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Written in 1930
QUADERNO 3
Q3 §1 Gli intellettuali francesi. Nelle «Nouvelles Littéraires» del 12 ottobre 1929 in un articolo Deux époques littéraires et d’angoisse: 1815‑1830 et 1918‑1930, Pierre Mille cita un articolo di André Berge nella «Révue des deux mondes»: L’Esprit de la Littérature moderne, in cui si segnala l’inquietudine delle giovani generazioni letterarie francesi: disillusione, malessere e persino disperazione; non si sa più perché si vive, perché si è sulla terra. Secondo il Mille, questo stato d’animo rassomiglia a quello da cui nacque il romanticismo, con questa differenza che i romantici se ne liberavano con l’effusione letteraria, col lirismo, con le «parole» (ma è poi vero? al romanticismo si accompagnarono anche dei fatti: il 30, il 31, il 48; ci fu l’effusione letteraria, ma non solo questa). Oggi invece le giovani generazioni non credono più alla letteratura, al lirismo, all’effusione verbale, di cui hanno orrore: predomina la noia, il disgusto.
Per il Mille si tratta di questo: non è tanto la guerra che ha cambiato il mondo; si tratta di una rivoluzione sociale: si è formato un «supercapitalismo» che alleato tacitamente alla classe operaia e ai contadini, schiaccia la vecchia borghesia. Il Mille vuol dire che in Francia c’è stato un ulteriore sviluppo industriale e bancario e che la piccola e media borghesia che prima sembravano dominare, sono in crisi: quindi crisi degli intellettuali. La guerra e la rivoluzione russa hanno accelerato il movimento che già esisteva prima dell’agosto 14. Crisi economica delle classi medie che «n’arrivent même pas à concevoir que vingt‑cinq francs ne valent plus que cent sous» e «voudraient que ce soit comme avant»; gli operai che pensano: laggiù, all’est, c’è un paese dove il proletario è dittatore; classi che nel passato erano dirigenti, e ora non dirigono più, che sognano all’Italia fascista. Il Mille scrive che è proprio «opportuno» ciò che domanda Emmanuel Berl nella Mort de la Pensée bourgeoise quando vorrebbe che gli scrittori, borghesi per il 90%, abbiano delle simpatie per quelli che vogliono spossessarli!
Alcuni tratti del quadro mi sembrano esatti e interessanti. La vecchia Francia piccolo‑borghese attraversa una crisi molto profonda, che però è ancora più morale che immediatamente politica.
Q3 §2 Julien Benda. Un suo articolo nelle «Nouvelles Littéraires» del 2 novembre 1929: Comment un écrivain sert‑il l’universel? è un corollario del libro Il tradimento degli intellettuali. Accenna a un’opera recente, Esprit und Geist del Wechssler, in cui si cerca di dimostrare la nazionalità del pensiero e di spiegare che il Geist tedesco è ben diverso dall’Esprit francese; invita i tedeschi a non dimenticare questo particolarismo del loro cervello e tuttavia pensa di lavorare all’unione dei popoli in virtù di un pensiero di André Gide, secondo cui si serve meglio l’interesse generale quanto più si è particolari.
Il Benda ricorda il manifesto dei 54 scrittori francesi pubblicato nel «Figaro» del 19 luglio 1919 Manifeste du parti de l’Intelligence in cui si diceva: «N’est‑ce pas en se nationalisant qu’une littérature prend une signification plus universelle, un intérêt plus humainement général?». Per il Benda è giusto che l’universale si serve meglio quanto più si è particolari. Ma una cosa è essere particolari, altra cosa predicare il particolarismo. Qui è l’equivoco del nazionalismo, che in base a questo equivoco pretende spesso di essere il vero universalista, il vero pacifista. Nazionale, cioè, è diverso da nazionalista. Goethe era «nazionale» tedesco, Stendhal «nazionale» francese, ma né l’uno né l’altro nazionalista. Un’idea non è efficace se non è espressa in qualche modo, artisticamente, cioè particolarmente. Ma uno spirito è particolare in quanto nazionale?
La nazionalità è una particolarità primaria; ma il grande scrittore si particolarizza ancora tra i suoi connazionali e questa seconda «particolarità» non è il prolungamento della prima. Renan, in quanto Renan non è affatto una conseguenza necessaria dello spirito francese; egli è, per rapporto a questo spirito, un evento originale, arbitrario, imprevedibile (come dice Bergson). E tuttavia Renan resta francese, come l’uomo, pur essendo uomo, rimane un mammifero; ma il suo valore, come per l’uomo, è appunto nella sua differenza dal gruppo donde è nato.
Ciò appunto non vogliono i nazionalisti, per i quali il valore dei maestri consiste nella loro somiglianza con lo spirito del loro gruppo, nella loro fedeltà, nella loro puntualità ad esprimere questo spirito (che d’altronde viene definito come lo spirito dei maestria, per cui si finisce sempre con l’aver ragione).
Perché tanti scrittori moderni ci tengono tanto all’«anima nazionale» che dicono di rappresentare? È utile, per chi non ha personalità, decretare che l’essenziale è di essere nazionali. Max Nordau scrive di un tale che esclamò: «Dite che io non sono niente. Ebbene: sono pur qualche cosa: sono un contemporaneo!». Così molti dicono di essere scrittori francesissimi ecc. (in questo modo si costituisce una gerarchia e una organizzazione di fatto e questo è l’essenziale di tutta la quistione: il Benda, come il Croce, esamina la quistione degli intellettuali astraendo dalla situazione di classe degli intellettuali stessi e dalla loro funzione, che si è venuta precisando con l’enorme diffusione del libro e della stampa periodica). Ma se questa posizione è spiegabile per i mediocri, come spiegarla nelle grandi personalità? (forse la spiegazione è coordinata: le grandi personalità dirigono i mediocri e ne partecipano necessariamente certi pregiudizi pratici che non sono di danno alle loro opere).
Wagner (cfr l’Ecce homo di Nietzsche) sapeva ciò che faceva affermando che la sua arte era l’espressione del genio tedesco, invitando così tutta una razza ad applaudire se stessa nelle sue opere.
Ma in molti il Benda vede come ragione del fatto la credenza che lo spirito è buono nella misura in cui adotta una certa maniera collettiva di pensare e cattivo in quanto cerca di individuarsi. Quando Barrès scriveva: «C’est le rôle des maitres de justifier les habitudes et préjugés qui sont ceux de la France, de manière à préparer pour le mieux nos enfants à prendre leur rang dans la procession nationale», egli intendeva appunto che il suo dovere e quello dei pensatori francesi degni di questo nome, era di entrare, anch’essi, in questa processione.
Questa tendenza ha avuto effetti disastrosi nella letteratura (insincerità). In politica: questa tendenza alla distinzione nazionale ha fatto sì che la guerra, invece di essere semplicemente politica, è diventata una guerra di anime nazionali, con i suoi caratteri di profondità passionale e di ferocia.
Il Benda conclude osservando che tutto questo lavorio per mantenere la nazionalizzazione dello spirito significa che lo spirito europeo sta nascendo e che è nel seno dello spirito europeo che l’artista dovrà individualizzarsi se vuol servire l’universale. (La guerra appunto ha dimostrato che questi atteggiamenti nazionalistici non erano casuali o dovuti a cause intellettuali – errori logici ecc. –: essi erano e sono legati a un determinato periodo storico in cui solo l’unione di tutti gli elementi nazionali può essere una condizione di vittoria. La lotta intellettuale, se condotta senza una lotta reale che tenda a capovolgere questa situazione, è sterile. È vero che lo spirito europeo sta nascendo e non solamente europeo, ma appunto ciò inasprisce il carattere nazionale degli intellettuali, specialmente dello strato più elevato).
Q3 §3 Intellettuali tedeschi.
1) Hans Frank, Il diritto è l’ingiustizia. Nove racconti che sono nove esempi per dimostrare che summum jus, summa iniuria. Il Frank non è un giovane che voglia fare dei paradossi: ha cinquant’anni ed è stata pubblicata una antologia di suoi racconti di storia tedesca per le scuole. Uomo di forti convinzioni. Combatte il diritto romano, la dura lex, e non già questa o quest’altra legge inumana e antiquata, ma la stessa nozione di norma giuridica, quella di una giustizia astratta che generalizza e codifica, definisce il delitto e pronunzia la sanzione.
Questo di Hans Frank non è un caso individuale: è il sintomo di uno stato d’animo. Un difensore dell’Occidente potrebbe vedere in ciò la rivolta del «disordine tedesco» contro l’ordine latino, dell’anarchia sentimentale contro la regola dell’intelligenza. Ma gli autori tedeschi l’intendono piuttosto come la restaurazione di un ordine naturale sulle rovine d’un ordine artificioso. Di nuovo l’esame personale si oppone al principio d’autorità, che viene attaccato in tutte le sue forme: dogma religioso, potere monarchico, insegnamento ufficiale, stato militare, legame coniugale, prestigio paterno, e soprattutto la giustizia che protegge queste istituzioni caduche, che non è che coercizione, compressione, deformazione arbitraria della vita pubblica e della natura umana.
L’uomo è infelice e cattivo finché è incatenato dalla legge, dal costume, dalle idee ricevute. Bisogna liberarlo per salvarlo. La virtù creatrice della distruzione è diventata un articolo di fede.
Stefan Zweig, H. Mann, Remarque, Glaeser, Leonhard Frank...
2) Leonhard Frank, La ragione: l’eroe assassina il suo ex-professore, perché questi gli aveva sfigurato l’anima: l’autore sostiene l’innocenza dell’uccisore.
3) Franz Werfel: in un romanzo sostiene che non l’assassino è colpevole, ma la vittima: non c’è in lui niente del Quincey: c’è un atto morale. Un padre, generale imperioso e brutale, spezza la vita del figlio facendone un soldato senza vocazione: non commette un delitto di lesa umanità? Deve essere immolato come due volte usurpatore: come capo e come padre.
Nasce così il motivo del parricidio e la sua apologia, l’assoluzione di Oreste, non in nome della pietà per la colpa tragica, ma in ragione di un imperativo categorico, di un mostruoso postulato morale.
La teoria di Freud, il complesso di Edipo, l’odio per il padre – padrone, modello, rivale, espressione prima del principio d’autorità – posto nell’ordine delle cose naturali. L’influenza del Freud sulla letteratura tedesca è incalcolabile: essa è alla base di una nuova etica rivoluzionaria (!). Freud ha dato un aspetto nuovo all’eterno conflitto tra padri e figli. L’emancipazione dei figli dalla tutela paterna è la tesi in voga presso i romanzieri attuali. I padri abdicano al loro «patriarcato» e fanno ammenda onorevole dinanzi ai figli il cui senso morale ingenuo è solo capace di spezzare il contratto sociale tirannico e perverso, di abolire le costrizioni di un dovere menzognero (cfr Hauptmann, Michael Kramer, la novella di Jacob Wassermann, Un padre).
4) Wassermann, Der Fall Mauritius: tipico contro la giustizia.
Q3 §4 Emmanuel Berl. Ha scritto un libro Mort de la pensée bourgeoise che pare abbia fatto un certo chiasso. Nel 1929 ha tenuto, a Médan, nella casa di Zola, un discorso in occasione del pellegrinaggio annuale (credo) degli «amici di Zola» (democratici, Jeunesses laïques et républicaines ecc.). «Dopo la morte di Zola e di Jaurès nessuno più sa parlare al popolo del popolo e la nostra “letteratura di esteti” muore per il suo egocentrismo». Zola in letteratura, Jaurès in politica sono stati gli ultimi rappresentanti del popolo. Pierre Hamp parla del popolo, ma i suoi libri sono letti dai letterati. V. Margueritte è letto dal popolo, ma non parla del popolo. Il solo libro francese che continui Zola è il Fuoco di Barbusse, perché la guerra aveva fatto rinascere in Francia una certa fraternità. Oggi il romanzo popolare (cosa intende per romanzo popolare?) si separa sempre più dalla letteratura propriamente detta che è diventata letteratura di esteti. La letteratura, separata dal popolo, deperisce – il proletariato escluso dalla vita spirituale (!) perde la sua dignità (n’est plus fondé en dignité). – (è vero che la letteratura si allontana dal popolo e diventa fenomeno di casta; ma ciò porta a una maggior dignità del popolo; la tradizionale «fraternità» non è stata che l’espressione della bohème letteraria francese, un certo momento della cultura francese intorno al 48 e fino al 70; ha avuto una certa ripresa con Zola).
«Et autour de nous, nous sentons croître cette famine du peuple qui nous interroge sans que nous puissions lui répondre, qui nous presse sans que nous puissions le satisfaire, qui réclame une justification de sa peine sans que nous puissions la lui donner. On dirait que les usines géantes déterminent une zone de silence de laquelle l’ouvrier ne peut plus sortir et où l’intellectuel ne peut plus entrer. Tellement séparés que l’intellectuel, issu du milieu ouvrier, n’en retrouve point l’accès».
«La fidélité difficile, écrit Jean Guéhenno. Peut‑étre la fidélité impossible. Le boursier n’établit nullement, comme on pouvait l’espérer, un pont entre le prolétariat et la bourgeoisie. Un bourgeois de plus, et c’est bien. Mais ses frères cessent de le reconnaître. Es ne voient plus en lui un des leurs. Comme le peuple ne participe nullement aux modes d’expression des intellectuels, il faut, ou bien qu’ìl s’oppose à eux, qu’il constitue une sorte de nationalité avec son langage propre, ou bien qu’il n’ait pas de langage du tout et s’enlise dans une sorte de barbarie».
La colpa è degli intellettuali, divenuti conformisti mentre Zola era rivoluzionario (!), raffinati e preziosi nello stile, scrittori di giornali intimi mentre Zola epico. Ma anche il mondo è cambiato. Zola conosceva un popolo che oggi non esiste più, o almeno non ha più la stessa importanza. Alto capitalismo – operaio taylorizzato – sostituisce il vecchio popolo che non si distingueva ancor bene dalla piccola borghesia e che appare in Zola, come in Proudhon, in V. Hugo, nella Sand, in E. Sue. Zola descrive l’industria nascente. Ma se è più difficile il compito dello scrittore, non deve perciò essere trascurato. Quindi ritorno a Zola, ritorno al popolo. «Avec Zola donc ou avec rien, la fraternité ou la mort. Telle est notre devise. Tel notre drame. Et telle notre loi».
Q3 §5 America. È latina l’America centrale e meridionale? E in che consiste questa latinità? Grande frazionamento, che non è casuale. Gli Stati Uniti, concentrati e che attraverso la politica dell’emigrazione cercano non solo di mantenere ma di accrescere questa concentrazione (che è una necessità economica e politica come ha dimostrato la lotta interna tra le varie nazionalità per influire sulla direzione del governo nella politica della guerra, come dimostra l’influenza che l’elemento nazionale ha nell’organizzazione sindacale e politica degli operai ecc.), esercitano un grande peso per mantenere questa disgregazione, alla quale cercano sovrapporre una rete di organizzazioni e movimenti guidati da loro: 1) Unione panamericana (politica statale); 2) Movimento missionario per sostituire il cattolicismo con il protestantesimo; 3) Opposizione della Federazione del Lavoro ad Amsterdam e tentativo di creare una Unione panamericana del lavoro (vedere se esistono anche altri movimenti e iniziative di questo genere); 4) Organizzazione bancaria, industriale, di credito che si estende su tutta l’America. Questo è il primo elemento.
L’America meridionale e centrale è caratterizzata: 1) da un numero ragguardevole di pellirossa, che, sia pure passivamente, esercitano un influsso sullo Stato: sarebbe utile avere informazioni sulla posizione sociale di questi pellirossa, sulla loro importanza economica, sulla partecipazione loro alla proprietà terriera e alla produzione industriale; 2) le razze bianche che dominano nell’America centrale e meridionale non possono riallacciarsi a patrie europee che abbiano una grande funzione economica e storica: Portogallo, Spagna (Italia)Le parentesi sono state aggiunte in un secondo tempo, probabilmente in funzione dubitativa., paragonabile a quella degli Stati Uniti; esse in molti Stati rappresentano una fase semifeudale e gesuitica, per cui si può dire che tutti gli Stati dell’America Centrale e Meridionale (eccettuato l’Argentina, forse) devono attraversare la fase del Kulturkampf e dell’avvento dello Stato moderno laico (la lotta del Messico contro il clericalismo dà un esempio di questa fase). La diffusione della cultura francese è legata a questa fase: si tratta della cultura massonico‑illuministica, che ha dato luogo alle così dette Chiese positivistiche, alle quali partecipano anche molti operai che pur si chiamano sindacalisti anarchici. Apporto delle varie culture: Portogallo, Francia, Spagna, Italia. Quistione del nome: America latina, o iberica, o ispanica? Francesi e italiani usano «latina», portoghesi «iberica», spagnoli «ispanica». Di fatto la maggiore influenza è esercitata dalla Francia; le altre tre nazioni latine hanno influenza scarsa, nonostante la lingua, perché queste nazioni americane (sono) sorte in opposizione a Spagna e Portogallo e tendenti a creare proprio nazionalismo e propria cultura. Influenza italiana, caratterizzata dal carattere sociale dell’emigrazione italiana: d’altra parte in nessun paese americano gli italiani sono la razza egemone.
Un articolo di Lamberti Sorrentino, Latinità dell’America nell’«Italia Letteraria» del 22 dicembre 1929. «Le repubbliche sudamericane sono latine per tre fattori principali: la lingua spagnola, la cultura prevalentemente francese, l’apporto etnico prevalentemente (!) italiano. Quest’ultimo è, dei tre, il fattore più profondo e sostanziale, perché conferisce appunto alla nuova razza che si forma il carattere latino (!); e in apparenza (!) il più fugace, perché alla prima generazione, perdendo quanto esso ha di originale e proprio (è un bell’indovinello, tutt’insieme!), si acclimata spontaneamente (!) nel nuovo ambiente geografico e sociale».
Secondo il Sorrentino c’è un interesse comune tra Spagnuoli, Francesi e Italiani che sia conservata (!) la lingua spagnola, tramite per la formazione di una profonda coscienza latina capace di resistere alle deviazioni (!) che sospingono gli americani del sud verso la confusione (!) e il caos. Il direttore di un periodico letterario ultra‑nazionalista dell’Argentina (il paese più europeo e latino dell’America) ha affermato che l’uomo argentino «fisserà il suo tipo latino‑anglosassone predominante». Il medesimo scrittore che si autodefinisce «argentino al cento per cento» ha detto ancora più esplicitamente: «Quanto ai nordamericani, il cui Paese ci ha dato la base costituzionale e scolastica, è bene dirlo una buona volta, noi ci sentiamo più vicini a loro per educazione, gusti, maniera di vivere, che non agli europei e agli spagnoli afro‑europei, come amano qualificarsi questi ultimi; e non abbiamo mai temuto lo staffile degli Stati Uniti». (Si riferisce alla tendenza spagnola di considerare i Pirenei come una barriera culturale tra l’Europa e il mondo iberico: Spagna, Portogallo, America Centrale e Meridionale e Marocco. Teoria dell’iberismo ‑ ibero‑americanismo –, perfezionamento dell’ispanismo ‑ ispano‑americanismo –). L’iberismo è antilatino: le repubbliche americane dovrebbero solo orientarsi verso Spagna e Portogallo. (Pure esercitazioni da intellettuali e da grandi decaduti che non vogliono persuadersi di contare ormai ben poco). La Spagna fa dei grandi sforzi per riconquistare l’America del Sud in tutti i campi: culturale, commerciale, industriale, artistico. (Ma con quale risultato?). La egemonia culturale della Francia è minacciata dagli anglosassoni: esistono un Istituto Argentino di Cultura Inglese e un Istituto Argentino di Cultura Nordamericana, enti ricchissimi e già vivi: insegnano la lingua inglese con grandi agevolazioni agli alunni il cui numero è in costante aumento e con programmi di scambi universitari e scientifici di sicura attuazione. L’immigrazione italiana e spagnola è stagnante; aumenta l’immigrazione polacca e slava. Il Sorrentino desidererebbe un fronte unico franco‑italo‑iberico per mantenere la cultura latina.
Q3 §6 Cosa pensano i giovani? Nell’«Italia Letteraria» del 22 dicembre 1929 M. Missiroli (Filosofia della Rivoluzione) parla dei lavori che il prof. Giorgio del Vecchio fa fare ai suoi allievi dell’Università di Roma. Nella «Rivista internazionale di filosofia del diritto» uscita nel (novembre) 1929 sono pubblicati sotto il titolo Esercitazioni di filosofia del diritto questi lavori che nel 28‑29 ebbero per tema «la filosofia della Rivoluzione». Nota il Missiroli che la maggioranza di questi giovani è orientata verso le dottrine dello storicismo, sebbene non manchino assertori del tradizionale spiritualismo e anche reminiscenze dell’antico diritto naturale. Nessuna traccia di positivismo e di individualismo: i principî d’autorità gagliardamente affermati.
I brani riportati dal Missiroli sono veramente interessanti e la raccolta potrebbe servire come dimostrazione della crisi intellettuale che, secondo me, non può non sboccare in una ripresa del materialismo storico (gli elementi per dimostrare come il materialismo storico sia penetrato profondamente nella cultura moderna sono abbondanti in questi esercizi).
Q3 §7 Il popolo (ohibò!), il pubblico (ohibò!). I politici d’avventura domandano con cipiglio di chi la sa lunga: «Il popolo! Ma cos’è questo popolo? Ma chi lo conosce? Ma chi l’ha mai definito?» e intanto non fanno che escogitare trucchi e trucchi per avere le maggioranze elettorali (dal 24 al 29 quanti comunicati ci sono stati in Italia per annunziare nuovi ritocchi alla legge elettorale? Quanti progetti presentati e ritirati di nuove leggi elettorali? Il catalogo sarebbe interessante di per sé). Lo stesso dicono i letterati puri: «Un vizio portato dalle idee romantiche è quello di chiamare a giudice il pubblico. Chi è il pubblico? Chi è costui? Questo testone onnisciente, questo gusto squisito, quest’assoluta probità, questa perla dov’è?» (G. Ungaretti, «Resto del Carlino», 23 ottobre 1929). Ma intanto domandano che sia instaurata una protezione contro le traduzioni da lingue straniere e quando vendono mille copie di un libro fanno suonare le campane del loro paese. Il «popolo» però ha dato il titolo a molti importanti giornali, proprio di quelli che oggi domandano «cosa è questo popolo?» proprio nei giornali che si intitolano al popolo.
Q3 §8 I nipotini di padre Bresciani. Il diavolo al Pontelungo di Bacchelli. Il romanzo è stato tradotto in inglese da Orlo Williams e la «Fiera Letteraria» del 27 gennaio 1929 riporta l’introduzione di Williams alla sua traduzione. Lo Williams nota che il Diavolo al Pontelungo è «uno dei pochi romanzi veri, nel senso che noi diciamo romanzo in Inghilterra», ma non nota (sebbene parli dell’altro libro di Bacchelli Lo sa il tonno) che il Bacchelli è uno dei pochi scrittori italiani che si possano chiamare «moralisti» nel senso inglese e francese (ricordare che il Bacchelli è stato collaboratore della «Voce» e anzi in un certo tempo ne ha avuto la direzione in sostituzione di Prezzolini). Lo chiama invece raisonneur, poeta dotto: raisonneur nel senso che troppo spesso interrompe l’azione drammatica con commenti intorno ai moventi delle umane azioni in generale. (Lo sa il tonno è il romanzo tipico di Bacchelli «morale»).
In una lettera allo Williams il Bacchelli dà queste informazioni sul Diavolo: «Nelle linee generali il materiale è storico strettamente, tanto nella prima che nella seconda parte. Sono storici i protagonisti, come Bakùnin, Cafiero, Costa. Nell’intendere l’epoca, le idee e i fatti, ho cercato d’essere storico in senso stretto: rivoluzionarismo cosmopolita, primordi della vita politica del Regno d’Italia, qualità del socialismo italiano agli inizi, psicologia politica del popolo italiano e suo ironico buon senso, suo istintivo e realistico machiavellismo (direi piuttosto guicciardinismo nel senso dell’uomo del Guicciardini di cui parla il De Sanctis) ecc. Le mie fonti sono l’esperienza della vita politica fatta a Bologna, che è la città politicamente più suscettibile e sottile d’Italia (mio padre era uomo politico, deputato liberale conservatore), i ricordi di alcuni fra gli ultimi sopravvissuti dei tempi dell’Internazionale anarchica (ho conosciuto uno che fu compagno e complice di Bakùnin nei fatti di Bologna del 74) e, per i libri, sopra tutto il capitolo del professor Ettore Zoccoli nel suo libro sull’anarchia e i quaderni di Bakùnin che lo storiografo austriaco dell’anarchia, Nettlau, ha ristampato nella sua rarissima biografia stampata in pochi esemplari. Il francese (era svizzero) James Guillaume tratta anch’egli di Bakùnin e Cafiero nell’opera sull’Internazionale, che non conosco, ma dalla quale credo di discostarmi in vari punti importanti. Quest’opera fece parte di una polemica posteriore sulla Baronata di Locarno, della quale non mi sono curato. Tratta di cose meschine e di quistioni di danaro. Credo che Herzen, nelle sue memorie, abbia scritto le parole più giuste e più umane intorno alla personalità variabile, inquieta e confusa di Bakùnin. Marx, come non di rado, fu soltanto caustico e ingiurioso. In conclusione, credo di poterle dire che il libro si fonda sopra una base di concetto sostanzialmente storico. Come e con quale sentimento artistico io abbia saputo svolgere questo materiale europeo e rappresentativo, questo è argomento sul quale il giudicare non spetta a me».
Q3 §9 L’accademia dei Dieci. Vedi articolo di C. Malaparte Una specie di Accademia nella «Fiera Letteraria» del 3 giugno 1928: il «Lavoro d’Italia» avrebbe pagato 150 000 lire il romanzo Lo Zar non è morto scritto in cooperativa dai Dieci. «Per il “Romanzo dei Dieci” i tesserati della Confederazione, in grandissima maggioranza operai, hanno dovuto sborsare ben 150 000 lire. Perché? Per la sorprendente ragione che gli autori son dieci e che fra i Dieci figurano, oltre i nomi del Presidente e del Segretario generale del «Raduno», quelli del Segretario nazionale e di due membri del Direttorio del Sindacato autori e scrittori!... Che cuccagna il sindacalismo intellettuale di Giacomo di Giacomo». Il Malaparte scrive ancora: «Se quei dirigenti, cui si riferisce il nostro discorso, fossero fascisti, non importa se di vecchia o di nuova data, avremmo seguito altra via per denunciare gli sperperi e le camorre: ci saremmo rivolti, cioè, al Segretario del P.N.F. Ma trattandosi di personaggi senza tessera, politicamente poco puliti e mal compromessi alcuni, altri infilatisi nei Sindacati all’ora del pranzo, abbiamo preferito sbrigar le cose senza scandalo (!), con queste quattro parole dette in pubblico». Questo pezzo è impagabile. Nell’articolo c’è poi un attacco vivace contro Bodrero, allora Sottosegretario all’Istruzione Pubblica e contro Fedele, ministro. Nella «Fiera Letteraria» del 17 giugno, il Malaparte, pubblica un secondo articolo Coda di un’Accademia in cui rincara sornionamente la dose contro Bodrero e Fedele. (Fedele aveva mandato una lettera sulla quistione Salgari, che fu il «pezzo forte» del «Sindacato Scrittori» e che fece ridere mezzo mondo).
Q3 §10 Proudhon e i letterati italiani (Raimondi, Jahier). Articolo di Giuseppe Raimondi Rione Bolognina nella «Fiera Letteraria» del 17 giugno 1928: motto di Proudhon: «La pauvreté est bonne, et nous devons la considérer comme le principe de notre allégresse»; spunti autobiografici che culminano in queste frasi: «Come ogni operaio e ogni figlio di operaio, io ho sempre avuto chiaro il senso della divisione delle classi sociali. Io resterò, purtroppo (!), fra quelli che lavorano. Dall’altra parte, ci sono quelli che io posso rispettare, per i quali posso anche provare della sincera gratitudine; ma qualcosa mi impedisce di piangere con loro, e non mi riesce di abbracciarli con spontaneità. O mi mettono soggezione o li disprezzo». «È nei sobborghi che si sono sempre fatte le rivoluzioni e il popolo non è da nessuna parte così giovane, sradicato da ogni tradizione, disposto a seguire un improvviso moto di passione collettivo, come nei sobborghi, che non sono più città e non sono ancora campagna. ... Di qui finirà per nascere una civiltà nuova e una storia che avrà quel senso di rivolta e di riabilitazione secolare proprio dei popoli che solo la morale dell’età moderna ha fatto riconoscere degni. Se ne parlerà come oggi si parla del Risorgimento Italiano e dell’Indipendenza Americana. – L’operaio è di gusti semplici: si istruisce con le dispense settimanali delle Scoperte della Scienza e della Storia delle Crociate: la sua mentalità resterà sempre quella un poco atea e garibaldina dei circoli suburbani e delle Università popolari. … Lasciategli i suoi difetti, risparmiategli le vostre ironie. Il popolo non sa scherzare. La sua modestia è vera, come la sua fiducia nell’avvenire». (Insomma, tra i cento modi di distinguersi e di fare lo snob, c’è anche questo scelto dal Raimondi).
Q3 §11 Americanismo. Pirandello, in una intervista con Corrado Alvaro («Italia letteraria», 14 aprile 1929): «L’americanismo ci sommerge. Credo che un nuovo faro di civiltà si sia acceso laggiù». – «Il denaro che corre il mondo è americano, e dietro al denaro corre il modo di vita e la cultura. Ha una cultura l’America? Ha libri e costumi. I costumi sono la sua nuova letteratura, quella che penetra attraverso le porte più munite e difese. A Berlino lei non sente il distacco tra vecchia e nuova Europa perché la struttura stessa della città non offre resistenze. A Parigi, dove esiste una struttura storica e artistica, dove le testimonianze di una civiltà autoctona sono presenti, l’americanismo stride come il belletto sulla vecchia faccia di una mondana».
Il problema non è se in America esista una nuova civiltà, una nuova cultura, e se queste nuove civiltà e cultura stiano invadendo l’Europa: se il problema dovesse porsi così, la risposta sarebbe facile: no, non esiste ecc., e anzi in America non si fa che rimasticare la vecchia cultura europea. Il problema è questo: se l’America, col peso implacabile della sua produzione economica, costringerà e sta già costringendo l’Europa a un rivolgimento della sua assise economica‑sociale, che sarebbe avvenuto lo stesso ma con ritmo lento e che invece si presenta come un contraccolpo della «prepotenza» americana, se cioè si sta creando una trasformazione delle basi materiali della civiltà, ciò che a lungo andare (e non molto lungo, perché nel periodo attuale tutto è più rapido che nei periodi passati) porterà a un travolgimento della civiltà stessa esistente e alla nascita di una nuova.
Gli elementi di vita che oggi si diffondono sotto l’etichetta americana, sono appena i primi tentativi a tastoni, dovuti, non già all’«ordine» che nasce dalla nuova assise che non si è formata ancora, ma all’iniziativa degli elementi déclassés dagli inizi dell’operare di questa nuova assise. Ciò che oggi si chiama americanismo è in grandissima parte un fenomeno di panico sociale, di dissoluzione, di disperazione dei vecchi strati che dal nuovo ordine saranno appunto schiacciati: sono in gran parte «reazione» incosciente e non ricostruzione: non è dagli strati «condannati» dal nuovo ordine che si può attendere la ricostruzione, ma dalla classe che crea le basi materiali di questo nuovo ordine e deve trovare il sistema di vita per far diventare «libertà» ciò che è oggi «necessità». Questo criterio che le prime reazioni intellettuali e morali allo stabilirsi di un nuovo metodo produttivo sono dovute più ai detriti delle vecchie classi in isfacelo che alle nuove classi il cui destino è legato ai nuovi metodi, mi pare di estrema importanza.
Un’altra quistione è che non si tratta di una nuova civiltà, perché muta i carattere delle classi fondamentali, ma di un prolungamento ed intensificazione della civiltà europea, che ha però assunto determinati caratteri nell’ambiente americano. L’osservazione del Pirandello sulla opposizione che l’americanismo trova a Parigi e sull’accoglienza immediata che trova invece a Berlino, prova appunto la non differenza di qualità, ma di grado. A Berlino le classi medie erano state già rovinate dalla guerra e dall’inflazione e l’industria germanica era di un grado superiore a quella francese. Le classi medie francesi invece non subirono né le crisi (occasionali) come l’inflazione tedesca, né una crisi organica molto più rapida della normale per l’introduzione e la diffusione (improvvisa) di un nuovo metodo di produzione. Perciò è giusto che l’americanismo a Parigi sia come un belletto, una superficiale moda straniera.
Q3 §12 David Lazzaretti. Un articolo di Domenico Bulferetti David Lazzaretti e due milanesi, nella «Fiera Letteraria» del 26 agosto 1928, ricorda alcuni elementi della vita e della formazione di David Lazzaretti; Andrea Verga, David Lazzaretti e la pazzia sensoria (Milano, Rechiedei, 1880); Cesare Lombroso, Pazzi e anormali (questo era il costume del tempo: invece di studiare le origini di un fatto storico, si trovava che il protagonista era un pazzo); una Storia di David Lazzaretti Profeta di Arcidosso fu pubblicata a Siena nel 1905 da uno dei maggiori discepoli del Lazzaretti, l’ex‑frate filippino Filippo Imperiuzzi: altre scritture apologetiche esistono, ma, questa è la più notevole secondo il Bulferetti; libri di Giacomo Barzellotti, 1a e 2a ed. David Lazzaretti presso Zanichelli e Monte Amiata e il suo Profeta (ed. Treves) che è il precedente assai modificato.
Il Bulferetti crede che il Barzellotti abbia sostenuto che le cause del movimento lazzarettista sono «tutte particolari e dovute solo allo stato d’animo e di coltura di quella gente là» solo «un po’ per naturale amore ai bei luoghi nativi (!) e un po’ per suggestione delle teorie di Ippolito Taine».
A me pare che il libro del Barzellotti, che ha formato l’opinione pubblica sul Lazzaretti, sia nient’altro che una manifestazione della tendenza «patriottica» (per amor di patria!) e che portava a cercare di nascondere le cause di malessere generale che esistevano in Italia, dando dei singoli episodi di esplosione di questo malessere spiegazioni restrittive, individuali, patologiche ecc.
Ciò che è avvenuto per il «brigantaggio» meridionale e siciliano è avvenuto per Davide Lazzaretti. I politici non si sono occupati del fatto che la sua uccisione è stata di una crudeltà feroce e freddamente premeditata (sarebbe interessante conoscere le istruzioni mandate dal governo alle autorità locali); neanche i repubblicani se ne sono occupati, nonostante che il Lazzaretti sia morto inneggiando alla repubblica (questo carattere del movimento deve aver specialmente contribuito a determinare la volontà del governo di sterminarlo) e per la ragione forse che nel movimento il repubblicano era legato all’elemento religioso e profetico. Ma questo appunto mi pare sia la caratteristica principale di quell’avvenimento che politicamente era legato al non-expedit del Vaticano e mostrava quale tendenza sovversiva‑popolare elementare poteva nascere dall’astensionismo dei preti. (In ogni caso bisognerebbe ricercare se le opposizioni d’allora presero atteggiamento: bisogna tener conto che il governo era della sinistra appena andata al potere e ciò spiegherebbe anche la tiepidezza nel sostenere una lotta contro il governo per l’uccisione delittuosa di uno che poteva essere presentato come un codino papalino clericale ecc.).
Il Barzellotti, nota il Bulferetti, non fece ricerche sulla formazione di quella cultura cui si riferisce. Avrebbe visto che anche a Monte Amiata arrivavano allora in gran copia (! da dove lo sa il Bulferetti?) foglietti, opuscoli, e libri popolari stampati a Milano. Il Lazzaretti ne era lettore insaziabile e per il suo mestiere di barrocciaio aveva agio di procurarsene.
Davide era nato in Arcidosso il 6 novembre 1834 e aveva esercitato il mestiere paterno fino al 1868, quando, da bestemmiatore si convertì e si ritirò a far penitenza in una grotta della Sabina, dove «vide» l’ombra di un guerriero che gli «rivelò» di essere il capostipite della sua famiglia, Manfredo Pallavicino, figlio illegittimo di un re di Francia ecc. Un danese, il dottor Emilio Rasmussen trovò che Manfredo Pallavicino è il protagonista di un romanzo storico di Giuseppe Rovani intitolato appunto Manfredo Pallavicino. L’intreccio e le avventure del romanzo serio passate tali e quali nella «rivelazione» della grotta e da queste rivelazioni si inizia la propaganda religiosa del Lazzaretti.
Il Barzellotti aveva creduto invece che il Lazzaretti fosse stato influenzato dalle leggende del Trecento (le avventure del re Giannino, senese), e la scoperta del Rasmussen lo indusse solo a introdurre nell’ultima edizione del suo libro un vago accenno alle letture del Lazzaretti, senza però accennare al Rasmussen e lasciando intatta la parte del libro dedicata a re Giannino. Tuttavia il Barzellotti studia il successivo svolgimento dello spirito del Lazzaretti, i suoi viaggi in Francia e l’influenza che ebbe su di lui il prete milanese Onorio Taramelli, uomo di fino ingegno e larga cultura, che per aver scritto contro la monarchia, era stato arrestato a Milano e poi era fuggito in Francia. Dal Taramelli Davide ebbe l’impulso repubblicano. La bandiera di Davide era rossa con la scritta: «La repubblica e il regno di Dio». Nella processione del 18 agosto 1878, in cui David fu ucciso, egli domandò ai suoi fedeli se volevano la repubblica. Al «sì» fragoroso egli rispose: «la repubblica incomincia da oggi in poi nel mondo; ma non sarà quella del ’48; sarà il regno di Dio, la legge del Diritto succeduta a quella di Grazia». (Nella risposta di David ci sono alcuni elementi interessanti, che devono essere collegati alle sue reminiscenze delle parole del Taramelli; il voler distinguersi dal 48 che in Toscana non aveva lasciato buon ricordo tra i contadini, la distinzione tra Diritto e Grazia ecc. Ricordare che qualcosa di simile pensavano i preti e i contadini coinvolti col Malatesta nel processo delle bande di Benevento. In ogni caso, nel caso del Lazzaretti, all’impressionismo letterario, dovrebbe succedere una certa analisi politica).
Q3 §13 I nipotini di padre Bresciani. Alfredo Panzini: La Vita di Cavour. La Vita di Cavour del Panzini è stata pubblicata dall’«Italia Letteraria» nei numeri dal 9 giugno al 13 ottobre 1929. A tutt’oggi (30 maggio 1930) non è stata raccolta in volume. Nell’«Italia letteraria» del 30 giugno è pubblicata col titolo Chiarimento una letterina inviata dal Panzini in data 27 giugno 1929 al direttore del «Resto del Carlino». Il Panzini, con stile molto seccato, si lamenta per un commento molto piccante pubblicato dal giornale bolognese sulle due prime puntate della sua Vita di Cavour, che veniva giudicata «piacevole giocherello» e «cosa leggera». Il Panzini scrive: «Nessuna intenzione scrivere una biografia alla maniera romanzesca francese. Mia intenzione scrivere in stile piacevole e drammatico, tutto però documentato. (Carteggio Nigra‑Cavour)». Altri accenni del Panzini non si capiscono bene; bisognerebbe conoscere il commento del «Resto del Carlino» al quale egli risponde.
L’episodio vale, perché alcuni si sono cominciati ad accorgere che queste scritture del Panzini ormai sono stucchevoli e mostrano la trama: la stupidaggine storica del Panzini è incommensurabile: è, il suo, un puro gioco di parole, che sotto un’ironia di maniera fa credere di contenere chissà quali profondità: in realtà non c’è nulla oltre le parole: è un nuovo stenterellismo che si dà l’aria di machiavellismo. Un’altra puntata diretta al Panzini certamente ho letto nella «Nuova Italia»: si parla di vite di Cavour o di altri scritti come si scriverebbe la vita di Pinocchio.
In realtà non è che lo stile del Panzini sia «piacevole e drammatico»; egli rappresenta la storia come una «piacevolezza»; la sua «drammaticità» consiste nel rappresentare le cose serie come discorsi di farmacia in cui il farmacista è Panzini e il cliente è un altro Panzini.
La Vita di Cavour del Panzini mi servirà per fare una raccolta di luoghi comuni sul Risorgimento (il Panzini è tutto una miniera di luoghi comuni) e per trarne documenti del suo gesuitismo letterario.
Q3 §14 Storia della classe dominante e storia delle classi subalterne. La storia delle classi subalterne è necessariamente disgregata ed episodica: c’è nell’attività di queste classi una tendenza all’unificazione sia pure su piani provvisori, ma essa è la parte meno appariscente e che si dimostra solo a vittoria ottenuta. Le classi subalterne subiscono l’iniziativa della classe dominante, anche quando si ribellano; sono in istato di difesa allarmata. Ogni traccia di iniziativa autonoma è perciò di inestimabile valore. In ogni modo la monografia è la forma più adatta di questa storia, che domanda un cumulo molto grande di materiali parziali.
Q3 §15 Ettore Ciccotti. Il suo volume Confronti storici (Biblioteca della «Nuova Rivista Storica», n. 10, Società editr. Dante Alighieri, 1929, pp. XXXIX‑262) è stato recensito favorevolmente da Guido De Ruggiero nella «Critica» del gennaio 1930 e invece con molte cautele e in fondo sfavorevolmente da Mario de Bernardi nella «Riforma Sociale» (che non ho presente in questo momento). Del libro del Ciccotti ho letto un capitolo (che forse è l’introduzione generale al volume) pubblicato nella «Rivista d’Italia» del 15 giugno e del 15 luglio 1927: Elementi di «verità» e di«certezza» nella tradizione storica romana. Il Ciccotti esamina e combatte una serie di deformazioni professionali della storiografia romana e molte sue osservazioni sono giuste negativamente; è nella parte positiva che incominciano i dubbi e sono necessarie le cautele.
L’errore teorico del Ciccotti mi pare consista nell’errata interpretazione del principio vichiano del «certo» e del «vero»: la storia non può essere che «certezza» o almeno ricerca di «certezza». La conversione del «certo» nel «vero» dà luogo a una costruzione filosofica della storia eterna, ma non alla costruzione della storia «effettuale»: ma la storia non può che essere «effettuale»: la sua «certezza» deve essere prima di tutto «certezza» dei documenti storici (anche se la storia non si esaurisce tutta nei documenti storici). La parte sofistica della metodologia del Ciccotti appare evidente in un caso: egli dice che la storia è dramma; ma ciò non vuol dire che ogni rappresentazione drammatica di un dato periodo storico sia quella «effettuale», anche se viva, artisticamente perfetta ecc. Il sofisma del Ciccotti porta a dare un valore eccessivo alla «belletristica» storica per reazione alla erudizione pedantesca e petulante.
In un esame della attività teorica del Ciccotti bisogna tener conto di questo libro. «Materialismo storico» del Ciccotti molto superficiale: quello del Ferrero e del Barbagallo. Una sociologia molto positivistica; una interpretazione positivistica del Vico. La metodologia del Ciccotti dà luogo appunto alle storie tipo Ferrero e alle «esagerazioni» del Barbagallo: finisce col perdere il concetto di distinzione e della concretezza «individua» e col trovare che «tutto il mondo è paese» e «più tutto cambia e più si rassomiglia».
Q3 §16 Sviluppo politico della classe popolare nel Comune medioevale. Nel citato studio di Ettore Ciccotti (Elementi di»verità» e di «certezza» ecc.) ci sono alcuni accenni allo sviluppo storico della classe popolare dei Comuni specialmente degni di attenzione e di trattazione separata. Le guerre reciproche dei Comuni e quindi la necessità di reclutare una più vigorosa e abbondante forza militare col lasciare armare il maggior numero, davano la coscienza della loro forza ai popolani e ne rinsaldavano insieme le file (cioè funzionarono da eccitanti di formazioni di partito). I combattenti rimanevano uniti anche in pace, sia per il servizio da prestare ma poi, con crescente solidarietà, per fini di utilità particolare. Si hanno gli statuti delle «Società d’armi» che si costituirono a Bologna, come sembra, verso il 1230, ed emerge il carattere della loro unione e il loro modo di costituzione. Verso la metà del secolo XIII erano già ventiquattro, distribuite a seconda della contrada ove abitavano. E oltre al loro ufficio politico di difesa esterna del Comune, avevano il fine di assicurare a ciascun popolano la tutela necessaria a proteggerlo contro le aggressioni dei nobili e dei potenti. Capitoli dei loro statuti – per esempio della Società detta dei Leoni – hanno in rubrica il titolo «De adiutorio dando hominibus dicte societatis»; «Quod molestati iniuste debeant adiuvari ab hominibus dicte societatis». E alle sanzioni civili e sociali si aggiungeva, oltre al giuramento, una sanzione religiosa, con la comune assistenza alla messa ed alla celebrazione di uffici divini; mentre altri obblighi comuni, come quelli, comuni alle confraternite pie, di soccorrere i soci poveri, seppellire i defunti ecc., rendevano sempre più persistente e stretta l’unione. Per le funzioni stesse delle società si formarono poi cariche e consigli – a Bologna, per es., quattro o otto «ministeriales» foggiati sugli ordini della Società delle Arti o su quelli più antichi del Comune – che col tempo ebbero valore oltre i termini delle società e trovarono luogo nella costituzione del Comune.
Originariamente, in queste società entrano milites al pari di pedites, nobili e popolani, se anche in minor numero. Ma, a grado a grado, i milites, i nobili tendono ad appartarsene come a Siena, o, secondo i casi, ne possono essere espulsi, come nel 1270, a Bologna. E a misura che il movimento di emancipazione prende piede, oltrepassando anche i limiti e la forma di queste società, l’elemento popolare chiede e ottiene la partecipazione alle maggiori cariche pubbliche. Il popolo si costituisce sempre più in vero partito politico e per dare maggiore efficienza e centralizzazione alla sua azione si dà un capo, «il Capitano del popolo», ufficio che pare Siena abbia preso da Pisa e che nel nome come nella funzione rivela insieme origini e funzioni militari e politiche. Il popolo che già, volta a volta, ma sporadicamente, si era riunito e si era costituito e aveva prese deliberazioni distinte, si costituisce come un ente a parte, che si dà anche proprie leggi. Campana propria per le sue convocazioni «cum campana Communis non bene audiatur». Entra in contrasto col Podestà a cui contesta il diritto di pubblicar bandi e con cui il Capitano del popolo stipula delle «paci».
Quando il popolo non riesce ad ottenere dalle Autorità comunali le riforme volute, fa la sua secessione, con l’appoggio di uomini eminenti del Comune e, costituitosi in assemblea indipendente, incomincia a creare magistrature proprie ad immagine di quelle generali del Comune, ad attribuire una giurisdizione al Capitano del popolo, e a deliberare di sua autorità, dando inizio (dal 1255) a tutta un’opera legislativa. (Questi dati sono del Comune di Siena). Il popolo riesce, prima praticamente, e poi anche formalmente, a fare accettare negli Statuti generali del Comune disposizioni che prima non legavano se non gli ascritti al «Popolo» e di uso interno. Il popolo giunge quindi a dominare il Comune, soverchiando la precedente classe dominante, come a Siena dopo il 1270, a Bologna con gli Ordinamenti «Sacrati» e «Sacratissimi», a Firenze con gli «Ordinamenti di giustizia». (Provenzan Salvani a Siena è un nobile che si pone a capo del popolo).
Q3 §17 1917. Per le cause che provocarono la terribile crisi nel vettovagliamento di Torino nel luglio‑agosto 1917 è da vedere il volume di R. Bachi, L’alimentazione e la politica annonaria in Italia, nelle «Pubblicazioni della Fondazione Carnegie», Laterza, Bari, e il volume di Umberto Ricci, Il fallimento della politica annonaria, Ed. La Voce, Firenze, 1921.
Q3 §18 Storia delle classi subalterne. La maggior parte dei problemi di storia romana che il Ciccotti prospetta nel suo studio Elementi di «verità» e di «certezza» ecc. (a parte l’accertamento degli episodi «personali», Tanaquilla ecc.) si riferiscono a eventi ed istituzioni delle classi subalterne (tribuno della plebe ecc.). In questo caso il metodo dell’«analogia» affermato e teorizzato dal Ciccotti può dare qualche risultato indiziario, perché la classe subalterna mancando di autonomia politica, le sue iniziative «difensive» sono costrette da leggi proprie di necessità, più complesse e politicamente più compressive che non siano le leggi di necessità storica che dirigono le iniziative della classe dominante. (La quistione dell’importanza delle donne nella storia romana è simile a quella delle classi subalterne, ma fino a un certo punto: il «maschilismo» può solo in un certo senso essere paragonato a un dominio di classe; essa quindi ha più importanza per la storia dei costumi che per la storia politica e sociale).
Un’altra osservazione e importantissima occorre fare sui pericoli insiti nel metodo dell’analogia storica come criterio d’interpretazione: nello Stato antico e in quello medioevale, l’accentramento sia territoriale, sia sociale (e l’uno non è poi che funzione dell’altro) era minimo; in un certo senso lo Stato era una «federazione» di classi: le classi subalterne avevano una vita a sé, istituzioni proprie ecc. e talvolta queste istituzioni avevano funzioni statali: (così il fenomeno del «doppio governo» nei periodi di crisi assumeva un’evidenza estrema).
L’unica classe esclusa da ogni vita propria, era quella degli schiavi nel mondo classico e quella dei proletari nel mondo medioevale. Tuttavia se per molti rispetti schiavi antichi e proletari medioevali si trovavano nelle stesse condizioni, la loro situazione non era identica: il tentativo dei Ciompi non produsse certo l’impressione che avrebbe prodotto un tentativo simile degli schiavi a Roma (Spartaco che domanda di essere assunto al governo coi patrizi ecc.). Mentre nel Medio Evo era possibile un’alleanza tra proletari e popolo e ancor di più, l’appoggio dei proletari alla dittatura di un principe, niente di simile nel mondo classico. Lo Stato moderno abolisce molte autonomie delle classi subalterne, abolisce lo Stato federazione di classi, ma certe forme di vita interna delle classi subalterne rinascono come partito, sindacato, associazione di cultura. La dittatura moderna abolisce anche queste forme di autonomia di classe e si sforza di incorporarle nell’attività statale: cioè l’accentramento di tutta la vita nazionale nelle mani della classe dominante diventa frenetico e assorbente.
Q3 §19 Il problema dei giovani. «I fascisti hanno vissuto troppo la storia contemporanea per avere l’obbligo di conoscere alla perfezione quella passata». Mussolini, prefazione a Gli Accordi del Laterano. Discorsi al Parlamento, Libreria del Littorio, Roma 1929.
Q3 §20 Documenti del tempo. Un documento molto importante e interessante è la Relazione della Commissione d’indagine per la spedizione polare dell’aeronave «Italia», stampato per disposizione del Ministero della Marina nel 1930 a Roma dalla «Rivista Marittima». («Caporetto»).
Q3 §21 La diplomazia italiana prima del 1914. Un documento molto interessante e curioso su questo argomento è il volume di Alessandro De Bosdari, Delle guerre balcaniche, della grande guerra e di alcuni fatti preceduti ad esse, (ed. Mondadori). La Nuova Antologia del 1° settembre 1927 ne riproduce un capitolo: «Lo scoppio della guerra balcanica visto da Sofia», dove si leggono amenità di questo genere: «Non posso negare che la profonda convinzione dell’orientazione austriaca, sicura e permanente guida dello Zar dei Bulgari in tutta la sua politica estera, da me acquisita fin dagli ultimi mesi del 1911, non mi abbia impedito di vederci chiaro nella Lega balcanica e nella imminenza della guerra contro la Turchia. A tanti anni di distanza non so troppo (!) rimproverarmelo perché se non vidi venire un fatto accessorio (?!) e per così dire (!) episodico (!) della politica bulgara, ciò fu unicamente perché vedevo troppo chiara (e lo dice sul serio!) la linea principale. Fu come chi dicesse un fenomeno di presbitismo politico, ed in politica il presbitismo è migliore della miopia, come questa è senza dubbio migliore di quella cecità assoluta di cui debbo dire a mio discarico (!), fecero prova, in quella ed in tante susseguenti occasioni, molti miei colleghi».
Il brano è interessante anche da altri punti di vista, oltre quello particolare del giudizio sulla diplomazia italiana. Il candore ameno porta il De Bosdari a dire manifestamente ciò che altri pensano per giustificare i propri errori e non dicono apertamente in questa forma. Esiste una linea non formata di «fatti accessori» e di «episodi» come dice il De Bosdari? E comprendere una linea non significa riuscire a comprendere e quindi a prevedere e organizzare questa catena di fatti accessori? Chi parla di linea in questo senso, in realtà intende dire una «categoria sociologica», un’«astrazione». Qualche volta indovina? È vero, ma a questo proposito si potrebbe citare il pensiero di Guicciardini sull’«ostinazione».
Q3 §22 Lorianismo. In una nota dedicata ad Alberto Lumbroso ho scritto che questi non ha ereditato dal padre le qualità di studioso sobrio, preciso, disciplinato. Giacomo Lumbroso morto nel 1927 (mi pare) fu uno storico dell’età ellenistica, papirologo, lessicografo della grecità alessandrina. (Cfr l’articolo Giacomo Lumbroso di V. Scialoja, nella «Nuova Antologia» del 16 settembre 1927). È stato anche professore di storia moderna prima di Fedele?.
Q3 §23 Loria. Le sue memorie pubblicate nel 1927 da N. Zanichelli, Bologna, sono intitolate: Ricordi di uno studente settuagenario, L. 10.
Q3 §24 Motivi del Risorgimento. Il separatismo siciliano. Un libro di Luigi Natoli, Rivendicazioni (attraverso le rivoluzioni siciliane del 1848‑1860), Treviso, Cattedra italiana di pubblicità, 1927, L. 14. Il Natoli vuole reagire contro quella tendenza di studi e di studiosi che ancor oggi o per scarsa padronanza delle testimonianze o per residui di antiche prevenzioni politiche, mira a svalutare il contributo della Sicilia alla storia unitaria del Risorgimento. L’autore polemizza specialmente con B. Croce, il quale considera la rivoluzione siciliana del 1848 come un “moto separatista” dannoso alla causa italiana ecc. ecc.». Ciò che è interessante in questa letteratura siciliana, giornalistica o libresca, è specialmente il tono fortemente polemico e irritato.
Ora la questione dovrebbe essere semplice, dal punto di vista storico; il separatismo o c’è stato o non c’è stato o è stato solo tendenziale in una misura da determinarsi secondo il metodo storico, astraendo da ogni valutazione polemica di partito, di corrente o di ideologia. Se il separatismo ci fosse stato non sarebbe storicamente «riprovevole» o «immorale» o «antipatriottico» ma sarebbe stato un evento da spiegare e ricostruire storicamente. Il fatto che continui accanitamente la polemica significa che ci sono «interessi attuali» e non più passati in gioco, cioè significa che queste pubblicazioni stesse proprio dimostrano ciò che vorrebbero negare.
Il Natoli pare sostenga che l’accusa di separatismo gioca sull’equivoco sfruttando il programma federalista che in un primo tempo parve a taluni uomini insigni dell’Isola e alle sue rappresentanze la soluzione più rispondente alle tradizioni politiche locali ecc. In ogni modo il fatto che il programma federalista abbia avuto più forti sostenitori in Sicilia e sia durato più a lungo ha il suo significato.
Q3 §25 La funzione dei cattolici in Italia (Azione Cattolica). Nella Nuova Antologia del 1° novembre 1927, G. Suardi pubblica una nota Quando e come i cattolici poterono partecipare alle elezioni politiche, molto interessante e da ricordare come documento dell’attività e della funzione dell’Azione Cattolica in Italia. Alla fine del settembre 1904, dopo lo sciopero generale, il Suardi fu chiamato telegraficamente a Milano da Tommaso Tittoni, ministro degli Esteri nel Ministero Giolitti (il Tittoni si trovava nella sua villa di Desio al momento dello sciopero e pareva che egli, dato il pericolo che Milano fosse per essere isolata dalla mancanza di comunicazioni, dovesse assumere speciali e personali responsabilità; questo accenno del Suardi mi pare significhi che i reazionari locali avessero già pensato a qualche iniziativa d’accordo con Tittoni). Il Tittoni gli comunicò che il Consiglio dei Ministri aveva deciso di indire subito le elezioni e che bisognava unire tutte le forze liberali e conservatrici nello sforzo per contrastare il passo ai partiti estremi. Il Suardi, esponente liberale di Bergamo, era riuscito in questa città ad accordarsi coi cattolici per le amministrazioni locali: bisognerebbe ottenere lo stesso risultato per le elezioni politiche, persuadendo i cattolici che il non expedit nulla serve al loro partito, nuoce alla religione ed è di grave danno alla patria, lasciando libero il passo al socialismo. Il Suardi accettò l’incarico. A Bergamo ne parlò con l’avvocato Paolo Bonomi e riuscì a convincerlo di andare a Roma, presentarsi al Papa e aggiungere alle insistenze del Bonomelli e di altri autorevoli personaggi perché fosse tolto il non expedit anche quelle dei cattolici bergamaschi.
Pio X prima rifiutò di togliere il non expedit, ma terrorizzato dal Bonomi che gli fece un quadro catastrofico delle conseguenze che avrebbe avuto a Bergamo la rottura tra cattolici e gruppo Suardi «con lenta e grave parola, esclamò: “Fate, fate quello che vi detta la vostra coscienza”. (Bonomi): “Abbiamo ben compreso, Santità? Possiamo interpretare che è un sì?” (Papa): “Fate quello che vi detta la vostra coscienza. Ripeto”». (Subito dopo) il Suardi ebbe un colloquio col cardinale Agliardi (di tendenze liberali) che lo mise al corrente di quanto era avvenuto in Vaticano dopo l’udienza data dal Papa al Bonomi. (L’Agliardi era d’accordo col Bonomelli perché fosse tolto il non expedit). Il giorno dopo questa udienza un giornale ufficioso del Vaticano aveva pubblicato un articolo che smentiva le voci diffuse intorno all’udienza e a novità circa il non expedit decisamente affermando che in tale argomento nulla era mutato. L’Agliardi chiese subito udienza e alle sue domande il papa ripeté la sua formula: «Ho detto (ai bergamaschi) che facessero quello che dettava la loro coscienza». L’Agliardi fece pubblicare un articolo in un giornale romano, dove si affermava che del pensiero del papa per le prossime elezioni politiche erano depositari l’avvocato Bonomi e il professor Rezzara e che a questi dovevano rivolgersi le organizzazioni cattoliche. Così si presentarono candidature cattoliche (Cornaggia a Milano, Cameroni a Treviglio ecc.) e a Bergamo apparvero a sostegno di candidature politiche manifesti di cittadini fino allora astensionisti.
Per il Suardi questo avvenimento segna la fine del non expedit e rappresenta la raggiunta unità morale dell’Italia, ma egli esagera alquanto, sebbene il fatto sia importante per sé.
Q3 §26 America ed Europa. Nel 1927 l’Ufficio internazionale del Lavoro di Ginevra ha pubblicato i risultati di una indagine sui rapporti fra padroni e operai negli Stati Uniti Les rélations industrielles aux États Unis. Secondo Gompers gli scopi finali del sindacalismo americano consisterebbero nell’istituzione progressiva di un controllo paritetico, estendentesi dalla singola officina al complesso dell’industria e coronato da una specie di parlamento organico. (Vedere quale forma assuma nelle parole di Gompers e C. la tendenza degli operai all’autonomia industriale).
Q3 §27 Il Principe Carlo di Rohan. Ha fondato nel 1924 la Federazione delle Unioni Intellettuali e dirige una rivista (Europäische Gespräche?). Gli italiani partecipano a questa federazione: il suo Congresso del 25 è stato tenuto a Milano. L’Unione italiana è presieduta da S. E. l’On. Vittorio Scialoja. Nel 1927 il di Rohan ha pubblicato un libro sulla Russia (Moskau. Ein Skizzenbuch aus Sowietrussland, Verlag G. Braun in Karlsruhe), dove aveva fatto un viaggio. Il libro deve essere interessante data la personalità sociale dell’autore. Egli conclude che la Russia «seinen Weg gefunden hat».
Q3 §28 Riviste tipo. Poiché la rivista tipo «Critica» di Croce e «Politica» di Coppola e Rocco domanda immediatamente un corpo di redattori specializzati, in grado di fornire con una certa periodicità un materiale scientificamente selezionato, essa può essere anticipata con la pubblicazione di un «Annuario». Questo annuario non dovrebbe avere, come è naturale, niente di simile ad un comune «Almanacco» popolare (la cui compilazione è legata qualitativamente al giornale quotidiano, è fatta tenendo di vista il medio lettore del giornale quotidiano); esso non dovrebbe neanche essere un’antologia occasionale di scritti troppo lunghi per essere pubblicati in altro tipo di rivista; dovrebbe invece essere preparato organicamente secondo un piano generale abbracciante parecchi anni (cinque anni, per esempio) in modo da preventivare lo sviluppo di un determinato programma. Potrebbe essere dedicato a un solo argomento o essere diviso in sezioni e trattare una serie di quistioni fondamentali (la costituzione dello Stato, la politica internazionale, la quistione agraria, ecc.). Ogni «Annuario» dovrebbe stare a sé (non dovrebbe avere lavori in continuazione) ed essere fornito di indici analitici, ecc. ecc.
Q3 §29 Il Catalogo dei cataloghi del libro italiano pubblicato dalla Società generale delle Messaggerie italiane di Bologna nel 1926 (mi pare che siano stati pubblicati successivamente dei supplementi) è una pubblicazione da tener presente per le ricerche bibliografiche. Questo repertorio contiene i dati di 65 000 volumi (meno quello dell’editore) classificati in 18 classi e due indici alfabetici, uno degli autori, curatori e traduttori e uno dei soggetti coi relativi richiami alla classe e al numero d’ordine.
Q3 §30 Altra pubblicazione bibliografica da tener presente è il Catalogo metodico degli scritti contenuti nelle Pubblicazioni periodiche italiane e straniere, pubblicato dalla Biblioteca della Camera dei Deputati.
Q3 §31 Riviste tipo. Per una esposizione generale dei tipi principali di riviste ricordare l’attività giornalistica di Carlo Cattaneo: l’«Archivio Triennale» e il «Politecnico». Il «Politecnico» è un tipo di rivista da studiare accuratamente (accanto ad esso la rivista «Scientia» del Rignano).
Su Antonio Labriola: riassunto obbiettivo sistematico delle sue pubblicazioni sul materialismo storico per sostituire i volumi esauriti e che la famiglia non ristampa; questo lavoro sarebbe l’inizio dell’attività per rimettere in circolazione le posizioni filosofiche del Labriola che sono poco conosciute all’infuori di una cerchia ristretta.
Leone Davidovi nelle sue memorie parla di un «dilettantismo» del Labriola: è stupefacente! Non si capisce questo giudizio, che non è giustificato altro che come un riflesso «incosciente» di una tradizione della socialdemocrazia russa e specialmente delle opinioni di Plekhanov. In realtà il Labriola, affermando che la filosofia del marxismo è contenuta nel marxismo stesso, è il solo che abbia cercato di dare una base scientifica al materialismo storico.
La tendenza dominante ha dato luogo a due correnti: 1) a quella, rappresentata dal Plekhanov (cfr I problemi fondamentali del marxismo) che ricade nel materialismo volgare, dopo essersi sforzata di risolvere il problema delle origini del pensiero del Marx senza aver saputo impostare il problema; lo studio della cultura filosofica di Marx (o delle «fonti» della sua filosofia) è certamente necessario, ma come premessa allo studio, ben più importante, della sua propria filosofia, che non si esaurisce nelle «fonti» o nella «cultura» personale. Questo lavoro mostra il metodo positivistico classico seguito dal Plekhanov e la sua scarsa capacità speculativa; 2) questa tendenza ha creato la sua opposta, di collegare il marxismo col kantismo e ha quindi in ultima analisi portato alla conclusione opportunistica espressa da Otto Bauer nel suo recente volumetto Socialismo e Religione che il marxismo può essere «sostenuto» o «integrato» da una qualsiasi filosofia, quindi anche dalla cosidetta «filosofia perenne della religione».
Pongo questa come seconda tendenza, perché essa, col suo agnosticismo, abbraccia tutte le minori tendenze non «materialistiche volgari», fino a quella freudiana del De Man.
Perché il Labriola non ha avuto fortuna nella pubblicistica socialdemocratica?
Si può dire a proposito della filosofia del marxismo ciò che la Luxemburg dice a proposito dell’economia: nel periodo romantico della lotta, dello Sturm und Drang popolare, si appunta tutto l’interesse sulle armi più immediate, sui problemi di tattica politica. Ma dal momento che esiste un nuovo tipo di Stato, nasce concretamente il problema di una nuova civiltà e quindi la necessità di elaborare le concezioni più generali, le armi più raffinate e decisive. Ecco che Labriola deve essere rimesso in circolazione e la sua impostazione del problema filosofico deve essere fatta predominare. Questa è una lotta per la cultura superiore, la parte positiva della lotta per la cultura che si manifesta in forma negativa e polemica con gli a‑ privativi e gli anti‑ (anticlericalismo, ateismo ecc.). Questa è la forma moderna del laicismo tradizionale che è alla base del nuovo tipo di Stato.
La trattazione analitica e sistematica della concezione del Labriola potrebbe essere la sezione filosofica della rivista tipo «Voce» ‑ «Leonardo» («Leonardo») e potrebbe alimentare la rubrica almeno per sei mesi o un anno. Bisognerebbe inoltre compilare una bibliografia «internazionale» sul Labriola («Neue Zeit» ecc.).
Argomenti di cultura. Su Andrea Costa: raccolta dei suoi Proclami e manifesti del primo periodo di attività romagnola: raccolta critica, con annotazioni e commenti storici e politici.
Q3 §32 «Rendre la vie impossible». «Il y a deux façons de tuer: une, que l’on désigne franchement par le verbe tuer; l’autre, celle qui reste sous‑entendue d’habitude derrière cet euphémisme délicat: “rendre la vie impossible”. C’est le mode d’assassinat, lent et obscur, que consomme une foule d’invisibles complices. C’est un “auto‑da‑fé” sans “coroza” et sans flammes, perpétré par une Inquisition sans juge ni sentence...» Eugenio D’Ors, La vie de Goya, éd. Gallimard, p. 41. Altrove la chiama «Inquisizione diffusa».
Q3 §33 Alcune cause d’errore. Un governo, o un uomo politico, o un gruppo sociale applica una disposizione politica od economica. Se ne trae troppo facilmente delle conclusioni generali d’interpretazione della realtà presente e di previsione sullo sviluppo di questa realtà. Non si tiene abbastanza conto del fatto che la disposizione applicata, l’iniziativa promossa ecc. può essere dovuta a un errore di calcolo, e quindi non rappresentare nessuna «concreta attività storica». Nella vita storica come nella vita biologica, accanto ai nati vivi, ci sono gli aborti. Storia e politica sono strettamente unite, sono anzi la stessa cosa, ma pure occorre distinguere nell’apprezzamento dei fatti storici e dei fatti e atti politici.
Nella storia, data la sua larga prospettiva verso il passato e dato che i risultati stessi delle iniziative sono un documento della vitalità storica, si commettono meno errori che nell’apprezzamento dei fatti e degli atti politici in corso. Il grande politico perciò non può che essere «coltissimo», cioè deve «conoscere» il massimo di elementi della vita attuale; conoscerli non «librescamente», come «erudizione» ma in modo «vivente», come sostanza concreta di «intuizione» politica (tuttavia perché in lui diventino sostanza vivente di «intuizione» occorrerà apprenderli anche «librescamente»).
Q3 §34 Passato e presente. L’aspetto della crisi moderna che viene lamentato come «ondata di materialismo» è collegato con ciò che si chiama «crisi di autorità». Se la classe dominante ha perduto il consenso, cioè non è più «dirigente», ma unicamente «dominante», detentrice della pura forza coercitiva, ciò appunto significa che le grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali, non credono più a ciò in cui prima credevano ecc. La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.
A questo paragrafo devono essere collegate alcune osservazioni fatte sulla così detta «quistione dei giovani» determinata dalla «crisi di autorità» delle vecchie generazioni dirigenti e dal meccanico impedimento posto a chi potrebbe dirigere di svolgere la sua missione. Il problema è questo: una rottura così grave tra masse popolari e ideologie dominanti come quella che si è verificata nel dopoguerra, può essere «guarita» col puro esercizio della forza che impedisce a nuove ideologie di imporsi? L’interregno, la crisi di cui si impedisce così la soluzione storicamente normale, si risolverà necessariamente a favore di una restaurazione del vecchio? Dato il carattere delle ideologie, ciò è da escludere, ma non in senso assoluto. Intanto la depressione fisica porterà a lungo andare a uno scetticismo diffuso e nascerà una nuova «combinazione» in cui per es. il cattolicismo diventerà ancora di più prettogesuitismo ecc. Anche da questo si può concludere che si formano le condizioni più favorevoli per un’espansione inaudita del materialismo storico. La stessa povertà iniziale che il materialismo storico non può non avere come teoria diffusa di massa, lo renderà più espansivo. La morte delle vecchie ideologie si verifica come scetticismo verso tutte le teorie e le formule generali e applicazione al puro fatto economico (guadagno ecc.) e alla politica non solo realista di fatto (come è sempre) ma cinica nella sua manifestazione immediata (ricordare la storia del Preludio al Machiavelli scritto forse sotto l’influenza del prof. Rensi che in un certo periodo – nel 21 o 22 – esaltò la schiavitù come mezzo moderno di politica economica). Ma questa riduzione all’economia e alla politica significa appunto riduzione delle superstrutture più elevate a quelle più aderenti alla struttura, cioè possibilità e necessità di formazione di una nuova cultura.
Q3 §35 Giuseppe Rensi. Occorre ricercare tutta la sua carriera politico‑intellettuale. È stato collaboratore della «Critica Sociale» (forse è stato anche fuoruscito in Isvizzera dopo il 1894 o 98). Il suo atteggiamento «moralistico» attuale (vedere i suoi articoli sulla «Nuova Rivista Storica») è da porre a confronto con le sue manifestazioni letterarie e giornalistiche del 1921‑22‑23 (articoli nel «Popolo d’Italia»). Ricordare la sua polemica col Gentile sul «Popolo d’Italia» dopo il Congresso dei filosofi tenuto a Milano nel 1926.
Q3 §36 Fatti di cultura. L’episodio Salgari, contrapposto a Giulio Verne, con l’intervento del ministro Fedele, campagne ridevoli nel «Raduno» organo del Sindacato autori e scrittori ecc., è da porre insieme alla rappresentazione della farsa Un’avventura galante ai bagni di Cernobbio data il 13 ottobre 1928 ad Alfonsine per la celebrazione del primo centenario della morte di Vincenzo Monti. Questa farsa pubblicata nel 1858 come complemento editoriale di un lavoro teatrale di Giovanni De Castro, è di un Vincenzo Monti, professore a Como in quel torno di tempo (a una semplice lettura appare l’impossibilità dell’attribuzione al Monti) ma fu «scoperta», attribuita al Monti e rappresentata ad Alfonsine, dinanzi alle autorità, in una festa ufficiale, nel centenario montiano. (Vedere, caso mai, nei giornali del tempo, l’autore della mirabile scoperta e i personaggi ufficiali che la bevettero così grossa).
Q3 §37 I nipotini di padre Bresciani. Pochissimi «scrittori» cattolici in Italia, specialmente nella poesia e nel romanzo. Gallarati Scotti (di cui ho accennato in altra nota un tratto caratteristico delle Storie dell’Amor Sacro e dell’Amor Profano, ma che tuttavia ha una sua dignità). Paolo Arcari (più noto come scrittore di saggi letterari e politici). Luciano Gennari (che ha scritto molto in lingua francese). Non è possibile fare un confronto tra gli scrittori cattolici italiani e quelli francesi (Bourget, Bazin, Mauriac, Bernanos). Il Crispolti ha scritto un romanzo Il Duello, di propaganda. In realtà, il cattolicismo italiano è sterile nel campo letterario come negli altri campi della cultura (cfr Missiroli). (Maria di Borio).
Q3 §38 I nipotini di padre Bresciani. A. Panzini: La vita di Cavour. «Uno scrittore inglese ha chiamato la storia dell’unità d’Italia la più romanzesca storia dei tempi moderni». (Il Panzini oltre a creare luoghi comuni per gli argomenti che tratta, si dà molto daffare per raccogliere tutti i luoghi comuni che sullo stesso argomento sono stati scritti da altri autori, specialmente stranieri: deve avere uno schedario speciale di luoghi comuni, per condire opportunamente tutti i suoi scritti). «Re Vittorio era nato con la spada e senza paura: due terribili baffi, un gran pizzo. Gli piacevano le belle donne e la musica del cannone. Un grande Re!»
Questo luogo comune è da unire all’altro sulla «tradizione» militare del Piemonte e della sua aristocrazia: in realtà in Piemonte è proprio mancata una «tradizione» militare cioè una «continuità» di personale militare di prim’ordine e ciò è apparso nelle guerre del Risorgimento, in cui non si è rivelata nessuna personalità, ma invece sono affiorate molte deficienze interne: in Piemonte c’era una popolazione adatta alle armi, da cui si poteva trarre un buon esercito, e apparvero di tanto in tanto delle capacità militari di primo ordine, come Emanuele Filiberto, Carlo Emanuele ecc. ma mancò appunto una tradizione, una continuità nell’aristocrazia, nell’ufficialità superiore: cfr ciò che avvenne nel 48 quando non si sapeva dove metter la mano per dare un comandante all’esercito e si cascò su di un minchione qualsiasi di polacco. Le qualità guerriere di Vittorio Emanuele II consistettero solo in un certo coraggio personale, che si dovrebbe pensare essere molto raro in Italia se tanto vi si insiste su: è un po’ la stessa quistione del «galantuomismo»: in Italia si dovrebbe pensare che la stragrande maggioranza è di bricconi, se l’essere galantuomini viene elevato a titolo di distinzione. A proposito di Vittorio Emanuele II ricordare un aneddoto riferito da Ferdinando Martini nel suo libro postumo di memorie: racconta, su per giù (vedere) che Vittorio Emanuele dopo la presa di Roma disse che gli dispiaceva non ci fosse più nulla da «piè» (pigliare) e ciò a chi raccontava l’aneddoto pareva dimostrare che non ci fosse stato re più conquistatore di Vittorio Emanuele.
Si potrebbe dare dell’aneddoto tante altre spiegazioni, e non molto brillanti. Ricordare epistolario di M. D’Azeglio pubblicato dal Bollea nel «Bollettino storico subalpino»; quistioni tra Vittorio Emanuele e Quintino Sella.
Ciò che mi ha sempre stupito è che si insista tanto nelle pubblicazioni tendenti a rendere popolare la figura di Vittorio Emanuele sugli aneddoti galanti in cui alti funzionari e ufficiali andavano nelle famiglie a convincere i genitori di lasciar andare delle ragazze nel letto del re, per quattrini. A pensarci bene è stupefacente che queste cose siano pubblicate credendo di rafforzare l’amore popolare. «... il Piemonte... ha una tradizione guerriera, ha una nobiltà guerriera...». Si potrebbe osservare che Napoleone III, data la «tradizione guerriera» della sua famiglia, si occupò di scienza militare e scrisse libri che pare non fossero troppo malvagi per i suoi tempi. «Le donne? Già, le donne. Su tale argomento egli (Cavour) andava molto d’accordo col suo re, benché anche in questo ci fosse qualche differenza. Re Vittorio era di molta buona bocca come avrebbe potuto attestare la bella Rosina, che fu poi contessa di Mirafiori» e giù di questo tono fino a ricordare che i propositi galanti del re alla corte delle Tuglierì (sic) furono così audaci «che tutte le dame ne rimasero amabilmente atterrite. Quel forte, magnifico Re montanaro!». «Cavour era assai più raffinato. Cavallereschi però tutti e due e, oserei dire, romantici (!!!)». «Massimo d’Azeglio... da quel gentiluomo delicato che era...».
L’accenno del Panzini di cui parlo a p. 10 come di cosa che non si può comprendere senza aver letto il commento del «Resto del Carlino» si capisce, dopo aver riletto la seconda puntata della Vita di Cavour («Italia letteraria» del 16 giugno): questo brano: «Non ha bisogno di assumere atteggiamenti specifici. Ma in certi momenti doveva apparire meraviglioso e terribile. L’aspetto della grandezza umana è tale da indurre negli altri ubbidienza e terrore, e questa è dittatura più forte che non quella di assumere molti portafogli nei ministeri». È incredibile come una tale frase sia potuta sfuggire al Panzini ed è naturale che il «Resto del Carlino» l’abbia beccato: il Panzini nella sua lettera scrive: «Quanto a certe puntate contro la dittatura, forse fu errore fidarmi nella conoscenza storica del lettore. Cavour, nel 1859, domandò i poteri dittatori assumendo diversi portafogli, fra i quali quello della guerra, con molto scandalo della allora quasi vergine costituzionalità. Non questa materiale forma di dittatura indusse ad obbedienza, ma la dittatura dell’umana grandezza di Cavour».
«... la guerra d’Oriente, una cosa piuttosto complicata, che per chiarezza di discorso si omette». (Si afferma che Cavour è un grandissimo politico, ecc. ma l’affermazione non diventa mai rappresentazione storica concreta: per «chiarezza del discorso si omette». Il significato della spedizione nella Crimea e della capacità politica di Cavour nell’averla voluta, è omesso per «chiarezza»). Il profilo di Napoleone III è impagabile di sguaiataggine, ma non si spiega perché Napoleone abbia collaborato con Cavour. Bisognerebbe citare troppo e in fondo ne vale poco la pena. Se dovessi scrivere sull’argomento bisognerebbe però rivedere il libro (se sarà pubblicato) o l’annata della «Italia letteraria».
«Al Museo napoleonico in Roma c’è un prezioso pugnale con una lama che può passare il cuore» (non è un pugnale comune, a quanto pare!). «Può questo pugnale servire per documento? Di pugnali io non ho esperienza, ma sentii dire quello essere il pugnale carbonaro che si affidava a chi entrava nella setta tenebrosa ecc.». (Il Panzini deve sempre essere stato ossessionato dai pugnali: ricordare la «livida lama» della Lanterna di Diogene. Deve essersi trovato in Romagna per caso in qualche torbido e aver visto qualche paia d’occhi guatarlo biecamente: onde le «livide lame» che possono passare il cuore ecc.).
«E chi volesse vedere come la setta carbonara assumesse l’aspetto di Belzebù, legga il romanzo L’Ebreo di Verona di Antonio Bresciani, e si divertirà (! sic) un mondo, anche perché, a dispetto di quel che ne dicono i moderni, quel padre gesuita fu un potente narratore». (Questo brano si potrebbe porre come motto al saggio sui nipotini di padre Bresciani: è nella puntata terza della Vita di Cavour nell’«Italia letteraria» del 23 giugno 1929).
Tutta la Vita di Cavour è una beffa della storia. Se le vite romanzate sono la forma attuale della letteratura amena tipo Alessandro Dumas, Panzini è il nuovo Ponson du Terrail. Panzini vuole così ostentatamente mostrare di «saperla lunga» sul modo di procedere degli uomini, di essere un così furbissimo realista, che viene la voglia, a leggerlo, di rifugiarsi in Condorcet o in Bernardino di Saint‑Pierre, che almeno non sono così filistei. Nessun nesso storico è ricostruito nel fuoco di una personalità; la storia è un seguito di storielle divertenti senza nesso né di personalità né di altre forze sociali: è veramente una nuova forma digesuitismo, molto più accentuata di quanto io stesso avessi creduto leggendo la Vita a puntate. Si potrebbero contrapporre al luogo comune della «nobiltà guerriera e non da anticamera» i giudizi che poi si danno volta per volta sui singoli generali: La Marmora, Della Rocca, talvolta con parole di scherno incosciente. «Della Rocca è un guerriero. A Custoza, 1866, non brillerà per troppo valore, ma è un ostinato guerriero e perciò tien duro coi bollettini». (È proprio una frase da giornale umoristico tipo «Asino». Della Rocca non voleva mandare più i bollettini dello Stato Maggiore a Cavour che ne aveva notato la cattiva compilazione letteraria, alla quale collaborava il re). (Altre allusioni del genere per La Marmora e per Cialdini – anche se Cialdini non fu piemontese –, e non è detto un nome di generale piemontese che abbia brillato: altro accenno a Persano).
Non si capisce proprio cosa Panzini abbia voluto scrivere con questa Vita di Cavour; una vita di Cavour non è certamente: né una biografia di Cavour‑uomo, né una ricostruzione di Cavour politico; in verità dal libro di Panzini Cavour esce molto malconcio e molto diminuito: la sua figura non ha nessun rilievo concreto, eccetto che nelle giaculatorie che Panzini di tanto in tanto ripete: eroe, superbo, genio ecc. Ma queste giaculatorie non essendo giustificate (e perciò sono giaculatorie) sembrano talvolta prese di bavero, se non si capisse che la misura che Panzini adopera per giudicare l’eroismo, la grandezza, il genio ecc. è la sua propria misura, della genialità, grandezza, eroismo ecc. del sig. Panzini Alfredo. Ancora bisogna dire che il Panzini esagera nel trovare il dito di dio, il fato, la provvidenza in tanti avvenimenti: è, in fondo, la concezione dello stellone con parole da tragedia greca o da padre gesuita, ma che non perciò diventa meno triviale e banale. Lo stesso insistere troppo sull’elemento «provvidenziale» significa diminuire la funzione dello sforzo italiano, che pure ebbe una sua parte. Cosa significa poi in questo caso questa miracolosità della rivoluzione italiana? Significa che tra l’elemento nazionale e quello internazionale dell’evento, è l’internazionale che ha contato di più. È questo il caso? Bisognerebbe dirlo e forse la grandezza di Cavour sarebbe messa ben più in rilievo e la sua funzione personale, il suo «eroismo» apparirebbe ben più da esaltare. Ma il Panzini vuol dare colpi a molte botti con molti cerchi e non ne raccappezza qualcosa di sensato: né egli sa cosa sia una rivoluzione e quali siano i rivoluzionari. Tutti furono grandi e furono rivoluzionari ecc. ecc.
Nell’«Italia letteraria» del 2 giugno 1929 è pubblicata un’intervista di Antonio Bruers col Panzini: Come e perché Alfredo Panzini ha scritto una «Vita di Cavour»; vi si dice che egli stesso Bruers (pare che sia il Bruers che ha tradotto il Cavour di Paléologue) ha indotto Panzini a scrivere il libro, «in modo che il pubblico potesse avere finalmente un “Cavour” italiano, dopo averne avuto uno tedesco, uno inglese e uno francese». Il Panzini dice nell’intervista che la sua Vita «non è una monografia nel senso storico‑scientifico della parola; è un profilo destinato non ai dotti, agli “specialisti”, ma al vasto pubblico». Il Panzini crede che ci siano delle parti originali nel suo libro e precisamente il fatto di aver dato importanza all’attentato di Orsini per spiegare l’atteggiamento di Napoleone III: secondo il Panzini Napoleone III sarebbe stato inscritto da giovane alla Carboneria, «la quale vincolò con impegno d’onore il futuro sovrano della Francia»: Orsini, mandatario della Carboneria avrebbe ricordato a Napoleone il suo impegno e quindi ecc. (proprio un romanzo alla Ponson du Terrail: Orsini doveva essersi dimenticato della Carboneria al tempo dell’attentato già da molti anni e le sue repressioni del 48 nelle Marche erano proprio contro dei vecchi carbonari). Le ragioni dell’indulgenza di Napoleone verso Orsini (o per meglio dire alcuni suoi atteggiamenti personali, perché in ogni modo Orsini fu ghigliottinato) si spiegano forse banalmente con la paura del complice sfuggito e che poteva ritentare la prova: certo anche la grande serietà di Orsini, che non era un qualunque scalmanato, dovette imporsi. Il Panzini poi dimentica che c’era stata la guerra di Crimea e l’orientamento generale di Napoleone pro‑italiano tanto che l’attentato di Orsini sembrò spezzare la trama già ordita. Tutta la «ipotesi» del Panzini si basa poi sul famoso pugnale, che non è detto fosse della carboneria. È proprio un romanzo alla Ponson.
Q3 §39 Passato e presente. Il problema della capitale: Roma ‑ Milano. Funzione e posizione delle più grandi città: Torino ‑ Trieste ‑ Genova ‑ Bologna ‑ Firenze ‑ Napoli ‑ Palermo ‑ Bari ‑ Ancona ecc. Nella statistica industriale del 1927 e nelle pubblicazioni che ne hanno esposto i risultati, esiste una divisione di questi dati per città e per centri industriali in generale?. (L’industria tessile presenta zone industriali senza grandi città, come biellese, comasco, vicentino, ecc.). Rilievo sociale e politico della città italiana.
Questo problema è coordinato a quello delle «cento città», cioè della agglomerazione in borghi (città) della borghesia rurale, e della agglomerazione in borgate contadine di grandi masse di braccianti agricoli e di contadini senza terra dove esiste il latifondo estensivo (Puglie, Sicilia). È collegato anche al problema di quale gruppo sociale eserciti la direzione politica e intellettuale sulle grandi masse, direzione di primo grado e di secondo grado (gli intellettuali esercitano spesso una direzione di secondo grado, poiché essi stessi sono sotto l’influsso dei grandi proprietari terrieri e questi a loro volta, direttamente e indirettamente, in modo parziale o in modo totale, sono diretti dalla grande borghesia, specialmente finanziaria).
Q3 §40 Riforma e Rinascimento. Le osservazioni sparsamente fatte sulla diversa portata storica della Riforma protestante e del Rinascimento italiano, della Rivoluzione francese e del Risorgimento (la Riforma sta al Rinascimento come la Rivoluzione francese al Risorgimento) possono essere raccolte in un saggio unico con un titolo che potrebbe essere anche «Riforma e Rinascimento» e che potrebbe prendere lo spunto dalle pubblicazioni avvenute dal 20 al 25 intorno appunto a questo argomento: «della necessità che in Italia abbia luogo una riforma intellettuale e morale» legata alla critica del Risorgimento come «conquista regia» e non movimento popolare per opera di Gobetti, Missiroli e Dorso. (Ricordare l’articolo di Ansaldo nel «Lavoro» di Genova contro Dorso e contro me). Perché in questo periodo si pose questo problema? Esso scaturiva dagli avvenimenti… (Episodio comico: articoli di Mazzali in «Conscientia» di Gangale in cui si ricorreva ad Engels). Precedente storico nel saggio di Masaryk sulla Russia (nel 1925 tradotto in italiano dal Lo Gatto): il Masaryk poneva la debolezza politica del popolo russo nel fatto che in Russia non c’era stata la Riforma religiosa.
Q3 §41 I nipotini di padre Bresciani. Sarebbe certo ingiusto volere che ogni anno o anche ogni dieci anni la letteratura di un paese abbia un Promessi Sposi, o un Sepolcri ecc. ecc. Ma appunto perciò la critica che si può fare di queste epoche è una critica di «cultura», una critica di «tendenza». È vero che in certi periodi le quistioni pratiche assorbono tutte le intelligenze per la loro risoluzione (in un certo senso, tutte le forze umane vengono concentrate nel lavoro strutturale e non ancora si può parlare di superstrutture: gli americani addirittura, secondo ciò che scrive il Cambon nella prefazione alla traduzione francese dell’autobiografia di Ford, hanno creato da ciò una teoria) sicché sarebbe «poesia» cioè «creazione» solo quella economico‑pratica: ma di ciò si tratta appunto: che ci sia una creazione, in ogni caso, e d’altronde si potrebbe domandare come mai questa opera «creativa» economico‑pratica, in quanto esalta le forze vitali, le energie, le volontà, gli entusiasmi, non assuma anche forme letterarie che la celebrino. In verità ciò non avviene: le forze non sono espansive, ma puramente repressive e si badi, puramente e totalmente repressive, non solo della parte avversa, ciò che sarebbe naturale, ma della propria parte, ciò che appunto è tipico e dà a queste forze il carattere repressivo. Ogni innovazione è repressiva per i suoi avversari, ma scatena forze latenti nella società, le potenzia, le esalta, è quindi espansiva. Le restaurazioni sono universalmente repressive: creano appunto i «padri Bresciani», la letteratura allapadre Bresciani. La psicologia che ha preceduto queste innovazioni è il «panico», la paura comica di forze demoniache che non si comprendono e non si possono controllare. Il ricordo di questo «panico» perdura per lungo tempo e dirige le volontà e i sentimenti: la libertà creatrice è sparita, rimane l’astio, lo spirito di vendetta, l’accecamento balordo. Tutto diventa pratico, inconsciamente, tutto è «propaganda», è polemica, è negazione, ma in forma meschina, ristretta, gesuitica appunto.
Quando si giudica uno scrittore e si conosce solo il suo primo libro, il giudizio terrà conto dell’«età», perché giudizio di cultura: un frutto acerbo di un giovane, è un bozzacchione se di un vecchio.
Q3 §42 Passato e presente. La favola del castoro (il castoro, inseguito dai cacciatori che vogliono strappargli i testicoli da cui si estraggono dei medicinali, per salvar la vita, si strappa da se stesso i testicoli). Perché non c’è stata difesa? Scarso senso della dignità umana e della dignità politica dei partiti: ma questi elementi non sono dei dati naturali, delle deficienze proprie di un popolo in modo permanentemente caratteristico. Sono dei «fatti storici» che si spiegano con la storia passata e con le condizioni sociali presenti. Contraddizioni apparenti: dominava una concezione fatalistica e meccanica della storia (Firenze 1917, accusa di bergsonismo) e però si verificavano atteggiamenti di un volontarismo formalistico sguaiato e triviale: per es. il progetto di costituire nel 1920 un Consiglio urbano a Bologna coi soli elementi delle organizzazioni, cioè di sostituire a un organismo storico radicato nelle masse, come la Camera del Lavoro, un organismo puramente astratto e libresco. C’era almeno il fine politico di dare una egemonia all’elemento urbano, che con la costituzione del Consiglio veniva ad avere un centro proprio, dato che la Camera del Lavoro era provinciale? Questa intenzione mancava assolutamente e d’altronde il progetto non fu realizzato.
Il discorso di Treves sull’«espiazione»: questo discorso mi pare fondamentale per capire la confusione politica e il dilettantismo polemico dei leaders. Dietro a queste schermaglie c’è la paura delle responsabilità concrete, dietro a questa paura la nessuna unione con la classe rappresentata, la nessuna comprensione dei suoi bisogni fondamentali, delle sue aspirazioni, delle sue energie latenti: partito paternalistico, di piccoli borghesi che fanno le mosche cocchiere. Perché non difesa? L’idea della psicosi di guerra e che un paese civile non può «permettere» che si verifichino certe scene selvagge. Queste generalità erano anch’esse mascherature di altri motivi più profondi (d’altronde erano in contraddizione con l’affermazione ripetuta ogni volta dopo un eccidio: l’abbiamo sempre detto noi che la classe dominante è reazionaria), che sempre si incentrano nel distacco dalla classe, cioè nelle «due classi»: non si riesce a capire ciò che avverrà se la reazione trionfa, perché non si vive la lotta reale ma solo la lotta come «principio libresco».
Altra contraddizione intorno al volontarismo: se si è contro il volontarismo si dovrebbe apprezzare la «spontaneità». Invece no: ciò che era «spontaneo» era cosa inferiore, non degna di considerazione, non degna neppure di essere analizzata. In realtà, lo «spontaneo» era la prova più schiacciante dell’inettitudine del partito, perché dimostrava la scissione tra i programmi sonori e i fatti miserabili. Ma intanto i fatti «spontanei» avvenivano (1919‑1920), ledevano interessi, disturbavano posizioni acquisite, suscitavano odi terribili anche in gente pacifica, facevano uscire dalla passività strati sociali stagnanti nella putredine: creavano, appunto per la loro spontaneità e per il fatto che erano sconfessati, il «panico» generico, la «grande paura» che non potevano non concentrare le forze repressive spietate nel soffocarli.
Un documento eccezionale di questo distacco tra rappresentati e rappresentanti è costituito dal così detto patto di alleanza tra Confederazione e Partito, che può essere paragonato a un Concordato fra Stato e Chiesa. Il partito, che è in embrione una struttura statale, non può ammettere nessuna divisione dei suoi poteri politici, non può ammettere che una parte dei suoi membri si pongano come aventi eguaglianza di diritto, come alleati del «tutto», così come uno Stato non può ammettere che una parte dei suoi sudditi, oltre le leggi generali, facciano con lo Stato cui appartengono, e attraverso una potenza straniera, un contratto speciale di convivenza con lo Stato stesso. L’ammissione di una tale situazione implica la subordinazione di fatto e di diritto dello Stato e del Partito alla cosidetta «maggioranza» dei rappresentati, in realtà a un gruppo che si pone come antistato e antipartito e che finisce con l’esercitare indirettamente il potere. Nel caso del patto d’alleanza apparve chiaro che il potere non apparteneva al partito.
Al patto d’alleanza corrispondevano gli strani legami tra partito e gruppo parlamentare, anch’essi d’alleanza e di parità di diritto. Questo sistema di rapporti faceva sì che concretamente il partito non esistesse come organismo indipendente, ma solo come elemento costitutivo di un organismo più complesso che aveva tutti i caratteri di un partito del lavoro, discentrato, senza volontà unitaria ecc. Dunque i sindacati devono essere subordinati al partito? Porre così la quistione sarebbe errato. La quistione deve essere impostata così: ogni membro del partito, qualsiasi posizione o carica occupi, è sempre un membro del partito ed è subordinato alla sua direzione. Non ci può essere subordinazione tra sindacato e partito, se il sindacato ha spontaneamente scelto come suo dirigente un membro del partito: significa che il sindacato accetta liberamente le direttive del partito e quindi ne accetta liberamente (anzi ne desidera) il controllo sui suoi funzionari.
Questa quistione non fu impostata giustamente nel 1919, quantunque esistesse un grande precedente istruttivo, quello del giugno 1914: perché in realtà non esisteva una politica delle frazioni, cioè una politica del partito.
Q3 §43 Passato e presente. Un episodio piuttosto oscuro, per non dire losco, è costituito dai rapporti dei riformisti con la plutocrazia: la «Critica Sociale» amministrata da Bemporad, cioè dalla Banca Commerciale (Bemporad era anche l’editore dei libri politici di Nitti), l’entrata dell’ingegnere Omodeo nel circolo di Turati, il discorso di Turati Rifare l’Italia! sulla base dell’industria elettrica e dei bacini montani, discorso suggerito e forse scritto in collaborazione con l’Omodeo.
Q3 §44 Passato e presente. A questo saggio appartengono le osservazioni altrove scritte sui tipi «strani» che circolavano nel partito e nel movimento operaio: Ciccotti-Scozzese, Gatto‑Roissard ecc. Nessuna politica interna di partito, nessuna politica organizzativa, nessun controllo sugli uomini. Però abbondante demagogia contro gli interventisti anche se stati interventisti da giovanissimi. La mozione per cui si stabiliva che gli interventisti non potevano essere ammessi nel partito fu solo un mezzo di ricatto e di intimidazione individuale e una affermazione demagogica. Infatti non impedì a Nenni di essere ammesso nonostante il suo losco passato (così a Francesco Leonida Rèpaci)), mentre servì a falsificare la posizione politica del partito che non doveva fare dell’antinterventismo il perno della sua attività e a scatenare odio e persecuzioni personali contro determinate categorie piccolo borghesi. (Leonida Rèpaci) diventò corrispondente del giornale da Torino come Nenni ne diventò redattore, quindi non si tratta di gente entrata di straforo).
Il discorso dell’«espiazione» di Treves e la fissazione dell’interventismo sono strettamente legati: è la politica di evitare il problema fondamentale, il problema del potere, e di deviare l’attenzione e le passioni delle masse su obiettivi secondari, di nascondere ipocritamente la responsabilità storico‑politica della classe dominante, riversando le ire popolari sugli strumenti materiali e spesso inconsapevoli della politica della classe dominante: continuava, in fondo, una politica giolittiana. A questa stessa tendenza appartiene l’articolo Carabinieri reali di Italo Toscani: il cane che morde il sasso e non la mano che lo lancia. Il Toscani è finito poi scrittore cattolico di destra nel «Corriere d’Italia». Era evidente che la guerra, con l’enorme sconvolgimento economico e psicologico che aveva determinato specialmente tra i piccoli intellettuali e i piccoli borghesi, avrebbe radicalizzati questi strati. Il partito se li rese nemici gratis, invece di renderseli alleati, cioè li ributtò verso la classe dominante.
Funzione della guerra negli altri paesi per selezionare i capi del movimento operaio e per determinare la precipitazione delle tendenze di destra. In Italia questa funzione non fu svolta dalla guerra (giolittismo), ma avvenne posteriormente in modo ben più catastrofico e con fenomeni di tradimento in massa e di diserzione quali non si erano visti in nessun altro paese.
Q3 §45 Passato e presente. La debolezza teorica, la nessuna stratificazione e continuità storica della tendenza di sinistra, sono state una delle cause della catastrofe. Per indicare il livello culturale si può citare il fatto di Abbo al Congresso di Livorno: quando manca un’attività culturale del partito, i singoli si fanno la cultura come possono e aiutando il vago del concetto di sovversivo, avviene appunto che un Abbo impari a memoria le scempiaggini di un individualista.
Q3 §46 Passato e presente. Il concetto prettamente italiano di «sovversivo» può essere spiegato così: una posizione negativa e non positiva di classe: il «popolo» sente che ha dei nemici e li individua solo empiricamente nei così detti signori (nel concetto di «signore» c’è molto della vecchia avversione della campagna per la città, e il vestito è un elemento fondamentale di distinzione: c’è anche l’avversione contro la burocrazia, in cui si vede unicamente lo Stato: il contadino – anche il medio proprietario – odia il «funzionario» non lo Stato, che non capisce, e per lui è questo il «signore» anche se economicamente il contadino gli è superiore, onde l’apparente contraddizione per cui per il contadino il signore è spesso un «morto di fame»).
Questo odio «generico» è ancora di tipo «semifeudale», non moderno, e non può essere portato come documento di coscienza di classe: ne è appena il primo barlume, è solo, appunto, la posizione negativa e polemica elementare: non solo non si ha coscienza esatta della propria personalità storica, ma non si ha neanche coscienza della personalità storica e dei limiti precisi del proprio avversario. (Le classi inferiori, essendo storicamente sulla difensiva, non possono acquistare coscienza di sé che per negazioni, attraverso la coscienza della personalità e dei limiti di classe dell’avversario: ma appunto questo processo è ancora crepuscolare, almeno su scala nazionale).
Un altro elemento per comprendere il concetto di «sovversivo» è quello dello strato noto con l’espressione tipica dei «morti di fame». I «morti di fame» non sono uno strato omogeneo, e si possono commettere gravi errori nella loro identificazione astratta. Nel villaggio e nei piccoli centri urbani di certe regioni agricole esistono due strati distinti di «morti di fame»: uno è quello dei «giornalieri agricoli», l’altro quello dei piccoli intellettuali. Questi giornalieri non hanno come caratteristica fondamentale la loro situazione economica, ma la loro condizione intellettuale‑morale: essi sono ubbriaconi, incapaci di laboriosità continuata e senza spirito di risparmio e quindi spesso biologicamente tarati o per denutrizione cronica o per mezza idiozia e scimunitaggine. Il contadino tipico di queste regioni è il piccolo proprietario o il mezzadro primitivo (che paga l’affitto con la metà, il terzo o anche i due terzi del raccolto secondo la fertilità e la posizione del fondo), che possiede qualche strumento di lavoro, il giogo di buoi e la casetta che spesso si è fabbricato egli stesso nelle giornate non lavorative, e che si è procurato il capitale necessario o con qualche anno di emigrazione, o andando a lavorare in «miniera», o con qualche anno di servizio nei carabinieri ecc., o facendo qualche anno il domestico di un grande proprietario, cioè «industriandosi» e risparmiando. Il «giornaliero» invece non ha saputo o voluto industriarsi e non possiede nulla, è un «morto di fame», perché il lavoro a giornata è scarso e saltuario: è un semimendicante, che vive di ripieghi e rasenta la malavita rurale.
Il «morto di fame» piccolo borghese è originato dalla borghesia rurale, la proprietà si spezzetta in famiglie numerose e finisce con l’essere liquidata, ma gli elementi della classe non vogliono lavorare manualmente: così si forma uno strato famelico di aspiranti a piccoli impieghi municipali, di scrivani, di commissionari, ecc. ecc. Questo strato è un elemento perturbatore nella vita delle campagne, sempre avido di cambiamenti (elezioni ecc.) e dà il «sovversivo» locale e poiché è abbastanza diffuso, ha una certa importanza: esso si allea specialmente alla borghesia rurale contro i contadini, organizzando ai suoi servizi anche i «giornalieri morti di fame». In ogni regione esistono questi strati, che hanno propaggini anche nelle città, dove confluiscono con la malavita professionale e con la malavita fluttuante. Molti piccoli impiegati delle città derivano socialmente da questi strati e ne conservano la psicologia arrogante del nobile decaduto, del proprietario che è costretto a penare col lavoro. Il «sovversivismo» di questi strati ha due facce: verso sinistra e verso destra, ma il volto sinistro è un mezzo di ricatto: essi vanno sempre a destra nei momenti decisivi e il loro «coraggio» disperato preferisce sempre avere i carabinieri come alleati.
Un altro elemento da esaminare è il così detto «internazionalismo» del popolo italiano. Esso è correlativo al concetto di «sovversivismo». Si tratta in realtà di un vago «cosmopolitismo» legato a elementi storici ben precisabili: al cosmopolitismo e universalismo medioevale e cattolico, che aveva la sua sede in Italia e che si è conservato per l’assenza di una «storia politica e nazionale» italiana. Scarso spirito nazionale e statale in senso moderno. Altrove ho notato che è però esistito ed esiste un particolare sciovinismo italiano, più diffuso di quanto non pare. Le due osservazioni non sono contradditorie: in Italia l’unità politica, territoriale, nazionale ha una scarsa tradizione (o forse nessuna tradizione), perché prima del 1870 l’Italia non è mai stata un corpo unito e anche il nome Italia, che al tempo dei Romani indicava l’Italia meridionale e centrale fino alla Magra e al Rubicone, nel Medioevo perdette terreno di fronte al nome Longobardia (vedere lo studio di C. Cipolla sul nome «Italia» pubblicato negli Atti dell’Accademia di Torino). L’Italia ebbe e conservò però una tradizione culturale che non risale all’antichità classica, ma al periodo dal Trecento al Seicento e che fu ricollegata all’età classica dall’Umanesimo e dal Rinascimento. Questa unità culturale fu la base molto debole invero del Risorgimento e dell’unità per accentrare intorno alla borghesia gli strati più attivi e intelligenti della popolazione, ed è ancora il sostrato del nazionalismo popolare: per l’assenza in questo sentimento dell’elemento politico‑militare e politico‑economico, cioè degli elementi che sono alla base della psicologia nazionalista francese o tedesca o americana, avviene che molti così detti «sovversivi» e «internazionalisti» siano «sciovinisti» in questo senso, senza credere di essere in contraddizione.
Ciò che è da notarsi, per capire la virulenza che assume talvolta questo sciovinismo culturale, è questo: che in Italia una maggior fioritura scientifica, artistica, letteraria ha coinciso col periodo di decadenza politica, militare, statale (Cinquecento‑Seicento). (Spiegare questo fenomeno: cultura aulica, cortigiana, cioè quando la borghesia dei comuni era in decadenza, e la ricchezza da produttiva era diventata usuraria, con concentrazioni di «lusso», preludio alla completa decadenza economica).
I concetti di rivoluzionario e di internazionalista, nel senso moderno della parola, sono correlativi al concetto preciso di Stato e di classe: scarsa comprensione dello Stato significa scarsa coscienza di classe (comprensione dello Stato esiste non solo quando lo si difende, ma anche quando lo si attacca per rovesciarlo), quindi scarsa efficienza dei partiti ecc. Bande zingaresche, nomadismo politico non sono fatti pericolosi e così non erano pericolosi il sovversivismo e l’internazionalismo italiano.
Tutte queste osservazioni non possono essere, naturalmente, categoriche e assolute: esse servono a tentare di descrivere certi aspetti di una situazione, per valutate meglio l’attività svolta per modificarla (o la non attività, cioè la non comprensione dei propri compiti) e per dare maggior risalto ai gruppi che da questa situazione emergevano per averla capita e modificata nel loro ambito. il «sovversivismo» popolare è correlativo al «sovversivismo» dall’alto, cioè al non essere mai esistito un «dominio della legge», ma solo una politica di arbitrii e di cricca personale o di gruppo.
Q3 §47 La scienza della politica e i positivisti. La politica non è che una determinata «fenomenologia» della delinquenza, è la «delinquenza settaria»: questo mi pare il succo del libro di Scipio Sighele, Morale privata e Morale politica, Nuova edizione de La delinquenza settaria riveduta ed aumentata dall’autore, Milano, Treves, 1913 (con in appendice riprodotto l’opuscolo Contro il parlamentarismo). Può servire come «fonte» per vedere come i positivisti intendevano la «politica», sebbene sia superficiale, prolisso e sconnesso. La bibliografia è compilata senza metodo, senza precisione e senza necessità (se un autore è citato nel libro per un’affermazione incidentale, nella bibliografia è riportato il libro da cui è presa la citazione). Il libro può servire come elemento per comprendere i rapporti che sono esistiti nel decennio 1890‑1900 tra gli intellettuali socialisti e i positivisti della scuola lombrosiana, ossessionati dal problema della criminalità, tanto da farne una concezione del mondo o quasi (cadevano in una strana forma di «moralismo» astratto, poiché il bene e il male era qualcosa di trascendente e di dogmatico, che in concreto coincideva con la morale del «popolo», del «senso comune»). Il libro del Sighele deve essere stato recensito da Guglielmo Ferrero, perché nella bibliografia è citato un articolo del Ferrero Morale individuale e morale politica nella «Riforma Sociale», anno I, n. XI‑XII. Libro di Ferri: Socialismo e criminalità; di Turati: Il delitto e la questione sociale. Vedere bibliografia di Lombroso, Ferri, Garofalo (antisocialista), Ferrero, e altri da ricercare.
L’opuscolo contro il parlamentarismo è anch’esso superficialissimo e senza sugo: può essere citato come una curiosità dati i tempi in cui fu scritto: è tutto imperniato sul concetto che le grandi assemblee, i collegi sono organismi tecnicamente inferiori al comando unico o di pochi, come se questa fosse la quistione principale. E pensare che il Sighele era un democratico e che appunto per ciò si staccò a un certo punto dal movimento nazionalista. In ogni caso forse è da collegare questo opuscolo del Sighele alle concezioni «organiche» del Comte.
Q3 §48 Passato e presente. Spontaneità e direzione consapevole. Dell’espressione «spontaneità» si possono dare diverse definizioni, perché il fenomeno cui essa si riferisce è multilaterale. Intanto occorre rilevare che non esiste nella storia la «pura» spontaneità: essa coinciderebbe con la «pura» meccanicità. Nel movimento «più spontaneo» gli elementi di «direzione consapevole» sono semplicemente incontrollabili, non hanno lasciato documento accertabile. Si può dire che l’elemento della spontaneità è perciò caratteristico della «storia delle classi subalterne» e anzi degli elementi più marginali e periferici di queste classi, che non hanno raggiunto la coscienza della classe «per sé» e che perciò non sospettano neanche che la loro storia possa avere una qualsiasi importanza e che abbia un qualsiasi valore lasciarne tracce documentarie.
Esiste dunque una «molteplicità» di elementi di «direzione consapevole» in questi movimenti, ma nessuno di essi è predominante, o sorpassa il livello della «scienza popolare» di un determinato strato sociale, del «senso comune» ossia della concezione del mondo tradizionale di quel determinato strato.
È appunto questo l’elemento che il De Man, empiricamente, contrappone al marxismo, senza accorgersi (apparentemente) di cadere nella stessa posizione di coloro che avendo descritto il folklore, la stregoneria ecc. e avendo dimostrato che questi modi di vedere hanno una radice storicamente gagliarda e sono abbarbicati tenacemente alla psicologia di determinati strati popolari, credesse di aver «superato» la scienza moderna e prendesse come «scienza moderna» gli articolucci dei giornali scientifici per il popolo e le pubblicazioni a dispense; è questo un vero caso di teratologia intellettuale, di cui si hanno altri esempi: gli ammiratori del folklore appunto, che ne sostengono la conservazione, gli «stregonisti» legati al Maeterlinck che ritengono si debba riprendere il filo dell’alchimia e della stregoneria, strappato dalla violenza, per rimettere la scienza su un binario più fecondo di scoperte ecc. Tuttavia il De Man ha un merito incidentale: dimostra la necessità di studiare ed elaborare gli elementi della psicologia popolare, storicamente e non sociologicamente, attivamente (cioè per trasformarli, educandoli, in una mentalità moderna) e non descrittivamente come egli fa; ma questa necessità era per lo meno implicita (forse anche esplicitamente dichiarata) nella dottrina di Iliˇc, cosa che il De Man ignora completamente.
Che in ogni movimento «spontaneo» ci sia un elemento primitivo di direzione consapevole, di disciplina, è dimostrato indirettamente dal fatto che esistono delle correnti e dei gruppi che sostengono la spontaneità come metodo. A questo proposito occorre fare una distinzione tra elementi puramente «ideologici», ed elementi d’azione pratica, tra studiosi che sostengono la spontaneità come «metodo» immanente ed obbiettivo del divenire storico e politicanti che la sostengono come metodo «politico». Nei primi si tratta di una concezione errata, nei secondi si tratta di una contraddizione immediata e meschina che lascia vedete l’origine pratica evidente, cioè la volontà immediata di sostituire una determinata direzione a un’altra. Anche negli studiosi l’errore ha un’origine pratica, ma non immediata come nei secondi. L’apoliticismo dei sindacalisti francesi dell’anteguerra conteneva ambedue questi elementi: era un errore teorico e una contraddizione (c’era l’elemento «soreliano» e l’elemento della concorrenza tra la tendenza politica anarchico‑sindacalista e la corrente socialistica). Essa era ancora la conseguenza dei terribili fatti parigini del 71: la continuazione, con metodi nuovi e con una brillante teoria, della passività trentennale (1870‑1900) degli operai francesi. La lotta puramente «economica» non era fatta per dispiacere alla classe dominante, tutt’altro. Così dicasi del movimento catalano, che se «dispiaceva» alla classe dominante spagnola, era solo per il fatto che obbiettivamente rafforzava il separatismo repubblicano catalano, dando luogo a un vero e proprio blocco industriale repubblicano contro i latifondisti, la piccola borghesia e l’esercito monarchici.
Il movimento torinese fu accusato contemporaneamente di essere «spontaneista» e «volontarista» o bergsoniano (!). L’accusa contradditoria, analizzata, mostra la fecondità e la giustezza della direzione impressagli. Questa direzione non era «astratta», non consisteva nel ripetere meccanicamente delle formule scientifiche o teoriche: non confondeva la politica, l’azione reale con la disquisizione teoretica; essa si applicava ad uomini reali, formatisi in determinati rapporti storici, con determinati sentimenti, modi di vedere, frammenti di concezioni del mondo ecc., che risultavano dalle combinazioni «spontanee» di un dato ambiente di produzione materiale, con il «casuale» agglomerarsi in esso di elementi sociali disparati. Questo elemento di «spontaneità» non fu trascurato e tanto meno disprezzato: fu educato, fu indirizzato, fu purificato da tutto ciò che di estraneo poteva inquinarlo, per renderlo omogeneo, ma in modo vivente, storicamente efficiente, con la teoria moderna. Si parlava dagli stessi dirigenti di «spontaneità» del movimento; era giusto che se ne parlasse: questa affermazione era uno stimolante, un energetico, un elemento di unificazione in profondità, era più di tutto la negazione che si trattasse di qualcosa di arbitrario, di avventuroso, di artefatto e non di storicamente necessario. Dava alla massa una coscienza «teoretica», di creatrice di valori storici ed istituzionali, di fondatrice di Stati.
Questa unità della «spontaneità» e della «direzione consapevole», ossia della «disciplina» è appunto la azione politica reale delle classi subalterne, in quanto politica di massa e non semplice avventura di gruppi che si richiamano alla massa. Si presenta una quistione teorica fondamentale, a questo proposito: la teoria moderna può essere in opposizione con i sentimenti «spontanei» delle masse? («spontanei» nel senso che non dovuti a un’attività educatrice sistematica da parte di un gruppo dirigente già consapevole, ma formatosi attraverso l’esperienza quotidiana illuminata dal «senso comune» cioè dalla concezione tradizionale popolare del mondo, quello che molto pedestremente si chiama «istinto» e non è anch’esso che un’acquisizione storica primitiva ed elementare). Non può essere in opposizione: tra di essi c’è differenza «quantitativa», di grado, non di qualità: deve essere possibile una «riduzione», per così dire, reciproca, un passaggio dagli uni all’altra e viceversa. (Ricordare che E. Kant ci teneva a che le sue teorie filosofiche fossero d’accordo col senso comune; la stessa posizione si verifica nel Croce: ricordare l’affermazione di Marx nella Sacra famiglia che le formule della politica francese della Rivoluzione si riducono ai principii della filosofia classica tedesca).
Trascurare e peggio disprezzare i movimenti così detti «spontanei», cioè rinunziare a dar loro una direzione consapevole, ad elevarli ad un piano superiore inserendoli nella politica, può avere spesso conseguenze molto serie e gravi. Avviene quasi sempre che a un movimento «spontaneo» delle classi subalterne si accompagna un movimento reazionario della destra della classe dominante, per motivi concomitanti: una crisi economica, per esempio, determina malcontento nelle classi subalterne e movimenti spontanei di massa da una parte, e dall’altra determina complotti dei gruppi reazionari che approfittano dell’indebolimento obbiettivo del governo per tentare dei colpi di Stato. Tra le cause efficienti di questi colpi di Stato è da porre la rinunzia dei gruppi responsabili a dare una direzione consapevole ai moti spontanei e a farli diventare quindi un fattore politico positivo. Esempio dei Vespri siciliani e discussioni degli storici per accertare se si trattò di movimento spontaneo o di movimento concertato: mi pare che i due elementi si siano combinati nei Vespri siciliani, la insurrezione spontanea del popolo siciliano contro i provenzali, estesasi rapidamente tanto da dare l’impressione della simultaneità e quindi del concerto esistente, per l’oppressione diventata ormai intollerabile su tutta l’area nazionale, e l’elemento consapevole di varia importanza ed efficienza, con il prevalere della congiura di Giovanni da Procida con gli Aragonesi. Altri esempi si possono trarre da tutte le rivoluzioni passate in cui le classi subalterne erano parecchie, e gerarchizzate dalla posizione economica e dall’omogeneità. I movimenti «spontanei» degli strati popolari più vasti rendono possibile l’avvento al potere della classe subalterna più progredita per l’indebolimento obbiettivo dello Stato. Questo è ancora un esempio «progressivo», ma sono, nel mondo moderno, più frequenti gli esempi regressivi.
La concezione storico‑politica scolastica e accademica, per cui è reale e degno solo quel moto che è consapevole al cento per cento e che anzi è determinato da un piano minutamente tracciato in antecedenza o che corrisponde (ciò che è lo stesso) alla teoria astratta. Ma la realtà è ricca delle combinazioni più bizzarre ed è il teorico che deve in questa bizzarria rintracciare la riprova della sua teoria, «tradurre» in linguaggio teorico gli elementi della vita storica, e non viceversa la realtà presentarsi secondo lo schema astratto. Questo non avverrà mai e quindi questa concezione non è che una espressione di passività. (Leonardo sapeva trovare il numero in tutte le manifestazioni della vita cosmica, anche quando gli occhi profani non vedevano che arbitrio e disordine).
Q3 §49 Argomenti di cultura. Materiale ideologico. Uno studio di come è organizzata di fatto la struttura ideologica di una classe dominante: cioè l’organizzazione materiale intesa a mantenere, a difendere e a sviluppare il «fronte» teorico o ideologico. La parte più ragguardevole e più dinamica di esso è la stampa in generale: case editrici (che hanno implicito ed esplicito un programma e si appoggiano a una determinata corrente), giornali politici, riviste di ogni genere, scientifiche, letterarie, filologiche, di divulgazione ecc., periodici vari fino ai bollettini parrocchiali. Sarebbe mastodontico un tale studio se fatto su scala nazionale: perciò si potrebbe fare per una città o per una serie di città una serie di studi. Un capocronista di quotidiano dovrebbe avere questo studio come traccia generale per il suo lavoro, anzi dovrebbe rifarselo per conto proprio: quanti bellissimi capicronaca si potrebbero scrivere sull’argomento!
La stampa è la parte più dinamica di questa struttura ideologica, ma non la sola: tutto ciò che influisce o può influire sull’opinione pubblica direttamente o indirettamente le appartiene: le biblioteche, le scuole, i circoli e clubs di vario genere, fino all’architettura, alla disposizione delle vie e ai nomi di queste. Non si spiegherebbe la posizione conservata dalla Chiesa nella società moderna, se non si conoscessero gli sforzi diuturni e pazienti che essa fa per sviluppare continuamente la sua particolare sezione di questa struttura materiale dell’ideologia. Un tale studio, fatto seriamente, avrebbe una certa importanza: oltre a dare un modello storico vivente di una tale struttura, abituerebbe a un calcolo più cauto ed esatto delle forze agenti nella società. Cosa si può contrapporre, da parte di una classe innovatrice, a questo complesso formidabile di trincee e fortificazioni della classe dominante? Lo spirito di scissione, cioè il progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica, spirito di scissione che deve tendere ad allargarsi dalla classe protagonista alle classi alleate potenziali: tutto ciò domanda un complesso lavoro ideologico, la prima condizione del quale è l’esatta conoscenza del campo da svuotare del suo elemento di massa umana.
Q3 §50 Concordato. Il padre L. Taparelli nel suo libro Esame critico degli ordini rappresentativi così definisce i concordati: «... sono convenzioni fra due autorità governanti una medesima nazione cattolica». Quando si stabilisce una convenzione, hanno per lo meno uguale importanza giuridica le interpretazioni della convenzione stessa che ne danno le due parti.
Q3 §51 Passato e presente. Inizio del 18 brumaio di Luigi Napoleone: il detto di Hegel che nella storia ogni fatto si ripete due volte: correzione di Marx che la prima volta il fatto si verifica come tragedia, la seconda volta come farsa. Questo concetto era già stato adombrato nel Contributo alla critica della filosofia del diritto: «Gli dei greci, tragicamente feriti a morte una prima volta nel Prometeo incatenato di Eschilo, subirono una seconda morte, la morte comica, nei dialoghi di Luciano. Perché questo cammino della storia? Affinché l’umanità si separi con gioia dal suo passato». («E questo gioioso destino storico noi lo rivendichiamo per le potenze politiche della Germania», ecc.).
Q3 §52 Le pilori de la vertu. Potrebbe diventare una bellissima rubrica di cronaca (o anche di terza pagina), se fatta con garbo, con arguzia e con leggero tocco di mano. Ricollegarla alle dottrine «criminaliste» esposte da Eugenio Sue nei Misteri di Parigi, per cui alla giustizia punitiva e a tutte le sue espressioni concrete si contrappone, per completarla, una giustizia rimuneratrice. «Juste en face de l’échafaud se dresse un pavois où monte le grand homme de bien. C’est le pilori de la vertu». (Cfr La Sacra Famiglia).
Q3 §53 Passato e presente. Influsso del romanticismo francese d’appendice. Tante volte mi sono riferito a questa «fonte di cultura» per spiegare certe manifestazioni intellettuali subalterne (ricordare l’uomo dei cessi inglesi e carielli meccanici). La tesi potrebbe essere svolta con una certa compiutezza e con riferimenti più larghi. Le «proposizioni» economico‑sociali di Eugenio Sue sono legate a certe tendenze del Saint‑Simonismo, cui si collegano anche le teorie sullo Stato organico e il positivismo filosofico. il Saint‑Simonismo ha avuto una sua diffusione popolare anche in Italia, direttamente (esistono pubblicazioni in proposito che dovranno essere consultate) e indirettamente attraverso i romanzi popolari che raccoglievano opinioni più o meno legate al Saint‑Simonismo, attraverso Louis Blanc ecc. come i romanzi di Eugenio Sue.
Ciò serve anche a mostrare come la situazione politica e intellettuale del paese era così arretrata che si ponevano gli stessi problemi che nella Francia del 48 e che i rappresentanti di questi problemi erano elementi sociali molto somiglianti a quelli francesi d’allora: bohème – piccoli intellettuali venuti dalla provincia ecc. (cfr sempre la Sacra famiglia nei capitoli «Révélation des mystères d’Economie politique»). Il principe Rodolfo è nuovamente assunto a regolatore della società, ma è un principe Rodolfo venuto dal popolo, quindi ancor più romantico (Nel ms seguono due parole rese illeggibili da G.), (d’altronde non si sa se nel tempo dei tempi non ci sia una casa principesca nel suo pedigree).
Q3 §54 Emilio Bodrero. Ramo aristocratico o nazionalistico del lorianismo. Il Bodrero è professore di università, credo di materia filosofica, sebbene non sia per nulla filosofo e neppure filologo o erudito della filosofia. Apparteneva al gruppo ardigoiano. Sottosegretario all’istruzione pubblica con Fedele, cioè in una gestione della Minerva che è stata molto criticata dagli stessi elementi più spregiudicati del partito al potere. Il Bodrero è, specificamente, autore di una circolare in cui si afferma che l’educazione religiosa è il coronamento dell’istruzione pubblica, che ha servito ai clericali per muovere all’assedio sistematico dell’organismo scolastico e che è diventata per i loro pubblicisti, l’argomentazione polemica decisiva (esposizione nell’opuscolo di Ignotus, il quale però deve ipocritamente tacere che la stessa affermazione è nel concordato).
Articolo del Bodrero Itaca Italia nella «Gerarchia» del giugno 1930: stupefacente. Per il Bodrero l’Odissea è «il poema della controrivoluzione», un parallelo tra il dopo guerra troiano ‑greco e il dopoguerra 19‑20 degno di un nuovo Bertoldo. I Proci sono... gli imboscati. Penelope è... la democrazia liberale. Il fatto che i Proci saccheggiano la dispensa di Ulisse, ne stuprano le ancelle e cercano di prendergli la moglie è una... rivoluzione. Ulisse è il... combattentismo. I Feaci sono l’Olanda o la Spagna neutrali che si arricchiscono sui sacrifizi altrui ecc. Ci sono poi delle proposizioni di metodo filologico: chi ha fatto la guerra e ha conosciuto il dopoguerra non può sostenere con sicurezza che l’Iliade e l’Odissea sono di un solo autore e sono unitarie in tutta la loro struttura (anche questa è una variazione della teoria della voce del sangue come origine e mezzo della conoscenza). Si potrebbe osservare, comicamente, che proprio Ulisse è il tipo del renitente alla leva e del simulatore di pazzia!.
Q3 §55 Passato e presente. Otto Kahn. Suo viaggio in Europa nel 1924. Sue dichiarazioni a proposito del regime italiano e di quello inglese di Mac Donald. Analoghe dichiarazioni di Paul Warburg (Otto Kahn e Paul Warburg appartengono ambedue alla grande firma americana Kuhn-Loeb et C°.), di Judge Gary, dei delegati della Camera di Commercio americana e di altri grandi finanzieri. Simpatie della grande finanza internazionale per il regime inglese e italiano. Come si spiega nel quadro dell’espansionismo mondiale degli Stati Uniti. La sicurezza dei capitali americani all’estero: intanto non azioni ma obbligazioni. Altre garanzie non puramente commerciali ma politiche per il trattato sui debiti concluso da Volpi (vedere atti parlamentari, perché nei giornali certe «minuzie» non furono pubblicate) e per il prestito Morgan. Atteggiamento di Caillaux e della Francia verso i debiti e il perché del rifiuto di Caillaux di concludere l’accordo. Tuttavia anche Caillaux rappresenta la grande finanza, ma francese, che tende anch’essa all’egemonia o per lo meno a una certa posizione di superiorità (in ogni caso non vuole essere subordinata). Il libro di Caillaux, Dove va la Francia? Dove va l’Europa?, in cui è esposto chiaramente il programma politico‑sociale della grande finanza e si spiega la simpatia per il laburismo. Somiglianze reali tra regime politico degli Stati Uniti e dell’Italia, notato anche in altra nota.
Q3 §56 La concezione del centralismo organico e la casta sacerdotale. Se l’elemento costitutivo di un organismo è posto in un sistema dottrinario rigidamente e rigorosamente formulato, si ha un tipo di direzione castale e sacerdotale. Ma esiste ancora la «garanzia» dell’immutabilità? Non esiste. Le formule verranno recitate a memoria senza mutar sillaba e virgola, ma l’attività reale sarà un’altra. Non bisogna concepire l’«ideologia», la dottrina come qualcosa di artificiale e sovrapposto meccanicamente (come un vestito sulla pelle, e non come la pelle che è organicamente prodotta dall’intero organismo biologico animale), ma storicamente, come una lotta incessante. Il centralismo organico immagina di poter fabbricare un organismo una volta per sempre, già perfetto obbiettivamente. Illusione che può essere disastrosa, perché fa affogare un movimento in un pantano di dispute personali accademiche. (Tre elementi: dottrina, composizione «fisica» della società di un determinato personale storicamente determinato, movimento reale storico. Il primo e il secondo elemento cadono sotto il controllo della volontà associata e deliberante. Il terzo elemento reagisce continuamente sugli altri due e determina la lotta incessante, teorica e pratica, per elevare l’organismo a coscienze collettive sempre più elevate e raffinate). Feticismo costituzionalistico. (Storia delle Costituzioni approvate durante la Rivoluzione francese: la Costituzione votata nel 93 dalla Convenzione fu deposta in un’arca di cedro nei locali dell’assemblea, e l’applicazione ne fu sospesa fino alla fine della guerra: anche la Costituzione più radicale poteva essere sfruttata dai nemici della Rivoluzione e perciò era necessaria la dittatura, cioè un potere non limitato da leggi fisse e scritte).
Q3 § 57. I nipotini di padre Bresciani. Papini. Notare come gli scrittori della «Civiltà Cattolica» se lo tengono diletto e lo vezzeggiano e lo coccolano e lo difendono da ogni accusa di poca ortodossia. Frasi di Papini, desunte dal suo libro di S. Agostino e che mostrano la tendenza al secentismo (i gesuiti furono rappresentanti spiccati del secentismo): «quando si dibatteva per uscire dalle cantine dell’orgoglio a respirare l’aria divina dell’assoluto», «salire dal letamaio alle stelle» ecc. È evidente che Papini si è convertito non al cristianesimo, né al cattolicismo, ma propriamente al gesuitismo. (Si può dire che il gesuitismo è la fase più recente del cristianesimo cattolico).
Q3 §58 Riviste tipo. Tipo «Voce» ‑ «Leonardo». Composta da saggi originali. Reagire contro l’abitudine di riempire le riviste con traduzioni. Se collaborazione di stranieri, collaborazione originale. Ma le traduzioni di saggi scritti da stranieri hanno la loro importanza culturale, per reagire contro il provincialismo e la meschineria. Supplementi di sole traduzioni: ogni due mesi fascicoli dello stesso formato della rivista‑tipo, con altro titolo, (Supplemento ecc.) e numerazione di pagine indipendente, che contengano una scelta critico‑informativa delle pubblicazioni teoriche straniere. (Tipo «Rassegna delle riviste estere» stampata per qualche tempo dal Ministero degli Esteri).
Q3 §59 Passato e presente. L’influsso intellettuale della Francia. Ci siamo veramente liberati o lavoriamo effettivamente per liberarci dall’influsso francese? A me pare, in un certo senso, che l’influsso francese sia andato aumentando in questi ultimi anni e che esso andrà sempre più aumentando. Nell’epoca precedente, l’influsso francese giungeva in Italia disorganicamente come un fermento che metteva in ebollizione una materia ancora amorfa e primitiva: le conseguenze erano, in un certo senso, originali. Anche se la spinta al movimento era esterna, la direzione del movimento era originale, perché risultava da una componente delle forze indigene risvegliate. Ora invece, si cerca di limitare o addirittura di annullare questo influsso «disorganico», che si esercitava spontaneamente e casualmente, ma l’influsso francese è stato trasportato nel sistema stesso, nel centro delle forze motrici che vorrebbero appunto limitare e annullare. La Francia è diventata un modello negativo, ma siccome questo modello negativo è una mera apparenza, un fantoccio dell’argomentazione polemica, la Francia reale è il modello positivo. La stessa «romanità» in quanto ha qualcosa di efficiente, diventa un modello francese, poiché, come giustamente osserva il Sorel (lettere al Michels pubblicate nei «Nuovi Studi di Politica Economia Diritto»), la tradizione statale di Roma si è conservata specialmente nel centralismo monarchico francese e nello spirito nazionale statale del popolo francese. Si potrebbero trovare curiose prove linguistiche di questa imitazione: i marescialli dopo la guerra, il titolo di direttore della Banca d’Italia cambiato in governatore ecc. C’è nella lotta Francia‑Italia sottintesa una grande ammirazione per la Francia e per la sua struttura reale e da questa lotta nasce un influsso reale enormemente più grande di quello del periodo precedente. (Nazionalismo italiano copiato da nazionalismo francese ecc.: era la traccia, ben più importante che il mimetismo democratico, che questo influsso reale era già nato nel periodo precedente).
Q3 §60 Passato e presente. I morti di fame e la malavita professionale. Bohème, scapigliatura, leggera ecc. Nel libro La Scapigliatura milanese (M)lano, «Famiglia Meneghina» editrice, 1930, 16°, pp. 267, L. 15,00) Pietro Madini tenta una ricostruzione dell’ambiente generale di questo movimento letterario (antecedenti e derivazioni), compresi i rappresentanti delle scapigliature popolari, come la «Compagnia della Teppa» (verso il 1817), ritenuta una propaggine un po’ guasta della Carboneria, sciolta dall’Austria quando questa cominciò a temere l’azione patriottica del Bichinkommer. La Teppa è diventata oggi sinonimo di malavita, anzi di una speciale malavita, ma questa derivazione non è senza significato per comprendere l’atteggiamento della vecchia «Compagnia».
Ciò che Victor Hugo nell’Uomo che ride dice delle spavalderie che commettevano i giovani aristocratici inglesi era una forma di «teppa»; essa ha una traccia da per tutto, in un certo periodo storico (moscardini, Santa Vehme ecc.), ma si è conservata più a lungo in Italia; ricordare l’episodio di Terlizzi riportato dal giornale di Rerum Scriptor nel 12 o 13. Anche le così dette «burle» che tanta materia danno ai novellieri del Trecento‑Cinquecento rientrano in questo quadro: i giovani di una classe disoccupata economicamente e politicamente diventano «teppisti».
Q3 §61 Lotta di generazioni. Il fatto che la generazione anziana non riesca a guidare la generazione più giovane è in parte anche l’espressione della crisi dell’istituto famigliare e della nuova situazione dell’elemento femminile nella società. L’educazione dei figli è affidata sempre più allo Stato o a iniziative scolastiche private e ciò determina un impoverimento «sentimentale» per rispetto al passato e una meccanizzazione della vita. Il più grave è che la generazione anziana rinunzia al suo compito educativo in determinate situazioni, sulla base di teorie mal comprese o applicate in situazioni diverse da quelle di cui erano l’espressione. Si cade anche in forme statolatriche: in realtà ogni elemento sociale omogeneo è «Stato», rappresenta lo Stato, in quanto aderisce al suo programma: altrimenti si confonde lo Stato con la burocrazia statale. Ogni cittadino è «funzionario» se è attivo nella vita sociale nella direzione tracciata dallo Stato‑governo, ed è tanto più «funzionario» quanto più aderisce al programma statale e lo elabora intelligentemente.
Q3 §62 Passato e presente. L’influsso intellettuale della Francia. La fortuna, incredibile, del superficialissimo libro di Léon Daudet sullo «stupido secolo XIX»; la formula dello stupido secolo è diventata una vera giaculatoria che si ripete a casaccio, senza capirne la portata. Nel sistema ideologico dei monarchici francesi questa formula è comprensibile e giustificata: essi creano o vogliono creare il mito dell’ancien régime (sol nel passato è il vero, sol nel passato è il bello) e programmaticamente deprezzano tutta la «parentesi» tra il 1789 e il domani della restaurazione, tra l’altro anche la formazione dell’unità statale italiana. Ma per gli italiani che significato ha questa formula? Vogliono restaurare le condizioni di prima del Risorgimento? Il secolo XIX è stupido perché esso ha espresso le forze che hanno unificato l’Italia?
Ideologia di sotterfugi: c’è una corrente, molto stupida nelle sue manifestazioni, che realmente cerca di riabilitare gli antichi regimi, specialmente quello borbonico, e ciò proprio con spirito apologetico (parallelamente agli studi storici che cercano di ricostruire obbiettivamente i fatti). Ma in tutte queste espressioni mi pare sia l’imbarazzo di chi vorrebbe avere una tradizione e non può averla (una tradizione rumorosa, come potrebbe essere quella francese di Luigi XIV o di Napoleone) o è costretto a risalire troppi secoli, e nella reale tradizione del paese vede contenuta troppa quantità di argomenti polemici negativi. Appunto per questo la fortuna della frase di Daudet è un tipico esempio di sudditanza alle correnti intellettuali francesi.
La quistione, però, ha un aspetto generale molto interessante: quale deve essere l’atteggiamento di un gruppo politico innovatore verso il passato, specialmente verso il passato più prossimo? Naturalmente deve essere un atteggiamento essenzialmente «politico», determinato dalle necessità pratiche, ma la quistione consiste precisamente nella determinazione dei «limiti» di un tale atteggiamento. Una politica realistica non deve solo tener presente il successo immediato (per determinati gruppi politici, però, il successo immediato è tutto: si tratta dei movimenti puramente repressivi, per i quali si tratta specialmente di dare un gran colpo ai nemici immediati, di terrorizzare i gregari di questi e quindi acquistare il respiro necessario per riorganizzare e rafforzare con istituzioni appropriate la macchina repressiva dello Stato), ma anche salvaguardare e creare le condizioni necessarie per l’attività avvenire e tra queste condizioni è l’educazione popolare. Questo è il punto. L’atteggiamento sarà tanto più «imparziale», cioè storicamente «obbiettivo», quanto più elevato sarà il livello culturale e sviluppato lo spirito critico, il senso delle distinzioni. Si condanna in blocco il passato quando non si riesce a differenziarsene, o almeno le differenziazioni sono di carattere secondario e si esauriscono quindi nell’entusiasmo declamatorio. È certo d’altronde che nel passato si può trovare tutto quello che si vuole, manipolando le prospettive e l’ordine delle grandezze e dei valori.
Il secolo XIX ha voluto dire nell’ordine politico sistema rappresentativo e parlamentare. È vero che in Italia questo sistema è stato importato meccanicamente? Esso è stato ottenuto con una lotta, alla quale le grandi masse della popolazione non sono state chiamate a partecipare: esso si è adattato a queste condizioni assumendo forme bene specificate, italiane, inconfondibili con quelle degli altri paesi. La tradizione italiana perciò presenta diversi filoni: quello della resistenza accanita, quello della lotta, quello dell’accomodantismo e dello spirito di combinazione (che è la tradizione ufficiale). Ogni gruppo può richiamarsi a uno di questi filoni tradizionali, distinguendo tra fatti reali e ideologie, tra lotte effettive e lotte verbali ecc. ecc.; può anche sostenere di iniziare una nuova tradizione, di cui nel passato si trovano solo elementi molecolari, non già organizzati, e mettere in valore questi elementi, che per lo stesso loro carattere non sono compromettenti, cioè non possono dar luogo a una elaborazione ideologica organica che si contrapponga all’attuale, ecc.
Q3 §63 I nipotini di padre Bresciani. Letteratura popolare. Nota nella «Critica Fascista» del 1° agosto 1930 in cui si lamenta che due grandi quotidiani, uno di Roma e l’altro di Napoli, iniziano la pubblicazione in appendice di questi romanzi: Il Conte di Montecristo e Giuseppe Balsamo di A. Dumas, il Calvario di una madre di Paolo Fontenay. Scrive la «Critica»: «L’ottocento francese è stato senza dubbio un periodo aureo per il romanzo d’appendice, ma debbono avere un ben scarso concetto dei propri lettori quei giornali che ristampano romanzi di un secolo fa, come se il gusto, l’interesse, l’esperienza letteraria non fossero per niente mutate da allora ad ora. Non solo, ma ... perché non tener conto che esiste, malgrado le opinioni contrarie, un romanzo moderno italiano? E pensare che questa gente è pronta a spargere lacrime d’inchiostro sulla infelice sorte delle patrie lettere». La «Critica» confonde due quistioni: quella della letteratura artistica (così detta) e quella della letteratura popolare (poiché così si pone la quistione nella storia della cultura, sebbene evidentemente nulla impedisca, in teoria, che esista o possa esistere una letteratura popolare artistica: essa si verificherà quando ci sarà una identità di classe tra «popolo» e scrittori e artisti, cioè quando i sentimenti popolari saranno vissuti come propri dagli artisti; ma allora tutto sarà cambiato, cioè si potrà parlare di letteratura popolare solo per metafora) e non si pone il terzo problema del perché non esista una letteratura popolare artistica. I giornali non si propongono di diffondere le belle lettere: sono organismi politico‑finanziari. Il romanzo d’appendice è un mezzo per diffondersi tra le classi popolari, ciò che significa successo politico e successo commerciale. Il giornale cerca perciò il romanzo, il tipo di romanzo, che piace al popolo, che farà certamente comprare il foglio continuativamente. L’uomo del popolo compra un solo giornale, quando lo compra: la sua scelta non è puramente personale, ma di gruppo famigliare: le donne pesano molto nella scelta e insistono per il bel romanzo interessante (ciò non significa che anche gli uomini non leggano il romanzo, ma il peso maggiore è nelle donne): da ciò deriva il fatto che i giornali puramente politici o d’opinione non hanno potuto mai avere una diffusione grande: essi sono comprati dagli scapoli, uomini e donne che si interessano fortemente della politica e da un numero mediocre di famiglie, che pure non sono dell’opinione generale del giornale che leggono. (Ricordare alcuni giornali popolari che pubblicavano fino a tre romanzi d’appendice, come il «Secolo» di un certo periodo). Perché i giornali italiani del 1930, se vogliono diffondersi, devono pubblicare in appendice i romanzi d’appendice di un secolo fa? E anche i romanzi d’appendice di un determinato tipo? E perché non esiste in Italia una letteratura «nazionale» del genere?
Osservare il fatto che in molte lingue «nazionale» e «popolare» sono quasi sinonimi (in russo, in tedesco «volkisch» ha quasi un significato ancora più intimo, di razza, nelle lingue slave in genere; in francese ha il significato stesso, ma già più elaborato politicamente, legato cioè al concetto di «sovranità»; sovranità nazionale e sovranità popolare hanno valore uguale o l’hanno avuto). In Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè dalla «nazione» e sono legati a una tradizione di casta, che non è mai stata rotta da un forte movimento politico popolare o nazionale, tradizione «libresca» e astratta.
Cfr gli articoli di Umberto Fracchia nell’«Italia Letteraria» del luglio 1930 e la Lettera a Umberto Fracchia sulla critica di Ugo Ojetti nel «Pègaso» dell’agosto 1930. I lamenti del Fracchia sono dello stesso tipo di quelli della «Critica Fascista». La letteratura «nazionale» così detta «artistica» non è popolare in Italia. Di chi la colpa? Del pubblico che non legge? Della critica che non sa presentare ed esaltare al pubblico i valori letterari? Dei giornali che invece di pubblicare in appendice il «romanzo moderno italiano» pubblicano il vecchio Conte di Montecristo? Ma perché il pubblico non legge in Italia mentre legge in altri paesi? Ed è poi vero che non legga? Non sarebbe più esatto dire: perché il pubblico italiano legge la letteratura straniera, popolare e non popolare, e non legge invece quella italiana? Lo stesso Fracchia non ha pubblicato degli ultimatum agli editori che pubblicano (e quindi vendono relativamente) opere straniere, minacciando provvedimenti governativi? E questi provvedimenti non ci sono stati in parte per opera di Michele Bianchi, sottosegretario agli interni? Cosa significa il fatto che gli italiani leggono a preferenza gli scrittori stranieri? Che esso subisce l’egemonia degli intellettuali stranieri, che esso si sente legato più agli intellettuali stranieri che a quelli nazionali: che non esiste in Italia un blocco nazionale intellettuale e morale. Gli intellettuali non escono dal popolo, non ne conoscono i bisogni, le aspirazioni, i sentimenti diffusi, ma sono qualcosa di staccato, di campato in aria, una casta cioè. La quistione deve essere estesa a tutta la cultura popolare o nazionale e non al solo romanzo o alla sola letteratura: il teatro, la letteratura scientifica in generale (scienze propriamente dette, storia ecc.): perché non ci sono in Italia dei tipi di scrittori come Flammarion? la letteratura divulgativa in generale francese. Tradotti, questi libri stranieri, sono letti e ricercati. Dunque tutta la classe colta, con la sua attività intellettuale è staccata dal popolo, dalla nazione, non perché il «popolo nazione» non abbia dimostrato e non dimostri di interessarsi a queste attività intellettuali in tutti i suoi gradi, dai più infimi (romanzacci d’appendice) ai più elevati, tanto vero che ricerca i libri stranieri, ma perché l’elemento intellettuale indigeno è più straniero degli stranieri di fronte a questo popolo‑nazione. La quistione non è d’oggi: essa si è posta fin dalla fondazione dello Stato italiano: il libro di R. Bonghi ne è documento. Anche la quistione della lingua posta dal Manzoni riflette questo problema, il problema dell’unità morale della nazione e dello Stato, ricercato nell’unità della lingua. Ma la lingua è strumento esterno e non necessario esclusivamente dell’unità: in ogni caso è effetto e non causa. Scritti di F. Martini sul teatro: tutta una letteratura.
In Italia è mancato il libro popolare, romanzo o d’altro genere. Nella poesia dei tipi come Béranger e tutti i chansonniers popolari francesi. Tuttavia ce ne sono stati, individualmente, e hanno avuto fortuna. Guerrazzi ha avuto fortuna e i suoi libri hanno continuato ad essere pubblicati fino a poco tempo fa. Carolina Invernizio è stata letta, sebbene fosse a un livello più basso dei Ponson e dei Montépin. Mastriani è stato letto. (Ricordo un articolo di Papini sulla Invernizio pubblicato nel «Resto del Carlino» durante la guerra, mi pare, verso il 1916: non so se ristampato in qualche raccolta‑libro. Mi pare che il Papini scrivesse qualcosa di interessante su questa onesta gallina della letteratura, appunto notando come la Invernizio si facesse leggere dal popolo. Si potrà vedere in qualche bibliografia di Papini la data di questo articolo o altre indicazioni: forse nella bibliografia pubblicata nel saggio del Palmieri). Il popolo legge o si interessa in altro modo alla produzione letteraria. Diffusione dei Reali di Francia e del Guerrin Meschino specialmente nell’Italia meridionale e nelle montagne. I Maggi in Toscana: gli argomenti trattati dai Maggi sono tratti dai libri e dalle novelle di carattere popolare: la Pia dei Tolomei ecc. (deve esistere qualche pubblicazione sui Maggi e una registrazione approssimativa degli argomenti che trattano).
I laici hanno fallito nella soddisfazione dei bisogni intellettuali del popolo: io credo proprio per non avere rappresentato una cultura laica, per non aver saputo creare un nuovo umanesimo, adatto ai bisogni del mondo moderno, per aver rappresentato un mondo astratto, meschino, troppo individuale ed egoista. La letteratura popolare francese che, per esempio, è diffusa anche in Italia, rappresenta in maggiore o minor grado, in modo più o meno simpatico, questo «nuovo umanesimo», questo laicismo. Guerrazzi lo rappresentava, il Mastriani ecc.
Ma se i laici hanno fallito, i cattolici non hanno avuto miglior successo. Pare che i libri ameni cattolici siano molto letti, perché hanno discrete tirature: ma il più delle volte si tratta di oggetti che vengono regalati nelle cerimonie e che non vengono letti che per castigo o per disperazione. Colpisce il fatto che nel campo del romanzo o delle narrazioni avventurose i cattolici non abbiano avuto una maggiore letteratura e una maggiore fortuna: eppure essi avrebbero una sorgente inesauribile nei viaggi e nelle vite avventurose dei missionari. Ma anche nel periodo di maggior espansione del romanzo geografico d’avventura, la letteratura cattolica in argomento è stata meschina: i libri di Ugo Mioni (credo padre gesuita) e le vicende del cardinal Massaja in Abissinia devono essere i più fortunati. Anche nella letteratura scientifica i cattolici non hanno gran che (letteratura scientifica popolare), nonostante abbiano avuto grandi astronomi come il padre Secchi (gesuita) e l’astronomia sia la scienza che più interessa il popolo. Questa letteratura cattolica è troppo impregnata di apologetica gesuitica e stucca per la sua meschinità. Questa poca fortuna della letteratura popolare cattolica indica come ci sia ormai una rottura profonda tra la religione e il popolo, che si trova in uno stato miserrimo di indifferentismo e di assenza di vita spirituale: la religione è solo una superstizione, ma non è stata sostituita da una nuova moralità laica e umanistica per l’impotenza degli intellettuali laici (la religione non è stata né sostituita, né intimamente trasformata e nazionalizzata come in altri paesi, come in America lo stessogesuitismo: l’Italia è ancora, come popolo, nelle condizioni generali create dalla Controriforma).
(La religione si è combinata col folklore pagano ed è rimasta a questo stadio. Cfr sul folklore).
Q3 §64 I nipotini di padre Bresciani. Mario Puccini, Cola o Ritratto dell’Italiano, Casa Editrice Vecchioni, Aquila, 1927. Cola è un contadino toscano, territoriale durante la guerra, con cui il Puccini vorrebbe rappresentare il «vecchio italiano» ecc.
... «il carattere di Cola, ... senza reazioni ma senza entusiasmi, capace di fare il proprio dovere e anche di compiere qualche atto di valore ma per obbedienza e per necessità e con un tenero rispetto per la propria pelle, persuaso sì e no della necessità della guerra ma senza nessun sospetto di valori eroici ... il tipo di una coscienza, se non completamente sorda, certo passiva alle esigenze ideali, tra la bacchettona e pigra, resistente a guardare oltre gli “ordini del governo” e oltre le modeste funzioni della vita individuale, contento in una parola dell’esistenza di pianura senza ambizione delle alte cime». (Dalla recensione pubblicata nella «Nuova Antologia» del 16 marzo 1928, p. 270).
Q3 §65 Massimo Lelj, Il Risorgimento dello spirito italiano (1725‑1861), L’«Esame», Edizioni di Storia Moderna, Milano 1928, L. 15,00. (Cosa è?)
Q3 §66 Lorianesimo e secentismo. Paolo Orano. Un articolo di P. Orano su Ibsen sulla « Nuova Antologia» del 1° aprile 1928. Un aforisma pregnante di vacuità: «L’autentico (! cioè il corrispettivo rinforzato del tanto screditato “vero”) sforzo moderno dell’arte drammatica è consistito nel risolvere scenicamente (!) gli assurdi (!) della vita consapevole (!). Fuori di ciò il teatro può essere un bellissimo gioco consolatore (!), un amabile passatempo, non altro». Altro aforisma come sopra: «Con lui e per lui (Ibsen) abbiamo incominciato a credere all’eternità dell’attimo, perché l’attimo è pensiero, ed al valore assoluto della personalità individuale, che è agente e giudice fuor del tempo e dello spazio, oltre i rimorsi temporali e il nulla spaziale, momento e durata inattingibili al criterio della scienza e della religione» .
Q3 §67 Gerrymandering. (Non so cosa significa mandering). Gerry, un americano, che avrebbe applicato per primo il trucco elettorale di raggruppare arbitrariamente le circoscrizioni per avere maggioranze fittizie. (Questo trucco si verifica specialmente nei collegi uninominali, costituiti in modo che pochi elettori bastano per eleggere i deputati di destra, mentre ne occorrono enormemente di più per eleggere un deputato di sinistra: cfr le elezioni francesi del 1928 e confronta il numero di voti e gli eletti del partito Marin e quelli del gruppo Cachin. Questo trucco si applica poi nei plebisciti per le quistioni nazionali, estendendo a zone più ampie di quella dove una minoranza è omogenea la circoscrizione ecc.). (Vedere chi era Gerry ecc.).
Q3 §68 Americanismo. Ricordare il libro di Guglielmo Ferrero Fra i due mondi: quanti dei luoghi comuni del Ferrero sono entrati in circolazione a proposito dell’America e continuano a essere spesi senza ricordate il conio e la zecca? (Quantità contro qualità, per esempio). Fra i due mondi è di prima della guerra, ma anche dopo il Ferrero ha insistito su questi tasti. Vedere.
Sull’americanismo vedi articolo L’America nella letteratura francese del 1927 di Étienne Fournol nella «Nuova Antologia» del 1° aprile 1928, comodo perché vi si possono trovare registrati i luoghi comuni più marchiani sull’argomento. Parla del libro di Siegfried e di quello del Romier (Qui sera le maître?) e accenna a un libro di Andrea Tardieu (Devant l’obstacle: l’Amérique et nous, Parigi, Librairie Emil Paul) e a due libri di Luc Durtain, un romanzo Hollywood dépassé e una raccolta di novelle Quarantième étage, editi dalla N.R.F. e che paiono interessanti.
A proposito del prof. Siegfried si noti questa sua contraddizione: a pag. 350 del suo libro Les États‑Unis d’aujourd’hui egli ha riconosciuto nella vita americana «l’aspetto d’una società realmente collettivistica, voluto dalle classi elette e accettato allegramente (sic) dalla moltitudine», e poi scrive la prefazione del libro del Philip sul movimento operaio americano e lo loda, sebbene non vi si dimostri precisamente questa «allegria» e che in America non ci sia lotta di classe, anzi vi si dimostra l’esistenza della più sfrenata e feroce lotta di una parte contro l’altra. Lo stesso confronto si dovrebbe fare tra il libro del Romier e quello del Philip. Perché dunque è stato accettato così facilmente in Europa (ed è stato diffuso così abilmente) questo cliché degli Stati Uniti senza lotta di classi, ecc. ecc.? Si combatte l’americanismo per i suoi elementi sovversivi della stagnante società europea, ma si crea il cliché dell’omogeneità sociale americana per uso di propaganda e come premessa ideologica di leggi eccezionali.
Q3 §69 Utopie e romanzi filosofici e loro rapporti con lo sviluppo della critica politica, ma specialmente con le aspirazioni più elementari e profonde delle moltitudini. Studiare se c’è un ritmo nell’apparizione di questi prodotti letterari: coincidono con determinati periodi, con i sintomi di profonde mutazioni storiche? Compilare un elenco i questi lavori, utopie propriamente dette, romanzi filosofici, libri che attribuiscono a paesi lontani e sconosciuti ma esistenti determinate usanze e istituzioni che si vogliono contrapporre a quelle del proprio paese. L’Utopia di T. Moro, la Nuova Atlantide di Bacone, l’Isola dei Piaceri e la Salento di Fénelon (ma anche il Telemaco), i Viaggi di Gulliver dello Swift ecc.
Q3 §70 Frate Vedremo. Questa espressione è usata da Giuseppe De Maistre in una Memoria del 6 luglio 1814 (scritta da Pietroburgo dove era ambasciatore) e pubblicata nelle (Œuvres complètes, Lione 1886, tome 1° Correspondance diplomatique. Egli scrive a proposito della politica piemontese: «Notre système, timide, neutre, suspensif, tâtonnant, est mortel dans cet état des choses... Il faut avoir l’œil bien ouvert et prendre garde à l’ennemi des grands coups, lequel s’appelle Frère‑Vedremo». (Un paragrafo su «Frate Vedremo» nella rubrica «Passato e presente»).
Q3 §71 Utopie e romanzi filosofici. In un articolo di Giuseppe Gabrieli su Federico Cesi linceo nella «Nuova Antologia» del 1° agosto 1930 si stabilisce un nesso storico‑ideologico tra la ControRiforma (che contrappone all’individualismo, acuito dall’Umanesimo e sbrigliato dal Protestantesimo, lo spirito romano di collegialità, di disciplina, di corporazione, di gerarchia per la ricostruzione della società), le Accademie (come quella dei Lincei tentata dal Cesi, cioè il lavoro collegiale degli scienziati, di tipo ben diverso da quello dei centri universitari, rimasti medioevali nei metodi e nelle forme), e le idee e le audacie delle grandi teorie, delle riforme palingenetiche o utopistiche ricostruzioni dell’umana convivenza (la Città del Sole, la Nuova Atlantide ecc.).
Mi pare che ci sia troppo di stiracchiato in questo nesso e bisogna invece vedere se queste iniziative non siano l’unica forma in cui la «modernità» poteva vivere nell’ambiente della Controriforma: la Controriforma, come tutte le Restaurazioni, non poté non essere che un compromesso e una combinazione sostanziale, se non formale, tra il vecchio e il nuovo, ecc. (Bisogna però tener conto delle scoperte scientifiche del tempo e dello spirito «scientifista» che si diffuse: di un certo «razionalismo» avant la lettre ecc.).
Q3 §72 Rubriche scientifiche. Il tipo del giornale quotidiano in Italia è determinato dall’insieme delle condizioni culturali del paese: mancanza di letteratura di divulgazione, scarsità di riviste popolari di divulgazione. Il lettore del giornale vuole trovare perciò nel suo foglio riflessi tutti gli aspetti della complessa vita sociale di una nazione moderna. È notevole il fatto che il giornale italiano, relativamente meglio fatto di quello di altri paesi, abbia sempre trascurato l’informazione scientifica, mentre aveva un corpo notevole di giornalisti‑economisti (Einaudi, Cabiati, ecc.) e di giornalisti‑letterati o di cultura generale (Borgese, Cecchi, Ojetti, Bellonci, ecc.). Anche nelle riviste importanti (come la «Nuova Antologia» e la «Rivista d’Italia») la rubrica scientifica era molto inferiore alle altre (il Bertarelli, il Dott. Ry formano un’eccezione relativa). Non ho mai visto la rivista di filosofia scientifica l’«Arduo» che si pubblicava a Bologna diretta da Sebastiano Timpanaro (Mario Pant).
Tuttavia l’informazione scientifica dovrebbe essere integrante di un giornale quotidiano in Italia, sia come notiziario scientifico‑tecnologico, sia come esposizione critica delle ipotesi e opinioni scientifiche più importanti (la parte igienica dovrebbe costituire una rubrica a parte nella rubrica generale scientifica). Un giornale popolare, più che gli altri dovrebbe avere questa sezione, per controllare e dirigere l’apprendimento dei suoi lettori e «sprovincializzare» le nozioni correnti. Difficoltà di avere specialisti che sappiano scrivere popolarmente. Si potrebbe fare lo spoglio sistematico delle riviste generali e di cultura professionale, gli atti delle Accademie e le pubblicazioni straniere e compilare estratti e riassunti in appendici speciali o nella terza pagina (come sezione speciale), scegliendo accuratamente e con intelligenza il materiale.
Q3 §73 I nipotini di padre Bresciani. Luigi Capuana. Da un articolo di Luigi Tonelli Il carattere e l’opera di Luigi Capuana nella Nuova Antologia del 1° maggio 1928: «Re Bracalone (romanzo fiabesco: il secolo XX è creato, per forza d’incanto, nello spazio di brevi giorni, nei tempi di “c’era una volta”; ma dopo averne fatta l’amara esperienza, il re lo distrugge, preferendo ritornare ai tempi primitivi) c’interessa anche sotto il riguardo ideologico; ché, in un periodo d’infatuazione (!) internazionalista socialistoide, ebbe il coraggio di bollare a fuoco (!) “le sciocche sentimentalità della pace universale, del disarmo e le non meno sciocche sentimentalità dell’uguaglianza economica e della comunità dei beni” ed esprimere l’urgenza di “tagliar corto alle agitazioni che han già creato uno Stato dentro lo Stato, un governo irresponsabile” ed affermare la necessità di una coscienza nazionale: “Ci fa difetto la dignità nazionale; bisogna creare il nobile orgoglio di essa, spingerlo fino all’eccesso. È l’unico caso in cui l’eccesso non guasta”». Il Tonelli è sciocco, ma il Capuana non scherza anche lui col suo frasario da giornaletto di provincia: bisognerebbe poi vedere cosa vale la sua ideologia del «C’era una volta» e del patriarcalismo primitivo.
Del Capuana occorrerà ricordate il teatro dialettale e le sue opinioni sulla lingua nel teatro a proposito della quistione della lingua nella letteratura italiana. Alcune commedie del Capuana (come Giacinta, Malìa, Il Cavalier Pedagna) furono scritte originariamente in italiano e poi voltate in dialetto: solo in dialetto ebbero grande successo. Il Tonelli, che non capisce nulla, scrive che il Capuana fu indotto alla forma dialettale nel teatro «non soltanto dalla convinzione che “bisogna passare pei teatri dialettali, se si vuole davvero arrivare al teatro nazionale italiano” ..., ma anche e soprattutto dal carattere particolare delle sue creazioni drammatiche: le quali sono squisitamente dialettali, e nel dialetto trovano la loro più naturale e schietta espressione». Ma cosa poi significa «creazioni squisitamente dialettali»? Il fatto è spiegato col fatto stesso, cioè non è spiegato. Vedere nel teatro di Pirandello le commedie in italiano e quelle in dialetto. La lingua non ha «storicità» di massa, non è un fatto nazionale. Liolà in italiano non vale nulla sebbene Il fu Mattia Pascal da cui è tratta sia abbastanza interessante.
Nel teatro in italiano, l’autore non si mette all’unisono col pubblico, non ha la prospettiva della storicità della lingua quando i personaggi vogliono essere «concretamente» italiani. Perché in Italia ci sono due lingue: l’italiano e il dialetto regionale e nella vita famigliare si adopera il dialetto: l’italiano, in gran parte, è un esperanto, cioè una lingua parziale ecc.
Quando si afferma la grande ricchezza espressiva dell’italiano si cade in un equivoco: si confonde la ricchezza espressiva registrata nel vocabolario o contenuta inerte nella letteratura stampata, con la ricchezza individuale che si può spendere individualmente. Quest’ultima conta, specialmente in certi casi: per misurare il grado di unità linguistica nazionale, per esempio, che non è dato dal vocabolario ma dalla vivente parlata del popolo.
Nel dialogo teatrale è evidente l’importanza di questo elemento: il dialogo dal palcoscenico deve suggerire immagini viventi, in tutta la loro concretezza storica, invece suggerisce, in gran parte, immagini libresche. Le parole della parlata famigliare si riproducono nell’ascoltatore come ricordo di parole lette nei libri o nei giornali e ricercate nel vocabolario, come sarebbe il francese in teatro ascoltato da uno che il francese ha imparato sui libri senza maestro: la parola è ossificata, senza articolazioni di sfumature, senza la comprensione del suo significato esatto che è dato da tutto il periodo ecc. Si ha l’impressione di essere goffi, o che goffi siano gli altri. Si osservi nell’italiano parlato quanti errori di pronunzia fa l’uomo del popolo: profùgo, rosèo, ecc., ciò che significa che le parole italiane le ha lette, non sentite e non sentite ripetutamente, cioè collocate in periodi diversi, ognuno dei quali abbia fatto brillare una sfaccettatura di quel poliedro che è ogni parola.
Q3 §74 Giulio Bertoni e la linguistica. Bisognerebbe scrivere una stroncatura del Bertoni come linguista, per gli atteggiamenti assunti ultimamente col suo scritto nel Manualetto di linguistica e nel volumetto pubblicato dal Petrini (vedi brano pubblicato dalla «Nuova Italia» dell’agosto 1930). Mi pare si possa dimostrare che il Bertoni né è riuscito a dare una teoria generale delle innovazioni portate dal Bartoli nella linguistica, né è riuscito a capire in che consistano queste innovazioni e quale sia la loro importanza pratica e teorica.
Del resto nell’articolo pubblicato qualche anno fa nel «Leonardo» sugli studi linguistici in Italia egli non distingue per nulla il Bartoli dalla comune schiera e anzi per il gioco dei chiaroscuri lo mette in seconda linea, a differenza del Casella che nel recente articolo sul «Marzocco» a proposito della Miscellanea Ascoli, pone in rilievo l’originalità del Bartoli: nell’articolo bertoniano del «Leonardo» è da rilevare come il Campus appaia addirittura superiore al Bartoli, quando i suoi studi sulle velari ario europee non sono che piccoli saggi in cui si applica puramente e semplicemente il metodo generale del Bartoli e furono dovuti ai suggerimenti del Bartoli stesso; è il Bartoli che disinteressatamente ha messo in valore il Campus e ha sempre cercato di metterlo in prima linea: il Bertoni, forse non senza accademica malizia, in un articolo come quello del «Leonardo» in cui occorreva quasi contare le parole dedicate a ogni studioso, per dare una giusta prospettiva, ha combinato le cose in modo che il Bartoli è messo in un cantuccio. Errore del Bartoli di aver collaborato col Bertoni nella compilazione del Manualetto, e dico errore e responsabilità scientifica. Il Bartoli è apprezzato per i suoi lavori concreti: lasciando scrivere al Bertoni la parte teorica induce in errore gli studenti e li spinge su una falsa strada: in questo caso la modestia e il disinteresse diventano una colpa.
D’altronde il Bertoni, se non ha capito il Bartoli, non ha nemmeno capito l’estetica del Croce, nel senso che dall’estetica crociana non ha saputo derivare dei canoni di ricerca e di costruzione della scienza del linguaggio, ma non ha fatto che parafrasare, esaltare, liricizzare delle impressioni: si tratta di un positivista sostanziale che si sdilinquisce di fronte all’idealismo perché questo è più di moda e permette di fare della retorica. Fa meraviglia che il Croce abbia lodato il Manualetto, senza vedere e far notare le incongruenze del Bertoni: mi pare che il Croce abbia più di tutto voluto prender atto benevolmente che in questo ramo degli studi, dove il positivismo trionfa, si cerchi di iniziare una via nuova nel senso idealistico. A me pare che tra il metodo del Bartoli e il crocismo non ci sia nessun rapporto di dipendenza immediata: il rapporto è con lo storicismo in generale, non con una particolare forma di storicismo. L’innovazione del Bartoli è appunto questa, che della linguistica, concepita grettamente come scienza naturale, ha fatto una scienza storica, le cui radici sono da cercare «nello spazio e nel tempo» e non nell’apparato vocale fisiologicamente inteso.
Bisognerebbe stroncare il Bertoni non solo in questo campo: la sua figura di studioso mi è sempre stata ripugnante intellettualmente: c’è in essa qualcosa di falso, di non sincero nel senso letterale della parola; oltre alla prolissità e alla mancanza di «prospettiva» nei valori storici e letterari.
Nella «linguistica» è crociano il Vossler, ma che rapporto esiste tra il Bartoli e il Vossler e tra il Vossler e quella che si chiama comunemente «linguistica»? Ricordare a questo proposito l’articolo del Croce Questa tavola rotonda è quadrata (nei Problemi di Estetica) dalla cui critica bisogna prendere le mosse per stabilire i concetti esatti in questa quistione.
Q3 §75 Utopie e romanzi filosofici. Articolo di Ezio Chiòrboli su Anton Francesco Doni nella Nuova Antologia del 1° maggio 1928: profilo interessante del Doni, pubblicista del Cinquecento, spiritoso, caustico, di spiriti moderni. Il Doni si occupò di infiniti problemi di ogni genere, precorrendo molte innovazioni scientifiche: scrittore popolarissimo. Materialista: accenna all’importanza dell’angolo facciale e ai segni specifici della delinquenza due secoli prima del Camper e due secoli e mezzo prima del Lavater e del Gall parlò delle funzioni dell’intelletto e delle parti del cervello a esse deputate.
Scrisse una utopia nel Mondo pazzo o savio – «immaginosa ricostruzione sociale che si pinge di molte delle iridescenze e delle ansie onde s’è arroventato il socialismo odierno» – che forse tolse dalla Utopia di Tommaso Moro. Conobbe l’Utopia: la pubblicò egli stesso nella volgarizzazione del Lando. «Pure l’immaginazione non è più la medesima, come la medesima non è di Platone nella Repubblica né d’altri quali si fossero, oscuri o ignoti; ché egli se la compì, se la rimutò, se la rifoggiò a sua posta, sì che n’ha già avvivata un’altra, sua, proprio sua, della quale tanto è preso che e nei Marmi e via via in più opere e opuscoli esce or in questo e or in quel particolare, in questo o in quel sentimento». Per la bibliografia del Doni cfr l’edizione dei Marmi curata dal Chiòrboli negli «Scrittori d’Italia» del Laterza.
Q3 §76 La quistione della lingua e le classi intellettuali italiane. Per lo sviluppo del concetto che l’Italia realizza il paradosso di un paese giovanissimo e vecchissimo nello stesso tempo (come Lao‑Tse che nasce a 80 anni).
I rapporti tra gli intellettuali e il popolo‑nazione studiati sotto l’aspetto della lingua scritta dagli intellettuali e usata nei loro rapporti e sotto l’aspetto della funzione avuta dagli intellettuali italiani nella Cosmopoli medioevale per il fatto che il Papato aveva sede in Italia (l’uso del latino come lingua dotta è legato al cosmopolitismo cattolico).
Latino letterario e latino volgare. Dal latino volgare si sviluppano i dialetti neolatini non solo in Italia ma in tutta l’area europea romanizzata: il latino letterario si cristallizza nel latino dei dotti, degli intellettuali, il così detto mediolatino (cfr articolo di Filippo Ermini sulla «Nuova Antologia» del 16 maggio 1928), che non può essere in nessun modo paragonato a una lingua parlata, nazionale, storicamente vivente, quantunque non sia neppure da confondersi con un gergo o con una lingua artificiale come l’esperanto. In ogni modo c’è una frattura tra il popolo e gli intellettuali, tra il popolo e la cultura. (Anche) i libri religiosi sono scritti in mediolatino, sicché anche le discussioni religiose sfuggono al popolo, quantunque la religione sia l’elemento culturale prevalente: della religione il popolo vede i riti e sente le prediche esortative, ma non può seguire le discussioni e gli sviluppi ideologici che sono monopolio di una casta.
I volgari sono scritti quando il popolo riprende importanza: il giuramento di Strasburgo (dopo la battaglia di Fontaneto tra i successori di Carlomagno) è rimasto perché i soldati non potevano giurare in una lingua sconosciuta, senza togliere validità al giuramento. Anche in Italia le prime tracce di volgare sono giuramenti o attestazioni di testimoni del popolo per stabilire la proprietà dei fondi di convento (Montecassino).
In ogni modo si può dire che in Italia dal 600 d. C., quando si può presumere che il popolo non comprendesse più il latino dei dotti, fino al 1250, quando incomincia la fioritura del volgare, cioè per più di 600 anni, il popolo non comprendesse i libri e non potesse partecipare al mondo della cultura. Il fiorire dei Comuni dà sviluppo ai volgari e l’egemonia intellettuale di Firenze dà una unità al volgare, cioè crea un volgare illustre. Ma cos’è questo volgare illustre? È il fiorentino elaborato dagli intellettuali della vecchia tradizione: è il fiorentino di vocabolario e anche di fonetica, ma è un latino di sintassi. D’altronde la vittoria del volgare sul latino non era facile: i dotti italiani, eccettuati i poeti e gli artisti in generale, scrivevano per l’Europa cristiana e non per l’Italia, erano una concentrazione di intellettuali cosmopoliti e non nazionali.
La caduta dei Comuni e l’avvento del principato, la creazione di una casta di governo staccata dal popolo, cristallizza questo volgare, allo stesso modo che si era cristallizzato il latino letterario. L’italiano è di nuovo una lingua scritta e non parlata, dei dotti e non della nazione. Ci sono in Italia due lingue dotte, il latino e l’italiano, e questo finisce con l’avere il sopravvento, e col trionfare completamente nel secolo XIX col distacco degli intellettuali laici da quelli ecclesiastici (gli ecclesiastici continuano anche oggi a scrivere libri in latino, ma oggi anche il Vaticano usa sempre più l’italiano quando tratta di cose italiane e così finirà col fare per gli altri paesi, coerentemente alla sua attuale politica delle nazionalità).
In ogni modo mi pare sia da fissare questo punto: che la cristallizzazione del volgare illustre non può essere staccata dalla tradizione del mediolatino e rappresenta un fenomeno analogo. Dopo una breve parentesi (libertà comunali) in cui c’è una fioritura di intellettuali usciti dalle classi popolari (borghesi) c’è un riassorbimento della funzione intellettuale nella casta tradizionale, in cui i singoli elementi sono di origine popolare, ma in cui prevale in essi il carattere di casta sull’origine. Non è cioè tutto uno strato della popolazione che arrivando al potere crea i suoi intellettuali (ciò è avvenuto nel Trecento) ma è un organismo tradizionalmente selezionato che assimila nei suoi quadri singoli individui (l’esempio tipico di ciò è dato dall’organizzazione ecclesiastica).
Di altri elementi occorre tener conto in un’analisi compiuta e credo che per molte quistioni la retorica nazionale del secolo scorso e i pregiudizi da essa incarnati non abbiano neanche spinto a fare le ricerche preliminari. Così: quale fu l’area esatta della diffusione del toscano? A Venezia, per esempio, secondo me, fu introdotto già l’italiano elaborato dai dotti sullo schema latino e non ebbe mai entratura il fiorentino originario, nel senso che i mercanti fiorentini non fecero sentire la viva voce fiorentina come a Roma e a Napoli, per esempio: la lingua di governo continuò a essere il veneziano. Così per altri centri (Genova, credo). Una storia della lingua italiana non esiste ancora in questo senso: la grammatica storica non è ancora ciò, anzi. Per la lingua francese esistono di queste storie (quella del Brunot – e del Littré – mi pare sia del tipo che io penso, ma non ricordo). Mi pare che, intesa la lingua come elemento della cultura e quindi della storia generale e come manifestazione precipita della «nazionalità» e «popolarità» degli intellettuali, questo studio non sia ozioso e puramente erudito.
Nel suo articolo, interessante come informazione dell’importanza che ha assunto lo studio del mediolatino (questa espressione, che dovrebbe significare latino medioevale, credo, mi pare abbastanza impropria e possibile causa di errori tra i non specialisti) e a cui potrò rifarmi per una prima bibliografia, oltre che ad altri scritti dell’Ermini che è un mediolatinista, l’Ermini afferma che in base alle ricerche, «alla teoria dei due mondi separati, del latino, che è in mano dei soli dotti e si spegne, e del neolatino, che sorge e s’avviva, bisogna sostituire la teoria dell’unità latina e della continuità perenne della tradizione classica». Ciò può significare solo che la nuova cultura neolatina sentiva fortemente gli influssi della precedente cultura, non che ci sia stata una unità «popolare‑nazionale» di cultura.
Ma forse per l’Ermini mediolatino ha proprio il significato letterale, del latino che sta in mezzo tra quello classico e quello umanistico, che indubbiamente segna un ritorno al classico, mentre il mediolatino ha caratteri propri, inconfondibili: l’Ermini fa incominciare il mediolatino verso la metà del secolo IV, quando avviene l’alleanza tra la cultura (!) classica e la religione cristiana, quando «una nobile pleiade di scrittori, uscendo dalle scuole di retorica e di poetica, sente vivo il desiderio di congiungere la fede nuova alla bellezza (!) antica e così dar vita alla prima poesia cristiana». (Mi pare giusto far risalire il mediolatino al primo rigoglio di letteratura cristiana latina, ma il modo di esporne la genesi mi pare vago e arbitrario – cfr la storia della letteratura latina del Marchesi per questo punto –).
Il mediolatino sarebbe quindi compreso tra la metà del sec. IV e la fine del secolo XIV, tra l’inizio dell’ispirazione cristiana e il diffondersi dell’umanesimo. Questi mille anni sono dall’Ermini suddivisi così: prima età delle origini, dalla morte di Costantino alla caduta dell’Impero d’Occidente (337‑476); seconda età, della letteratura barbarica, dal 476 al 799, cioè fino alla restaurazione dell’impero per opera di Carlo Magno, vero tempo di transizione nel continuo e progressivo latinizzarsi dei barbari (esagerato: del formarsi uno strato di intellettuali germanici che scrivono in latino); una terza età: del Risorgimento carolino, dal 799 all’888, alla morte di Carlo il Grosso; una quarta, della letteratura feudale, dall’888 al 1000, fino al pontificato di Silvestro II, quando il feudalesimo, lenta trasformazione di ordinamenti preesistenti, apre un’era nuova; una quinta, della letteratura scolastica, che corre sino alla fine del secolo XII, quando il sapere si raccoglie nelle grandi scuole e il pensiero e il metodo filosofico feconda tutte le scienze, e una sesta, della letteratura erudita, dal principio del XIII al termine del XIV e che accenna già alla decadenza.
Q3 §77 Il clero, la proprietà ecclesiastica e le forme affini di proprietà terriera o mobiliare. Il clero come tipo di stratificazione sociale deve essere tenuto sempre presente nell’analizzare la composizione delle classi possidenti e dirigenti. Il liberalismo nazionale ha distrutto in una serie di paesi la proprietà ecclesiastica, ma è stato impotente a impedire che tipi affini si riformassero e ancora più parassitari, perché i rappresentanti di esso non svolgevano e non svolgono neppure quelle funzioni sociali che svolgeva il clero: beneficenza, cultura popolare, assistenza pubblica ecc. Il costo di questi servizi era certamente enorme, tuttavia essi non erano completamente passivi. Le nuove stratificazioni sono ancor più passive, perché non si può dire che sia normale una funzione di questo genere: per effettuare un risparmio di 1000 lire l’anno una famiglia di «produttori di risparmio» ne consuma 10 000 costringendo alla denutrizione una decina di famiglie di contadini ai quali estorce la rendita fondiaria e altri profitti usurari. Sarebbe da vedere se queste 11 000 lire immesse nella terra non permetterebbero un’accumulazione maggiore di risparmio, oltre all’elevato tenore di vita nei contadini e quindi a un loro sviluppo intellettuale e produttivo‑tecnico.
In che misura negli Stati Uniti si sta formando una proprietà ecclesiastica propriamente detta, oltre alla formazione di proprietà del tipo ecclesiastico? e ciò nonostante le nuove forme di risparmio e di accumulazione rese possibili dalla nuova struttura industriale.
Q3 §78 I nipotini di padre Bresciani. I romanzi popolari d’appendice. Diversità di questi romanzi: tipo Victor Hugo ‑ Sue (Miserabili‑Misteri di Parigi) a carattere spiccatamente ideologico‑politico di tendenza democratica, legato alle ideologie quarantottesche; il tipo sentimentale‑popolare (Richebourg‑Decourcelle, ecc.); il puro intrigo con contenuto ideologico conservatore (Montépin). Il romanzo storico. Dumas ‑ Ponson du Terrail ecc. Il romanzo poliziesco col suo pendant (Lecocq ‑ Rocambole ‑ Sherlock Holmes ‑ Arsenio Lupin). Il romanzo misterioso (fantasmi ecc. ‑ Radcliffe ecc.). il romanzo scientifico d’avventura o semplicemente d’intrigo (Verne‑Boussenard).
Ognuna di queste categorie ha molte varietà, secondo i paesi (in America il romanzo d’avventura è il romanzo dei pionieri ecc.). Si può vedere come nella produzione d’insieme di un paese sia implicito un sentimento nazionale, ma non retorico, abilmente insinuato nel racconto (nel Verne e nei francesi il sentimento antinglese, legato alla perdita delle colonie e al bruciore per le sconfitte marittime ecc.).
In Italia nessuno di questi tipi ha avuto dei rappresentanti di qualche valore (non valore letterario, ma valore commerciale, di invenzione, di costruzione pratica di intrighi macchinosi ma elaborati con una certa razionalità). Neanche il romanzo poliziesco, che è diventato internazionale, ha dei rappresentanti in Italia.
Il curioso è che molti romanzi, specialmente storici, hanno preso l’argomento in Italia. Così Venezia, col suo Consiglio dei dieci, con la sua organizzazione tribunalizia‑poliziesca, ha dato e continua a dare argomento di romanzi popolari. Lo stesso si dica per i briganti, se ne togli i libercoli popolari pietosissimi.
L’ultimo tipo di libro popolare è la Vita romanzata, che in ogni modo rappresenta un qualcosa di superiore al Dumas: anche questa letteratura non ha in Italia rappresentanti (il Mazzucchelli? Non ho letto nulla), o almeno non sono paragonabili per numero, fecondità, e anche dati di piacevolezza letteraria ai francesi, ai tedeschi, agli inglesi. Il letterato italiano non scriverebbe una biografia romanzata di Masaniello o di Cola di Rienzo senza inzepparla di stucchevoli pezze d’appoggio retoriche, perché non si creda... non si pensi... ecc. ecc. Così avverrà che queste vite saranno scritte da stranieri (vedi Bianca Capello). È vero che in questi ultimi tempi sono state iniziate molte collane biografiche, ma si tratta di libri che stanno alle vite romanzate come la Monaca di Monza sta al Conte di Montecristo. È sempre il vecchio schema biografico che può trovare qualche migliaio di lettori nel caso migliore, ma non diventare popolare.
È da notare che alcuni tipi di questo romanzo popolare hanno il tipo corrispondente nel teatro e nel cinematografo. Nel teatro devo aver notato altrove come il Niccodemi abbia saputo trovare spunti popolari: Scampolo, l’Aigrette, la Volata ecc., onde il suo grande successo. Anche il Forzano deve aver dato qualcosa del genere, nel campo storico: episodi della Rivoluzione francese, ecc. ma con più pedanteria e provincialismo. In questo reparto del teatro si potrebbe notare come Ibsen, in alcuni drammi, come Casa di bambola piaccia molto al pubblico popolare in quanto i sentimenti rappresentati e la tendenza trovano risonanza nella psicologia popolare: cosa dovrebbe essere poi il così detto teatro di idee se non questo, la rappresentazione di passioni legate ai costumi moderni con soluzioni che rappresentano lo sviluppo storico ecc. solo che queste passioni e queste soluzioni devono essere rappresentate e non essere una tesi, un discorso di propaganda, cioè l’autore deve vivere nel mondo reale moderno e non assorbire sentimenti libreschi.
Q3 §79 La quistione della lingua. Ettore Veo, in un articolo della Nuova Antologia, del 16 giugno 1928, Roma nei suoi fogli dialettali, nota come il romanesco rimanesse a lungo costretto nell’ambito del volgo, schiacciato dal latino. «Ma già in movimenti rivoluzionari il volgo, come succede, cerca di passare – o lo si fa passare – in primo piano». Il Sacco di Roma trova scrittori in dialetto, ma specialmente la Rivoluzione francese. (Di qui comincia di fatto la fortuna «scritta» del romanesco e la fioritura dialettale che culmina nel periodo liberale di Pio IX fino alla caduta della Repubblica Romana). Nel 47‑49 il dialetto è arma dei liberali, dopo il 70 dei clericali.
Q3 §80 Il particolare chauvinisme italiano trova una sua manifestazione nella letteratura che rivendica le invenzioni, le scoperte scientifiche. Parlo dello «spirito» con cui queste rivendicazioni sono fatte, non del fenomeno in sé: non si tratta, insomma, di contributi... alla storia della tecnica e della scienza, ma di «pezzi» giornalistici di colore sciovinistico. Penso che molte rivendicazioni sono... oziose, nel senso che non basta aver avuto uno spunto, ma occorre saperne trarre tutte le conseguenze e applicazioni pratiche. Altrimenti si arriverebbe alla conclusione che non è stato mai inventato nulla, perché... i cinesi conoscevano già tutto. Per molte rivendicazioni questi specialisti (come il Savorgnan di Brazzà) di glorie nazionali non s’accorgono di far fare all’Italia la funzione della Cina.
A questo spunto si può riunire tutta la letteratura sulla patria di Cristoforo Colombo. A me pare che si tratti di una letteratura completamente inutile e oziosa. La quistione dovrebbe essere posta così: perché nessuno Stato italiano aiutò Cristoforo Colombo o perché Colombo non si rivolse a nessuno Stato italiano? In che consiste dunque l’elemento «nazionale» della scoperta dell’America? La nascita di Cristoforo Colombo in un punto dell’Europa piuttosto che in un altro ha un valore episodico e casuale, poiché egli stesso non si sentiva legato a uno Stato italiano. La quistione, secondo me, dovrebbe essere definita storicamente fissando che l’Italia ebbe per molti secoli una funzione internazionale‑europea. Gli intellettuali e gli specialisti italiani erano cosmopoliti e non italiani, non nazionali. Uomini di Stato, capitani, ammiragli, scienziati, navigatori italiani non avevano un carattere nazionale ma cosmopolita. Non so perché questo debba diminuire la loro grandezza o menomare la storia italiana, che è stata quello che è stata e non la fantasia dei poeti o la retorica dei declamatori: avere una funzione europea, ecco il carattere del «genio» italiano dal Quattrocento alla rivoluzione francese.
Q3 §81 Federico Confalonieri. Per capire l’impressione penosa che produceva tra gli esuli italiani l’atteggiamento di inerzia del Confalonieri durante la sua dimora all’estero dopo la liberazione dallo Spielberg occorre tener presente un brano della lettera scritta da Mazzini a Filippo Ugoni il 15 novembre 38 e pubblicata da Ugo Da Como nella «Nuova Antologia» del 16 giugno 1928 (Lettera inedita di Giuseppe Mazzini): «Mi sorprende che Confalonieri rientri. Quando tu mi parli della guerra che susciterebbe nel mio cuore il pensiero di mia madre, di mio padre, della sorella che mi rimane, dici il vero; ma Confalonieri da che affetto prepotente è egli richiamato in Italia? dopo la morte di Teresa sua moglie? Non capisco la vita se non consacrata al dovere, o all’amore ch’è anch’esso un dovere. Intendo, senza approvare o disapprovare, l’individuo che rinunzia alla lotta pel vero e pel bene a fronte della felicità o infelicità di persone care e sacre; non intendo chi vi rinunzia per vivere, come si dice, quieto; otto o dieci anni di vita d’individualismo, di sensazioni che passano e non producono cosa alcuna per altri, conchiusi dalla morte, mi paiono cosa spregevole per chi non ha credenza di vita futura, più che spregevole rea forse per chi ne ha. Confalonieri, solo, in età già inoltrata, senza forti doveri che lo leghino a una famiglia di esseri amati, dovrebbe, secondo me, aver tutto a noia fuorché la idea di contribuire all’emancipazione del suo paese e alla crociata contro l’Austria».
Il Da Como nella sua introduzione‑commento alla lettera del Mazzini, così scrive: «E per questo è pure nella nostra lettera un accorato pensiero per Federico Confalonieri. Egli era passato da Londra, un anno prima, diretto in Francia: Mazzini aveva saputo che era mesto e silenzioso, ma i patimenti, secondo lui, non dovevano mutare il fondo dell’anima. Lo seguiva con trepidazione perché voleva che fosse sempre un’alta diritta figura, un esempio. Pensava che se egli stesso fosse uscito dallo Spielberg, trovandosi un deserto d’intorno, non avrebbe ad altro inteso che al modo di ritentare qualche cosa a prò dell’antica idea e finirvi. Non voleva che supplicasse, che volesse e ottenesse il ritorno chi aveva sofferto quindici anni senza avvilirsi, senza indizi di cangiamento. Voleva che fosse sempre un nuovo Farinata degli Uberti, come lo raffigurò Gabriele Rosa, affettuoso e costante esaltatore, sino all’ultimo, del suo compagno di prigionia». Il Da Como è completamente fuori strada e le parole del Mazzini, altro che accorate, sono aspre e dure. L’agiografia impedisce di vedere la storia.
(Nell’epistolario del Mazzini ci sono altri accenni al Confalonieri? E nelle lettere di altri esuli? Il giudizio reale bisogna appunto cercarlo in queste lettere private, perché difficilmente i fuorusciti avranno in scritti dedicati al pubblico voluto gettare ombre sul Confalonieri. Un’altra ricerca interessante è da farsi negli scritti degli agenti provocatori dell’Austria).
Q3 §82 Cultura storica italiana e francese. La cultura storica e la cultura generale francese ha potuto svilupparsi e diventare «popolare‑nazionale» per la stessa complessità e varietà della storia politica francese negli ultimi 150 anni. La tendenza dinastica si è dissolta per il succedersi di tre dinastie antagoniste tra loro in modo radicale: legittimista, liberale‑conservatrice, militare‑plebiscitaria e per il succedersi di governi repubblicani anch’essi differenziati fortemente: il giacobino, il radicale socialista e l’attuale. È impossibile una «agiografia» nazionale unilineare: ogni tentativo di questo genere appare subito settario, sforzato, utopistico, antinazionale perché è costretto a tagliare via o a sottovalutare pagine incancellabili della storia nazionale (vedi l’attuale tendenza Maurras e la misera storia di Francia del Bainville). Per questa ragione il protagonista della storia francese è diventato l’elemento permanente di queste variazioni politiche, il popolo‑nazione; quindi un tipo di nazionalismo politico e culturale che sfugge ai limiti dei partiti propriamente nazionalistici e che impregna tutta la cultura, quindi una dipendenza e un collegamento stretto tra popolo‑nazione e intellettuali.
Niente di simile in Italia, in cui nel passato occorre ricercare col lanternino il sentimento nazionale, facendo distinzioni, interpretando, tacendo ecc., in cui se si esalta Ferrucci occorre spiegare Maramaldo, se si esalta Firenze occorre giustificare Clemente VII e il papato, se si esalta Milano e la Lega occorre spiegare Como e le città favorevoli al Barbarossa, se si esalta Venezia occorre spiegare Giulio II ecc. Il preconcetto che l’Italia sia sempre stata una nazione complica tutta la storia e domanda acrobazie intellettuali antistoriche. Perciò nella storia del secolo XIX non ci poteva essere unità nazionale, mancando l’elemento permanente, il popolo‑nazione. La tendenza dinastica da una parte doveva prevalere dato l’apporto che le dava l’apparato statale e le tendenze politiche più opposte non potevano avere un minimo comune di obbiettività: la storia era propaganda politica, tendeva a creare l’unità nazionale, cioè la nazione, dall’esterno contro la tradizione, basandosi sulla letteratura, era un voler essere, non un dover essere perché esistono già le condizioni di fatto. Per questa loro stessa posizione, gli intellettuali dovevano distinguersi dal popolo, mettersene fuori, creare tra di loro o rafforzare lo spirito di casta, e nel loro fondo diffidare del popolo, sentirlo estraneo, averne paura, perché in realtà era qualcosa di sconosciuto, una misteriosa idra dalle innumerevoli teste.
Mi pareva che attualmente ci fosse qualche condizione per superare questo stato di cose, ma essa non è stata sfruttata a dovere e la retorica ha ripreso il sopravvento (l’atteggiamento incerto nell’interpretare Caporetto offre un esempio di questo attuale stato di cose, così la polemica sul Risorgimento e ultimamente sul Concordato). Non bisogna negare che molti passi in avanti sono stati compiuti in tutti i sensi, però: sarebbe un cadere in una retorica opposta. Anzi, specialmente prima della guerra, molti movimenti intellettuali erano rivolti a svecchiare e sretorizzare la cultura e ad avvicinarla al popolo, cioè a nazionalizzarla. (Nazione-popolo e nazione‑retorica si potrebbero dire le due tendenze).
(Su questo ultimo argomento cfr Volpe, L’Italia in cammino, dove molte inesattezze di fatto e di proporzioni e dove si osserva il nascere di una nuova retorica; il libro di Croce, La Storia d’Italia, dove difetti di altro genere ma non meno pericolosi, perché la storia viene vanificata nell’astrazione dei concetti; e i libri di Prezzolini sulla cultura italiana).
Q3 §83 Passato e presente. Scuola di giornalismo di Ermanno Amicucci, nella «Nuova Antologia» del 10 luglio 1928. Credo che l’articolo sia poi stato raccolto con altri in un volume.
L’articolo è interessante per le informazioni e gli spunti che dà. La quistione in Italia è più complessa di quanto non paia leggendo l’Amicucci e io credo che i risultati delle iniziative scolastiche non saranno molto grandi. Ma il principio di insegnare il giornalismo e di non lasciare che il giornalista si formi da sé attraverso la pratica è vitale e si andrà sempre più imponendo, a mano a mano che il giornalismo diventa un’industria complessa e un organismo più responsabile.
La quistione in Italia trova i suoi limiti nel fatto che non esistono grandi concentrazioni giornalistiche, per il decentramento della vita nazionale, e che i giornali sono pochi. Il personale giornalistico è scarso e quindi si alimenta normalmente attraverso le sue stesse gradazioni di importanza: i giornali meno importanti servono da scuola per i giornali più importanti e reciprocamente. Un redattore di secondo ordine del «Corriere» diventa direttore o redattore capo di un giornale di provincia; un redattore di primo ordine di un giornale di provincia diventa redattore di secondo ordine di un grande giornale ecc. Non esistono in Italia centri come Parigi, Londra, Berlino ecc., che accolgono migliaia di giornalisti, costituenti una vera categoria professionale economicamente importante, e le retribuzioni in Italia, come media, sono molto basse: in Germania poi il numero dei giornali che si pubblicano in tutto il paese è imponente e alla concentrazione di Berlino corrisponde un’ampia stratificazione nazionale.
Mi pare che, per certi tipi di giornale, il problema deve essere risolto nella stessa redazione, trasformando le riunioni periodiche redazionali in scuola organica di giornalismo, ad assistere alle cui lezioni dovrebbero essere invitati estranei: giovani e studenti, fino ad assumere il carattere di vere scuole politico‑giornalistiche, con lezioni generali (di storia, di economia, di diritto costituzionale ecc.) affidati a estranei competenti ma che sappiano investirsi dei bisogni del giornale. Ogni redattore del giornale, fino ai reporters, dovrebbe essere messo in grado di fare tutte le parti del giornale, così come, subito, ogni redattore dovrebbe diventare un reporter, cioè dare tutta la sua vita al giornale, ecc.
Q3 §84 La morte di Vittorio Emanuele II. In una lettera di Guido Baccelli a Paulo Fambri, del 12 agosto (forse 1880, manca l’anno e 1880 è un’ipotesi del Guidi) pubblicata da Angelo Flavio Guidi (L’Archivio inedito di Paulo Fambri, «Nuova Antologia» del 16 giugno 1928) è scritto: «Il cuore di tutta Italia sanguina ancora al ricordo della morte del glorioso Vittorio Emanuele: quella immensa sciagura però poteva essere cento volte più grande se non si fossero guadagnate colla aspirazione dell’ossigeno parecchie ore di vita». (Seguono puntini, dell’editore Guidi, perché completano tutta la riga, non sono cioè i soliti puntini di sospensione). Cosa significa?
Q3 §85 Arturo Graf. Se occorrerà di scrivere di Giovanni Cena e del suo programma sociale, bisognerà ricordare il Graf e la sua crisi spirituale che lo riportò alla religione o per lo meno al teismo. (Cfr O. M. Barbano, Per una fede, Da lettere inedite di Arturo Graf, nella Nuova Antologia del 16 luglio 1928. Il Barbano era un allievo e amico del Graf e pubblica i brani delle lettere dal Graf scrittegli intorno alla sua crisi e al suo volumetto Per una fede che ebbe ripercussioni scarse all’infuori dei famigliari). In queste lettere sono interessanti alcuni accenni ai rapporti tra il Graf e il modernismo (conosciuto attraverso la rivista «Il Rinnovamento») per cui si potrebbe forse dire che la crisi del Graf è legata alla crisi generale del tempo, manifestatasi in certi gruppi intellettuali, scontenti della «scienza», ma scontenti anche della religione ufficiale.
Q3 §86 Lorianismo. Alfredo Trombetti. Per molti aspetti può esser fatto rientrare nel lorianismo, sempre con l’avvertenza che ciò non significa un giudizio complessivo su tutta la sua opera ma un semplice giudizio di squilibrio tra la «logicità» e il contenuto concreto dei suoi studi. Il Trombetti era un formidabile poliglotta, ma non è un glottologo, o almeno il suo glottologismo non si identificava con il suo poliglottismo: la conoscenza materiale di innumerevoli lingue gli prende la mano sul metodo scientifico.
Inoltre egli era un illuminato: la teoria della monogenesi del linguaggio era la prova della monogenesi dell’umanità, con Adamo ed Eva a capostipiti. Perciò i cattolici lo applaudirono ed egli diventò popolare, cioè fu «legato» alla sua teoria da un punto d’onore non scientifico ma ideologico. Negli ultimi tempi ebbe riconoscimenti ufficiali e fu esaltato dai giornali quotidiani come una gloria nazionale, specialmente per l’annunzio dato a un Congresso Internazionale di Linguistica (dell’Aja, ai primi del 28) della decifrazione dell’Etrusco. Mi pare però che l’Etrusco continui a essere indecifrato come prima e che tutto si riduca a un ennesimo tentativo fallito.
Nella Nuova Antologia del 16 luglio 1928, è pubblicato un articolo di Pericle Ducati, Il Primo Congresso Internazionale Etrusco 27 aprile ‑ 3 maggio 1928 in cui si parla in modo molto strano, ma up to date, della «scoperta» del Trombetti. A p. 199 si parla di «conseguita decifrazione» dell’etrusco, «mercè soprattutto gli sforzi di un Italiano, di Alfredo Trombetti». A p. 204 la «conseguita decifrazione» è invece ridotta a «un passo gigantesco nella interpretazione dell’etrusco». La tesi del Trombetti è questa, già fissata da lui nel Convegno Nazionale Etrusco del 1926: l’etrusco è una lingua intermedia, insieme ad altri idiomi dell’Asia Minore e pre‑ellenici, tra il gruppo caucasico e il gruppo arioeuropeo con maggiori affinità con quest’ultimo; perciò il lemnio, quale appare dalle due iscrizioni della stele famosa, e l’etrusco quasi s’identificano. Questa tesi rientra nel sistema generale del Trombetti che presuppone provata la monogenesi e quindi ha una base molto fragile. E ancora, presuppone certa l’origine transmarina degli Etruschi, mentre questa opinione, se è la più diffusa, non è universale: Gaetano De Sanctis e Luigi Pareti sostengono invece l’origine transalpina e non sono due studiosi da disprezzare.
Al Congresso Internazionale Etrusco il Trombetti è passato alla più precisa determinazione della grammatica ed alla ermeneutica dei testi, saggio del suo libro La lingua etrusca uscito poco dopo. Ebbe grande successo. Contraddittori, non tra gli stranieri, nota il Ducati, ma tra i nazionali, pur «garbatamente e facendo onore alla eccezionale valentia del Trombetti». «Un giovane ed ormai valoroso glottologo, Giacomo Devoto, si è preoccupato del metodo, ché il rigore del metodo gli è sembrato intaccato dalle investigazioni e dai risultati del Trombetti». Qui il Ducati fa una serie di considerazioni veramente strabilianti sul metodo della glottologia e contro il Devoto, concludendo: «Guardiamo pertanto ai risultati del Trombetti e non sottilizziamo». Si è visto poi cosa voleva dire non sottilizzare.
Nelle scienze in generale il metodo è la cosa più importante: in certe scienze poi, che necessariamente devono basarsi su un corredo ristretto di dati positivi, ristretto e non omogeneo, le quistioni di metodo sono ancor più importanti, se non sono addirittura tutto. Non è difficile con un po’ di fantasia costruire ipotesi su ipotesi e dare un’apparenza brillante di logicità a una dottrina: ma la critica di queste ipotesi rovescia tutto il castello di carta e trova il vuoto sotto il brillante.
Ha il Trombetti trovato un nuovo metodo? Questa è la quistione. Questo nuovo metodo fa progredire la scienza più del vecchio, interpreta meglio ecc.? Niente di tutto ciò. Anche qui appare come il nazionalismo introduca deviazioni dannose nella valutazione scientifica e quindi nelle condizioni pratiche del lavoro scientifico. Il Bartoli ha trovato un nuovo metodo, ma esso non può far chiasso interpretando l’etrusco: il Trombetti invece afferma di aver decifrato l’etrusco, quindi risolto uno dei più grandi e appassionanti enigmi della storia: applausi, popolarità, aiuti economici ecc. Il Ducati ripete, approvando, ciò che gli disse al Congresso un glottologo «assai egregio»: «il Trombetti è un’eccezione: si eleva egli assai al disopra di noi e ciò che a noi non sembra lecito di tentare, a lui è possibile di compiere», e aggiunge le opinioni molto profonde del paleontologo Ugo Antonielli. Per l’Antonielli il Trombetti è un: «gigante buono che addita una diritta e sicura via». E se, come argutamente (!) aggiunge lo stesso Antonielli, il nostro italianissimo Trombetti, «per la supina sensibilità di taluni, si fosse chiamato Von Trombetting ovvero Trombetty...»
Poiché la quistione si poneva così, bisogna convenire che il Devoto e gli altri oppositori furono degli eroi e che c’è qualcosa di sano nella scienza italiana. Il Ducati appoggia questa tendenza nazionalistica nella scienza, senza accorgersi delle contraddizioni in cui cade: se il Trombetti additasse una via diritta e sicura, avrebbe appunto rinnovato o sviluppato e perfezionato il metodo e allora sarebbe lecito tentare a tutti gli studiosi ciò che egli ha fatto. O l’uno o l’altro: o il Trombetti è al di sopra della scienza per sue particolari doti di intuizione o addita una via per tutti. «Caso curioso! Tra i glottologi raccolti a Firenze il Trombetti ha raccolto il plauso più incondizionato tra gli stranieri». E allora perché il Ducati riporta il «Von Trombetting»? O non indica ciò piuttosto che la glottologia italiana è più seria e progredita di quella straniera? Può capitare proprio questo bel caso al nazionalismo scientifico: di non accorgersi delle vere «glorie» nazionali e di essere proprio esso, lo schiavo, il supino servo degli stranieri!
Q3 §87 Per la formazione delle classi intellettuali italiane nell’alto Medioevo bisogna tener conto oltre che della lingua (quistione del Mediolatino) anche e specialmente del diritto. Caduta del diritto romano dopo le invasioni barbariche e sua riduzione a diritto personale e consuetudinario in confronto del diritto longobardo; emersione del diritto canonico che da diritto particolare, di gruppo, assurge a diritto statale; rinascita del diritto romano e sua espansione per mezzo delle Università. Questi fenomeni non avvengono di colpo e simultaneamente ma sono legati allo sviluppo storico generale (fusione dei barbari con le popolazioni locali ecc.). Lo sviluppo del diritto canonico e l’importanza che esso assume nell’economia giuridica delle nuove formazioni statali, il formarsi della mentalità imperiale‑cosmopolita medioevale, lo sviluppo del diritto romano adattato e interpretato per le nuove forme di vita danno luogo al nascere e allo stratificarsi degli intellettuali italiani cosmopoliti.
C’è un periodo, quello dell’egemonia del diritto germanico, in cui però il legame tra il vecchio e il nuovo rimane quasi unicamente la lingua, il Mediolatino. Il problema di questa interruzione ha interessato la scienza e cosa importante ha interessato anche intellettuali come il Manzoni (vedi suoi scritti sui rapporti tra romani e longobardi a proposito dell’Adelchi): cioè ha interessato nel principio del secolo XIX quelli che si preoccupavano della continuità della tradizione italiana dall’antica Roma in poi per costituire la nuova coscienza nazionale.
Sull’argomento generale dell’oscuramento del diritto romano e sua rinascita e dell’emergere del diritto canonico cfr I «due diritti» e il loro odierno insegnamento in Italia di Francesco Brandileone (Nuova Antologia del 16 luglio 1928) per avere alcune idee generali, ma vedere, naturalmente le grandi storie del diritto.
Schema estratto dal saggio del Brandileone:
Nelle scuole dell’Impero Romano a Roma, a Costantinopoli, a Berito, si insegnava solo il diritto romano nelle due positiones di jus publicum e di jus privatum; nel jus publicum era compreso il jus sacrum pagano, finché il paganesimo fu religione tanto dei sudditi che dello Stato. Comparso il Cristianesimo e ordinatosi, nei secoli delle persecuzioni e delle tolleranze, come società a sé, diversa dalla società politica, esso dié luogo a un jus sacrum nuovo. Dopo che il Cristianesimo fu prima riconosciuto e poi elevato dallo Stato a fede unica dell’Impero, il nuovo jus sacrum ebbe bensì appoggi e riconoscimenti da parte del legislatore laico, ma non fu però considerato come l’antico. Poiché il Cristianesimo si era separato dalla vita sociale politica, si era staccato anche dal jus publicum e le scuole non si occupavano del suo ordinamento; il nuovo jus sacrum formò la speciale occupazione delle scuole tutte proprie della società religiosa (questo fatto è molto importante nella storia dello Stato romano ed è ricco di gravi conseguenze, perché inizia un dualismo di potestà che avrà lo sviluppo nel Medio Evo: ma il Brandileone non lo spiega: lo pone come una conseguenza logica dell’originario distacco del Cristianesimo dalla società politica. Benissimo, ma perché diventato il Cristianesimo religione dello Stato come lo era stato il paganesimo, non si ricostituì l’unità formale politico‑religiosa? Questo è il problema).
Durante i secoli dell’alto Medio Evo il nuovo jus sacrum, detto anche jus canonicum o jus ecclesiasticum e il jus romanum furono insegnati in scuole diverse e in scuole di diversa importanza numerica, di diffusione, di attività. Speciali scuole romanistiche, sia che continuassero le antiche scuole sia che fossero sorte allora, in Occidente, si incontrano solo in Italia; se anche fuori d’Italia vi furono le Scholae liberalium artium e se in esse (così come nelle corrispondenti italiane) si impartirono nozioni elementari di diritto laico, specialmente romano, l’attività spiegata fu povera cosa come è attestato dalla scarsa, frammentaria, intermittente e di solito maldestra produzione da esse uscita e giunta sino a noi. Invece le scuole ecclesiastiche, dedicate allo studio e all’insegnamento dei dogmi della fede e insieme del diritto canonico, furono una vera moltitudine, né solo in Italia, ma in tutti i paesi diventati cristiani e cattolici. Ogni monastero e ogni chiesa cattedrale di qualche importanza ebbe la propria scuola: testimonianza di questa attività la ricchezza di collezioni canoniche senza interruzione dal vi all’XI secolo, in Italia, in Africa, Spagna, Francia, Germania, Inghilterra, Irlanda. La spiegazione di questo rigoglio del diritto canonico in confronto di quello romano è legata al fatto che mentre il diritto romano, in quanto continuava a ricevere applicazione in Occidente e in Italia, era degradato a diritto personale, ciò non avveniva per il canonico.
Per il diritto romano, l’essere diventato diritto personale volle dire essere messo in una posizione inferiore a quella spettante alle leggi popolari o Volksrechte, vigenti nel territorio dell’Impero d’Occidente, la cui conservazione e modificazione spettavano non già al potere sovrano, regio o imperiale, o per lo meno non ad esso solo, ma anche e principalmente alle assemblee dei popoli ai quali appartenevano. Invece i sudditi romani dei regni germanici, e poi dell’Impero, non furono considerati come un’unità a sé, ma come singoli individui, e quindi non ebbero una particolare assemblea, autorizzata a manifestare la sua volontà collettiva circa la conservazione e modificazione del proprio diritto nazionale. Sicché fu ridotto il diritto romano a un puro diritto consuetudinario.
Nell’Italia longobarda principi e istituti romani furono accettati dai vincitori ma la posizione del diritto romano non mutò.
La rinnovazione dell’Impero con Carlo Magno non tolse il diritto romano dalla sua posizione d’inferiorità: essa fu migliorata, ma solo tardi e per il concorso di altre cause: in complesso continuò in Italia a rimanere diritto personale fino al secolo XI. Le nuove leggi fatte dai nuovi imperatori, fino a tutto il secolo XI, non furono aggiunte al Corpus giustinianeo, ma all’Editto longobardo, e quindi non furono riguardate come diritto generale obbligatorio per tutti, ma come diritto personale proprio dei viventi a legge longobarda.
Per il diritto canonico invece la riduzione a diritto personale non avvenne, essendo il diritto di una società diversa e distinta dalla società politica, l’appartenenza alla quale non era basata sulla nazionalità: esso possedeva nei concilii e nei papi il suo proprio potere legislativo. Esso però aveva una sfera di obbligatorietà ristretta. Diventa obbligatorio o perché viene accettato spontaneamente o perché fu accolto fra le leggi dello Stato.
La posizione del diritto romano si venne modificando radicalmente in Italia a mano a mano che dopo l’avvento degli Ottoni l’impero fu concepito più chiaramente ed esplicitamente come la continuazione dell’antico. Fu la scuola pavese che si rese interprete di un tal fatto e proclamò la legge romana omnium generalis, preparando l’ambiente in cui poté sorgere e fiorire la scuola di Bologna e gli imperatori svevi riguardarono il Corpus giustinianeo come il codice loro, al quale fecero delle aggiunte. Questo riaffermarsi del diritto romano non è dovuto a fattori personali: esso è legato al rifiorire dopo il mille della vita economica, dell’industria, del commercio, del traffico marittimo. Il diritto germanico non si prestava a regolare giuridicamente la nuova materia e i nuovi rapporti.
Anche il diritto canonico subisce dopo il mille un cambiamento.
Coi Carolingi alleati al papato viene concepita la monarchia universale abbracciante tutta l’umanità, diretta concordemente dall’Imperatore nel temporale e dal Papa nello spirituale. Ma questa concezione non poteva delimitare a priori il campo soggetto a ciascuna potestà e lasciava all’Imperatore una larga via d’intervento nelle faccende ecclesiastiche. Quando i fini dell’Impero, già sotto gli stessi Carolingi e poi sempre più in seguito, si mostrarono discordanti da quelli della Chiesa e lo Stato mostrò di tendere all’assorbimento della gerarchia ecclesiastica nello Stato, incominciò la lotta che si chiuse al principio del secolo XII colla vittoria del Papato. Fu proclamata la primazia dello spirituale (sole-luna) e la Chiesa riacquistò la libertà della sua azione legislativa ecc. ecc. Questa concezione teocratica fu combattuta teoricamente e praticamente, ma tuttavia essa, nella sua forma genuina o attenuata, rimase dominatrice per secoli e secoli. Così si ebbero due tribunali, il sacramentale e il non sacramentale, e così i due diritti furono accoppiati, utrumque ius, ecc.
Q3 §88 La ricerca della formazione storica degli intellettuali italiani porta così a risalire fino ai tempi dell’Impero romano, quando l’Italia, per avere nel suo territorio Roma, diventa il crogiolo delle classi colte di tutti i territori imperiali. Il personale dirigente diventa sempre più imperiale e sempre meno latino, diventa cosmopolita: anche gli imperatori non sono latini ecc.
C’è dunque una linea unitaria nello sviluppo delle classi intellettuali italiane (operanti nel territorio italiano) ma questa linea di sviluppo è tutt’altro che nazionale: il fatto porta a uno squilibrio interno nella composizione della popolazione che vive in Italia ecc.
Il problema di ciò che sono gli intellettuali può essere mostrato in tutta la sua complessità attraverso questa ricerca.
Q3 §89 Lorianismo. A questa corrente occorre collegare la famosa controversia sui libri perduti di Tito Livio che sarebbero stati ritrovati a Napoli qualche anno fa da un professore che acquistò così qualche istante di celebrità forse non desiderata. Secondo me le cause di questo scandaloso episodio sono da ricercare negli intrighi del prof. Francesco Ribezzo e nella abulia del professore in parola di cui non ricordo il nome. Questo professore pubblicava una rivista, il prof. Ribezzo un’altra rivista concorrente, ambedue inutili o quasi (ho visto la rivista del Ribezzo per molti anni e ho conosciuto il Ribezzo per quello che vale): i due si contendevano una cattedra all’Università di Napoli. Fu il Ribezzo a pubblicare nella sua rivista l’annunzio della scoperta fatta (!) dal collega, che così si trovò fatto centro della curiosità dei giornali e del pubblico e fu liquidato scientificamente e moralmente. Il Ribezzo non ha nessuna capacità scientifica: quando lo conobbi io, nel 1910‑11 aveva dimenticato il greco e il latino quasi completamente ed era uno «specialista» di linguistica comparata arioeuropea. Questa sua ignoranza risaltava così manifesta che il Ribezzo ebbe frequenti conflitti violenti con gli allievi. Al Liceo di Palermo fu implicato nello scandalo dell’uccisione di un professore da parte di uno studente (mi pare nel 1908 o nel 1909). Mandato a Cagliari in punizione entrò in conflitto con gli studenti, conflitto che nel 1912 diventò acuto, con polemiche nei giornali, minacce di morte al Ribezzo ecc. che fu dovuto trasferire a Napoli. Il Ribezzo doveva essere fortemente sostenuto dalla camorra universitaria napoletana (Cocchia e C.). Partecipò al concorso per la cattedra di glottologia dell’Università di Torino: poiché fu nominato il Bartoli, fece una pubblicazione ridevole ecc.
Q3 §90 Storia delle classi subalterne (cfr a pp. 10 e 12). La unificazione storica delle classi dirigenti è nello Stato e la loro storia è essenzialmente la storia degli Stati e dei gruppi di Stati. Questa unità deve essere concreta, quindi il risultato dei rapporti tra Stato e «società civile». Per le classi subalterne l’unificazione non avviene: la loro storia è intrecciata a quella della «società civile», è una frazione disgregata di essa. Bisogna studiare: 1) il formarsi obbiettivo per lo sviluppo e i rivolgimenti, avvenuti nel mondo economico, la loro diffusione quantitativa e l’origine da altre classi precedenti; 2) il loro aderire alle formazioni politiche dominanti passivamente o attivamente, cioè tentando di influire sui programmi di queste formazioni con rivendicazioni proprie; 3) nascita di partiti nuovi della classe dominante per mantenere il controllo delle classi subalterne; 4) formazioni proprie delle classi subalterne di carattere ristretto e parziale; 5) formazioni politiche che affermano l’autonomia di esse ma nel quadro vecchio; 6) formazioni politiche che affermano l’autonomia integrale, ecc. La lista di queste fasi può essere ancora precisata con fasi intermedie o con combinazioni di più fasi. Lo storico nota la linea di sviluppo verso l’autonomia integrale, dalle fasi più primitive. Perciò, anche la storia di un Partito di queste classi è molto complessa, in quanto deve includere tutte le ripercussioni della sua attività per tutta l’area delle classi subalterne nel loro complesso: tra queste una eserciterà già una egemonia, e ciò occorre fissare studiando gli sviluppi anche di tutti gli altri partiti in quanto includono elementi di questa classe egemone o delle altre classi subalterne che subiscono questa egemonia.
Un canone di ricerca storica si potrebbe costruire studiando la storia della borghesia in questo modo (queste osservazioni si collegano alle sul Risorgimento): la borghesia ha preso il potere lottando contro determinate forze sociali aiutata da determinate altre forze; per unificarsi nello Stato doveva eliminare le une e avere il consenso attivo o passivo delle altre. Lo studio del suo sviluppo di classe subalterna deve dunque ricercare le fasi attraverso cui ha conquistato un’autonomia in confronto dei nemici futuri da abbattere e ha conquistato l’adesione di quelle forze che l’hanno aiutata attivamente o passivamente in quanto senza questa adesione non avrebbe potuto unificarsi nello Stato. Il grado di coscienza cui era arrivata la borghesia nelle varie fasi si misura appunto con questi due metri e non solo con quello del suo distacco dalla classe che la dominava; di solito appunto si ricorre solo a questo e si ha una storia unilaterale o talvolta non si capisce nulla, come nel caso della storia italiana dai Comuni in poi: la borghesia italiana non seppe unificare il popolo, ecco una causa delle sue sconfitte e delle interruzioni del suo sviluppo: anche nel Risorgimento questo «egoismo» ristretto impedì una rivoluzione rapida e vigorosa come quella francese.
Ecco una delle quistioni più importanti e delle cause di difficoltà nel fare la storia delle classi subalterne.
Q3 §91 I nipotini di Padre Bresciani. La fiera del libro. Poiché il
popolo non va al libro, il libro andrà al popolo. Questa iniziativa è
dovuta alla «Fiera Letteraria» e al suo direttore d’allora, Umberto
Fracchia, che la lanciò e attuò nel 1927 a Milano. L’iniziativa in sé
non è cattiva e può dare qualche piccolo risultato. La questione però
rimane sempre la stessa: che il libro deve diventare intimamente
nazionale‑popolare per andare al popolo e non solo andare al popolo
«materialmente» con le bancarelle e gli strilloni ecc.
Q3 §92 Federico Confalonieri. Il Confalonieri prima di andare allo Spielberg e dopo la liberazione prima di andare nel carcere di Gradisca per essere poi deportato, andò a Vienna. Vedere se anche in questo secondo soggiorno a Vienna, fatto per ragioni di salute, ebbe contatti con uomini politici austriaci.
Q3 §93 Giovanni Cena. Sull’attività svolta dal Cena per le scuole dei contadini dell’Agro Romano cfr le pubblicazioni di Alessandro Marcucci.
Q3 §94 I nipotini di padre Bresciani. Polifilo (Luca Beltrami). Per rintracciare gli scritti brescianeschi del Beltrami (I popolari di Casate Olona ecc. pubblicati nel «Romanzo Mensile», nella «Lettura», ecc.) vedere la Bibliografia degli scritti di Luca Beltrami dal marzo 1881 al marzo 1930, curata da Fortunato Pintor, bibliotecario onorario del Senato, e con prefazione di Guido Mazzoni. Da un cenno bibliografico pubblicato nel «Marzocco» dell’11 maggio 1930 appare che gli scritti sull’ipotetico «Casate Olona» del Beltrami sono stati ben trentacinque (io ne ho letto solo tre o quattro). Il Beltrami ha postillato questa sua Bibliografia e a proposito di «Casate Olona» il «Marzocco» scrive: «... la bibliografia dei trentacinque scritti sull’ipotetico “Casate Olona” gli suggerisce l’idea di ricomporre in unità quelle sue dichiarazioni proposte e polemiche d’indole politicosociale che, male intonate a un regime democratico‑parlamentare, sotto un certo aspetto debbono considerarsi un’anticipazione di cui altri – non il Beltrami – avrebbe potuto menar vanto di antiveggente precursore (!?)». Poiché anche il «Marzocco» si abbandona a queste scurrilità sarebbe interessante ricordare l’atteggiamento assunto dal foglio fiorentino a proposito della fucilazione di F. Ferrer.
Q3 §95 I nipotini di padre Bresciani. Romanzi d’appendice e teatro popolare (dramma da arena, drammone da arena ecc.). (Perché si chiama, precisamente, d’arena, il dramma popolare? Dal fatto delle Arene popolari come l’Arena del Sole di Bologna? Vedere ciò che scrisse Edoardo Boutet sugli spettacoli per le lavandaie che la Compagnia Stabile di Roma diretta dal Boutet dava all’Arena del Sole di Bologna il lunedì – giorno delle lavandaie –. Questo capitolo dei ricordi teatrali del Boutet lo lessi nel «Viandante» di Monicelli, che usciva a Milano nel 1908‑9.
Nel «Marzocco» del 17 novembre 1929 è pubblicata una nota di Gaio (Adolfo Orvieto) molto significativa: «Danton», il melodramma e il «romanzo nella vita». Comincia così: «Una Compagnia drammatica di recente “formazione” che ha messo insieme un repertorio di grandi spettacoli popolari – dal Conte di Montecristo alle Due Orfanelle – con la speranza legittima di richiamare un po’ di gente a teatro, ha visto i suoi voti esauditi – a Firenze – con un novissimo dramma di autore ungherese e di soggetto franco‑rivoluzionario: Danton». Il dramma è di De Pekar ed è «pura favola patetica con particolari fantastici di estrema libertà» (– per es. Robespierre e Saint‑Just assistono al processo di Danton e altercano con lui ecc. –). «Ma è favola, tagliata alla brava, che si vale dei vecchi metodi infallibili del teatro popolare, senza pericolose deviazioni modernistiche. Tutto è elementare, limitato, di taglio netto. Le tinte fortissime e i clamori si alternano alle opportune smorzature e il pubblico respira e consente. Mostra di appassionarsi e si diverte. Che sia questa la strada migliore per riportarlo al teatro di prosa?»
La conclusione dell’Orvieto è significativa. Così nel 1929 per aver pubblico a teatro bisogna rappresentare il Conte di Monte Cristo e le Due Orfanelle e nel 1930 per far leggere i giornali bisogna pubblicare in appendice il Conte di Monte Cristo e Giuseppe Balsamo.
Q3 §96 I nipotini di padre Bresciani. Romanzi popolari. Ricerche statistiche: quanti romanzi italiani hanno pubblicato i periodici popolari più diffusi? Il «Romanzo Mensile», la «Domenica del Corriere», la «Tribuna Illustrata», il «Mattino Illustrato»? La «Domenica del Corriere» forse nessuno in tutta la sua vita (32° anno nel 1930) su circa 80 o 90 romanzi che avrà pubblicato. Credo che la «Tribuna Illustrata» ne abbia pubblicato qualcuno: ma occorre notare che la «Tribuna Illustrata» è enormemente meno popolare della «Domenica» e ha un tipo suo di romanzo. Sarebbe poi interessante vedere la nazionalità degli autori e il tipo dei romanzi d’avventura pubblicati. Il «Romanzo Mensile» e la «Domenica» pubblicano molti romanzi inglesi e di tipo poliziesco (hanno pubblicato Sherlok Holmes) ma anche tedeschi, ungheresi (la baronessa Orczy, che mi pare ungherese, è diventata molto popolare e i suoi romanzi sulla Rivoluzione francese hanno avuto varie edizioni nel «Romanzo Mensile» che pure deve avere una tiratura rispettabile – mi pare sia giunto a 25 000 esemplari) e persino australiani (di Guido Boothby che ha avuto pure diverse edizioni). Così nel «Romanzo Mensile» e nella «Domenica» deve prevalere il tipo d’avventura poliziesca. Sarebbe interessante sapere chi al «Corriere» era incaricato di scegliere questi romanzi e da quali criteri partiva.
Il «Mattino Illustrato», sebbene esca a Napoli, pubblica romanzi di tipo «Domenica», ciò che significa che c’è un gusto diffuso. Relativamente e forse anche in modo assoluto l’amministrazione del «Corriere della Sera» è la maggiore diffonditrice di questi romanzi popolari: ne pubblica almeno 15 all’anno e con tirature altissime. Deve venire poi la Casa Sonzogno (forse qualche anno fa la Sonzogno pubblicava molto di più che il «Corriere»). Un confronto nel tempo dell’attività editoriale della Sonzogno darebbe un quadro delle variazioni avvenute nel gusto del pubblico popolare: sarebbe interessante farlo, ma di una certa difficoltà, perché la Sonzogno non pubblica l’anno di stampa e non numera il più delle volte le edizioni. Uno studio dei Cataloghi darebbe forse dei risultati. Il confronto tra il catalogo di 40 anni o 50 anni fa e quello odierno sarebbe già interessante: tutto il romanzo lacrimoso‑sentimentale deve essere caduto nel dimenticatoio eccetto qualche «capolavoro» del genere che deve resistere ancora (come la Capinera del mulino mi pare del Richebourg). Così è interessante seguire le pubblicazioni di questi romanzi a dispense.
Un certo numero di romanzi popolari italiani devono aver pubblicato il Perino e recentemente il Nerbini, tutti a fondo anticlericale, dipendenti dal guerrazzismo. Anche una lista delle case editrici di questa merce sarebbe interessante.
Q3 §97 Il Concordato. Allegata alla legge delle Guarantigie fu una disposizione in cui si fissava che se nei prossimi 5 anni dopo la promulgazione della legge stessa il Vaticano rifiutava di accettare l’indennità stabilita, il diritto all’indennità sarebbe venuto a cadere. Appare invece che nei bilanci fino al 1928 era sempre impostata la voce dell’indennità al Papa: come mai? fu forse modificata la disposizione del 1871 allegata alle Guarantigie e quando e per quali ragioni? La quistione è molto importante.
Q3 §98 Spartaco. Una osservazione casuale di Cesare (Bell. Gall., I, 40,5) rivela il fatto che i prigionieri di guerra cimbri furono il nucleo della rivolta di schiavi sotto Spartaco. Questi rivoltosi furono annientati. (Cfr Tenney Frank, Storia economica di Roma, trad. it., Ed. Vallecchi, p. 153). (Vedi nel Frank, in questo stesso capitolo, le osservazioni e le congetture sulla diversa sorte delle varie nazionalità di schiavi e sulla loro sopravvivenza probabile in quanto furono distrutti o si assimilarono alla popolazione indigena o addirittura la sostituirono).
99 La legge del numero (base psicologica delle manifestazioni pubbliche: processioni, assemblee popolari ecc.). A Roma gli schiavi non potevano essere riconosciuti come tali. Quando un senatore propose una volta che agli schiavi fosse dato un abito che li distinguesse, il Senato fu contrario al provvedimento, per timore che gli schiavi divenissero pericolosi qualora potessero rendersi conto del loro grande numero. Seneca, De clem., I, 24. Cfr Tacito, Annali, 4, 27.
Q3 §100 I nipotini di padre Bresciani. Letteratura popolare. La collezione «Tolle et lege» della Casa ed. «Pia Società S. Paolo» Alba- Roma, su 111 numeri del 1928 ne aveva 65 di libri scritti dal gesuita Ugo Mioni. Eppure non devono essere tutti i libri di questo scrittore, che d’altronde non ha scritto solo romanzi d’avventura o di apologetica cristiana: ha scritto anche un grosso trattato di «Missionologia» per esempio.
Q3 §101 I nipotini di padre Bresciani. Carattere antipopolare o apopolare‑nazionale della letteratura italiana. Vedere se su tale argomento ha scritto qualche letterato moderno. Qualcosa deve aver scritto Adriano Tilgher e anche Gino Saviotti. Del Saviotti trovo citato nell’«Italia letteraria» del 24 agosto 1930 questo brano da un articolo sul Parini pubblicato nell’«Ambrosiano» del 15 agosto: «Buon Parini, si capisce perché avete sollevato la poesia italiana, ai vostri tempi. Le avete dato la serietà che le mancava, avete trasfuso nelle sue aride vene il vostro buon sangue popolano. Vi sieno rese grazie anche in questo giorno dopo centotrentun’anni dalla vostra morte. Ci vorrebbe un altro uomo come voi, oggi, nella nostra cosidetta poesia!».
Q3 §102 Passato e presente. Scuola di giornalismo (cfr pp. 48 bis ‑ 49). Il numero dei giornalisti italiani. Nelle «Notizie sindacali» pubblicate dall’«Italia Letteraria» del 24 agosto 1930 si riportano i dati di un censimento eseguito dalla Segreteria del Sindacato Nazionale dei giornalisti: al 30 giugno, 1960 giornalisti inscritti dei quali 800 inscritti al partito fascista, così ripartiti: Sindacato di Bari 30 e 26; Bologna 108 e 10; Firenze 108 e 43; Genova 113 e 39; Milano 348 e 143; Napoli 106 e 45; Palermo 50 e 17; Roma 716 e 259; Torino 144 e 59; Trieste 90 e 62; Venezia 147 e 59.
Q3 §103 Il Risorgimento e le classi rivoluzionarie. Nell’edizione Laterza delle «Memorie storiche dei regno di Napoli dal 1790 al 1815» di Francesco Pignatelli Principe di Strongoli (Nino Cortese, Memorie di un generale della Repubblica e dell’Impero, 2 voll. in 8° di pp. 136‑CCCCXXV, 312, L. 60), il Cortese premette un’introduzione, «Stato e ideali politici nell’Italia meridionale nel settecento e l’esperienza di una rivoluzione», in cui affronta il problema: come mai, nel Mezzogiorno d’Italia, la nobiltà apparisca dalla parte dei rivoluzionari e sia poi ferocemente perseguitata dalla reazione, mentre in Francia nobiltà e monarchia sono unite davanti al pericolo rivoluzionario. Il Cortese risale ai tempi di Carlo di Borbone per trovare il punto di contatto tra la concezione degli innovatori aristocratici e quella dei borghesi; per i primi la libertà e le necessarie riforme devono essere garantite soprattutto da un parlamento aristocratico, mentre sono disposti ad accettare la collaborazione dei migliori della borghesia; per questa il controllo deve essere esercitato e la garanzia della libertà affidata all’aristocrazia dell’intelligenza, del sapere, della capacità ecc. da qualsiasi parte venga. Per ambedue lo Stato deve essere governato dal re, circondato, illuminato e controllato da una aristocrazia. Nel 1799, dopo la fuga del re, si ha prima il tentativo di una repubblica aristocratica da parte dei nobili e poi quello degli innovatori borghesi nella successiva repubblica napoletana.
Mi pare che i fatti napoletani non possano essere contrapposti a quelli francesi: anche in Francia ci fu una rottura fra nobili e monarchia e un’alleanza tra monarchia, nobili e alta borghesia. Solo che in Francia la rivoluzione ebbe la forza motrice anche nelle classi popolari che le impedirono di fermarsi ai primi stadi, ciò che mancò invece nell’Italia meridionale e successivamente in tutto il Risorgimento. Il libro del Cortese è da vedere.
Q3 §104 Letteratura popolare. Antologia degli scrittori operai americani pubblicata nel 1930 dalle edizioni Les Revues (Poèmes d’ouvriers américains traduits par N. Guterman e P. Morhange, 9 franchi: hanno avuto molto successo nella critica francese come si vede dagli estratti pubblicati nel prospetto dell’editore).
Nel 1925 alle «Editions Aujourd’hui» è stata pubblicata una Anthologie des écrivains ouvriers raccolta da Gaston Depresle, con prefazione di Barbusse: doveva essere in due volumi, ma è stato pubblicato solo il primo volume. (Pubblica scritti, tra gli altri, di Marguerite Andoux, Pierre Hamp ecc.).
La Librairie Valois – place du Panthéon (V°) 7 – ha pubblicato nel 1930: Henry Poulaille, Nouvel âge littéraire, nel cui prospetto di pubblicità sono elencati i nomi di Charles Louis Philippe, Carlo Peguy, Giorgio Sorel, L. et M. Bonneff, Marcel Martinet, Carlo Vildrac ecc. (Non appare se sia un’antologia o una raccolta di articoli critici del Poulaille: pubblicata da Valois, con nomi tipici come Sorel ecc.).
Q3 §105 Lorianesimo. Le noccioline americane e il petrolio. In una nota sul lorianesimo ho accennato alla proposta di un colonnello di coltivare ad arachidi 50 000 Km2 per avere il fabbisogno italiano in olii combustibili. Si tratta del colonnello del Genio navale ingegnere Barberis, che ne parlò in una comunicazione Il Combustibile liquido e il suo avvenire al Congresso delle Scienze tenuto in Perugia nell’ottobre 1927. (Cfr Manfredi Gravina, Olii, petroli e benzina, nella «Nuova Antologia» del 1° gennaio 1928, nota a p. 71).
Q3 §106 Il Prof. H. de Vries de Heekelingen insegna(va?) paleografia e diplomatica nella Università cattolica di Nimega (Olanda). Ha fondato a Losanna nel 1927 il Centro Internazionale di Studi sul Fascismo. Ha collaborato alla «Critica fascista». (Sull’organizzazione di questo Centro cfr le notizie pubblicate nella Nuova Antologia del 16 gennaio 1928). Il Centro fa un servizio di informazione per chiunque su ogni argomento che possa avere rapporto col fascismo.
Q3 §107 Le classi sociali nel Risorgimento. Vedere il volume di Niccolò Rodolico, Il popolo agli inizi del Risorgimento, Firenze, Le Monnier, 8°, pp. 312. Nello statuto della Società Esperia fondata dai fratelli Bandiera si diceva: «Non si facciano, se non con sommo riguardo, affiliazioni tra la plebe, perché dessa quasi sempre per natura è imprudente e per bisogno corrotta. È da rivolgersi a preferenza ai ricchi, ai forti e ai dotti, negligendo i poveri, i deboli, gli ignoranti». Bisogna raccogliere tutte le osservazioni che nel primo periodo del Risorgimento (prima del 48) si riferiscono a questo argomento e vedere donde è originata questa diffidenza: processi del 21 in Piemonte, differenza nell’atteggiamento dei soldati e degli ufficiali – i soldati o tradirono o si mostrarono molto deboli nell’istruzione dei processi –. Atteggiamento di Mazzini prima del 1853 e dopo: vedere le sue istruzioni a Crispi per la fondazione di sezioni del Partito d'Azione in Portogallo, con la raccomandazione di mettere operai nei Comitati.
Q3 §108 L’equazione personale. I calcoli dei movimenti stellari Sono turbati da quella che gli scienziati chiamano l’«equazione personale» che bisogna correggere. Vedere esattamente come si calcola questo errore e come esso si verifica e con quali criteri. In ogni modo la nozione di «equazione personale» può essere utile anche in altri campi.
Q3 §109 I nipotini di Padre Bresciani. Italo Svevo e i letterati italiani. Italo Svevo fu «rivelato» da James Joyce. Commemorando lo Svevo la «Fiera Letteraria» sostenne che prima di questa rivelazione c’era stata la «scoperta» italiana: «In questi giorni parte della stampa italiana ha ripetuto l’errore della “scoperta francese”; anche i maggiori giornali par che ignorino ciò che pure è stato detto e ripetuto a tempo debito. È dunque necessario scrivere ancora una volta che gli italiani colti furono per i primi informati dell’opera dello Svevo; e che per merito di Eugenio Montale, il quale ne scrisse sulle riviste l’“Esame” e il “Quindicinale”, lo scrittore triestino ebbe in Italia il primo e legittimo riconoscimento. Con ciò non si vuol togliere agli stranieri nulla di quanto spetta loro; soltanto, ci par giusto che nessuna ombra offuschi la sincerità e, diciamo pure, la fierezza (!!) del nostro omaggio all’amico scomparso» («Fiera Letteraria» del 23 settembre 1928 – lo Svevo morì il 15 settembre – in un articoletto editoriale introduttivo a un articolo del Montale, Ultimo addio, e a uno di Giovanni Comisso, Colloquio).
Questa prosetta untuosa e gesuitesca è in contraddizione con ciò che afferma Carlo Linati, nella «Nuova Antologia» del 1° febbraio 1928 (Italo Svevo, romanziere). Il Linati scrive: «Due anni fa, trovandomi a prender parte alla serata di un club intellettuale milanese, ricordo che ad un certo punto entrò un giovane scrittore tornato allora allora da Parigi, il quale dopo aver discorso a lungo con noi di un pranzo del Pen Club offerto a Pirandello dai letterati parigini, aggiunse che alla fine di esso, il celebre romanziere irlandese James Joyce, chiacchierando con lui della letteratura italiana moderna, gli aveva detto: – Ma voialtri italiani avete un grande prosatore e forse neanche lo sapete. – Quale? – Italo Svevo, triestino». Il Linati dice che nessuno conosceva quel nome, come non lo conosceva il giovane letterato che aveva parlato col Joyce. Il Montale riuscì finalmente a «scoprire» una copia di Senilità e ne scrisse sull’«Esame». Ecco come i letterati italiani hanno «scoperto» Svevo. È questo un caso? Non mi pare. Per la «Fiera Letteraria» ricordare altri due casi: quello del romanzo di Moravia e quello del Malagigi di Nino Savarese di cui parlò solo dopo che ebbe un premio in un concorso o qualcosa di simile, mentre il romanzo era apparso nella Nuova Antologia del 1928. In realtà questa gente si infischia della letteratura, della cultura ecc. Essa esercita la professione di sacrestano letterario e nulla più.
(Onorevolmente bisogna invece ricordare nel campo della letteratura per i ragazzi «Il Giornalino della Domenica» di Vamba con tutte le sue iniziative e le sue organizzazioni e la collaborazione di padre Pistelli; cfr l’articolo di Lea Nissim, Omero Redi e le «Pistole» nella Nuova Antologia del 1° febbraio 1928).
Q3 §110 L’attrezzamento nazionale. Nella ricerca sulle condizioni economiche e sulla struttura dell’economia italiana, inquadrare nel concetto di «attrezzamento nazionale». Fissare questo concetto esattamente ecc.
Q3 §111 Lorianismo. Sulle interpretazioni settarie della Commedia di Dante e del dolce stil nuovo da parte di Luigi Valli cfr per un’informazione rapida Una nuova interpretazione delle rime di Dante e del «dolce stil novo» di Benedetto Migliore nella Nuova Antologia del 16 febbraio 1928.
Q3 §112 Corrado Barbagallo. Il suo libro L’oro e il fuoco deve essere esaminato con molta attenzione, tenendo conto del partito preso dell’autore di trovare nell’antichità ciò che è essenzialmente moderno, come il capitalismo e le manifestazioni che al capitalismo sono collegate. Bisogna specialmente esaminare le sue ricerche e le sue conclusioni a proposito delle associazioni professionali e delle loro funzioni, ponendole a confronto con le opinioni degli studiosi del mondo classico e medioevale. Cfr per l’opposizione del Mommsen e del Marquardt a proposito dei collegia opificum et artificum: per il Marquardt essi erano istituzioni erariali che servivano all’economia e alla finanza dello Stato e poco o punto istituzioni sociali (cfr il mir russo). A parte l’osservazione che in ogni caso il sindacalismo moderno dovrebbe trovare corrispondenza in istituzioni proprie degli schiavi del mondo classico. Ciò che caratterizza il mondo moderno è che al disotto degli operai non c’è altra classe priva di organizzazione, ciò che non è mai avvenuto neanche nelle corporazioni medioevali. (Anche l’artigiano romano poteva servirsi degli schiavi come lavoranti ed essi non appartenevano ai collegia, a parte il dubbio che nello stesso popolo ci fossero categorie escluse dai collegia anche se non servili).
Q3 §113 Utopie. La Tempesta di Shakespeare. (L’opposizione di Calibano e Prospero ecc.; ma il carattere utopistico dei discorsi di Gonzalo è più evidente). Cfr A. Loria, Pensieri e soggetti economici in Shakespeare («Nuova Antologia» del 1° agosto 1928) che può essere utilizzato per il capitolo del Lorianismo. A proposito della Tempesta vedere di Renan il Calibano e l’Eau de Jouvence. Questo articolo di Loria è però interessante come antologia dei brani shakespeariani di carattere sociale: può servire come documento indiretto del modo di pensare dei popolani del suo tempo.
Q3 §114 Passato e presente. «Quando i bricconi ricchi hanno bisogno dei bricconi poveri, questi possono imporre ai primi il maggior prezzo che vogliono». Shakespeare (nel Timone di Atene) (?).
Q3 §115 Ufficio internazionale delle classi colte italiane. Forse si potrebbe far coincidere il tramonto della funzione cosmopolitica degli intellettuali italiani con il fiorire degli avventurieri del Settecento: l’Italia a un certo punto non dà più tecnici all’Europa, o perché le altre nazioni hanno già elaborato una classe colta propria o perché l’Italia non produce più capacità a mano a mano che ci allontaniamo dal Cinquecento; e le vie tradizionali di «far fortuna» all’estero sono ormai percorse da imbroglioni che sfruttano la tradizione. Da vedere e da porre in termini esatti.
Q3 §116 Ufficio internazionale delle classi colte italiane. Nella guerra delle Fiandre combattuta dagli Spagnoli verso la fine del Cinquecento, una gran parte dell’elemento tecnico militare e del genio era costituita da italiani. Capitani di gran fama come Alessandro Farnese, duca di Parma, Ranuccio Farnese, Ambrogio Spinola, Paciotto da Urbino, Giorgio Basta, Giambattista del Monte, Pompeo Giustiniano, Cristoforo Mondragone e molti altri minori. La città di Namur era stata fortificata da due ingegneri italiani: Gabrio Serbelloni e Scipione Campi ecc. Cfr Un generale di cavalleria italo‑albanese: Giorgio Basta di Eugenio Barbarich nella «Nuova Antologia» del 16 agosto 1928.
In questa ricerca sulla funzione cosmopolitica delle classi colte italiane è specialmente da tener conto dell’apporto di tecnici militari, per il valore più strettamente «nazionale» che sempre ha avuto il servizio militare. La quistione si collega ad altre ricerche: come si erano formate queste capacità militari? La borghesia dei Comuni aveva avuto anche un’origine militare, nel senso che la sua organizzazione di classe fu originariamente anche militare e che attraverso la sua funzione militare riuscì a prendere il potere. Questa tradizione militare si spezzò dopo l’avvento al potere, dopo che il Comune aristocratico divenne Comune borghese. Come, perché? Come si formarono le compagnie di ventura, e per quale origine necessaria? Di che condizione sociale furono i condottieri in maggioranza? Mi pare piccoli nobili, ma di che nobiltà? Di quella feudale o di quella mercantile? Ecc. Questi capi militari della fine del Cinquecento e dei secoli successivi come si erano formati? ecc.
Naturalmente che gli italiani abbiano così validamente partecipato alle guerre della Controriforma ha un significato particolare, ma parteciparono anche alla difesa dei protestanti? Né bisogna confondere questo apporto di tecnici militari con la funzione che ebbero gli Svizzeri, per esempio, quali mercenari internazionali, o i cavalieri tedeschi in Francia (reîtres) o gli arcieri scozzesi nella stessa Francia: appunto perché gli italiani non dettero solo tecnici militari, ma tecnici del genio (ingegneri), della politica, della diplomazia ecc.
Il Barbarich (credo che adesso sia generale) termina il suo articolo sul Basta con questo periodo: «La lunga pratica di quarant’anni di campagne nelle guerre aspre di Fiandra, di Francia e di Transilvania, hanno procurato a Giorgio Basta una ben straordinaria sanzione pratica alla lucida e chiara sua teoria, che sarà ripresa dal Montecuccoli. Ricordare oggidì l’una e l’altra è opera di rivendicazione storica doverosa, di buona propaganda sollecita delle tradizioni nostre, le quali affermano la indiscussa e luminosa priorità dell’arte militare italica nei grandi eserciti moderni». Ma si può parlare in questo caso di arte militare italica? Dal punto di vista della storia della cultura può essere interessante sapere che il Farnese era italiano o Napoleone corso o Rothschild ebreo, ma storicamente la loro attività individuale è stata incorporata nello Stato al cui servizio essi sono stati assunti o nella società in cui hanno operato. L’esempio degli ebrei può dare un elemento di orientazione per giudicare l’attività di questi italiani, ma solo fino ad un certo punto: in realtà gli ebrei hanno avuto un maggior carattere nazionale di questi italiani, nel senso che nel loro operare c’era una preoccupazione di carattere nazionale che in questi italiani non c’era. Si può parlare di tradizione nazionale quando la genialità individuale è incorporata attivamente, cioè politicamente e socialmente, nella nazione da cui l’individuo è uscito (gli studi sull’ebraismo e la sua funzione internazionale possono dare molti elementi di carattere teorico per questa ricerca), quando essa trasforma il proprio popolo, gli imprime un movimento che appunto forma la tradizione. Dove esiste una continuità in questa materia tra il Farnese e oggi? Le trasformazioni, gli aggiornamenti, le innovazioni portate da questi tecnici militari nella loro arte si sono incorporate nella tradizione francese o spagnola o austriaca: in Italia sono diventate numeri di scheda bibliografica.
Q3 §117 L’emigrazione italiana e la funzione cosmopolita delle classi colte italiane. Prima della rivoluzione francese, prima cioè che si costituisse organicamente una classe dirigente nazionale, c’era una emigrazione di elementi italiani rappresentanti la tecnica e la capacità direttiva, elementi che hanno arricchito gli Stati europei col loro contributo. Dopo la formazione di una borghesia nazionale e dopo l’avvento del capitalismo si è iniziata l’emigrazione del popolo lavoratore, che è andato ad aumentare il plusvalore dei capitalismi stranieri: la debolezza nazionale della classe dirigente ha così sempre operato negativamente. Essa non ha dato la disciplina nazionale al popolo, non l’ha fatto uscire dal municipalismo per una unità superiore, non ha creato una situazione economica che riassorbisse le forze di lavoro emigrate in modo che questi elementi sono andati perduti in grandissima parte, incorporandosi nelle nazionalità straniere in funzione subalterna.
Q3 §118 Storia nazionale e storia della cultura (europea o mondiale). L’attività degli elementi dirigenti che hanno operato all’estero, come l’attività della moderna emigrazione, non può essere incorporata nella storia nazionale, come invece deve essere, per esempio, l’attività di elementi simili in altre condizioni. Una classe di un paese può servire in un altro paese, mantenendo i suoi legami nazionali e statali originari, cioè come espressione dell’influenza politica del paese d’origine. Per un certo tempo i missionari o il clero nei paesi d’oriente esprimevano l’influenza francese anche se questo clero solo parzialmente era costituito di cittadini francesi, per i legami statali tra Francia e Vaticano. Uno stato maggiore organizza le forze armate di un altro paese, incaricando del lavoro tecnici militari del suo gruppo che non perdono la nazionalità, tutt’altro. Gli intellettuali di un paese influenzano la cultura di un altro paese e la dirigono ecc. Un’emigrazione di lavoratori colonizza un paese sotto la direzione diretta o indiretta della sua propria classe dirigente economica e politica. La forza espansiva, l’influsso storico di una nazione non può essere misurato dall’intervento individuale di singoli, ma dal fatto che questi singoli esprimono consapevolmente e organicamente un blocco sociale nazionale. Se così non è, si deve parlare solo di fenomeni di una certa portata culturale appartenenti a fenomeni storici più complessi: come avvenne in Italia per tanti secoli, di essere l’origine «territoriale» di elementi dirigenti cosmopoliti e di continuare in parte ad esserlo per il fatto che l’alta gerarchia cattolica è in gran parte italiana. Storicamente questa funzione internazionale è stata la causa di debolezza nazionale e statale: lo sviluppo delle capacità non è avvenuto per i bisogni nazionali, ma per quelli internazionali, il processo di specializzazione tecnica degli intellettuali ha seguito perciò delle vie anormali dal punto di vista nazionale, perché ha servito a creare l’equilibrio di attività e di branche di attività non di una comunità nazionale ma di una comunità più vasta che voleva «integrare» i suoi quadri nazionali, ecc. (Questo punto deve essere bene sviluppato con precisione ed esattezza).
Q3 §119 Passato e presente. Agitazione e propaganda. La debolezza dei partiti politici italiani in tutto il loro periodo di attività, dal Risorgimento in poi (eccettuato in parte il partito nazionalista) è consistita in quello che si potrebbe chiamare uno squilibrio tra l’agitazione e la propaganda, e che in altri termini si chiama mancanza di principii, opportunismo, mancanza di continuità organica, squilibrio tra tattica e strategia ecc. La causa principale di questo modo di essere dei partiti è da ricercare nella deliquescenza delle classi economiche, nella gelatinosa struttura economica e sociale del paese, ma questa spiegazione è alquanto fatalistica: infatti se è vero che i partiti non sono la nomenclatura delle classi, è anche vero che i partiti non sono solo una espressione meccanica e passiva delle classi stesse, ma reagiscono energicamente su di esse per svilupparle, assodarle, universalizzarle. Questo appunto non è avvenuto in Italia, e la manifestazione di questa «omissione» è appunto questa agitazione e propaganda o come altrimenti si voglia dire.
Lo Stato-Governo ha una certa responsabilità in questo stato di cose (si può chiamare responsabilità in quanto ha impedito il rafforzamento dello Stato stesso, cioè ha dimostrato che lo Stato‑governo non era un fattore nazionale): il governo ha infatti operato come un «partito», si è posto al disopra dei partiti non per armonizzarne gli interessi e l’attività nei quadri permanenti della vita e degli interessi statali nazionali, ma per disgregarli, per staccarli dalle grandi masse e avere «una forza di senza partito legati al governo con vincoli paternalistici di tipo bonapartistico‑cesareo»: così occorre analizzare le così dette dittature di Depretis, Crispi, Giolitti e il fenomeno parlamentare del trasformismo. Le classi esprimono i partiti, i partiti elaborano gli uomini di Stato e di governo, i dirigenti della società civile e della società politica. Ci deve essere un certo rapporto utile e fruttuoso in queste manifestazioni e in queste funzioni. Non può esserci elaborazione di dirigenti dove manca l’attività teorica, dottrinaria dei partiti, dove non sono sistematicamente ricercate e studiate le ragioni di essere e di sviluppo della classe rappresentata. Quindi scarsità di uomini di Stato, di governo, miseria della vita parlamentare, facilità di disgregare i partiti, corrompendone, assorbendone i pochi uomini indispensabili. Quindi miseria della vita culturale e angustia meschina dell’alta cultura: invece della storia politica, la erudizione scarnita, invece della religione la superstizione, invece dei libri e delle grandi riviste, il giornale quotidiano e il libello. Il giorno per giorno, con le sue faziosità e i suoi urti personalistici, invece della politica seria. Le università, tutte le istituzioni che elaboravano le capacità intellettuali e tecniche, non permeate dalla vita dei partiti, dal realismo vivente della vita nazionale, formavano quadri nazionali apolitici, con formazione mentale puramente rettorica, non nazionale. La burocrazia così si estraniava dal paese, e attraverso le posizioni amministrative, diventava un vero partito politico, il peggiore di tutti, perché la gerarchia burocratica sostituiva la gerarchia intellettuale e politica: la burocrazia diventava appunto il partito statale‑bonapartistico.
Vedere i libri che dopo il 19 criticarono un «simile» (ma molto più ricco nella vita della «società civile») stato di cose nella Germania guglielmina, per esempio il libro di Max Weber, Parlamento e Governo nel nuovo ordinamento della Germania. Critica politica della burocrazia e della vita dei partiti. Traduzione e prefazione di Enrico Ruta, pp. XVI-200, L. 10,00. (La traduzione è molto imperfetta e imprecisa).
Q3 §120 Antonio Fradeletto. Antico radicale massone, convertito al cattolicismo. Pubblicista retorico sentimentale, oratore delle grandi occasioni. È un tipo della cultura italiana che ormai tende a sparire. Scrittore di cose letterarie, artistiche e «patriottiche». Mi pare che in ciò consista il «tipo»: nel fatto che il «patriottismo» non era un sentimento diffuso, lo stato d’animo di uno strato nazionale, ma specialità di una serie di scrittori (così Cian, per esempio), qualifica professionale, per così dire. (Non confondere con i nazionalisti sebbene Corradini appartenga a questo tipo, e si differenzi in ciò da Coppola e Federzoni: neanche D’Annunzio rientra in questa categoria: in Francia questo tipo esisteva forse in Barrès, ma non identicamente).
Q3 §121 I nipotini di padre Bresciani. Arturo Calza scrive nella Nuova Antologia del 16 ottobre 1928: «Bisogna cioè riconoscere che – dal 1914 in qua – la letteratura ha perduto non solo il pubblico che le forniva gli alimenti, ma anche quello che le forniva gli argomenti. Voglio dire che in questa nostra società europea, la quale traversa ora uno di quei momenti più acuti e più turbinosi di crisi morale e spirituale che preparano le grandi rinnovazioni, il filosofo, e dunque anche, necessariamente, il poeta, il romanziere e il drammaturgo – vedono intorno a sé piuttosto una società “in divenire” che una società assestata e assodata in uno schema definitivo (!) di vita morale e intellettuale; piuttosto vaghe e sempre mutevoli parvenze di costumi e di vita che non vita e costumi saldamente stabiliti e organizzati; piuttosto semi e germogli, che non fiori sbocciati e frutti maturati. Ond’è che – come scriveva in questi giorni egregiamente il Direttore della “Tribuna” (Roberto Forges Davanzati), e hanno ripetuto poi, e anzi “intensificato” altri giornali ‑ “noi viviamo nella maggiore assurdità artistica, fra tutti gli stili e tutti i tentativi, senza più capacità d’essere un’epoca”». Quante chiacchiere tra il Calza e il Forges Davanzati. Forse che solo in questo periodo c’è stata una crisi sociale? E non è anzi vero che proprio nei periodi di crisi sociale le passioni e gli interessi e i sentimenti diventano più intensi e si ha nella letteratura il romanticismo? Gli argomenti zoppicano alquanto e poi si rivoltano contro l’argomentatore: come mai il Forges Davanzati non si accorge che «il non avere capacità di essere un’epoca» non può limitarsi all’arte ma investe tutta la vita?
Q3 §122 La diplomazia italiana. Costantino Nigra e il trattato di Uccialli. Nella Nuova Antologia del 16 novembre 1928 in un articolo di Carlo Richelmy, Lettere inedite di Costantino Nigra, è pubblicata una lettera (o estratti di una lettera) del 28 agosto 1896 del Nigra a un «caro amico» che il Richelmy crede di poter identificare col marchese Visconti‑Venosta perché con lo stesso, in quei giorni, il Nigra scambiò alcuni telegrammi sul medesimo argomento. Nigra informa che il principe Lobanov (forse ambasciatore russo a Vienna, dove il Nigra era ambasciatore) lo ha informato di alcune pratiche che il Negus Menelik ha fatto presso lo Zar. Il Negus aveva fatto sapere allo Zar di essere disposto ad accettare la mediazione della Russia per la conclusione della pace coll’Italia ecc. Il Nigra conchiude: «Per me è evidente una cosa. Dopo l’affare del trattato di Uccialli, il Negus è diffidente verso di noi, sospettando sempre che dal nostro plenipotenziario gli si cangino le clausole pattuite. Questa diffidenza, che è invincibile, ha consigliato il Negus di chiedere di trattare per mezzo della Russia al fine di avere un testimone idoneo e potente. La cosa è dura per il nostro amor proprio, ma ormai il nostro paese deve persuadersi che quando si adoperano diplomatici come Antonelli, generali come Baratieri, e ministri come Mocenni, non si possono avere pretese soverchie». («Mani vuote, ma sporche» – machiavellismo da rigattieri ecc.).
Q3 §123 L’italiano meschino. «Il latino si studia obbligatoriamente in tutte le scuole superiori del Nord‑America. La storia romana è insegnata in tutti gli istituti, e tale insegnamento rivaleggia, se non supera quello che vien fatto nei ginnasi e nei licei italiani, perché nelle scuole americane la classica storia di Roma antica è tradotta fedelmente da Tacito e da Cesare, da Sallustio e da Tito Livio, mentre in Italia si ricorre troppo spesso e troppo supinamente alle deformate (sic) traduzioni di Lipsia». Filippo Virgilii, L’espansione della cultura italiana, Nuova Antologia, 1° dicembre1928 (il brano è a p. 346); (né può essere errore di stampa, dato il senso di tutto il periodo! E il Virgilii è professore di Università e ha fatto le scuole classiche!)
Q3 §124 Emigrazione. Il viaggio di Enrico Ferri nell’America meridionale avvenne nel 1908‑9 (ma il suo discorso in Parlamento mi pare proprio che sia del 1911). Nel 1911 si recò nel Brasile una commissione di rappresentanti delle organizzazioni operaie di cooperazione e di resistenza per farvi una inchiesta sulle condizioni economico‑sociali: pubblicò a Bologna nel 1912 una relazione (Emigrazione agricola al Brasile, Relazione della Commissione, Bologna 1912). (Questi dati molto imprecisi sono nell’articolo del Virgilii citato nella nota precedente). Della commissione faceva parte il prof. Gaetano Pieraccini che pare sia stato l’estensore della relazione.
A proposito delle concezioni di Enrico Corradini sulla nazione proletaria e sull’emigrazione, sarebbe interessante sapere se non abbia influito su di lui il libro di Ferruccio Macola, L’Europa alla conquista dell’America latina, Venezia, 1894, di cui il Virgilii cita questo brano: «È necessario che la vecchia Europa pensi che le colonie fondate dal suo proletariato nel continente nuovo devono considerarsi, non più come strumento di produzione a beneficio dei rapaci e viziosi discendenti di avventurieri spagnoli e portoghesi, ma come le avanguardie della sua occupazione». (Il libro del Macola deve essere molto voluminoso, perché la citazione è presa da p. 421, e deve essere molto divertente e sintomatico dello stato d’animo di molti crispini).
Q3 §125 Luigi Castellazzo, il processo di Mantova e gli altri processi sotto l’Austria. Per mostrare un tratto caratteristico della vita italiana nella seconda metà del secolo scorso (ma più esattamente dopo il 1876 cioè dopo l’avvento della sinistra al potere) è interessante esaminare la campagna fatta dai moderati (con Alessandro Luzio alla testa) contro Luigi Castellazzo per il suo atteggiamento e le sue confessioni al processo di Mantova che portò all’impiccagione di don Tazzoli, di Carlo Poma, di Tiro Speri, di Montanari e del Frattini. La campagna era puramente politica, perché le accuse fatte al Castellazzo non furono fatte ad altri che nei processi si comportarono come o anche peggio del Castellazzo: ma il Castellazzo era repubblicano, massone e aveva persino avuto delle simpatie per la Comune di Parigi. Il Castellazzo si comportò peggio di Giorgio Pallavicino al processo Confalonieri? Va bene che il processo di Mantova finì con esecuzioni capitali, mentre ciò non avvenne per il Confalonieri e compagni, ma queste esecuzioni furono dovute alle confessioni del Castellazzo o non furono la fulminea risposta per l’insurrezione del 3 febbraio 1853? E non contribuì la vigliaccheria dei nobili milanesi che strisciarono ai piedi di Francesco Giuseppe alla vigilia dell’esecuzione? Vedere come il Luzio se la cava personalmente con questi quesiti.
Certo i moderati cercarono di attenuare la responsabilità di questi nobili in forma sconcia (cfr i libri del Bonfadini). Vedere come il Luzio se la cava nella quistione dei Costituti Confalonieri e nella quistione dell’atteggiamento del Confalonieri dopo la sua liberazione. Sulla quistione Castellazzo cfr Luzio: I martiri di Belfiore nelle diverse edizioni (la 4a è del 1924); I processi politici di Milano e di Mantova restituiti dall’Austria, Milano, Cogliati, 1919 (questo libretto deve parlare dei Costituti Confalonieri che il sen. Salata aveva «scoperto» negli archivi viennesi); La Massoneria e il Risorgimento Italiano, 2 voll., Bocca (pare che questa opera sia giunta alla 4a edizione in pochissimo tempo, ciò che sarebbe veramente maraviglioso); cfr P. L. Rambaldi, Luci ed ombre nei processi di Mantova, «Archivio Storico Italiano», v. XLIII, pp. 257‑331; e Giuseppe Fatini, Le elezioni di Grosseto e la Massoneria, Nuova Antologia del 16 dicembre 1928 (parla dell’elezione a deputato del Castellazzo nel settembre 1883 e della campagna che si scatenò: il Carducci sosteneva il Castellazzo e parla della campagna contro di lui come di un «accanimento fariseo moderato»).
Cosa si proponevano e si propongono gli storici e i pubblicisti moderati con questo loro indefesso, accortissimo e molto bene organizzato (talvolta pare che ci sia un centro direttivo per questo lavoro, una massoneria moderata, tanto è grande lo spirito di sistema) lavoro di propaganda? «Dimostrare» che l’unità italiana è stata opera precipua dei moderati, cioè della dinastia, e legittimare storicamente il monopolio del potere: attraverso questa «dimostrazione» disgregare ideologicamente la democrazia, assorbirne gli elementi individualmente e educare le nuove generazioni intorno a loro, con le loro parole d’ordine, coi loro programmi. Nella loro propaganda essi sono senza scrupoli, mentre il Partito d’azione è pieno di scrupoli patriottici, nazionali ecc. I moderati non riconoscono una forza collettiva agente nel Risorgimento all’infuori della dinastia e dei moderati: riconoscono solo individualità singole, che vengono esaltate per catturarle o diffamate per spezzare il vincolo collettivo. In realtà il Partito d’azione non seppe contrapporre nulla di efficace a questa propaganda: lamentazioni o sfoghi così apertamente settarii che non potevano impressionare l’uomo della strada, cioè convincere le nuove generazioni. Così il Partito d’azione fu disgregato e la democrazia borghese non riuscì ad avere mai una base nazionale. In un certo periodo, tutte le forze della democrazia si allearono e la Massoneria divenne il perno di questa alleanza: è questo un periodo ben determinato nella storia della Massoneria che finì con lo svilupparsi delle forze operaie. La Massoneria divenne il bersaglio dei moderati, che evidentemente speravano di conquistare così una parte delle forze cattoliche specialmente giovanili: in realtà i moderati valorizzarono le forze cattoliche controllate dal Vaticano e la formazione dello Stato italiano e della coscienza laica nazionale ne subì fieri contraccolpi come si vide in seguito. (Studiare bene questa serie di osservazioni).
Q3 §126 La formazione delle classi colte italiane e la loro funzione cosmopolita. Studiare l’origine, la formazione, lo sviluppo, la ragion d’essere ecc. della così detta «lingua franca» nell’oriente mediterraneo.
Q3 §127 Il Risorgimento. L’immagine dell’Italia come di un carciofo di cui le foglie si mangiano una a una, che viene attribuita a Vittorio Emanuele II (e d’altronde l’attribuzione non sarebbe contraria al suo carattere), secondo Amerigo Scarlatti («L’Italia che scrive», febbraio 1928) è di Vittorio Amedeo II come risulta dal Voyage d’Italie del Misson, stampato all’Aia nel 1703. (Ricordare la frase di Vittorio Emanuele II citata dal Martini).
Q3 §128 Machiavelli ed Emanuele Filiberto. Nel volume miscellaneo su Emanuele Filiberto pubblicato nel 1928 dal Lattes, Torino (pp. 477 in 8°) l’attività militare di Emanuele Filiberto come stratega e come organizzatore dell’esercito piemontese è studiata dai generali Maravigna e Brancaccio.
Q3 §129 Diplomazia italiana. Per tutto un lungo periodo dovette esistere una specie di censura preventiva o un impegno di non scrivere le proprie memorie da parte dei diplomatici e in genere degli uomini di Stato italiani, tanto poca è la letteratura in proposito. Dal 1919 in poi abbiamo una certa abbondanza, relativa, ma la qualità è molto scadente. (Le memorie di Salandra sono «inconcepibili» in quella forma pacchiana). Il libro di Alessandro De Bosdari, Delle guerre balcaniche e della grande guerra e di alcuni fatti precedenti ad esse (Milano, Mondadori, 1927, pp. 225, L. 15), secondo una breve nota di P. Silva nell’«Italia che scrive» dell’aprile 1928, è privo d’importanza per il fatto che l’autore insiste specialmente sui fatterelli personali e non sa organicamente rappresentare la propria attività in una esposizione degli avvenimenti che getti su di essi una qualche luce utile. (Su un capitolo di questo libro, pubblicato dalla Nuova Antologia ho scritto una nota a proposito dei giudizi del Bosdari sulla diplomazia italiana).
Q3 §130 Cultura italiana. Vedere l’attività culturale delle «Edizioni Doxa» di Roma: mi pare sia di tendenze protestanti. Così l’attività di «Bilychnis». Così bisognerà farsi una nozione esatta dell’attività intellettuale degli ebrei italiani in quanto organizzata e centralizzata: periodici come il «Vessillo Israelitico» e «Israel», pubblicazioni di case editrici specializzate, ecc.: centri di cultura più importanti. In che cosa il nuovo movimento sionista nato dopo la dichiarazione Balfour ha influito sugli ebrei italiani?
Q3 §131 Diplomazia italiana. Nella recensione del libro di Salandra La neutralità italiana di Giuseppe A. Andriulli pubblicata nell’ICS del maggio 1928 si accenna al fatto che già prima che Sonnino andasse agli Esteri, il ministro di San Giuliano aveva intavolato trattative con l’Intesa e che i collaboratori di San Giuliano affermavano che queste trattative erano impostate in modo ben diverso che da Sonnino, specialmente rispetto alla parte coloniale. Perché queste trattative furono troncate da Sonnino e si aprirono invece le trattative con l’Austria? Salandra ancora non spiega le ragioni dell’accordo con la Germania del maggio 15 per le proprietà private (accordo fatto subito divulgare dai tedeschi per mezzo del «Bund», giornale svizzero) e le ragioni della ritardata dichiarazione di guerra alla Germania (cosa che creò diffidenza verso l’Italia da parte dell’Intesa, di cui si giovò Sisto di Borbone).
Q3 §132 Lorianismo. Paolo Orano. A proposito dei rapporti tra gli intellettuali sindacalisti italiani e Sorel occorre fare un confronto tra i giudizi che su di essi il Sorel ha pubblicato recensendone i libri (nel «Mouvement socialiste» e altrove) e quelli espressi nelle sue lettere al Croce. Questi ultimi illuminano i primi di una luce spesso ironica o reticente: cfr il giudizio su Cristo e Quirino di P. Orano pubblicato nel «Mouvement socialiste» dell’aprile 1908 e quello nella lettera al Croce in data 29 dicembre 1907: evidentemente il giudizio pubblico era ironico e reticente, ma l’Orano lo riporta nella edizione Campitelli, Foligno, 1928, come se fosse di lode.
Q3 §133 Carlo Flumiani, I gruppi sociali. Fondamenti di scienza politica, Milano, Istituto Editoriale Scientifico, 1928, pp. 126, L. 20. (Procurarsi il catalogo di questa casa che ha stampato altri libri di scienza politica).
Q3 §134 Piero Pieri, Il Regno di Napoli dal luglio 1799 al marzo 1806, Napoli, Ricciardi, 1928, pp. 314, L. 25. Studia la politica borbonica dopo la prima restaurazione e le cause del suo crollo nel 1806, avvenuto pur non essendoci all’interno nessuna forza contraria attiva e mentre l’esercito francese era ancora lontano. Studia il difficile regime delle classi nel Mezzogiorno e il nascere del pensiero liberale che sostituiva il vecchio giacobinismo del 1799. Deve essere molto interessante.
Per capire l’orientamento delle classi nel Mezzogiorno deve essere interessante anche il libro di A. Zazo, L’istruzione pubblica e privata nel Napoletano (1767‑1860), Città di Castello, «Il Solco», 1927, pp. 328, L. 15. (Lo squilibrio tra istruzione pubblica e privata si è determinato dopo il 1821: le scuole private fioriscono, mentre l’opera statale decade: si forma così un’aristocrazia della cultura in un deserto popolare, il distacco tra classe colta e popolo aumenta. Questo argomento mi pare da svolgere).
Q3 §135 Storia e Antistoria. Dalla recensione di Mario Missiroli (ics, gennaio 1929) del libro di Tilgher Saggi di Etica e di Filosofia del Diritto, Torino, Bocca, 1928, in 8°, pp. XIV‑218, appare che la tesi fondamentale dell’opuscoletto Storia e Antistoria ha una grande portata nel sistema (!) filosofico del Tilgher. Scrive il Missiroli: «Si è detto, e non a torto, che l’idealismo italiano, che fa capo al Croce ed a Gentile, si risolve in un puro fenomenismo. Non v’è posto per la personalità. Contro questa tendenza reagisce vivacemente Adriano Tilgher con questo volume. Risalendo alla tradizione della filosofia classica, particolarmente a Fichte, Tilgher ribadisce con grande vigore la dottrina della libertà e del “dover essere”. Dove non c’è libertà di scelta, c’è “natura”. Impossibile sottrarsi al fatalismo. La vita e la storia perdono ogni senso e nessuna risposta ottengono gli eterni interrogativi della coscienza. Senza riferirsi ad un quid che trascenda la realtà empirica, non si può parlare di moralità, di bene e di male. Vecchia tesi. L’originalità di Tilgher consiste nell’aver esteso per primo questa esigenza alla logica. Il “dover essere” è necessario alla logica non meno che alla morale. Di qui l’indissolubilità della logica e della morale che i vecchi trattatisti amavano tenere distinte. Posta la libertà come una premessa necessaria, ne consegue una teoria del libero arbitrio come assoluta possibilità di scelta fra il bene e il male. Così la pena (acutissime le pagine su il diritto penale) trova il suo fondamento non soltanto nella responsabilità (scuola classica) ma nel fatto puro e semplice che l’individuo può fare il male conoscendolo come tale. La causalità può tenere le veci della responsabilità. Il determinismo di chi delinque equivale al determinismo di chi punisce. Tutto bene. Ma questo energico richiamo al “dover essere”, all’antistoria, che crea la storia, non restaura, logicamente, il dualismo e la trascendenza? Non si può riguardare la trascendenza come un “momento” senza ricadere nell’immanentismo. Non si viene a patti con Platone».
Q3 §136 I nipotini di Padre Bresciani. Per gli scrittori «tecnicamente» gesuiti da includere in questa rubrica cfr Monsignor Giovanni Casati, Scrittori Cattolici Italiani viventi. Dizionario bio‑bibliografico ed indice analitico delle opere con prefazione di F. Meda, pp. VIII‑112, in 8°.
Q3 §137 La formazione della classe intellettuale italiana. Efficacia avuta dal movimento operaio socialista per creare importanti settori della classe dominante. La differenza tra il fenomeno italiano e quello di altri paesi consiste obbiettivamente in questo: che negli altri paesi il movimento operaio e socialista elaborò singole personalità politiche, in Italia invece elaborò interi gruppi di intellettuali che come gruppi passarono all’altra classe. Mi pare che la causa italiana sia da ricercare in ciò: scarsa aderenza delle classi alte al popolo: nella lotta delle generazioni, i giovani si avvicinano al popolo; nelle crisi di svolta questi giovani ritornano alla loro classe (così è avvenuto per i sindacalisti‑nazionalisti e per i fascisti). È in fondo lo stesso fenomeno generale del trasformismo, in diverse condizioni. Il trasformismo «classico» fu il fenomeno per cui si unificarono i partiti del Risorgimento; questo trasformismo mette in chiaro il contrasto tra civiltà, ideologia ecc. e la forza di classe. La borghesia non riesce a educare i suoi giovani (lotta di generazione): i giovani si lasciano attrarre culturalmente dagli operai e addirittura se ne fanno o cercano di farsene i capi («inconscio» desiderio di realizzare essi l’egemonia della loro propria classe sul popolo), ma nelle crisi storiche ritornano all’ovile. Questo fenomeno di «gruppi» non si sarà certo verificato solo in Italia: anche nei paesi dove la situazione è analoga, si sono avuti fenomeni analoghi: i socialismi nazionali dei paesi slavi (o socialrivoluzionari o narodniki ecc.).
Q3 §138 I nipotini di Padre Bresciani. Alfredo Panzini. Ho già osservato in altra nota come F. Palazzi, nella sua recensione del libro di Panzini I giorni del sole e del grano, osservi come lo spirito del Panzini sia piuttosto quello del negriero che non quello di un disinteressato e candido georgico. Questa acuta osservazione si può applicare non solo al Panzini, che è il tipo di un’epoca. Ma un’altra osservazione di costume fa il Palazzi che è strettamente legata al Panzini e che si ricollega ad altre osservazioni da me fatte (a proposito dell’ossessione del Panzini per la «livida lama» ecc.). Scrive il Palazzi (ics, giugno 1929): «Quando (il Panzini) vi fa l’elogio, a mezza bocca, del frugale pasto consumato sulle zolle, a guardarlo bene vi accorgerete che la sua bocca fa le smorfie di disgusto e nell’intimo pensa come mai si possa vivere di cipolle e di brodo nero spartano, quando Dio ha messo sotto la terra il tartufo e in fondo al mare le ostriche. .... “Una volta – egli confesserà – mi è venuto anche da piangere”. Ma quel pianto non sgorga dai suoi occhi, come da quelli di Leone Tolstoi, per le miserie che sono sotto i suoi occhi, per la bellezza intravista di certi umili atteggiamenti, per la simpatia viva verso gli umili e gli afflitti che pur non mancano tra i coltivatori rudi dei campi. Oh, no! egli piange perché a sentir ricordati certi dimenticati nomi di masserizie, si ricorda di quando sua madre li chiamava pure così e si rivede bambino e ripensa alla brevità ineluttabile della vita, alla rapidità della morte che ci è sopra. “Signor arciprete, mi raccomando: poca terra sopra la bara”. Il Panzini insomma piange perché si fa pena. Piange di sé e della morte e non per gli altri. Egli passa accanto all’anima del contadino senza vederla. Vede le apparenze esteriori, ode quel che esce appena dalla sua bocca e si domanda se pel contadino la proprietà non sia per caso sinonimo di “rubare”».
Q3 §139 Passato e presente. Per compilare questa rubrica rileggere prima i Ricordi politici e civili di Francesco Guicciardini. Sono ricchissimi di spunti morali sarcastici, ma appropriati. Es.: «Pregate Dio sempre di trovarvi dove si vince, perché vi è data laude di quelle cose ancora di che non avete parte alcuna come per il contrario chi si trova dove si perde, è imputato di infinite cose delle quali è inculpabilissimo».
Ricordare un’affermazione di Arturo Labriola (ait latro...) come sia rivoltante moralmente sentire rimproverare le masse dai loro antichi capi che hanno mutato bandiera per aver fatto ciò che questi stessi capi avevano comandato di fare.
Per i Ricordi del Guicciardini vedere l’edizione della Soc. Editrice «Rinascimento del Libro», 1929, con prefazione di Pietro Pancrazi.
Q3 §140 Cattolicismo e laicismo. Religione e scienza, ecc. Leggere il libretto di Edmondo Cione, Il dramma religioso dello spirito moderno e la Rinascenza, Napoli, Mazzoni, 1929, pp. 132. Svolge questo concetto: «la Chiesa, forte della sua autorità, ma sentendo il vuoto aleggiarle nella testa, priva di scienza e di filosofia; il Pensiero, forte della sua potenza, ma anelante invano alla popolarità ed all’autorità della tradizione». Perché «invano?» Intanto non è esatta la contrapposizione di Chiesa e di Pensiero, o almeno nell’imprecisione del linguaggio si annida tutto un modo errato di pensare e di agire, specialmente. Il Pensiero può essere contrapposto alla Religione di cui la Chiesa è l’organizzazione militante. I nostri idealisti, laicisti, immanentisti ecc. hanno fatto del Pensiero una pura astrazione, che la Chiesa ha bellamente preso sottogamba assicurandosi le leggi dello Stato e il controllo dell’educazione. Perché il «Pensiero» sia una forza (e solo come tale potrà farsi una tradizione) deve creare una organizzazione, che non può essere lo Stato, perché lo Stato ha rinunziato in un modo o nell’altro a questa funzione etica quantunque la proclami ad altissima voce, e deve perciò nascere nella società civile. Questa gente, che è stata antimassonica, finirà col riconoscere la necessità della massoneria. Problema «Riforma e Rinascimento» altre volte accennato. Posizione del Croce (il Cione è un crociano) che non sa (e non può) popolarizzarsi, cioè «nuovo Rinascimento» ecc.
Q3 §141 La funzione internazionale degli intellettuali italiani. Nell’ics dell’ottobre 1929 Dino Provenzal, nella rubrica «Libri da fare» propone: Una storia degli Italiani fuori d’Italia, e scrive: «L’invocava Cesare Balbo tanti anni fa, come ricorda il Croce nella sua recente Storia della età barocca in Italia. Chi raccogliesse notizie ampie, sicure, documentate, intorno all’opera di nostri connazionali esuli, o semplicemente emigrati, mostrerebbe un lato ancora ignoto dell’attitudine che gli Italiani hanno sempre posseduto a diffondere idee e costruire opere in ogni parte del mondo. Il Croce, nel ricordare il disegno del Balbo, dice che questa non sarebbe storia d’Italia. Secondo come s’intende: storia del pensiero e del lavoro italiano sì».
Né il Croce né il Provenzal intendono ciò che potrebbe essere questa ricerca. Vedere e studiare questa parte del Croce, che vede il fenomeno, mi pare, troppo legato (o esclusivamente legato) alla Controriforma e alle condizioni dell’Italia nel Seicento. Ora è certo invece che proprio la Controriforma doveva automaticamente accentuare il carattere cosmopolitico degli intellettuali italiani e il loro distacco dalla vita nazionale. Botero, Campanella ecc. sono politici «europei» ecc.
Q3 §142 I limiti dell’attività dello Stato. Vedere la discussione avvenuta in questi anni a questo proposito: è la discussione più importante di dottrina politica e serve a segnare i confini tra liberali e non liberali. Può servire di punto di riferimento il volumetto di Carlo Alberto Biggini, Il fondamento dei limiti all’attività dello Stato, Città di Castello, Casa Ed. «Il Solco», pp. 150, L. 10. L’affermazione del Biggini che si ha tirannia solo se si vuol regnare fuor «delle regole costitutive della struttura sociale» può avere ampliamenti ben diversi da quelli che il Biggini suppone, purché per «regole costitutive» non si intendano gli articoli delle Costituzioni, come pare non intenda neanche il Biggini (prendo lo spunto da una recensione dell’ics dell’ottobre 1929 scritta da Alfredo Poggi). (In quanto lo Stato è la stessa società ordinata, è sovrano. Non può avere limite giuridico: non può avere limite nei diritti pubblici soggettivi, né può dirsi che si autolimiti. Il diritto positivo non può essere limite allo Stato perché può essere dallo Stato ad ogni momento modificato in nome di nuove esigenze sociali, ecc.).
A questo risponde il Poggi che sta bene e che ciò è già implicito nella dottrina del limite giuridico cioè finché un ordinamento giuridico è, lo Stato vi è costretto; se lo vuol modificare, lo sostituirà con un altro ordinamento, cioè lo Stato non può agire che per via giuridica (ma siccome tutto ciò che fa lo Stato, è per ciò stesso giuridico, si può continuare all’infinito). Veder quanto delle concezioni del Biggini è marxismo camuffato e reso astratto.
Per lo svolgimento storico di queste due concezioni dello Stato mi pare debba essere interessante il libretto di Widar Cesarini Sforza, «Jus» et «directum». sull’origine storica dell’idea di diritto, in 8° pp. 90, Bologna, Stab. tipogr. riuniti, 1930. I romani foggiarono la parola jus per esprimere il diritto come potere della volontà e intesero l’ordine giuridico come un sistema di poteri non contenuti nella loro sfera reciproca da norme oggettive e razionali: tutte le espressioni da essi usate di aequitas, justitia, recta o naturalis ratio devono intendersi nei limiti di questo significato fondamentale. Il Cristianesimo più che il concetto di jus ha elaborato il concetto di directum nella sua tendenza a subordinare la volontà alla norma, a trasformare il potere in dovere. Il concetto di diritto come potenza è riferito solo a Dio, la cui volontà diventa norma di condotta inspirata al principio dell’eguaglianza. La justitia non si distingue ormai dall’aequitas ed entrambe implicano la rectitudo che è qualità soggettiva del volere di conformarsi a ciò che è retto e giusto. Traggo questi spunti da una recensione (nel «Leonardo» dell’agosto 1930) di G. Solari che fa rapide obbiezioni al Cesarini Sforza .
Q3 §143 1914. Sugli avvenimenti del giugno 1914 ricordare l’interessantissimo saggio di Papini in «Lacerba» (questo saggio deve essere ricordato anche per altre ragioni) e gli scritti di Rerum Scriptor.
Q3 §144 Rinascimento. Come si spiega che il Rinascimento Italiano ha trovato studiosi e divulgatori numerosissimi all’estero e che non esista un libro d’insieme scritto da un italiano. Mi pare che il Rinascimento sia la fase culminante moderna della «funzione internazionale degli intellettuali italiani», e che perciò esso non abbia avuto rispondenza nella coscienza nazionale che è stata dominata e continua ad essere dominata dalla Controriforma. Il Rinascimento è vivo nelle coscienze dove ha creato correnti nuove di cultura e di vita, dove è stato operante in profondità, non dove è stato soffocato senza residuo altro che retorico e verbale e dove quindi è diventato oggetto di «mera erudizione», di curiosità estrinseca cioè.
Q3 §145 Cultura italiana e francese e Accademie. Un confronto delle culture italiana e francese può essere fatto confrontando l’Accademia della Crusca e l’Accademia degli Immortali. Lo studio della lingua è alla base di ambedue: ma il punto di vista della Crusca è quello del «linguaiolo», dell’uomo che si guarda continuamente la lingua. Il punto di vista francese è quello della «lingua» come concezione del mondo, come base elementare – popolare‑nazionale – dell’unità della civiltà francese. Perciò l’Accademia Francese ha una funzione nazionale di organizzazione dell’alta cultura, mentre la Crusca... (qual è l’attuale posizione della Crusca? Essa ha certamente cambiato carattere: pubblica testi critici ecc., ma il Dizionario in che posizione si trova nei suoi lavori?)
Q3 §146 Kipling. Potrebbe, l’opera di Kipling, servire per criticare una certa società che pretenda di essere qualcosa senza avere elaborato in sé la morale civica corrispondente, anzi avendo un modo di essere contradditorio coi fini che verbalmente si pone. D’altronde la morale di Kipling è imperialista solo in quanto è legata strettamente a una ben determinata realtà storica: ma si possono estrarre da essa immagini di potente immediatezza per ogni gruppo sociale che lotti per la potenza politica. La «capacità di bruciar dentro di sé il proprio fumo stando a bocca chiusa», ha un valore non solo per gli imperialisti inglesi, ecc.
Q3 §147 Intellettuali italiani. Carducci. La signora Foscarina Trabaudi Foscarini De Ferrari ha compilato due volumi, Il Pensiero del Carducci (Zanichelli, Bologna), di tutta la materia contenuta nei venti volumi delle opere del Carducci in forma di indice analitico‑sistematico dei nomi e concetti trattati. È indispensabile per una ricerca delle opinioni generali del Carducci e della sua concezione della vita. (Cfr l’articolo di Guido Mazzoni, Il pensiero del Carducci attraverso gli indici delle sue opere nel «Marzocco» del 3 novembre 1929).
Q3 §148 Carattere popolare‑nazionale negativo della letteratura italiana. Nel «Marzocco» dell’11 novembre 1928 è contenuto un articolo di Adolfo Faggi, Fede e dramma, in cui sono spunti che interessano questo argomento. Il Faggi dà gli elementi per istituire un confronto tra la concezione del mondo di Tolstoi e del Manzoni, sebbene affermi arbitrariamente che i «Promessi Sposi corrispondono perfettamente al suo (del Tolstoi) concetto dell’arte religiosa» esposto nello studio critico sullo Shakespeare: «L’arte in generale e in particolare l’arte drammatica fu sempre religiosa, ebbe cioè sempre per iscopo di chiarire agli uomini i loro rapporti con Dio, secondo la comprensione che di questi rapporti s’erano fatta in ogni età gli uomini più eminenti e destinati perciò a guidare gli altri... Ci fu poi una deviazione nell’arte che l’asservì al passatempo e al divertimento; deviazione che ha avuto luogo anche nell’arte cristiana». Nota il Faggi che in Guerra e Pace i due personaggi che hanno la maggiore importanza religiosa sono Platone Karatajev e Pietro Biezuchov: il primo è uomo del popolo, e il suo pensiero ingenuo ed istintivo ha molta efficacia sulla concezione della vita di Pietro Biezuchov. Nel Tolstoi è caratteristico appunto che la sapienza ingenua e istintiva del popolo, enunciata anche con una parola casuale, faccia la luce e determini una crisi nella coscienza dell’uomo colto. Questo anzi è caratteristico della religione di Tolstoi che intende l’evangelo «democraticamente», cioè secondo il suo spirito originario e originale. Il Manzoni invece ha subito la Controriforma, il suo cristianesimo ègesuitismo. E il Faggi nota che «nei Promessi Sposi sono gli spiriti superiori come il padre Cristoforo e il Card. Borromeo che agiscono sugli inferiori e sanno sempre trovare per loro la parola che illumina e guida». Bisognerebbe ancora notare che nei Promessi Sposi non c’è personaggio di condizione inferiore che non sia «preso in giro»: da don Abbondio, a fra Galdino, al sarto, a Gervasio, ad Agnese, a Renzo, a Lucia: per lo meno essi sono rappresentati come esseri meschini, senza vita interiore. Vita interiore hanno solo i signori: fra Cristoforo, il Borromeo, l’Innominato. Perpetua, secondo Don Abbondio, aveva detto presso a poco ciò che dice il card. Borromeo, ma è notevole come questo spunto sia oggetto di comico. In realtà anche nel Manzoni si potrebbero trovare voli tracce di Brescianismo (così il fatto che il parere di Renzo sul valore del voto di verginità di Lucia coincide col parere di padre Cristoforo, o l’importanza che ha la frase di Lucia nel turbare l’Innominato e nel determinarne la crisi morale, sono di carattere ben diverso da quello che ha in Tolstoi l’apporto del popolo come sorgente di vita morale e religiosa).
Q3 §149 Letteratura popolare. Verne e letteratura di avventure meravigliose. Nelle avventure di Verne non c’è niente di completamente impossibile: le «possibilità» di cui dispongono gli eroi di Verne sono superiori a quelle realmente esistenti nel tempo, ma non troppo superiori e specialmente non «fuori» della linea di sviluppo delle conquiste scientifiche del tempo. La immaginazione non è del tutto «arbitraria». Diverso è il caso del Wells e del Poe, in cui appunto domina in gran parte l’«arbitrario», anche se il punto di partenza può essere logico e innestato a una realtà scientifica concreta. Questo carattere limita la fortuna e la popolarità di Verne (a parte il valore artistico scarso): la scienza ha superato Verne e i suoi libri non sono più «eccitanti» psicologici. Lo stesso si può dire delle avventure poliziesche, per es. di Conan Doyle: per «il tempo erano eccitanti», oggi sempre meno, per varie ragioni: perché il mondo delle lotte poliziesche è più noto, mentre Conan Doyle in gran parte lo rivelava ecc. e anche perché la tecnica è più avanzata. Interessa ancora l’apporto individuale dell’eroe, la macchina psichica del ricercatore, ma allora Poe è più interessante e Chesterton ancor più ecc.
Nel «Marzocco» del 19 febbraio 1928, Adolfo Faggi (Impressioni da Giulio Verne) scrive che il carattere antinglese di molti romanzi di Verne è da riportare a quel periodo di rivalità fra la Francia e l’Inghilterra che culminò nell’episodio di Fashoda. L’affermazione è errata e credo anche anacronistica: in realtà l’antibritannicismo è un elemento fondamentale della psicologia popolare francese, forse più profondo che l’antitedeschismo, perché ha ben altra tradizione storica: l’antitedeschismo è relativamente recente, non va, in realtà, oltre la Rivoluzione Francese, ma è specialmente legato al 70, ed alla sconfitta e alla dolorosa impressione che la Francia non era più la più forte nazione militare e politica dell’Europa occidentale, perché la Germania, da sola, non in coalizione, aveva vinto la Francia. L’antinglesismo invece risale almeno alla guerra dei cento anni, è legato all’immagine popolare di Giovanna d’Arco ed è stato rinforzato modernamente dalla Rivoluzione Francese e magari da Fashoda. Questo elemento non è specifico del Verne, ma di tutta la letteratura popolare francese (cfr la Sand, ecc.) recente e non recente.
Q3 §150 Letteratura popolare. Emilio De Marchi. Perché il De Marchi non è molto letto? Eppure nei suoi libri ci sono molti elementi di «popolarità». Bisognerebbe rileggerlo e analizzare questi elementi, specialmente in Demetrio Pianelli e in Giacomo l’idealista.
Q3 §151 Carattere popolare‑nazionale negativo della letteratura italiana. (Cfr nota precedente dallo stesso titolo, due pagine avanti). In un articolo del «Marzocco» del 9 settembre 1928, Adolfo Faggi (Tolstoi e Skakespeare) esamina l’opuscolo di Tolstoi su Shakespeare al quale accenna nell’articolo su Tolstoi e Manzoni già esaminato. (Leo N. Tolstoi, Skakespeare, eine kritische Studie, Hannover, 1906: il volumetto contiene anche un articolo di Ernest Crosby su L’atteggiamento dello Shakespeare davanti alle classi lavoratrici e una breve lettera di Bernard Shaw sulla filosofia dello Shakespeare). Tolstoi demolisce Shakespeare partendo dal punto di vista della sua ideologia cristiana: ne fa una critica non artistica, ma morale e religiosa. L’articolo del Crosby, da cui prese le mosse, dimostra, contrariamente all’opinione di molti illustri inglesi, che non c’è in tutta l’opera di Shakespeare quasi alcuna parola di simpatia per il popolo e le turbe lavoratrici. Lo Shakespeare, conforme alle tendenze del suo tempo, parteggia manifestamente per le classi elevate della società: il suo dramma è essenzialmente aristocratico. Quasi tutte le volte ch’egli introduce sulla scena dei borghesi o dei popolani, li presenta in maniera sprezzante o repugnante, e li fa materia o argomento di riso. (Cfr ciò che fa Manzoni, in misura minore, ma sempre con eguale tendenza, manifestata dall’adesione a un cristianesimo aristocratico). La lettera dello Shaw è rivolta contro Shakespeare «pensatore», non contro Shakespeare artista. Secondo Shaw nella letteratura si deve dare il primo posto a quegli autori che hanno superato la morale del loro tempo e intravedute le nuove esigenze dell’avvenire: Shakespeare non fu «moralmente» superiore al suo tempo, ecc.
Nella mia trattazione dovrò evitare di apparire impeciato di tendenze moralistiche di tipo Tolstoi e anche di tipo Shaw. Per me si tratta di una ricerca di storia della cultura, non di critica artistica, altro che indirettamente (dimostrare che non io domando un contenuto morale «estrinseco», ma gli autori esaminati introducono un contenuto morale estrinseco, cioè fanno della propaganda e non dell’arte): fissare non perché un libro è «bello», ma perché esso è «letto», è «popolare», «ricercato».
Q3 §152 «Spectator» = Mario Missiroli. Che «Spectator», autore di alcuni articoli nella «Nuova Antologia» e nel «Resto del Carlino» sia Mario Missiroli è provato oltre che da prove interne (stile, modo di impostare i problemi, riferimenti a Sorel e a lettere inedite di Sorel, ecc.) anche dal fatto che alcune recensioni anonime pubblicate dalla Nuova Antologia nel 1929 sono apparse, per es. nell’«Italia letteraria», con la firma di Missiroli.
Q3 §153 Letteratura popolare. sul romanzo poliziesco. Il romanzo poliziesco è nato ai margini della letteratura delle «Cause Celebri» (che a sua volta è collegata ai romanzi tipo Conte di Montecristo ecc.: non si tratta anche qui di «cause celebri» tipiche, che riassumono cioè l’ideologia popolare intorno alla amministrazione della giustizia, specialmente se ad essa s’intreccia la passione politica? E Rodin dell’Ebreo Errante non è anch’esso un tipo di «organizzatore» di intrighi scellerati, e il principe Rodolfo l’organizzatore di «amicizie del popolo»? Il passaggio da questi romanzi a quelli d’avventura segue un processo di «fissazione» dello schema dell’intrigo, ma specialmente segna una depurazione dall’elemento ideologico piccolo borghese e democratico: non più lotta tra il popolo buono e generoso ecc. e le forze misteriose della tirannide‑gesuiti ecc. –, ma tra delinquente e poliziotto sulla base della legge scritta).
Le «Cause Celebri», nella celebre collezione francese, avevano il corrispettivo in Inghilterra e in Germania (e in Italia? Fu tradotta, credo, la collezione francese, almeno in parte, per i processi di fama mondiale). Nasce una letteratura di carattere «giudiziario»: il grande delinquente viene rappresentato come superiore alla giustizia (all’apparato giudiziario); romanticismo = Masnadieri di Schiller. Racconti di Hoffmann, Anna Radcliffe, Balzac, Vautrin. Lo Javert di Victor Hugo inizia una riabilitazione del poliziotto; non che Javert sia presentato simpaticamente, ma appare come un «uomo di carattere», «la legge personificata». Rocambole e Ponson du Terrail. Gaboriati riabilita il poliziotto: Lecocq apre la strada a Sherlock Holmes. (Non è vero che gli Anglosassoni rappresentino in questa letteratura la «difesa della legge», mentre i Francesi rappresentano l’esaltazione del delinquente: negli Stati Uniti prevale forse la rappresentazione del grande delinquente ecc.). In questa letteratura un aspetto «meccanico» e un aspetto «artistico». Poe e Chesterton l’aspetto artistico.
Q3 §154 Aspetto nazionale‑popolare negativo della letteratura italiana. Su Bruno Cicognani, scrive Alfredo Gargiulo nell’«Italia Letteraria» del 24 agosto 1930 (cap. XIX di 1900‑1930): «L’uomo e l’artista fanno nel Cicognani una cosa sola: nondimeno si sente il bisogno di dichiarar subito, quasi in separata sede (!), la simpatia che ispira l’uomo. L’umanissimo Cicognani! Qualche sconfinamento, lieve del resto, nell’umanitarismo di tipo romantico o slavo: che importa? Ognuno sarà disposto a perdonarglielo, in omaggio a quell’autentica (!) fondamentale umanità». Dal seguito non si capisce bene ciò che il Gargiulo voglia dire: è caso «mostruoso» che l’uomo e l’artista facciano una cosa sola? E cosa significa «l’autentica fondamentale umanità»: «autentico» sostituisce il «vero» di una volta, troppo screditato. Bisognerebbe, come detto altrove, leggere tutta l’esposizione del Gargiulo: per me «umanità» autentica, fondamentale ecc. può significare una cosa sola: «storicità», cioè carattere «nazionale-popolare» dello scrittore, sia pure in senso largo, «socialità» dello scrittore, anche in senso «aristocratico», purché il gruppo sociale che esso esprime sia vivo storicamente e il «collegamento» sociale non sia di carattere «pratico‑politico» cioè predicatorio moralistico, ma «storico morale».
Q3 §155 L’architettura nuova. Speciale carattere obbiettivo dell’architettura. Realmente l’«opera d’arte» è il «progetto» (l’insieme dei disegni e dei piani e dei calcoli, coi quali persone diverse dall’architetto «artista‑progettista» possono realizzare l’edifizio, ecc.): un architetto può essere giudicato grande artista dai suoi piani, anche senza aver edificato materialmente nulla. Il progetto sta all’edifizio materiale come il «manoscritto» sta al libro stampato: l’edifizio è l’estrinsecazione sociale dell’arte, la sua «diffusione», la possibilità data al pubblico di partecipare alla bellezza (quando è tale), così come il libro stampato.
Cade l’obbiezione del Tilgher al Croce a proposito della «memoria» come causa dell’estrinsecazione artistica: l’architetto non ha bisogno dell’edifizio per «ricordare» ma del progetto. Ciò sia detto anche solo considerando la «memoria» crociana come approssimazione relativa nel problema del perché il pittore dipinge, lo scrittore scrive ecc. e non si accontenta di costruire fantasmi per solo suo uso e consumo: e tenendo conto che ogni progetto architettonico ha un carattere di «approssimazione» maggiore che il manoscritto, la pittura ecc. Anche lo scrittore introduce innovazioni per ogni edizione del libro (o corregge le bozze modificando ecc., cfr Manzoni): nell’architettura la quistione è più complessa, perché l’edifizio è compiuto mai in sé completamente, ma deve avere degli adattamenti anche in rapporto al «panorama» in cui viene inserito ecc. (e non si possono fare di esso delle seconde edizioni così facilmente come di un libro ecc.). Ma il punto più importante da osservare oggi è questo: che in una civiltà a rapido sviluppo, in cui il «panorama» urbano deve essere molto «elastico», non può nascere una grande arte architettonica, perché è più difficile pensare edifizi fatti per l’«eternità». In America si calcola che un grattacielo debba durare non più di 25 anni, perché si suppone che in 25 anni l’intera città «possa» mutare fisionomia, ecc. ecc. Secondo me, una grande arte architettonica può nascere solo dopo una fase transitoria di carattere «pratico», in cui cioè si cerchi solo di raggiungere la massima soddisfazione ai bisogni elementari del popolo col massimo di convenienze: ciò inteso in senso largo, non cioè solo per quanto riguarda il singolo edifizio, la singola abitazione o il singolo luogo di riunione per grandi masse, ma in quanto riguarda un complesso architettonico, con strade, piazze, giardini, parchi, ecc.
Q3 §156 Lorianismo. Trombetti e la monogenesi del linguaggio. La Nuova Antologia, che in un articolo di Pericle Ducati (già da me notato precedentemente) aveva esaltato l’opera del Trombetti per l’interpretazione dell’etrusco, nel numero del 1° marzo 1929 pubblica una nota di V. Pisani, Divagazioni etrusche, completamente stroncatoria. Il Pisani ricorda contro il Trombetti alcuni canoni elementari per lo studio critico della scienza delle lingue:
1°. Il metodo puramente etimologico è privo di consistenza scientifica: la lingua non è il puro lessico, errore volgare e diffusissimo: le singole parole astrattamente prese, anche somigliantissime in una determinata fase storica, possono: a) essere nate indipendentemente l’una dall’altra; esempio classico mysterion greco ed ebraico, con lo stesso significato: ma in greco il significato è dato da myst-, ed ‑erion è suffisso per gli astratti, mentre in ebraico è il contrario: ‑erion (o terion) è la radicale fondamentale e myst- (o mys‑) è il prefisso generico; così haben tedesco non ha la stessa origine di habere latino, né to call inglese di xaléo greco o di calãre latino (chiamare), né ähnlich tedesco può unirsi ad anàlogos greco ecc. Il Littmann pubblicò, nella Zeitschrift der Deutschen Morgenl. Gesellschaft, LXXVI, pp. 270 sgg., una lista di queste apparenti concordanze per dimostrare l’assurdità dell’etimologia antiscientifica; b) possono essere state importate da una lingua all’altra in epoche relativamente preistoriche: per esempio: l’America è stata «scoperta» da Cristoforo Colombo «solo» dal punto di vista della civiltà europea nel complesso, cioè Cristoforo Colombo ha fatto entrare l’America nella zona d’influsso della civiltà europea, della storia europea; ma ciò non esclude, tutt’altro, che elementi europei, o di altri continenti, possano essere andati in America anche in gruppi relativamente considerevoli e avervi lasciato delle «parole», delle forme lessicali più o meno considerevoli; ciò può ripetersi per l’Australia e per ogni altra parte del mondo; come si può allora affermare, come fa il Trombetti, su numeri relativamente scarsi di forme lessicali (30‑40), che tali forme siano documento della monogenesi?
2°. Le forme lessicali e i loro significati devono essere confrontate per fasi storiche omogenee delle lingue rispettive, per ogni forma occorre perciò «fare» oltre la storia fonologica anche la storia semantica e confrontare i significati più antichi. Il Trombetti non rispetta nessuno di questi canoni elementari: a) si accontenta, nei confronti, di significati generici affini, anche non troppo affini (qualche volta stiracchiati in modo ridicolo: ricordo un caso curiosissimo di un verbo di moto arioeuropeo confrontato con una parola di un dialetto asiatico che significa «ombelico» o giù di lì, che dovrebbero corrispondere, secondo il Trombetti, per il fatto che l’ombelico si «muove» continuamente per la respirazione!); b) basta per lui che nelle parole messe a confronto si verifichi la successione di due suoni consonantici rassomigliantisi come, per esempio, t, th, d, dh, s, ecc., oppure p, ph, f, b, bh, v, w, ecc.; si sbarazza delle altre consonanti eventuali considerandole come prefissi, suffissi o infissi.
3°. La parentela di due lingue non può essere dimostrata dalla comparazione, anche fondata, di un numero anche grandissimo di parole, se mancano gli argomenti grammaticali di indole fonetica e morfologica (e anche sintattica, sebbene in minor grado). Esempio: l’inglese che è lingua germanica anche se il lessico è molto neolatino; il rumeno che è neolatino anche se ha molte parole slave; l’albanese che è illirico anche se il lessico è greco, latino, slavo, turco, italiano; l’armeno che contiene molto iranico: persiano arabizzato ma sempre arioeuropeo ecc.
Perché il Trombetti ha avuto tanta fama? 1°. Naturalmente ha dei meriti, primo fra tutti di essere un grande poliglotta. 2°. Perché la tesi della monogenesi è sostenuta dai cattolici, che vedono nel Trombetti «un grande scienziato d’accordo colla Bibbia» e quindi lo portano sugli scudi. 3°. La boria delle nazioni. Però il Trombetti è più apprezzato dai profani che dai suoi colleghi nella sua scienza. Certo la monogenesi non può essere esclusa a priori, ma non può neanche essere provata, o almeno il Trombetti non l’ha provata. Ricordare gli epigrammi del Voltaire contro l’etimologista famigerato Ménage (Gilles, 1633‑1692) sull’etimologia di alfana > equa per esempio.
Il metodo acritico del Trombetti applicato all’etrusco non poteva dare risultati certi, evidentemente. La sua interpretazione può essere messa in serie con le tante che ne sono state date: «per caso» potrebbe essere vera, ma di questa verità non può essere data la dimostrazione. (Vedere in che consiste il metodo che il Trombetti chiama «combinatorio»: non ho materiale: pare che significhi questo: il raccostamento di un termine etrusco ignoto con un termine noto di altra lingua riputata affine deve essere controllato coi termini noti di altre lingue affini che somigliano come suono ma non coincidono tra loro nei significati ecc.: ma forse non è questo).
Q3 §157 Distacco tra dirigenti e diretti. Assume aspetti diversi a seconda delle circostanze e delle condizioni generali. Diffidenza reciproca: il dirigente dubita che il «diretto» lo inganni, esagerando i dati positivi e favorevoli all’azione e perciò nei suoi calcoli deve tener conto di questa incognita che complica l’equazione. Il «diretto» dubita dell’energia e dello spirito di risolutezza del dirigente e perciò è tratto anche inconsciamente a esagerare i dati positivi e a nascondere o sminuire i dati negativi. C’è un inganno reciproco, origine di nuove esitazioni, di diffidenze, di quistioni personali ecc. Quando ciò avviene, significa che: 1) c’è crisi di comando; 2) l’organizzazione, il blocco sociale del gruppo in parola, non ha ancora avuto il tempo di saldarsi, creando l’affiatamento reciproco, la reciproca lealtà; 3) ma c’è un terzo elemento: l’incapacità del «diretto» a svolgere il suo compito che significa poi incapacità del «dirigente» a scegliere, a controllare, a dirigere il suo personale.
Esempi pratici: un ambasciatore può ingannare il suo governo: 1) perché vuole ingannarlo per interesse personale; caso di slealtà per tradimento di carattere nazionale o statale: l’ambasciatore è o diventa l’agente di un governo diverso da quello che rappresenta; 2) perché vuole ingannarlo, essendo avversario della politica del governo e favorevole alla politica di altro partito governativo del suo stesso paese, quindi perché vuole che nel suo paese al governo vada un partito piuttosto che un altro: caso di slealtà che in ultima analisi può diventare altrettanto grave che il precedente, sebbene possa essere accompagnato da circostanze attenuanti, come sarebbe il caso che il governo non faccia una politica nazionale e l’ambasciatore ne abbia le prove perentorie: sarebbe allora slealtà verso uomini transitori per poter essere leali verso lo Stato immanente: quistione terribile perché questa giustificazione ha servito a uomini indegni moralmente (Fouché, Talleyrand e, meno, i marescialli di Napoleone); 3) perché non sa d’ingannarlo, per incapacità o incompetenza o per scorrettezza (trascura il servizio) ecc. In questo caso la responsabilità del governo deve essere graduata: 1) se avendo possibilità di scelta adeguate ha scelto male per ragioni estrinseche al servizio (nepotismo, corruzione, limitazioni di spese per servizio importante per cui invece di capaci si scelgono i «ricchi» per la diplomazia o i «nobili» ecc.); 2) se non ha possibilità di scelta (Stato nuovo, come l’Italia nel 1861‑70) e non crea le condizioni generali per sanare la deficienza e procurarsi la possibilità di scelta.
Q3 §158 Il nodo storico 1848‑49. Vedete e analizzare minutamente il succedersi dei governi e delle combinazioni di partiti al governo piemontese dalla preparazione della guerra fino al proclama di Moncalieri, da Cesare Balbo a Massimo D’Azeglio. Funzione di Gioberti e di Rattazzi. In che consistette precisamente il connubio Cavour‑Rattazzi? Fu il primo passo della disgregazione democratica? Ma fino a che punto Rattazzi poteva dirsi un democratico?
Q3 §159 Risorgimento. La storia come «biografia» nazionale. Questa forma di storia comincia col nascere del sentimento nazionale. Si presuppone che ciò che si desidera sia sempre esistito e non abbia potuto affermarsi per l’intervento di forze estranee o per l’addormentarsi delle virtù intime. È storia oleografica: l’Italia è veramente pensata come qualcosa di astratto, come la bella donna dei quadri ecc. di cui gli italiani sono i «figli» ecc. Si fa la sua biografia contrapponendola ai figli degeneri, o deviati ecc. ecc. Si capisce che questa storia è nata per ragioni pratiche, di propaganda. Ma perché continuare in questa tradizione. Oggi essa è doppiamente antistorica: perché è in contraddizione con la realtà e perché impedisce di valutare adeguatamente lo sforzo del Risorgimento, sminuendo la figura e l’originalità dei suoi protagonisti.
Q3 §160 Struttura economica italiana. Giuseppe Paratore in un articolo della Nuova Antologia del 1° marzo 1929 La Economia, la Finanza, il Denaro d’Italia scrive che l’Italia ha «una doppia costituzione economica (industriale capitalistica al nord, agraria di risparmio al sud)» e nota come tale situazione abbia reso difficile nel 26‑27 la stabilizzazione della lira. Il metodo più semplice e diretto di consolidare rapidamente la svalutazione monetaria, creando subito una nuova parità – secondo le prescrizioni di Kemmerer, Keynes, Cassel ecc. – non era consigliabile ecc.
Sarebbe interessante sapere quale fattore risultò, in ultima analisi, meglio difeso: se l’economia del Nord o quella del Sud, e ciò perché, in realtà, la stabilizzazione fu compiuta dopo molte esitazioni e sotto il panico di un crollo fulmineo (corso del dollaro nel 1928: gennaio 477,93, febbraio 479,93, marzo 480,03, aprile 479,63, maggio 500,28, giugno 527,72, luglio 575,41); bisogna inoltre tener conto che il Sud era più omogeneo rispetto al Nord nelle sue rivendicazioni e aveva la solidarietà di tutti i risparmiatori nazionali; nel Nord i capitalisti divisi, esportatori favorevoli inflazione, per il mercato interno ecc. ecc. Inoltre: la bassa stabilizzazione avrebbe provocato una crisi sociale-politica e non solo puramente economica, perché avrebbe mutato la posizione sociale di milioni di cittadini.
Q3 §161 Leone XIII. Per la sua personalità, abbastanza limitata e meschina, cfr Piero Misciatelli, Un libro di ricordi e di preghiere del papa Leone XIII, Nuova Antologia, 1° marzo 1929.
Q3 §162 Il nodo storico 1848‑49. Articolo nella «Nuova Antologia» del 1° marzo 1929: Carlo Pagani, Dopo Custoza e Volta nel 1848. Riporta alcuni documenti inediti tratti dall’Archivio Casati di Milano, non essenziali, ma significativi per vedere la crisi politica di quel momento, crisi politica che fu uno degli elementi principali della disfatta militare: mancanza di unità politica, di un indirizzo politico ben stabilito, esitazioni, azione irresponsabile delle cricche reazionarie, poca attenzione per i bisogni dell’esercito inteso come massa umana ecc.
Appare che l’Inghilterra era contraria all’intervento militare della Francia a favore del Piemonte – Palmerston dichiarò che l’intervento francese avrebbe scatenato una guerra europea perché l’Inghilterra non l’avrebbe tollerato – mentre solo mollemente appoggiava il Piemonte in via diplomatica per evitare una disfatta rovinosa e mutamenti territoriali troppo favorevoli all’Austria.
L’articolo è da rivedere in caso di ricostruzione degli avvenimenti del 48‑49 per trovare elementi di concordanza con altri documenti, e di sussidio. Per la bibliografia dell’argomento: per le vicende del ministero Casati‑Gioberti (luglio‑agosto 1848) cfr la lettera dello stesso Gioberti a Giuseppe Massari pubblicata dal sen. Matteo Mazziotti (con proemio) nella Nuova Antologia del 16 giugno 1918; per la missione di Carlo d’Adda in Francia e Inghilterra svolta per incarico del governo provvisorio di Milano cfr Pagani, Resoconto del Congresso Storico di Trento, 1926 (discorso Il Governo provvisorio di Milano nel 1848 e il Trentino, pronunziato dal Pagani al Congresso); Carlo Pagani, Uomini e cose in Milano dal marzo all’agosto del 1848, Editore Cogliati, Milano (con documenti tratti dal Museo storico del Risorgimento Italiano di Milano, e specialmente dagli Archivi Casati, d’Adda, Arese, Giulini‑Crivelli, Restelli).
Q3 §163 La «storia» del Risorgimento di Alessandro Luzio. È da notare come il modo di scrivere la storia del Risorgimento di A. Luzio sia stato lodato dai gesuiti della «Civiltà Cattolica». Non sempre immagino, ma più spesso di quanto si creda, l’accordo tra il Luzio e i gesuiti è possibile. Cfr nella «Civiltà Cattolica» del 4 agosto 1928, pp. 216‑17, nell’articolo Processo politico e condanna dell’abbate Gioberti nell’anno 1833. Il Luzio deve difendere la politica di Carlo Alberto (nel libro Mazzini carbonaro, p. 498) e non esita a giudicare aspramente l’atteggiamento del Gioberti nel processo per i fatti del 31, d’accordo coi gesuiti (è da notare che dagli articoli pubblicati dalla «Civiltà Cattolica» nel 1928 su questo processo del Gioberti risulta dai documenti degli Archivi Vaticani che il papa aveva già dato preventivamente – in forma loiolesca – il suo placet alla condanna a morte e all’esecuzione del Gioberti, mentre nel 21 la condanna a morte di un ecclesiastico in Piemonte era stata trasformata nell’ergastolo per intervento vaticano).
Q3 §164 sul movimento religioso. La redazione della «Civiltà Cattolica». Gli articoli della «Civiltà Cattolica» sono scritti tutti da padri della Compagnia di Gesù e ordinariamente non sono firmati. Qualche volta si può sapere chi siano gli autori, perché negli estratti il loro nome è pubblicato (non sempre però). Così, per es., la rubrica sulle quistioni operaie è fatta dal padre Angelo Brucculeri, che deve essere anche il rappresentante italiano nel Centro internazionale di Malines che ha compilato il Codice sociale.
Bisognerebbe procurarsi il catalogo delle pubblicazioni vendibili presso la «Civiltà Cattolica» per vedere di quali quistioni sono messi in vendita gli estratti: è un indice dell’importanza data alle quistioni stesse. Ricordare che nel 1929 (o ai primi del 30) l’«Amico delle Famiglie» pubblicò che il padre Rosa aveva lasciato la direzione della «Civiltà Cattolica» ed era stato inviato dal papa in Ispagna per una missione, dopo essergli stata donata una medaglia d’oro in riconoscimento dei servizi resi al Vaticano. L’«Amico delle Famiglie» è un settimanale cattolico di Genova e deve aver riprodotto la notizia dalla stampa quotidiana cattolica e non cattolica. Perché? Di fatto il padre Rosa andò in Ispagna ed ebbe la medaglia, ma continuò a dirigere la «Civiltà Cattolica». Evidentemente l’allontanamento del padre Rosa era desiderato, per l’atteggiamento preso sull’applicazione del Concordato, talvolta abbastanza aspro: ma il papa non credette di esaudire il pio desiderio, perché la linea del padre Rosa era quella del Vaticano e il papa teneva a farlo sapere.
La «Civiltà Cattolica» pubblica ogni tanto degli indici analitici delle sue annate: l’ultimo è quello delle annate 1911‑1925 compilato dal Cav. Giuseppe Del Chiaro, segretario di redazione. Su tutte le quistioni importanti bisognerà vedere questi indici, perché le pubblicazioni e i commenti dei gesuiti hanno una certa importanza e possono dare degli spunti: specialmente sulle quistioni di storia del Risorgimento. Ricordare la quistione dei Costituti di Federico Confalonieri. Così sulla quistione del brigantaggio dal 60 al 70: ricordare la quistione dei fratelli La Gala imbarcatisi a Civitavecchia su battello francese e arrestati a Genova dai Piemontesi, con conseguente protesta diplomatica del papa e della Francia, restituzione dei La Gala e loro estradizione ecc. Importanti sono gli articoli storici della «Civiltà Cattolica» sui movimenti cattolico‑liberali e l’odio dei gesuiti contro Gioberti che ancora oggi è vituperato banalmente ad ogni occasione.
Movimenti pancristiani. Nathan Söderblom, arcivescovo luterano di Upsala in Svezia, propugna un cattolicismo evangelico, consistente in una adesione diretta a Cristo (prof. Federico Heiler, già cattolico romano, autore del libro Der Katholizismus, seine Idee und seine Erscheinung, Monaco, 1923, della stessa tendenza, ciò che significa che i pancristiani qualche successo l’hanno avuto).
Cattolicismo nell’India. Upadhyaya Brahmabandhav, celebre Sannyasi (?) cattolico, che voleva convertire l’India al Cattolicismo, per mezzo degli stessi indù, cristianizzando le parti dell’induismo passibili di essere assorbite; fu disapprovato dal Vaticano per eccessi di nazionalismo. (Quando avvenne questa predicazione di Upadhyaya? Mi pare che oggi il Vaticano sarebbe più tollerante). Per la quistione del Cristianesimo in India vedere il fenomeno del Sadhu Sundar Sing: cfr «Civiltà Cattolica», 7 e 21 luglio 1928.
Q3 §165 Italo Toscani. Nel 1928 è uscita una Vita di S. Luigi Gonzaga di Italo Toscani, Roma, Libreria Fr. Ferrari, in 16°, pp. 254, L. 5,50, lodata dalla «Civiltà Cattolica» del 21 luglio 1928. Il Toscani già nel 26 scriveva nel «Corriere d’Italia». Ricordare le sue avventure durante la guerra. Il suo contegno al fronte (furono pubblicate dal Comando militare cartoline illustrate con suoi versi d’occasione). Suoi articoli nel 1919, specialmente contro i carabinieri: uomo repellente da ogni punto di vista. Condannato a 6 o 7 anni nel 1917 dal Tribunale di Roma per antimilitarismo, la condanna gli fu condonata per le poesie scritte al fronte; autolesionista: si «curava» gli occhi in modo così sfacciato che faceva maraviglia come al reggimento gliela passassero liscia. «Stranezze» della vita militare durante la guerra. Come mai al Toscani, abbastanza noto, si davano tanti permessi di dormire fuori della caserma? (aveva una stanza mobiliata ai Canelli; episodio tragicomico del falso Calabresi).
Q3 §166 Passato e presente. Per la compilazione esatta di questa rubrica, per avere degli spunti e per aiuto alla memoria, occorrerà esaminare accuratamente alcune collezioni di riviste: per esempio, dell’«Italia che Scrive» di Formiggini, che in determinate rubriche dà un quadro del movimento pratico della vita intellettuale – fondazione di nuove riviste, concorsi, associazioni culturali ecc. (Rubrica delle rubriche) –; della «Civiltà Cattolica» per coglierne certi atteggiamenti e per le iniziative e le affermazioni di enti religiosi (per es. nel 20 l’episcopato lombardo si pronunziò sulle crisi economiche, affermando che i capitalisti e non gli operai devono essere i primi a subirne le conseguenze). La «Civiltà Cattolica» pubblica qualche articolo sul marxismo molto interessante e sintomatico.