed efficiente è stato dimostrato dagli avvenimenti tedeschi.

Q17 §44 Letteratura popolare. Che una parte della attuale poesia sia «puro secentismo» appare per confessione spontanea di alcuni critici ortodossi di essa. Per esempio Aldo Capasso in un suo saggio su Ungaretti (brano citato in «Leonardo» del marzo 1934) scrive: «L’aura attonita non potrebbe formarsi, se il poeta fosse meno laconico». L’«aura attonita» richiama la famosa definizione che «del poeta il fine è la maraviglia». Si può notare tuttavia che il secentismo classico, purtroppo, è stato popolare e continua ad esserlo tuttora (è noto come all’uomo del popolo piacciano le acrobazie d’immagini in poesia), mentre il secentismo attuale è popolare fra gli intellettuali puri.

L’Ungaretti ha scritto che le sue poesie piacevano ai suoi compagni di trincea «del popolo», e può esser vero: piacere di carattere particolare legato al sentimento che la poesia «difficile» (incomprensibile) deve esser bella e l’autore un grande uomo appunto perché staccato dal popolo e incomprensibile: ciò avvenne anche per il futurismo ed è un aspetto del culto popolare per gli intellettuali (che in verità sono ammirati e disprezzati nello stesso tempo).

Q17 §45 Passato e presente. Il compilatore dei bollettini di guerra del Comando Supremo italiano, dal maggio 1917 al novembre 1918, compreso anche l’ultimo più famoso, fu l’attuale generale Domenico Siciliani.

Q17 §46 Passato e presente. La neutralità della Svizzera nel 1934. Il consigliere Motta, capo del Dipartimento federale degli Esteri, in un discorso tenuto a Friburgo il 22 luglio, in occasione della giornata ticinese del Tiro federale, ha detto: «Finché la Svizzera sarà risoluta a difendersi, – così diceva di recente l’insigne capo del Governo italiano al signor Wagnière, nostro ministro a Roma, ed io non credo di commettere un’indiscrezione rivelando questo detto amichevole – nessuno oserà prendersi la responsabilità di toccarla».

In ogni modo l’on. Motta ha fatto sapere che «recentemente», in confronto al 22 luglio 1934, la diplomazia svizzera ha dovuto prospettare la possibilità di una aggressione contro il suo territorio al governo italiano e ne ha ricevuto parole amichevoli.

Q17 §47 Passato e presente. Al Congresso geografico tenuto a Varsavia nell’agosto 1934 il prof. Ferdinando Milone dell’Università di Bari ha presentato uno studio delle cause e degli effetti della varia distribuzione dell’industria nelle singole parti d’Italia.

Q17 §48 Distinzioni. Nello studio dei diversi «gradi» o «momenti» delle situazioni militari o politiche non si è soliti fare le doverose distinzioni tra: «causa efficiente», che prepara l’evento storico o politico di diverso grado o significato (o estensione) e la «causa determinante» che immediatamente produce l’evento ed è la risultante generale, concreta della causa efficiente, la «precipitazione» concreta degli elementi realmente attivi e necessari della causa efficiente per produrre la determinazione.

Causa efficiente e causa sufficiente, cioè «totalmente» efficiente, o almeno sufficiente nella direttrice necessaria per produrre l’evento.

Naturalmente queste distinzioni possono avere diversi momenti o gradi: cioè occorre studiare se ogni momento è efficiente (sufficiente) e determinante per il passaggio da uno sviluppo all’altro o se può essere distrutto dall’antagonista prima della sua «produttività».

Q17 §49 Principi di metodo. Prima di giudicare (e per la storia in atto o politica il giudizio è l’azione) occorre conoscere e per conoscere occorre sapere tutto ciò che è possibile sapere. Ma cosa s’intende per «conoscere»? Conoscenza libresca, statistica, «erudizione» meccanica, – conoscenza storica –, intuizione, «contatto» reale con la realtà viva e in movimento, capacità di «simpatizzare» psicologicamente fino al singolo uomo. «Limiti» della conoscenza (non cose inutili), cioè conoscenza critica, o del «necessario»: pertanto, una «concezione generale» critica.

Q17 §50 Machiavelli. Una massima del maresciallo Caviglia: «L’esperienza della meccanica applicata che la forza si esaurisce allontanandosi dal centro di produzione si ritrova dominante nell’arte della guerra. L’attacco si esaurisce avanzando; perciò la vittoria deve essere cercata quanto più è possibile nelle vicinanze del punto di partenza» (Le tre battaglie del Piave, p. 244).

Massima simile in Clausewitz. Ma lo stesso Caviglia osserva che le truppe di rottura devono essere aiutate da truppe di manovra: le truppe di rottura tendono a fermarsi dopo ottenuta la «vittoria» immediata nel loro obbiettivo di rompere il fronte avversario. Un’azione strategica ai fini non territoriali ma decisivi ed organici può essere svolta in due momenti: con la rottura del fronte avversario e con una successiva manovra, operazioni assegnate a truppe distinte.

La massima, applicata all’arte politica, deve essere adattata alle diverse condizioni; ma rimane il punto che tra il punto di partenza e l’obbiettivo occorre una gradazione organica, cioè una serie di obbiettivi parziali. Si può avvicinare alla parola d’ordine quarantottesca.

Q17 §51 Machiavelli. Nel Mein Kampf, Hitler scrive: «La fondazione o la distruzione di una religione è gesto incalcolabilmente più rilevante che la fondazione o la distruzione di uno Stato: non dico di un partito...». Superficiale e acritico: i tre elementi: religione (o concezione del mondo «attiva»), Stato, partito, sono indissolubili e nel processo reale dello sviluppo storico‑politico si passa dall’uno all’altro necessariamente. Nel Machiavelli, nei modi e nel linguaggio del tempo, si osserva la comprensione di questa necessaria omogeneità e interferenza dei tre elementi. Perdere l’anima per salvare la patria o lo Stato, è un elemento di laicismo assoluto, di concezione del mondo positiva e negativa (contro la religione o concezione dominante). Nel mondo moderno, un partito è tale, integralmente e non, come avviene, frazione di un partito più grande, quando esso è concepito, organizzato e diretto in modi e forme tali da svilupparsi integralmente in uno Stato (integrale, e non in un governo tecnicamente inteso) e in una concezione del mondo. Lo sviluppo del partito in Stato reagisce sul partito e ne domanda una continua riorganizzazione e sviluppo, così come lo sviluppo del partito e dello Stato in concezione del mondo, cioè in trasformazione totale e molecolare (individuale) dei modi di pensare e operare, reagisce sullo Stato e sul partito, costringendoli a riorganizzarsi continuamente e ponendo loro dei problemi nuovi e originali da risolvere. È evidente che tale concezione è intralciata nello sviluppo pratico dal fanatismo cieco e unilaterale di «partito» (in questo caso di setta, di frazione di un più ampio partito, nel cui seno si lotta), cioè dall’assenza sia di una concezione statale sia di una concezione del mondo che siano capaci di sviluppo in quanto storicamente necessarie. La vita politica attuale dà una larga testimonianza di queste angustie e ristrettezze mentali, che d’altronde provocano lotte drammatiche, perché esse stesse sono il modo con cui lo sviluppo storico si verifica praticamente. Ma il passato, e il passato italiano che più interessa, da Machiavelli in poi, non è meno ricco di esperienze; perché tutta la storia è testimone del presente.

Q17 §52 Argomenti di cultura. Logica formale e mentalità scientifica. Per comprendere quanto sia superficiale e fondata su deboli basi la mentalità scientifica moderna (ma forse occorrerà fare distinzione tra paese e paese) basta ricordare la recente polemica sul così detto «homo oeconomicus», concetto fondamentale della scienza economica, altrettanto plausibile e necessario quanto tutte le astrazioni su cui si basano le scienze naturali (e anche, sebbene in forma diversa, le scienze storiche o umanistiche). Se fosse ingiustificato, per la sua astrattezza, il concetto distintivo di homo oeconomicus, altrettanto ingiustificato sarebbe il simbolo H20 per l’acqua, dato che nella realtà non esiste nessuna acqua H20 ma un’infinita quantità di «acque» individuali. L’obbiezione nominalista volgare riprenderebbe tutto il suo vigore ecc.

La mentalità scientifica è debole come fenomeno di cultura popolare, ma è debole anche nel ceto degli scienziati, i quali hanno una mentalità scientifica di gruppo tecnico, cioè comprendono l’astrazione nella loro particolare scienza, ma non come «forma mentale» e ancora: comprendono la loro particolare «astrazione», il loro particolare metodo astrattivo, ma non quello delle altre scienze (mentre è da sostenere che esistono vari tipi di astrazione e che è scientifica quella mentalità che riesce a comprendere tutti i tipi di astrazione e a giustificarli). Il conflitto più grave di «mentalità» è però tra quella delle così dette scienze esatte o matematiche, che del resto non sono tutte le scienze naturali, e quelle «umanistiche» o «storiche», cioè quelle che si riferiscono all’attività storica dell’uomo, al suo intervento attivo nel processo vitale dell’universo. (È da analizzare il giudizio di Hegel sull’economia politica e appunto sulla capacità dimostrata dagli economisti di «astrarre» in questo campo).

Q17 §53 Problemi di cultura. Disraeli. Perché Disraeli comprese, meglio di ogni altro capo di governo inglese, le necessità imperiali? Si può fare un paragone tra Disraeli e Cesare. Ma Disraeli non riuscì a impostare il problema della trasformazione dell’impero britannico e non ebbe continuatori: l’inglesismo ha impedito la fusione in una sola classe imperiale unificata dei gruppi nazionali che necessariamente si andavano formando in tutte le terre dell’impero. È evidente che l’impero inglese non poteva fondarsi sotto un’impalcatura burocratico‑militare come avvenne per quello romano: fecondità del programma di un «parlamento imperiale» pensato da Disraeli. Ma questo parlamento imperiale avrebbe dovuto legiferare anche per l’Inghilterra, cosa assurda per un inglese: solo un semita spregiudicato come Disraeli poteva essere l’espressione dell’imperialismo organico inglese. Fenomeni storici analoghi moderni.