Library:Prison Notebooks In Original Italian/Notebook 14
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Written in 1932-35
QUADERNO 14
Q14 §1 Letteratura popolare (cfr paragrafo successivo). È giusto che lo studio della funzione non è sufficiente, pur essendo necessario, per creare la bellezza: intanto sulla stessa «funzione» nascono discordie, cioè anche l’idea e il fatto di funzione è individuale o dà luogo a interpretazioni individuali. Non è poi detto che la «decorazione» non sia «funzionale» e si intende «decorazione» in senso largo, per tutto ciò che non è strettamente «funzionale» come la matematica. Intanto la «razionalità» porta alla «semplificazione», ciò che è già molto. (Lotta contro il secentismo estetico che appunto è caratterizzato dal prevalere dell’elemento esternamente decorativo su quello «funzionale» sia pure in senso largo, cioè di funzione in cui sia compresa la «funzione estetica»). È molto che si sia giunti ad ammettere che l’«architettura è l’interpretazione di ciò che è pratico». Forse questo potrebbe dirsi di tutte le arti che sono una «determinata interpretazione di ciò che è pratico», dato che all’espressione «pratico» si tolga ogni significato «deteriore, giudaico» (o piattamente borghese: è da notare che «borghese» in molti linguaggi significa solo «piatto, mediocre, interessato», cioè ha assunto il significato che una volta aveva l’espressione «giudaico»: tuttavia questi problemi di linguaggio hanno importanza, perché linguaggio = pensiero, modo di parlare indica modo di pensare e di sentire non solo ma anche di esprimersi, cioè di far capire e sentire). Certo per le altre arti le quistioni di «razionalismo» non si pongono nello stesso modo che per l’architettura, tuttavia il «modello» dell’architettura è utile, dato che a priori si deve ammettere che il bello è sempre tale e presenta gli stessi problemi, qualunque sia l’espressione formale particolare di esso. Si potrebbe dire che si tratta di «tecnica», ma tecnica non è che espressione e il problema rientra nel suo circolo iniziale con diverse parole.
Q14 §2 Letteratura popolare. Quistioni di nomi. È evidente che in architettura «razionalismo» significa semplicemente «moderno»: è anche evidente che «razionale» non è altro che un modo di esprimere il bello secondo il gusto di un certo tempo. Che ciò sia avvenuto nell’architettura prima che in altre arti si capisce, perché l’architettura è «collettiva» non solo come «impiego», ma come «giudizio». Si potrebbe dire che il «razionalismo» è sempre esistito, cioè che si è sempre cercato di raggiungere un certo fine secondo un certo gusto e secondo le conoscenze tecniche della resistenza e dell’adattabilità del «materiale».
Di quanto e del come il «razionalismo» dell’architettura possa diffondersi nelle altre arti è quistione difficile e che sarà risolta dalla «critica dei fatti» (ciò che non vuol dire che sia inutile la critica intellettuale ed estetica che prepara quella dei fatti). Certo è che l’architettura pare di per sé, e per le sue connessioni immediate col resto della vita, la più riformabile e «discutibile» delle arti. Un quadro o un libro o una statuina, può tenersi in luogo «personale» per il gusto personale; non così una costruzione architettonica. È anche da ricordare indirettamente (per ciò che vale in questo caso) l’osservazione del Tilgher che l’opera d’architettura non può essere messa alla stregua delle altre opere d’arte per il «costo», l’ingombro, ecc. Distruggere un’opera costruttiva, cioè fare e rifare, tentando e riprovando, non si adatta molto all’architettura.
Q14 §3 Machiavelli. Centro. Uno studio accurato dei partiti di centro in senso largo sarebbe oltremodo educativo. Termine esatto, estensione del termine, cambiamento storico del termine e dell’accezione. Per esempio, i giacobini furono un partito estremo: oggi sono tipicamente di centro; così i cattolici (nella loro massa); così anche i socialisti,ecc. Credo che un’analisi dei partiti di centro e della loro funzione sia parte importante della storia contemporanea.
E non lasciarsi illudere dalle parole o dal passato: è certo per esempio che i «nichilisti» russi sono da considerarsi partito di centro, e così perfino gli «anarchici» moderni. La quistione è se per simbiosi un partito di centro non serva a un partito «storico», esempio il partito hitleriano (di centro) a Hugenberg e Papen (estremisti: estremisti in un certo senso, agrari e in parte industriali, data la storia tedesca particolare). Partiti di centro e partiti «demagogici» o borghesi‑demagogici.
Lo studio della politica tedesca e francese nell’inverno 1932-33 dà una massa di materiale per questa ricerca, così la contrapposizione della politica estera a quella interna (mentre è sempre la politica interna che detta le decisioni, s’intende di un paese determinato: infatti è chiaro che l’iniziativa, dovuta a ragioni interne, di un paese, diventerà «estera» per il paese che subisce l’iniziativa).
Q14 §4 Letteratura popolare. Origini popolaresche del «superuomo». Ogni volta che ci si imbatte in qualche ammiratore del Nietzsche, è opportuno ricercare se le sue concezioni «superumane», contro la morale convenzionale ecc. ecc., sono di genuina origine nicciana, sono cioè il prodotto di una elaborazione di pensiero da porsi nella sfera della «alta cultura», oppure hanno origini molto più modeste, per esempio sono connesse alla letteratura d’appendice. (Ma lo stesso Nietzsche non sarà stato per nulla influenzato dai romanzi francesi d’appendice? Occorre ricordare che tale letteratura, oggi degradata alla portineria e al sottoscala, è stata molto diffusa tra gli intellettuali fino al 70 almeno, come oggi il romanzo «giallo»). In ogni modo pare si possa dire che molta sedicente superumanità nicciana ha solo come modello e origine «dottrinale» il… Conte di Montecristo di A. Dumas. In Dumas, per quanto mi consta, il tipo di Montecristo è stato rappresentato più volte: esso è da vedere, per es., nell’Athos dei Tre Moschettieri e in Giuseppe Balsamo, ma forse si potrà trovare anche in altri romanzi.
Quando si legge che uno è ammiratore di Balzac, occorre stare attenti: anche in Balzac c’è qualcosa del romanzo d’appendice. Vautrin è anch’egli, a suo modo, un superuomo, e il discorso che egli fa a Rastignac in Papa Goriot ha molto di… nicciano nel senso popolaresco.
Così Rastignac e di Rubempré. (Vincenzo Morello è diventato «Rastignac» per questa filiazione… popolaresca e ha difeso «Corrado Brando»).
Ricordare che Nietzsche è stato edito dal Monanni e si conoscono le origini culturali‑ideologiche del Monanni e la sua clientela. Così Vautrin e l’«amico di Vautrin» hanno lasciato traccia nella letteratura di Paolo Valera e nella sua «Folla». (Ricordare l’«amico di Vautrin» torinese). Così l’ideologia dei «moschettieri», presa dal romanzo di Dumas. Che si abbia un certo pudore a giustificare mentalmente le proprie concezioni con i romanzi di Dumas e di Balzac, s’intende facilmente: le si giustifica perciò col Nietzsche e si ammira Balzac come scrittore d’arte e non come creatore di figure romanzesche del tipo appendice. Ma il nesso reale è certo culturalmente. Il tipo del «superuomo» è Montecristo (liberato di quel particolare alone di «fatalismo» che è proprio del basso romanticismo che è ancora più calcato in Athos e in Giuseppe Balsamo). Montecristo portato nella politica, è certo pittoresco: la lotta contro i «nemici» personali del Montecristo. Si può osservare come certi paesi siano rimasti provinciali e arretrati anche in ciò in confronto di altri; mentre già Sherlock Holmes sembra anacronistico per molta Europa, in certi paesi si è ancora a Montecristo e a Fenimore Cooper (i «selvaggi», «pizzo di ferro» ecc.).
Cfr il libro di Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica (Ed. della Cultura); accanto alla ricerca del Praz bisognerebbe fare quest’altra ricerca: del «superuomo» nella letteratura popolare e dei suoi influssi nella vita reale e nei costumi. Ancora: l’Omodeo ha osservato che esiste una specie di «manomorta» culturale ed è costituita dalla letteratura religiosa, di cui nessuno pare voglia occuparsi, come se non avesse una importanza e una funzione nella vita nazionale e popolare. A parte l’epigramma della «manomorta» e la soddisfazione del clero che la sua letteratura non sia sottoposta a critica, esiste un altra sezione della vita culturale nazionale e popolare di cui nessuno si occupa e si preoccupa, criticamente, ed è appunto la letteratura d’appendice propriamente detta e in senso più largo (anche Victor Hugo vi rientra in questo senso e anche Balzac).
In Montecristo vi sono due capitoli dove esplicitamente si «disserta» del superuomo d’appendice: il capitolo intitolato «Ideologia», quando Montecristo si incontra col procuratore Villefort, e il capitolo che descrive la colazione presso il visconte di Morcerf al primo viaggio di Montecristo a Parigi. Sarà da vedere se in altri romanzi del Dumas esistono spunti «ideologici» del genere: nei Tre Moschettieri la figura di Athos ha più dell’uomo fatale generico del basso romanticismo. Si solleticano gli umori popolareschi individualistici piuttosto con l’attività avventurosa ed extralegale dei «moschettieri» come tali. In Giuseppe Balsamo, la potenza dell’individuo è legata a forze oscure di magia e all’appoggio della massoneria europea, quindi meno suggestivo l’esempio per il lettore popolaresco. Non ricordo altre figure tipiche.
Nel Balzac le figure sono più concretamente artistiche, ma tuttavia rientrano nell’atmosfera del romanticismo. Rastignac e Vautrin non sono da confondere certo con i personaggi dumasiani: ma appunto perciò la loro influenza è più «confessabile» non solo da parte di uomini come Paolo Valera e i suoi collaboratori della «Folla», ma anche da mediocri intellettuali, come V. Morello, che però ritengono (e sono ritenuti da molti) di appartenere all’alta cultura.
Q14 §5 Criteri metodologici. Nell’esaminare criticamente una «dissertazione» può essere quistione: 1) di valutare se l’autore dato ha saputo con rigore e coerenza dedurre tutte le conseguenze dalle premesse che ha assunto come punto di partenza (o di vista): può darsi che manchi il rigore, che manchi la coerenza, che ci siano omissioni tendenziose, che manchi la «fantasia» scientifica (che cioè non si sappia vedere tutta la fecondità del principio assunto ecc.); 2) di valutare i punti di partenza (o di vista), le premesse, che possono essere negate in tronco, o limitate, o dimostrate non più valide storicamente; 3) di ricercare se le premesse sono omogenee tra loro, o se, per incapacità o insufficienza dell’autore (o ignoranza dello stato storico della quistione) è avvenuta contaminazione tra premesse o principii contradditori o eterogenei o storicamente non avvicinabili. Così la valutazione critica può avere diversi fini culturali (o anche polemico‑politici): può tendere a dimostrare che Tizio individualmente è incapace e nullo; che il gruppo culturale a cui Tizio appartiene è scientificamente irrilevante; che Tizio il quale «crede» o pretende di appartenere a un gruppo culturale, si inganna o vuole ingannare, che Tizio si serve delle premesse teoriche di un gruppo rispettabile per trarre deduzioni tendenziose e particolaristiche ecc.
Q14 §6 Passato e presente. Fratate. Una ottava di Luigi Pulci (Morgante, XXVIII, 42; è da confrontare): «Sempre i giusti son primi i lacerati; – io non vo’ ragionar più della fede; – ch’io me ne vo poi in bocca a questi frati, – dove vanno anche spesso le lamprede; – e certi scioperon pinzocherati – rapportano: “Il tal disse, il tal non crede”, – donde tanto rumor par che ci sia; – se in principio era buio, e buio fia».
Oggi nella bocca di questi tali frati non vanno tanto lamprede, quanto volgari paste asciutte, ma i «frati» rimangono tali e anche oggi, come al tempo di Pascal, è più facile trovar dei «frati» che delle buone ragioni.
Q14 §7 Passato e presente. Quando si parla di «caratteri nazionali» occorre ben fissare e definire ciò che si intende dire. Intanto occorre distinguere tra nazionale e «folcloristico». A quali criteri ricorrere per giungere a tale distinzione? Uno (e forse il più esatto) può esser questo: il folcloristico si avvicina al «provinciale» in tutti i sensi, cioè sia nel senso di «particolaristico», sia nel senso di anacronistico, sia nel senso di proprio a una classe priva di caratteri universali (almeno europei). C’è un folcloristico nella cultura, a cui non si suole badare: per esempio è folcloristico il linguaggio melodrammatico, così come è tale il complesso di sentimenti e di «pose» snobistiche ispirate dai romanzi d’appendice.
Per esempio Carolina Invernizio che ha creato di Firenze un ambiente romanzesco copiato meccanicamente dai romanzi d’appendice francesi che hanno per ambiente Parigi, ha creato determinate tendenze di folclore. Ciò che è stato detto del rapporto Dumas‑Nietzsche a proposito delle origini popolaresche del «superuomo» dà appunto luogo a motivi di folclore. Se Garibaldi rivivesse oggi, con le sue stravaganze esteriori ecc., sarebbe più folcloristico che nazionale: perciò oggi a molti la figura di Garibaldi fa sorridere ironicamente, e a torto, perché nel suo tempo Garibaldi, in Italia, non era anacronistico e provinciale, perché tutta l’Italia era anacronistica e provinciale. Si può dunque dire che un carattere è «nazionale» quando è contemporaneo a un livello mondiale (o europeo) determinato di cultura ed ha raggiunto (s’intende) questo livello. Era nazionale in questo senso Cavour nella politica liberale, De Sanctis nella critica letteraria (e anche Carducci, ma meno del De Sanctis), Mazzini nella politica democratica; avevano caratteri di folclore spiccato Garibaldi, Vittorio Emanuele II, i Borboni di Napoli, la massa dei rivoluzionari popolari, ecc. Nel rapporto Nietzsche‑superuomo, D’Annunzio ha caratteri folcloristici spiccati, così Gualino nel campo economico-pratico (più ancora Luca Cortese, che è la caricatura di D’Annunzio e Gualino), così Scarfoglio, sebbene meno di D’Annunzio. D’Annunzio tuttavia meno di altri, per la sua cultura superiore e non legata immediatamente alla mentalità del romanzo di appendice. Molti individualisti ‑ anarchici popolareschi sembrano proprio balzati fuori da romanzi d’appendice.
Questo provincialismo‑folcloristico ha altri caratteri in Italia; ad esso è legato ciò che agli stranieri appare essere un istrionismo italiano, una teatralità italiana, qualcosa di filodrammatico, quell’enfasi nel dire anche le cose più comuni, quella forma di chauvinismo culturale che Pascarella ritrae nella Scoperta dell’America, l’ammirazione per il linguaggio da libretto d’opera ecc. ecc.
Q14 §8 Risorgimento. Nella formazione dello Stato unitario italiano c’è stata «eredità» di tutte le funzioni politico‑culturali svolte dai singoli staterelli precedenti o c’è stata, da questo punto di vista, una perdita secca? Cioè la posizione internazionale che venne ad occupare il nuovo Stato riassumeva le singole posizioni particolari degli Stati regionali precedenti, oppure accanto a ciò che fu guadagnato ci fu anche qualcosa di perduto? E le perdite ebbero una conseguenza negli anni di vita unitaria dal 61 al 1914? La quistione non pare sia oziosa. È evidente, per esempio, che altro era il rapporto verso la Francia del Piemonte con la Savoia e altro quello dell’Italia senza la Savoia e Nizza; ciò si dica anche per la Svizzera e per la posizione di Ginevra. Così per il regno di Napoli; l’influenza del Napoletano nel Mediterraneo orientale, i rapporti con la Russia e con l’Inghilterra, non potevano essere quelli dell’Italia. Ciò che poteva permettersi a uno Stato come quello borbonico, di scarsa potenzialità militare e relativamente piccolo, non poteva permettersi al nuovo Stato italiano. Però pare si esageri in questi ultimi anni molto sull’influenza napoletana in Oriente, per ragioni diverse (per trovare precedenti storici all’attuale politica, ma anche per riabilitare i Borboni di Napoli). Per lo Stato della Chiesa la quistione è più complessa. Ma anche Venezia italiana ereditò la funzione che aveva Venezia austriaca o questa funzione passò completamente a Trieste? In quale misura l’atteggiamento dei governi inglesi verso il problema dell’unificazione italiana fu determinato, oltre che dalla funzione dell’Austria in Europa (equilibrio verso la Francia e verso la Russia) anche dai rapporti tra Napoli e la Russia nel Mediterraneo? E in che misura l’opposizione della Russia alla politica coloniale italiana (verso l’Abissinia) fu determinata dalla formazione del nuovo Stato italiano e dalla sua dipendenza dall’Inghilterra?
Q14 §9 Machiavelli. Chi è il legislatore? In uno studio di teoria finanziaria (delle imposte) di Mauro Fasiani (Schemi teorici ed «exponibilia» finanziari, nella Riforma Sociale del settembre‑ottobre 1932) si parla di «volontà supposta di quell’essere un po’ mitico, chiamato legislatore». L’espressione cautelosa ha due significati, cioè si riferisce a due ordini ben distinti di osservazioni critiche. Da una parte, si riferisce al fatto che le conseguenze di una legge possono essere diverse da quelle «previste» cioè volute coscientemente dal legislatore individuale, per cui «obbiettivamente», alla «voluntas legislatoris», cioè agli effetti previsti dal legislatore individuale, si sostituisce la «voluntas legis», cioè l’insieme di conseguenze effettuali che il legislatore individuale non aveva previsto ma che di fatto conseguono dalla legge data. (Naturalmente sarebbe da vedere se gli effetti che il legislatore individuale prevede a parole sono da lui previsti «bona fide» oppure solo per creare l’ambiente favorevole all’approvazione della legge, se i «fini» che il legislatore individuale pretende di voler conseguire non sono un semplice mezzo di propaganda ideologica o demagogica). Ma l’espressione cautelosa ha anche un altro significato che precisa il primo e lo definisce: la parola «legislatore» può essere infatti interpretata in senso molto ampio, «fino ad indicare con essa l’insieme di credenze, di sentimenti, di interessi e di ragionamenti diffusi in una collettività in un dato periodo storico». Ciò in realtà significa: 1) che il legislatore individuale (e legislatore individuale deve intendersi non solo nel caso ristretto dell’attività parlamentare‑statale, ma anche in ogni altra attività «individuale» che cerchi, in sfere più o meno larghe di vita sociale, di modificare la realtà secondo certe linee direttive) non può mai svolgere azioni «arbitrarie», antistoriche, perché il suo atto d’iniziativa, una volta avvenuto, opera come una forza a sé nella cerchia sociale determinata, provocando azioni e reazioni che sono intrinseche a questa cerchia oltre che all’atto in sé; 2) che ogni atto legislativo, o di volontà direttiva e normativa, deve anche e specialmente essere valutato obbiettivamente, per le conseguenze effettuali che potrà avere; 3) che ogni legislatore non può essere che astrattamente e per comodità di linguaggio considerato come individuo, perché in realtà esprime una determinata volontà collettiva disposta a rendere effettuale la sua «volontà», che è volontà solo perché la collettività è disposta a darle effettualità; 4) che pertanto ogni individuo che prescinda da una volontà collettiva e non cerchi di crearla, suscitarla, estenderla, rafforzarla, organizzarla, è semplicemente una mosca cocchiera, un «profeta disarmato», un fuoco fatuo.
Su questo argomento è da vedere ciò che dice il Pareto sulle azioni logiche e non logiche nella sua Sociologia. Secondo il Fasiani per il Pareto sono «azioni logiche quelle che uniscono logicamente il mezzo al fine non solo secondo il giudizio del soggetto agente (fine soggettivo) ma anche secondo il giudizio dell’osservatore (fine oggettivo). Le azioni non‑logiche non hanno tale carattere. Il loro fine oggettivo differisce dal fine soggettivo». Il Fasiani non è soddisfatto da questa terminologia paretiana, ma la sua critica rimane nello stesso terreno puramente formale e schematico del Pareto.
Q14 §10 Passato e presente. Cfr le osservazioni sparse su quel carattere del popolo italiano che si può chiamare «apoliticismo». Questo carattere, naturalmente, è delle masse popolari, cioè delle classi subalterne. Negli strati superiori e dominanti vi corrisponde un modo di pensare che si può dire «corporativo», economico, di categoria, e che del resto è stato registrato nella nomenclatura politica italiana col termine di «consorteria», una variazione italiana della «cricca» francese e della camarilla spagnuola, che indicano qualcosa di diverso, di particolaristico sì, ma nel senso personale o di gruppo strettamente politico‑settario (legato all’attività politica di gruppi militari o di cortigiani), mentre in Italia più legato a interessi economici (specialmente agrari e regionali). Una varietà di questo «apoliticismo» popolare è il «pressappoco» della fisionomia dei partiti tradizionali, il pressappoco dei programmi e delle ideologie. Perciò anche in Italia c’è stato un «settarismo» particolare, non di tipo giacobino alla francese o alla russa (cioè fanatica intransigenza per principii generali e quindi il partito politico che diventa il centro di tutti gli interessi della vita individuale); il settarismo negli elementi popolari corrisponde allo spirito di consorteria nelle classi dominanti, non si basa su principii, ma su passioni anche basse e ignobili e finisce coll’avvicinarsi al «punto di onore» della malavita e all’omertà della mafia e della camorra.
Questo apoliticismo, unito alle forme rappresentative (specialmente dei corpi elettivi locali) spiega la deteriorità dei partiti politici, che nacquero tutti sul terreno elettorale (al Congresso di Genova la quistione fondamentale fu quella elettorale); cioè i partiti non furono una frazione organica delle classi popolari (un’avanguardia, un’élite), ma un insieme di galoppini e maneggioni elettorali, un’accolta di piccoli intellettuali di provincia, che rappresentavano una selezione alla rovescia. Data la miseria generale del paese e la disoccupazione cronica di questi strati, le possibilità economiche che i partiti offrivano erano tutt’altro che disprezzabili. Si è saputo che in qualche posto, circa un decimo degli iscritti ai partiti di sinistra racimolavano una parte dei mezzi per vivere dalle questure, che davano pochi soldi agli informatori data l’abbondanza di essi o li pagavano con permessi per attività marginali da mezzi vagabondi o con l’impunità per guadagni equivoci.
In realtà per essere di un partito bastavano poche idee vaghe, imprecise, indeterminate, sfumate: ogni selezione era impossibile, ogni meccanismo di selezione mancava e le masse dovevano seguire questi partiti perché altri non ne esistevano.
Q14 §11 Argomenti di coltura. Le grandi potenze mondiali. Una ricostruzione storico‑critica dei regimi politici degli Stati che hanno una funzione decisiva nella vita mondiale. Il punto più interessante pare debba essere questo: come la costituzione scritta si adatti (sia adattata) al variare delle congiunture politiche, specialmente a quelle sfavorevoli alle classi dominanti. È quindi necessaria l’esposizione obbiettiva e analitica della costituzione e di tutte le leggi organiche, ma questa descrizione deve essere fatta sul modello di quella che si ha della costituzione spagnola del 1812 nel volume sulla Quistione d’Oriente (ediz. italiana; nell’ed. francese, nell’VIII volume degli Scritti politici), ma è specialmente necessaria una analisi critica delle forze costitutive politiche dei diversi Stati, forze che devono essere viste in una sufficiente prospettiva storica. Così lo studio del regime presidenziale americano (Stati Uniti d’America), con la sua unità tra capo del governo e capo dello Stato è difficile da comprendere per un medio europeo moderno: eppure esso è simile al regime delle repubbliche comunali medioevali italiane (fase economico‑corporativa dello Stato). In ogni costituzione sono da vedere i punti che permettono il passaggio legale dal regime costituzionale‑parlamentare a quello dittatoriale: esempio l’art. 48 della costituzione di Weimar, che tanta importanza ha avuto nella recente storia tedesca. Nella costituzione francese (il cui sviluppo è del massimo interesse) la figura del Presidente della Repubblica ha possibilità di sviluppi di cui ancora non è stato necessario servirsi, ma che non è escluso siano impiegati (ricordare tentativi di Mac‑Mahon e quello recente di Millerand). Ancora è da vedere in che rapporto con la costituzione sono altre leggi organiche (ricordare per l’Italia la funzione che in certe occasioni ha avuto la legge comunale e provinciale e quella di pubblica sicurezza). Si può dire in generale che le costituzioni sono più che altro «testi educativi» ideologici, e che la «reale» costituzione è in altri documenti legislativi (ma specialmente nel rapporto effettivo delle forze sociali nel momento politico‑militare). Uno studio serio di questi argomenti, fatto con prospettiva storica e con metodi critici, può essere uno dei mezzi più efficaci per combattere l’astrattismo meccanicistico e il fatalismo deterministico. Come bibliografia si può accennare da una parte agli studi di geopolitica, per la descrizione delle forze costitutive economico-sociali e delle loro possibilità di sviluppo e dall’altra a libri come quelli del Bryce sulle democrazie moderne. Ma per ogni paese è necessaria una bibliografia specializzata sulla storia generale, sulla storia costituzionale, sulla storia dei partiti politici, ecc. (il Giappone e gli Stati Uniti mi paiono gli argomenti più fecondi di educazione e di allargamento degli orizzonti culturali). La storia dei partiti e delle correnti politiche non può andar disgiunta dalla storia dei gruppi e delle tendenze religiose. Proprio gli Stati Uniti d’America e il Giappone offrono un terreno d’esame eccezionale per comprendere l’interdipendenza tra i gruppi religiosi e quelli politici, cioè per comprendere come ogni ostacolo legale o di violenza privata allo sviluppo spontaneo delle tendenze politiche e al loro organizzarsi in partito determina un moltiplicarsi di sette religiose. Da questo punto di vista la storia politico‑religiosa degli Stati Uniti d’America può essere paragonata a quella della Russia zarista (con la differenza, importante, che nella Russia zarista se mancava la libertà politica legale, mancava anche la libertà religiosa e quindi il settarismo religioso assumeva forme morbose ed eccezionali). Negli Stati Uniti d’America legalmente e di fatto non manca la libertà religiosa (entro certi limiti, come ricorda il processo contro il darwinismo), e se legalmente (entro certi limiti) non manca la libertà politica, essa manca di fatto per la pressione economica e anche per l’aperta violenza privata. Da questo punto di vista assume importanza l’esame critico dell’organizzazione giudiziaria e di polizia, che lasciano impunite e spalleggiano le violenze private rivolte a impedire la formazione di altri partiti oltre quello repubblicano e democratico. Anche il nascere di nuove sette religiose è quasi sempre sollecitato e finanziato dai gruppi economici, per canalizzare gli effetti della compressione culturale‑politica. Le enormi somme destinate in America alla attività religiosa hanno un fine ben preciso politico‑culturale. Nei paesi cattolici, dato il centralismo gerarchico vaticanesco, la creazione di nuovi ordini religiosi (che sostituisce la creazione settaria dei paesi protestanti) non è più sufficiente allo scopo (lo fu prima della Riforma), e si ricorre a soluzioni di carattere locale: nuovi santi, nuovi miracoli, campagne missionarie, ecc. Si può ricordare, per esempio, che nel 1911‑12 al tentativo nell’Italia Meridionale di formare politicamente i contadini attraverso una campagna per il libero scambio (contro gli zuccherieri specialmente, dato che lo zucchero è merce popolare legata all’alimentazione dei bambini, degli ammalati, dei vecchi) si rispose con una campagna missionaria tendente a suscitare il fanatismo superstizioso popolare, talvolta anche in forma violenta (così almeno in Sardegna). Che fosse legata alla campagna per il libero scambio appare dal fatto che contemporaneamente, nei così detti «Misteri» (settimanale popolarissimo, tirato a milioni di copie) si invitava a pregare per i «poveri zuccherieri» attaccati «cainamente» dai «massoni» ecc.
Q14 §12 Argomenti di coltura. Spesso, in queste , è stato fatto riferimento alla Scoperta dell’America del Pascarella come documento di una determinata corrente di coltura folcloristico‑popolare. Si potrebbe addirittura studiare non solo la Scoperta ma anche gli altri componimenti del Pascarella da questo punto di vista, cioè di come il popolino romano aveva assimilato ed esprimeva la cultura liberale‑democratica sviluppatasi in Italia durante il Risorgimento. È inutile ricordare come a Roma questa assimilazione ed espressione abbia dei caratteri peculiari, non solo per la vivacità del popolo romano, ma specialmente perché la cultura liberale‑democratica aveva specialmente un contenuto anticlericale e a Roma, per la vicinanza del Vaticano e per tutta la tradizione passata, questa cultura non poteva non avere un’espressione tipica. (Sarà da vedere la letteratura cronistica sugli avvenimenti romani nel periodo 70‑80 che sono ricchi di episodi popolareschi; vedere per esempio gli Annali di Pietro Vigo; la polemica Cavallotti‑Chauvet; anche il Libro di don Chisciotte dello Scarfoglio, e altra letteratura, specialmente giornalistica, del tempo).
Q14 §13 Machiavelli. Chi è legislatore? Il concetto di «legislatore» non può non identificarsi col concetto di «politico». Poiché tutti sono «uomini politici» tutti sono anche «legislatori». Ma occorrerà fare delle distinzioni. «Legislatore» ha un preciso significato giuridico‑statale, cioè significa quelle persone che sono abilitate dalle leggi a legiferare. Ma può avere anche altri significati. Ogni uomo, in quanto è attivo, cioè vivente contribuisce a modificare l’ambiente sociale in cui si sviluppa (a modificarne determinati caratteri o a conservarne altri), cioè tende a stabilire «norme», regole di vita e di condotta. La cerchia di attività sarà maggiore o minore, la consapevolezza della propria azione e dei fini sarà maggiore o minore; inoltre, il potere rappresentativo sarà maggiore o minore, e sarà più o meno attuato dai «rappresentati» nella sua espressione sistematica normativa. Un padre è un legislatore per i figli, ma l’autorità paterna sarà più o meno consapevole e più o meno obbedita e così via. In generale si può dire che tra la comune degli uomini e altri uomini più specificatamente legislatori la distinzione è data dal fatto che questo secondo gruppo non solo elabora direttive che dovrebbero diventare norma di condotta per gli altri, ma nello stesso tempo elabora gli strumenti attraverso i quali le direttive stesse saranno «imposte» e se ne verificherà l’esecuzione. Di questo secondo gruppo il massimo di potere legislativo è nel personale statale (funzionari elettivi e di carriera) che hanno a loro disposizione le forze coercitive legali dello Stato. Ma non è detto che anche i dirigenti di organismi e organizzazioni «private» non abbiano sanzioni coercitive a loro disposizione, fino anche alla pena di morte. Il massimo di capacità del legislatore si può desumere dal fatto che alla perfetta elaborazione delle direttive corrisponde una perfetta predisposizione degli organismi di esecuzione e di verifica e una perfetta preparazione del consenso «spontaneo» delle masse che devono «vivere» quelle direttive, modificando le proprie abitudini, la propria volontà, le proprie convinzioni conformemente a queste direttive e ai fini che esse si propongono di raggiungere.
Se ognuno è legislatore nel senso più largo del concetto, ognuno continua ad essere legislatore anche se accetta direttive di altri, ed eseguendole controlla che anche gli altri le eseguano, avendole comprese nel loro spirito, le divulga, quasi facendone dei regolamenti di applicazione particolare a zone di vita ristretta e individuata.
Q14 §14 Carattere non nazionale‑popolare della letteratura italiana. Che esista una coscienza diffusa di questo carattere della letteratura italiana si può vedere da certe polemiche che periodicamente ritornano ad accendersi fra i gruppi letterari. Nell’«Italia letteraria» polemiche simili avvengono a ripetizione, ma sono sempre superficiali, perché urtano contro il pregiudizio rettorico che la nazione italiana sia sempre esistita, su un certo numero di idoli e di borie nazionali. Altre volte lo stesso problema è mal posto, per l’influsso di concetti estetici d’origine crociana, specialmente concernente il così detto «moralismo» nell’arte, il «contenuto estrinseco» dell’arte ecc. Non si riesce a capire che l’arte è sempre legata a una determinata cultura o civiltà e che lottando per riformare la cultura, si tende e si giunge a modificare il «contenuto» dell’arte, cioè si lavora a creare una nuova arte non dall’esterno (pretendendo un’arte didascalica, a tesi, moralistica), ma dall’interno, perché si modifica tutto l’uomo, in quanto si modificano i rapporti di cui l’uomo è l’espressione necessaria. Che sia esistita ed esista la coscienza di questo carattere non nazionale‑popolare, si può vedere dalle polemiche: 1) «Perché la letteratura italiana non è popolare in Italia?» per dirla con la parola del Bonghi; 2) sulla non‑esistenza di un teatro italiano, polemica impostata dal F. Martini; 3) sulla quistione della lingua impostata dal Manzoni; 4) se sia esistito un romanticismo italiano.
Un altro elemento è quello della non‑esistenza di «romanzi d’appendice» e di letteratura per l’infanzia (romanzi d’avventura, scientifici, polizieschi, ecc.) e del fatto che tali libri sono introdotti dall’estero (in Italia solo romanzi anticlericali). Da tutti questi elementi è nato il «futurismo» specialmente nella forma più intelligente datagli da Papini e dai gruppi fiorentini di «Lacerba» e «La Voce», col loro speciale «romanticismo» o Sturm und Drang popolaresco. Ultima manifestazione «Strapaese».
Ma sia il futurismo di Marinetti, sia quello del «Lacerba» e della «Voce», sia «Strapaese», hanno urtato contro un ostacolo: l’assenza di carattere dei loro protagonisti e le loro tendenze carnevalesche e pagliaccesche, da piccoli borghesi scettici e aridi. La letteratura regionale è stata troppo folcloristica, «pittoresca»; il popolo regionale era visto «paternalisticamente», dall’esterno, con spirito disincantato, cosmopolitico, da turista in cerca di sensazioni forti e originali per la loro crudezza. Negli scrittori italiani ha proprio nuociuto l’«apoliticismo» intimo, verniciato di rettorica nazionale verbosa: furono, da questo punto di vista, più simpatici Enrico Corradini e il Pascoli col loro nazionalismo confessato e militante, che in Pascoli era popolaresco e ingenuo, senza programmi ben razionalizzati come invece nel Corradini.
Q14 §15 Il teatro di Pirandello. Forse ha ragione il Pirandello a protestare egli per il primo contro il «pirandellismo», cioè a sostenere che il così detto pirandellismo è una costruzione astratta dei sedicenti critici, non autorizzato dal suo concreto teatro, una formula di comodo, che spesso nasconde interessi culturali e ideologici tendenziosi, che non vogliono confessarsi esplicitamente. È certo che Pirandello è sempre stato combattuto dai cattolici: ricordare il fatto che Liolà è stata ritirata dal repertorio dopo le cagnare inscenate al teatro Alfieri di Torino dai giovani cattolici per istigazione del «Momento» e del suo mediocrissimo recensore teatrale Saverio Fino. Lo spunto contro Liolà fu dato da una pretesa oscurità della commedia, ma in realtà tutto il teatro del Pirandello è avversato dai cattolici per la concezione pirandelliana del mondo, che, qualunque essa sia, qualunque sia la sua coerenza filosofica, è indubbiamente anticattolica, come invece non era la concezione «umanitaria» e positivistica del verismo borghese e piccolo borghese del teatro tradizionale. In realtà non pare si possa attribuire al Pirandello una concezione del mondo coerente, non pare si possa estrarre dal suo teatro una filosofia e quindi non si può dire che il teatro pirandelliano sia «filosofia». È certo però che nel Pirandello ci sono dei punti di vista che possono riallacciarsi genericamente a una concezione del mondo, che all’ingrosso può essere identificata con quella soggettivistica. Ma il problema è questo: 1) questi punti di vista sono presentati in modo «filosofico», oppure i personaggi vivono questi punti di vista come individuale modo di pensare? cioè la «filosofia» implicita è esplicitamente solo «cultura» ed «eticità» individuale, cioè esiste, entro certi gradi almeno, un processo di trasfigurazione artistica nel teatro pirandelliano? e ancora si tratta di un riflesso sempre uguale, di carattere logico, o invece le posizioni sono sempre diverse, cioè di carattere fantastico? 2) questi punti di vista sono necessariamente di origine libresca, dotta, presi dai sistemi filosofici individuali, o non sono invece esistenti nella vita stessa, nella cultura del tempo e persino nella cultura popolare di grado infimo, nel folclore?
Questo secondo punto mi pare fondamentale ed esso può essere risolto con un esame comparativo dei diversi drammi, quelli concepiti in dialetto e dove si rappresenta una vita paesana, «dialettale» e quelli concepiti in lingua letteraria e dove si rappresenta una vita superdialettale, di intellettuali borghesi di tipo nazionale e anche cosmopolita. Ora pare che, nel teatro dialettale, il pirandellismo sia giustificato da modi di pensare «storicamente» popolari e popolareschi, dialettali; che non si tratti cioè di «intellettuali» travestiti da popolani, di popolani che pensano da intellettuali, ma di reali, storicamente, regionalmente, popolani siciliani che pensano e operano così proprio perché sono popolani e siciliani. Che non siano cattolici, tomisti, aristotelici non vuol dire che non siano popolani e siciliani; che non possano conoscere la filosofia soggettivistica dell’idealismo moderno non vuol dire che nella tradizione popolare non possano esistere filoni di carattere «dialettico» e immanentistico. Se questo si dimostrasse, tutto il castello del pirandellismo cioè dell’intellettualismo astratto del teatro pirandelliano crollerebbe, come pare debba crollare.
Ma non mi pare che il problema culturale del teatro pirandelliano sia ancora esaurito in questi termini. In Pirandello abbiamo uno scrittore «siciliano», che riesce a concepire la vita paesana in termini «dialettali», folcloristici (se pure il suo folclorismo non è quello influenzato dal cattolicismo, ma quello rimasto «pagano», anticattolico sotto la buccia cattolica superstiziosa), che nello stesso tempo è uno scrittore «italiano» e uno scrittore «europeo». E in Pirandello abbiamo di più: la coscienza critica di essere nello stesso tempo «siciliano», «italiano» ed «europeo», ed è in ciò la debolezza artistica del Pirandello accanto al suo grande significato «culturale» (come ho notato in altre ). Questa «contraddizione», che è intima nel Pirandello, ha esplicitamente avuto espressione in qualche suo lavoro narrativo (in una lunga novella, mi pare Il Turno, si rappresenta l’incontro tra una donna siciliana e un marinaio scandinavo, tra due «province» così lontane storicamente). Quello che importa è però questo: il senso critico‑storico del Pirandello, se lo ha portato nel campo culturale a superare e dissolvere il vecchio teatro tradizionale, convenzionale, di mentalità cattolica o positivistica, imputridito nella muffa della vita regionale o di ambienti borghesi piatti e abbiettamente banali, ha però dato luogo a creazioni artistiche compiute? Se anche l’intellettualismo del Pirandello non è quello identificato dalla critica volgare (di origine cattolica tendenziosa, o tilgheriana dilettantesca) è però il Pirandello libero di ogni intellettualismo? Non è più un critico del teatro che un poeta, un critico della cultura che un poeta, un critico del costume nazionale‑regionale che un poeta? Oppure dove è realmente poeta, dove il suo atteggiamento critico è diventato contenuto‑forma d’arte e non è «polemica intellettuale», logicismo sia pure non da filosofo, ma da «moralista» in senso superiore? A me pare che Pirandello sia artista proprio quando è «dialettale» e Liolà mi pare il suo capolavoro, ma certo anche molti «frammenti» sono da identificare di grande bellezza nel teatro «letterario».
Letteratura su Pirandello. Per i cattolici: Silvio D’Antico, Il Teatro italiano (Treves, 1932) e alcune della «Civiltà Cattolica». Il capitolo di D’Amico sul Pirandello è stato pubblicato nell’«Italia Letteraria» del 30 ottobre 1932 e ha determinato una vivace polemica tra il D’Amico stesso e Italo Siciliano nell’«Italia Letteraria» del 4 dicembre 1932. Italo Siciliano è autore di un saggio, Il Teatro di L. Pirandello, che pare sia abbastanza interessante perché tratta precisamente dell’«ideologia» pirandellista. Per il Siciliano il Pirandello «filosofo» non esiste, cioè la così detta «filosofia pirandelliana» è «un melanconico, variopinto e contradditorio ciarpame di luoghi comuni e di sofismi decrepiti», «la famosa logica pirandelliana è vano e difettoso esercizio dialettico», e «l’una e l’altra (la logica e la filosofia) costituiscono il peso morto, la zavorra che tira giù – e talvolta fatalmente – un’opera d’arte di indubbia potenza». Per il Siciliano «il faticoso arzigogolare del P. non si è trasformato in lirismo o poesia, ma è restato grezzo e, non essendo profondamente vissuto, ma “plaqué”, inassimilato, talvolta incompatibile, ha nociuto, ha impastoiato e soffocato la vera poesia pirandelliana». Il Siciliano, pare, reagì alla critica di Adriano Tilgher, che aveva fatto del Pirandello «il poeta del problema centrale», cioè aveva dato come «originalità artistica» del Pirandello ciò che era un semplice elemento culturale, da tenersi subordinato e da esaminare in sede culturale. Per il Siciliano la poesia del Pirandello non coincide con questo contenuto astratto, sicché questa ideologia è completamente parassitaria: così pare, almeno, e se così è, non pare giusto. Che questo elemento culturale non sia il solo del Pirandello può essere concesso e d’altronde è quistione d’accertamento filologico; che questo elemento culturale non sempre si sia trasfigurato artisticamente è anche da concedersi. Ma in ogni modo rimane da studiare: 1) Se esso è diventato arte in qualche momento; 2) se esso, come elemento culturale, non ha avuto una funzione e un significato nel mutare sia il gusto del pubblico, sprovincializzandolo e modernizzandolo, e se esso non ha mutato le tendenze psicologiche, gli interessi morali degli altri scrittori di teatro, confluendo col futurismo migliore nel lavoro di distruzione del basso ottocentismo piccolo borghese e filisteo.
La posizione ideologica del D’Amico verso il «pirandellismo» è espressa in queste parole: «Con buona pace di quei filosofi che, a cominciare da Eraclito, pensano il contrario, è ben certo che, in senso assoluto, la nostra personalità è sempre identica e una, dalla nascita al Dilà; se ognuno di noi fosse “tanti”, come dice il Padre dei Sei personaggi, ciascuno di questi “tanti” non avrebbe né da godere i benefici né da pagare i debiti degli “altri” che porta in sé; mentre l’unità della coscienza ci dice che ognuno di noi è sempre “quello” e che Paolo deve redimere le colpe di Saulo perché, anche essendo divenuto “un altro”, è sempre la stessa persona».
Questo modo di porre la quistione è abbastanza scempio e ridicolo e d’altronde sarebbe da vedere se nell’arte del Pirandello non predomini l’umorismo, cioè l’autore non si diverta a far nascere certi dubbi «filosofici» in cervelli non filosofici e meschini per «sfottere» il soggettivismo e il solipsismo filosofico. Le tradizioni e l’educazione filosofica del Pirandello sono di origine piuttosto «positivistica» e cartesiana alla francese; egli ha studiato in Germania, ma nella Germania dell’erudizione filologica pedantesca, di origine non certo hegeliana ma proprio positivistica. È stato in Italia professore di stilistica e ha scritto sulla stilistica e sull’umorismo non certo secondo le tendenze idealistiche neohegeliane ma piuttosto in senso positivistico. Perciò appunto è da accertare e fissare che l’«ideologia» pirandelliana non ha origini libresche e filosofiche ma è connessa a esperienze storico‑culturali vissute con apporto minimo di carattere libresco. Non è escluso che le idee del Tilgher abbiano reagito sul Pirandello, che cioè il Pirandello abbia, accettando le giustificazioni critiche del Tilgher, finito col conformarvisi e perciò occorrerà distinguere tra il Pirandello prima dell’ermeneutica tilgheriana e quello successivo.
Q14 §16 Risorgimento italiano. Una derivazione delle diverse «dottrine» sul Risorgimento italiano è quel certo particolare settarismo che caratterizza la mentalità italiana e che si manifesta in una certa mania di persecuzione, nel credersi sempre malgiudicati e malcontenti, nel credersi le vittime di congiure internazionali, nel credere di avere particolari diritti storici misconosciuti e calpestati, ecc. Questa mentalità è diffusa sia nelle correnti democratiche di origine mazziniana sia in quelle conservatrici di origine neoguelfa e giobertiana, ed è legata all’idea di una «missione» nazionale, nebulosamente intesa e misticamente intuita; in ogni caso si cristallizza in gallofobia, poiché appare che sia stata la Francia a carpire all’Italia la primogenitura civile dell’eredità di Roma. Nel periodo del Risorgimento, la lotta contro l’Austria attutì questo sentimento, ma oggi, dopo la scomparsa dell’Impero austriaco, esso ha ripreso e si è ancora acuito per le quistioni balcaniche, che sono viste come un riflesso del malanimo francese.
Q14 §17 Letteratura popolare. Se è vero che la biografia romanzata continua, in un certo senso, il romanzo storico popolare tipo A. Dumas padre, si può dire che da questo punto di vista, in questo particolare settore, in Italia si sta «colmando una lacuna». È da vedere ciò che pubblica la Casa ed. «Corbaccio», e qualche altra, e specialmente i libri di Mazzucchelli. È da notare però che la biografia romanzata, se ha un pubblico popolare, non è popolare in senso completo come il romanzo d’appendice: essa si rivolge a un pubblico che ha o crede avere delle pretese di cultura superiore, alla piccola borghesia rurale e urbana che crede essere diventata «classe dirigente», e arbitra dello Stato. Il tipo moderno del romanzo popolare è quello poliziesco, «giallo», e in questo settore si ha zero. Così si ha zero nel romanzo d’avventure in senso largo, sia del tipo Stevenson, Conrad, London, sia del tipo francese odierno (Mac‑Orlan, Malraux, ecc.).
Q14 §18 Machiavelli. Volontarismo e garibaldinismo. Occorre distinguere: altro è il volontarismo o garibaldinismo che teorizza se stesso come forma organica di attività storico‑politica e si esalta con frasi che non sono altro che una trasposizione del linguaggio del superuomo individuo a un insieme di «superuomini» (esaltazione delle minoranze attive come tali ecc.), altro è il volontarismo o garibaldinismo concepito come momento iniziale di un periodo organico da preparare e sviluppare, in cui la partecipazione della collettività organica, come blocco sociale, avvenga in modo completo. Le «avanguardie» senza esercito di rincalzo, gli «arditi» senza fanteria e artiglieria, sono anch’esse trasposizioni del linguaggio dell’eroismo retorico; non così le avanguardie e gli arditi come funzioni specializzate di organismi complessi e regolari. Così è della concezione delle élites di intellettuali senza massa, ma non degli intellettuali che si sentono legati organicamente a una massa nazionale-popolare. In realtà si lotta contro queste degenerazioni di falsi eroismi e di pseudo‑aristocrazie stimolando la formazione di blocchi sociali omogenei e compatti che esprimono un gruppo di intellettuali, di arditi, un’avanguardia loro propria che reagiscono nel loro blocco per svilupparlo e non solo per perpetuare il loro dominio zingaresco. La bohème parigina del romanticismo è stata anch’essa alle origini intellettuali di molti modi di pensare odierni che pure pare deridano quei bohémiens.
Q14 §19 Letteratura popolare. Il gusto melodrammatico. Come combattere il gusto melodrammatico del popolano italiano quando si avvicina alla letteratura, ma specialmente alla poesia? Egli crede che la poesia sia caratterizzata da certi tratti esteriori, fra cui predomina la rima e il fracasso degli accenti prosodici, ma specialmente dalla solennità gonfia, oratoria, e dal sentimentalismo melodrammatico, cioè dall’espressione teatrale, congiunta a un vocabolario barocco. Una delle cause di questo gusto è da ricercare nel fatto che esso si è formato non alla lettura e alla meditazione intima e individuale della poesia e dell’arte, ma nelle manifestazioni collettive, oratorie e teatrali. E per «oratorie» non bisogna solo riferirsi ai comizi popolari di famigerata memoria, ma a tutta una serie di manifestazioni di tipo urbano e paesano. Nella provincia, per esempio, è molto seguita l’oratoria funebre e quella delle preture e dei tribunali (e anche delle conciliature): queste manifestazioni hanno tutte un pubblico di «tifosi» di carattere popolare, e un pubblico costituito (per i tribunali) da quelli che attendono il proprio turno, testimoni, ecc. In certe sedi di pretura mandamentale, l’aula è sempre piena di questi elementi, che si imprimono nella memoria i giri di frase e le parole solenni, se ne pascono e le ricordano. Così nei funerali di maggiorenti, cui affluisce molta folla, spesso solo per sentire i discorsi.
Le conferenze nelle città hanno lo stesso ufficio e così i tribunali, ecc. I teatri popolari con gli spettacoli così detti da arena (e oggi, forse il cinematografo parlato, ma anche le didascalie del vecchio cinematografo muto, compilato tutto in stile melodrammatico), sono della massima importanza per creare questo gusto e il linguaggio conforme.
Si combatte questo gusto in due modi principali: con la critica spietata di esso, e anche diffondendo libri di poesia scritti o tradotti in lingua non «aulica», e dove i sentimenti espressi non siano retorici o melodrammatici.
Cfr l’Antologia compilata dallo Schiavi; poesie del Gori. Traduzione possibile di M. Martinet e di altri scrittori che oggi (sono) più numerosi che in passato: traduzioni sobrie, del tipo di quelle del Togliatti per Whitman e Martinet.
Q14 §20 Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. La prima enciclica papale contro le manifestazioni politiche e filosofiche dell’epoca moderna (liberalismo, ecc.) sarebbe stata del 1832, la Mirari vos di Gregorio XVI; a cui sarebbe seguita l’Enciclica Quanta cura di Pio IX dell’8 settembre 1864, accompagnata dal Sillabo; terza enciclica quella Pascendi di Pio X, contro il modernismo. Queste le tre encicliche «organiche» contro il pensiero moderno ma non mi pare che esse siano i soli documenti del genere. Per il periodo antecedente al 1864 si può vedere nel Sillabo l’elencazione delle altre encicliche e documenti diversi papali contro il pensiero moderno. Per il periodo dal 64 al 1907 (8 settembre, come per il Sillabo) non ricordo se ci sono accenni nell’enciclica Pascendi, che d’altronde ha un suo carattere particolare, in quanto non tanto combatte il pensiero moderno come tale, ma per il fatto che è riuscito a penetrare nell’organizzazione ecclesiastica e nell’attività scientifica propriamente cattolica. Ma nella letteratura polemica non sarà difficile trovare le indicazioni bibliografiche (nella «Civiltà Cattolica» poi le manifestazioni successive al 1908 che sono ancora più interessanti in quanto si riferiscono ad attività statali). In ogni modo queste tre encicliche del 1832, del 1864 e del 1907 sono le più organiche ed estensive teoricamente e a esse occorre riferirsi per fissare le lotte interne tra integralisti, gesuiti e modernisti.
Non si può accanto a tali encicliche dimenticare le altre «costruttive», tipiche la Rerum Novarum e la Quadragesimo anno che integrano le grandi encicliche teoriche contro il pensiero moderno e cercano risolvere a loro modo alcuni dei problemi ad esso legati e connessi. (Non bisogna dimenticare che alcune ricerche per questa rubrica sono connesse a quelle per la rubrica sulla «Storia dell’Azione Cattolica»; cioè i due studi sono inscindibili in un certo senso e come tali devono essere elaborati).
Q14 §21 Il teatro di Pirandello. È da vedere quanto nella «ideologia» pirandelliana sia, per dir così, della stessa origine di ciò che pare formi il nucleo degli scritti «teatrali» di Nicola Evreinov. Per l’Evreinov la teatralità non è solamente una determinata forma di attività artistica, quella che si esprime tecnicamente nel teatro propriamente detto. Per l’Evreinov la «teatralità» è nella vita stessa, è un atteggiamento proprio all’uomo, in quanto l’uomo tende a credere e a farsi credere diverso da ciò che è. Occorre vedere bene queste teorie dell’Evreinov, perché mi pare che egli colga un tratto psicologico esatto, che dovrebbe essere esaminato e approfondito. Cioè esistono parecchie forme di «teatralità» in questo senso: una è quella comunemente nota e appariscente in forma caricaturale che si chiama «istrionismo»; ma ne esistono anche delle altre, che non sono deteriori, o sono meno deteriori e alcune che sono normali e anche meritorie. In realtà ognuno tende, a suo modo, sia pure, a crearsi un carattere, a dominare certi impulsi e istinti, ad acquistare certe forme «sociali» che vanno dallo snobismo, alle convenienze, alla correttezza, ecc. Ora cosa significa: «ciò che si è realmente» e da cui si cerca di apparire «diversi?» «Ciò che si è realmente» sarebbe l’insieme degli impulsi e istinti animaleschi e ciò che si cerca di apparire è il «modello» sociale‑culturale, di una certa epoca storica, che si cerca di diventare; mi pare che ciò «che si è realmente» è dato dalla lotta per diventare ciò che si vuol diventare.
Come ho notato altrove, il Pirandello è criticamente un «paesano» siciliano che ha acquisito certi caratteri nazionali e certi caratteri europei, ma che sente in se stesso questi tre elementi di civiltà come giustapposti e contradditori. Da questa esperienza gli è venuto l’atteggiamento di osservare le contraddizioni nelle personalità degli altri e poi addirittura di vedere il dramma della vita come il dramma di queste contraddizioni.
Del resto un elemento non solo del teatro dialettale siciliano (Aria del continente) ma di ogni teatro dialettale italiano e anche del romanzo popolare è la descrizione, la satira e la caricatura del provinciale che vuole apparire «trasfigurato» in un carattere «nazionale» o europeo‑cosmopolita, e non è altro che un riflesso del fatto che non esiste ancora una unità nazionale‑culturale nel popolo italiano, che il «provincialismo» e particolarismo è ancora radicato nel costume e nei modi di pensare e di agire; non solo, ma che non esiste un «meccanismo» per elevare la vita dal livello provinciale a quello nazionale europeo collettivamente e quindi le «sortite», i «raids» individuali in questo senso assumono forme caricaturali, meschine, «teatrali», ridicole, ecc. ecc.
Q14 §22 Argomenti di cultura. Personalità del mondo economico nazionale. Sono meno conosciute e apprezzate di quanto talvolta meriterebbero. Una loro classificazione: 1) scienziati, scrittori, giornalisti, la cui attività è prevalentemente teorica: che influiscono nella pratica, ma come «educatori» e teorici; 2) pratici, ma che danno molta attività come «pubblicisti» o «relatori» o «conferenzieri» (es. Alberto Pirelli, Teodoro Mayer, Gino Olivetti); 3) pratici, di valore indiscusso e solido (es. Agnelli, Crespi, Silvestri, ecc.) noti al pubblico; 4) pratici che si tengono nell’ombra, quantunque la loro attività sia molto grande (es. Marsaglia); 5) pratici demi‑monde (un esempio tipico era quel ragioniere Panzarasa della società a catena Italgas); 6) esperti statali, specialisti della burocrazia statale per le dogane, le aziende autonome, il commercio internazionale, ecc.; 7) banchieri e speculatori ecc. Si dovrebbero esaminare queste personalità «pratiche» per ogni attività industriale, tecnica, finanziaria, ecc. E anche «politico‑parlamentare» (compilatori e relatori per i bilanci e per le leggi economiche finanziarie al Senato e alla Camera) e «tecnici» (tipo ing. Omodeo). La raccolta delle pubblicazioni periodiche del «Rotary» italiano, le pubblicazioni ufficiali delle Confederazioni industriali e padronali potrebbero dare un certo materiale: così le pubblicazioni del Credito Italiano sulle Società Anonime.
Q14 §23 Machiavelli. Cesarismo ed equilibrio «catastrofico» delle forze politico‑sociali. Sarebbe un errore di metodo (un aspetto del meccanicismo sociologico) ritenere che, nei fenomeni di cesarismo, sia progressivo, sia regressivo, sia di carattere intermedio episodico, tutto il nuovo fenomeno storico sia dovuto all’equilibrio delle forze «fondamentali»; occorre anche vedere i rapporti che intercorrono tra i gruppi principali (di vario genere, sociale‑economico e tecnico‑economico) delle classi fondamentali e le forze ausiliarie guidate o sottoposte all’influenza egemonica. Così non si comprenderebbe il colpo di Stato del 2 dicembre senza studiare la funzione dei gruppi militari e dei contadini francesi.
Un episodio storico molto importante da questo punto di vista è il così detto movimento per l’affare Dreyfus in Francia; anche esso rientra in questa serie di osservazioni non perché abbia portato al «cesarismo», anzi proprio per il contrario, perché ha impedito l’avvento di un cesarismo che si stava preparando, di carattere nettamente reazionario. Tuttavia il movimento Dreyfus è caratteristico perché sono elementi dello stesso blocco sociale dominante che sventano il cesarismo della parte più reazionaria del blocco stesso, appoggiandosi non ai contadini, alla campagna, ma agli elementi subordinati della città guidati dal riformismo socialista (però anche alla parte più avanzata del contadiname). Del tipo Dreyfus troviamo altri movimenti storico‑politici moderni, che non sono certo rivoluzioni, ma non sono completamente reazioni, nel senso almeno che anche nel campo dominante spezzano cristallizzazioni statali soffocanti, e immettono nella vita dello Stato e nelle attività sociali un personale diverso e più numeroso di quello precedente: anche questi movimenti possono avere un contenuto relativamente «progressivo» in quanto indicano che nella vecchia società erano latenti forze operose non sapute sfruttare dai vecchi dirigenti, sia pure «forze marginali», ma non assolutamente progressive, in quanto non possono «fare epoca». Sono rese storicamente efficienti dalla debolezza costruttiva dell’antagonista, non da una intima forza propria, e quindi sono legate a una situazione determinata di equilibrio delle forze in lotta, ambedue incapaci nel proprio campo a esprimere una volontà ricostruttiva in proprio.
Q14 §24 Elementi di cultura italiana. L’ideologia «romana». L’Omodeo afferma («Critica» del 20 settembre 1931): «Cerca (il Bülon) di confortarsi nella luminosa atmosfera di Roma, inebriandosi di quella poesia dell’Urbe, che il Goethe ha diffuso fra i Tedeschi, e che tanto si differenzia dalla retorica romana, per buona parte figlia delle scuole gesuitiche, corrente fra noi». È da notare, a rincalzo, che nei Sepolcri del Foscolo, in cui pure sono contenuti tanti spunti della mentalità e dell’ideologia dell’intellettuale italiano del secolo XIX‑XX, Roma antica ha un posto minimo e quasi nullo. (Lo stesso Primato del Gioberti è forse di origine «gesuitica», anche se il Gioberti era antigesuita).
Q14 §25 Passato e presente. La logica di don Ferrante. Si può avvicinare la forma mentale di don Ferrante a quella che è contenuta nelle così dette «tesi» di Roma (ricordare la discussione sul «colpo di Stato» ecc.). Era proprio come il negare la «peste» e il «contagio» da parte di don Ferrante e così morirne «stoicamente» (se pure non è da usare un altro avverbio più appropriato). Ma in don Ferrante in realtà c’era più ragion «formale» almeno, cioè egli rifletteva il modo di pensare dell’epoca sua (e questo il Manzoni mette in satira, personificandolo in don Ferrante), mentre nel caso più moderno si trattava di anacronismo, come se don Ferrante fosse risuscitato con tutta la sua mentalità in pieno secolo XX.
Q14 §26 di cultura italiana. A proposito del protestantesimo in Italia, ecc. Riferimento a quella corrente intellettuale contemporanea che sostenne il principio che le debolezze della nazione e dello Stato italiano erano dovute alla mancanza di una riforma protestante, corrente rappresentata specialmente dal Missiroli. Il Missiroli, come appare, prese questa sua tesi di peso dal Sorel, che l’aveva presa dal Renan (poiché Renan una tesi simile, adattata alla Francia e più complessa aveva sostenuto nel libro La riforma intellettuale e morale). Nella «Critica» del 1931, in diverse puntate, è stato pubblicato un saggio inedito del Sorel, Germanesimo e storicismo di Ernesto Renan, scritto (datato) del maggio 1915 e che avrebbe dovuto servire di introduzione alla versione italiana del libro di Renan La riforma intellettuale e morale che doveva tradurre Missiroli e pubblicare Laterza. La traduzione del Missiroli non fu pubblicata e si capisce perché: nel maggio 1915 l’Italia intervenne nella guerra e il libro del Renan con la prefazione del Sorel sarebbe apparso un atto di tedescofilia. In ogni modo pare da accertare che la posizione del Missiroli sulla quistione del «protestantesimo in Italia» è una deduzione meccanica dalle idee critiche del Renan e del Sorel sulla formazione e le necessità della cultura francese. Non è però escluso che il Missiroli conoscesse anche le idee del Masaryk sulla cultura russa (egli per lo meno conosceva il saggio sul Masaryk di Antonio Labriola: ma il Labriola accenna a questa tesi «religiosa»? non mi pare) e nel 1918 conobbe dal «Grido del Popolo» il saggio sul Masaryk, con l’accenno alla tesi religiosa, pubblicato dal «Kampf» di Vienna nel 1914 e da me tradotto appunto nel «Grido» (questo saggio era anche conosciuto dal Gobetti). Le critiche fatte al Masaryk in questo saggio, metodologicamente, si avvicinano a quelle fatte dal Croce ai sostenitori di «riforme protestanti» ed è strano che ciò non sia stato visto dal Gobetti (per il quale, del resto, non si può dire che non comprendesse questo problema in modo concreto, a differenza del Missiroli, come dimostravano le sue simpatie politico‑pratiche). Occorrerebbe stroncare invece il Missiroli che è una carta asciugante di alcuni elementi culturali francesi.
Dal saggio del Sorel appare anche una strana tesi sostenuta dal Proudhon, a proposito di riforma intellettuale e morale del popolo francese (il Renan nella sua opera si interessa delle alte classi di cultura ed ha per il popolo un programma particolare: affidarne l’educazione ai parroci di campagna), che si avvicina a quella di Renan riguardante il popolo. Il Sorel sostiene che Renan anzi abbia conosciuto questo atteggiamento di Proudhon e ne sia stato influenzato. Le tesi di Proudhon sono contenute nell’opera La Justice dans la Révolution et dans l’Eglise, tome V, pp. 342‑44 e per esse si dovrebbe giungere a una riforma intellettuale e morale del popolo francese con l’aiuto del clero, che avrebbe, con il linguaggio e il simbolismo religioso, concretato e assicurato le verità «laiche» della Rivoluzione. Il Proudhon in fondo, nonostante le sue bizzarrie, è più concreto di quanto sembri: egli pare certamente persuaso che occorre una riforma intellettuale in senso laico («filosofico» come dice) ma non sa trovare altro mezzo didattico che il tramite del clero. Anche per Proudhon, il modello è quello protestante, cioè la riforma intellettuale e morale avvenuta in Germania con il protestantesimo, che egli vorrebbe «riprodotta» in Francia, nel popolo francese, ma con più rispetto storico della tradizione storica francese che è contenuta nella Rivoluzione. (Naturalmente occorre leggere bene Proudhon prima di servirsene per questo argomento). Anche la posizione del Sorel è strana in questo problema: la sua ammirazione per Renan e per i tedeschi gli fa vedere i problemi da puro intellettuale astratto.
Questo problema del protestantesimo non deve essere confuso con quello «politico» presentatosi nel periodo del Risorgimento, quando molti liberali, per esempio quelli della «Perseveranza», si servirono dello spauracchio protestante per far pressione sul papa a proposito del potere temporale e di Roma.
Sicché in una trattazione del problema religioso in Italia occorre distinguere in primo luogo tra due ordini fondamentali di fatti: 1) quello reale, effettuale, per cui si verificano nella massa popolare dei movimenti di riforma intellettuale e morale, sia come passaggio dal cattolicismo ortodosso e gesuitico a forme religiose più liberali, sia come evasione dal campo confessionale per una moderna concezione del mondo; 2) i diversi atteggiamenti dei gruppi intellettuali verso una necessaria riforma intellettuale e morale.
La corrente Missiroli è la meno seria di queste, la più opportunistica, la più dilettantesca e spregevole per la persona del suo corifeo.
Così occorre per ognuno di questi ordini di fatti distinguere cronologicamente tra varie epoche: quella del Risorgimento (col liberalismo laico da una parte, e il cattolicismo liberale dall’altra), quella dal 70 al 900 col positivismo e anticlericalismo massonico e democratico; quella dal 900 fino alla guerra, col modernismo e il filosofismo idealistico; quella fino al concordato, con l’organizzazione politica dei cattolici italiani; e quella post‑concordataria, con una nuova posizione del problema, sia per gli intellettuali che per il popolo. È innegabile, nonostante la più potente organizzazione cattolica e il risveglio di religiosità in questa ultima fase, che molte cose stanno mutando nel cattolicesimo, e che la gerarchia ecclesiastica ne è allarmata, perché non riesce a controllare queste trasformazioni molecolari; accanto a una nuova forma di anticlericalismo, più raffinata e profonda di quella ottocentesca, c’è un maggiore interesse per le cose religiose da parte dei laici, che portano nella trattazione uno spirito non educato al rigore ermeneutico dei gesuiti e quindi sconfinante spesso nell’eresia, nel modernismo, nello scetticismo elegante. «Troppa grazia!» per i gesuiti, che vorrebbero invece che i laici non s’interessassero di religione altro che per seguire il culto.
Q14 §27 Letteratura popolare. Origini popolaresche del «superuomo». Da riavvicinare al Balzac per le origini romantiche del «superuomo» è lo Stendhal col Giuliano Sorel del Rosso e Nero e altre figure del suo repertorio romanzesco. Per il «superuomo» nietzschiano, oltre all’influsso romantico dello Stendhal (e in generale del culto di Napoleone I) sono da vedere le tendenze razziste che hanno culminato nel Gobineau e poi nel Chamberlain e nel pangermanismo (Treitschke e le teorie della «potenza» ecc.).
Ma non è questa l’origine di certe forme moderne del superuomo: piuttosto, come ho scritto, Dumas del Montecristo e Balzac di Vautrin. Da vedere anche Dostojevsckij, come reazione panslavista ‑cristiana a queste dottrine della forza e del superuomo, ed è da notare che nel Dostojevsckij è stato grande l’influsso del romanzo francese d’appendice (cfr nel numero della «Cultura» dedicato a Dostojevsckij).
Nel carattere popolaresco del «superuomo» molti elementi teatrali, esteriori, da «prima donna» più che da «superuomo»: molto formalismo «soggettivo e oggettivo», ambizioni fanciullesche di essere il «primo della classe», ma specialmente di essere ritenuto e proclamato tale.
Q14 §28 Letteratura popolare. Luigi Volpicelli, nella «Italia Letteraria» del 1° gennaio 1933 (articolo Arte e religione) nota: «Il quale (il popolo) si potrebbe osservare tra parentesi, ha amato sempre l’arte più per quello che non è arte che per ciò che è essenziale all’arte; e forse proprio per questo è così diffidente verso gli artisti di oggi, i quali, volendo nell’arte la pura e sola arte, finiscono col diventare enigmatici, inintelligibili, profeti di pochi iniziati».
Osservazione senza costrutto né base: è certo che il popolo vuole un’arte «storica» (se non si vuole impiegare la parola «sociale»), cioè vuol un’arte espressa in termini di cultura «comprensibili», cioè universali, o «obbiettivi», o «storici» o «sociali» che è la stessa cosa. Non vuole «neolalismi» artistici specialmente se il «neolalico» è anche un imbecille.
Mi pare che il problema è sempre da porre partendo dalla domanda: «Perché scrivono i poeti? Perché dipingono i pittori? ecc.» (Ricordare l’articolo di Adriano Tilgher nell’«Italia che scrive»). Il Croce risponde, su per giù: per ricordate le proprie opere, dato che, secondo l’estetica crociana, l’opera d’arte è «perfetta» anche già e solo nel cervello dell’artista. Ciò che potrebbe ammettersi approssimativamente e in un certo senso. Ma solo approssimativamente e in un certo senso. In realtà si ricade nella quistione della «natura dell’uomo» e nella quistione «cos’è l’individuo?» Se non si può pensare l’individuo fuori della società, e quindi se non si può pensare nessun individuo che non sia storicamente determinato, è evidente che ogni individuo e anche l’artista, e ogni sua attività, non può essere pensata fuori della società, di una società determinata. L’artista pertanto non scrive o dipinge, ecc., cioè non «segna» esteriormente i suoi fantasmi solo per «un suo ricordo», per poter rivivere l’istante della creazione, ma è artista solo in quanto «segna» esteriormente, oggettivizza, storicizza i suoi fantasmi. Ma ogni individuo‑artista è tale in modo più o meno largo e comprensivo, più o meno «storico» o «sociale». Ci sono i «neolalici» o i «gerghisti», cioè quelli che essi soli possono rivivere il ricordo dell’istante creativo (ed è di solito un’illusione, il ricordo di un sogno o di una velleità), altri che appartengono a conventicole più o meno larghe (che hanno un gergo corporativo) e finalmente quelli che sono universali, cioè «nazionali‑popolari». L’estetica del Croce ha determinato molte degenerazioni artistiche, e non è poi vero che ciò sia avvenuto sempre contro le intenzioni e lo spirito dell’estetica crociana stessa; per molte degenerazioni, sì, ma non per tutte, e specialmente per questa fondamentale, dell’«individualismo» artistico espressivo antistorico (o antisociale, o anti‑nazionalepopolare).
Q14 §29 Argomenti di coltura. L’ossicino di Cuvier. Il principio di Cuvier, della correlazione tra le singole parti organiche di un corpo, per cui da una particella di esso (purché integra in sé) si può ricostruire l’intero corpo (tuttavia è da rivedere bene la dottrina di Cuvier, per esporre con esattezza il suo pensiero), è certo da inserire nella tradizione del pensiero francese, nella «logica» francese ed è da connettere col principio dell’animale‑macchina. Non importa vedere se nella biologia il principio possa dirsi ancora valido in tutto; ciò non pare possibile (per esempio è da ricordare l’ornitorinco, nella cui struttura non c’è «logica» ecc.); è da esaminare se il principio della correlazione sia utile, esatto e fecondo nella sociologia, oltre la metafora. Pare da rispondere nettamente di sì. Ma occorre intendersi: per la storia passata, il principio della correlazione (come quello dell’analogia) non può sostituire il documento, cioè non può dare altro che storia ipotetica, verosimile ma ipotetica. Ma diverso è il caso dell’azione politica e del principio di correlazione (come quello d’analogia) applicato al prevedibile, alla costruzione di ipotesi possibili e di prospettive. Si è appunto nel campo dell’ipotesi e si tratta di vedere quale ipotesi sia più verosimile e più feconda di convinzioni e di educazione. È certo che quando si applica il principio di correlazione agli atti di un individuo o anche di un gruppo, c’è sempre il rischio di cadere nell’arbitrio: gli individui e anche i gruppi non operano sempre «logicamente», «coerentemente», consequenziariamente ecc.; ma è sempre utile partire dalla premessa che così operino. Posta la premessa dell’«irrazionalità» dei motivi d’azione, essa non serve a nulla; può solo avere una portata polemica per poter dire come gli scolastici: «ex absurdo sequitur quodlibet». Invece la premessa della razionalità e quindi della «correlazione» o dell’analogia ha una portata educativa, in quanto può servire ad «aprir gli occhi agli ingenui» e anche a persuadere il «preopinante» se è in buona fede e sbaglia per «ignoranza» ecc.
Q14 §30 Letteratura popolare. Origini popolaresche del superuomo. Per i rapporti tra il basso romanticismo e alcuni aspetti della vita moderna (atmosfera da Conte di Montecristo) è da leggere un articolo di Louis Gillet nella «Revue des deux mondes» del 15 dicembre 1932.
Q14 §31 I nipotini dell’abate Bresciani. A molti poetuzzi odierni si potrebbe applicare il verso del Lasca contro il Ruscelli: «delle Muse e di Febo mariuolo». E più che di poesia si deve infatti parlare di mariuoleria per ottenere premi letterari e sovvenzioni d’Accademia.
Q14 §32 Machiavelli. Teoria e pratica. Riletta la famosa dedica del Bandello a Giovanni delle Bande Nere dove si parla del Machiavelli e dei suoi tentativi inutili per ordinare secondo le sue teorie dell’arte della guerra una moltitudine di soldati in campo, mentre Giovanni delle Bande Nere «in un batter d’occhio con l’aita dei tamburini» ordinò «quella gente in vari modi e forme, con ammirazione grandissima di chi vi si ritrovò». Appare chiaro che né in Bandello e neanche in Giovanni vi fu alcun proposito di «sfottere» il Machiavelli per la sua incapacità, e che lo stesso Machiavelli non se l’ebbe a male. L’impiego di questo aneddoto per trarre conseguenze sull’astrattezza del Machiavelli è un non senso e dimostra che non si capisce la sua portata esatta. Il Machiavelli non era un militare di professione, ecco tutto; cioè non sapeva il «linguaggio» degli ordini e dei segnali militari (trombe, tamburi ecc.). D’altronde prima che un complesso di soldati, graduati, sottufficiali, ufficiali, abbia preso l’abitudine a evolvere in un certo senso, ci vuole molto tempo. Un ordinamento teorico delle milizie può essere ottimo in tutto, ma per essere applicato deve diventare «regolamento», disposizioni d’esercizio, ecc., «linguaggio» subito capito e quasi automaticamente attuato. Si sa che molti legislatori di primo ordine non sanno compilare i «regolamenti» burocratici e organizzare gli uffici e selezionare il personale atto ad applicare le leggi, ecc. Si può dire dunque solo questo del Machiavelli, che fu troppo corrivo ad improvvisarsi «tamburino».
La quistione è tuttavia importante: non si può scindere l’amministratore‑funzionario dal legislatore, l’organizzatore dal dirigente, ecc. Ma ciò non si è attuato neanche oggi e la «divisione del lavoro» supplisce non solo all’incapacità relativa, ma integra «economicamente» l’attività principale del grande stratega, del legislatore, del capo politico, che si fanno aiutare da specialisti in compilare «regolamenti», «istruzioni», «ordinamenti pratici», ecc.
Q14 §33 Machiavelli. Interpretazione del Principe. Se, come è stato scritto in altre , l’interpretazione del Principe deve (o può) esser fatta ponendo come centro del libro l’invocazione finale, è da rivedere quanto di «reale» ci sia nella interpretazione così detta «satirica e rivoluzionaria» di esso (come si esprime Enrico Carrara nella nota al passo rispettivo dei Sepolcri nella sua opera scolastica Storia ed esempi della Letteratura Italiana, VII, L’Ottocento, p. 59 (ed. Signorelli, Milano). Per ciò che riguarda il Foscolo non pare debba parlarsi di una particolare interpretazione del Principe, cioè dell’attribuzione al Machiavelli di intenzioni riposte democratiche e rivoluzionarie; più giusto pare l’accenno del Croce (nel libro sulla Storia del Barocco) che risponde alla lettera dei Sepolcri, e cioè: «Il Machiavelli, per il fatto stesso di “temprare” lo scettro, ecc., di rendere il potere dei principi più coerente e consapevole, ne sfronda gli allori, distrugge i miti, mostra cosa sia realmente questo potere ecc.»; cioè la scienza politica, in quanto scienza, è utile sia ai governanti che ai governati per comprendersi reciprocamente.
Nei Ragguagli del Parnaso del Boccalini la quistione del Principe è invece posta in modo tutto diverso che nei Sepolcri. Ma è da domandare: chi vuole satireggiare il Boccalini?
Machiavelli o i suoi avversari? La quistione è dal Boccalini posta così: «I nemici del Machiavelli reputano il Machiavelli uomo degno di punizione perché ha esposto come i principi governano e così facendo ha istruito il Popolo; ha “messo alle pecore denti di cane”, ha distrutto i miti del potere, il prestigio dell’autorità, ha reso più difficile il governare, poiché i governati ne possono sapere quanto i governanti, le illusioni sono rese impossibili ecc.». È da vedere tutta l’impostazione politica del Boccalini, che in questo ragguaglio mi pare faccia la satira degli antimachiavellici, i quali non sono tali perché non facciano in realtà ciò che il Machiavelli ha scritto, cioè non sono antimachiavellici perché il Machiavelli abbia avuto torto, ma perché ciò che il Machiavelli scrive «si fa e non si dice», anzi è fattibile appunto perché non è criticamente spiegato e sistemato. Il Machiavelli è odiato perché «ha scoperto gli altarini» dell’arte di governo ecc.
La quistione si pone anche oggi e l’esperienza della vita dei partiti moderni è istruttiva; quante volte si è sentito il rimprovero per aver mostrato criticamente gli errori dei governanti: «mostrando ai governanti gli errori che essi fanno, voi insegnate loro a non fare errori», cioè «fate il loro gioco». Questa concezione è legata alla teoria fanciullesca del «tanto peggio, tanto meglio». La paura di «fare il gioco» degli avversari è delle più comiche ed è legata al concetto balordo di ritenere sempre gli avversari degli stupidi; è anche legata alla non comprensione delle «necessità» storico‑politiche, per cui «certi errori devono essere fatti» e il criticarli è utile per educare la propria parte.
Pare che le intenzioni del Machiavelli nello scrivere il Principe siano state più complesse e anche «più democratiche» di quanto non sarebbero secondo l’interpretazione «democratica». Cioè il Machiavelli ritiene che la necessità dello Stato unitario nazionale è così grande che tutti accetteranno che per raggiungere questo altissimo fine siano impiegati i soli mezzi che sono idonei. Si può quindi dire che il Machiavelli si sia proposto di educare il popolo, ma non nel senso che di solito si dà a questa espressione o almeno gli hanno dato certe correnti democratiche. Per il Machiavelli «educare il popolo» può aver significato solo renderlo convinto e consapevole che può esistere una sola politica, quella realistica, per raggiungere il fine voluto e che pertanto occorre stringersi intorno e obbedire proprio a quel principe che tali metodi impiega per raggiungere il fine, perché solo chi vuole il fine vuole i mezzi idonei a raggiungerlo. La posizione del Machiavelli, in tal senso, sarebbe da avvicinare a quella dei teorici e dei politici della filosofia della prassi, che anche essi hanno cercato di costruire e diffondere un «realismo» popolare, di massa e hanno dovuto lottare contro una forma di « gesuitismo» adeguato ai tempi diversi. La «democrazia» del Machiavelli è di un tipo adatto ai tempi suoi, è cioè il consenso attivo delle masse popolari per la monarchia assoluta, in quanto limitatrice e distruttrice dell’anarchia feudale e signorile e del potere dei preti, in quanto fondatrice di grandi Stati territoriali nazionali, funzione che la monarchia assoluta non poteva adempiere senza l’appoggio della borghesia e di un esercito stanziale, nazionale, centralizzato, ecc.
Q14 §34 Machiavelli. Partiti politici e funzioni di polizia. È difficile escludere che qualsiasi partito politico (dei gruppi dominanti, ma anche di gruppi subalterni) non adempia anche una funzione di polizia, cioè di tutela di un certo ordine politico e legale. Se questo fosse dimostrato tassativamente, la quistione dovrebbe essere posta in altri termini: e cioè, sui modi e gli indirizzi con cui una tale funzione viene esercitata. Il senso è repressivo o diffusivo, cioè è di carattere reazionario o progressivo? Il partito dato esercita la sua funzione di polizia per conservare un ordine esteriore, estrinseco, pastoia delle forze vive della storia, o la esercita nel senso che tende a portare il popolo a un nuovo livello di civiltà di cui l’ordine politico e legale è un’espressione programmatica? Infatti, una legge trova chi la infrange: 1) tra gli elementi sociali reazionari che la legge ha spodestato; 2) tra gli elementi progressivi che la legge comprime; 3) tra gli elementi che non hanno raggiunto il livello di civiltà che la legge può rappresentare. La funzione di polizia di un partito può dunque essere progressiva e regressiva: è progressiva quando essa tende a tenere nell’orbita della legalità le forze reazionarie spodestate e a sollevare al livello della nuova legalità le masse arretrate. È regressiva quando tende a comprimere le forze vive della storia e a mantenere una legalità sorpassata, antistorica, divenuta estrinseca. Del resto il funzionamento del Partito dato fornisce criteri discriminanti: quando il partito è progressivo esso funziona «democraticamente» (nel senso di un centralismo democratico), quando il partito è regressivo esso funziona «burocraticamente» (nel senso di un centralismo burocratico). Il Partito in questo secondo caso è puro esecutore, non deliberante: esso allora è tecnicamente un organo di polizia e il suo nome di Partito politico è una pura metafora di carattere mitologico.
Q14 §35 I nipotini di padre Bresciani. Si moltiplicano gli scritti sul distacco tra arte e vita. Articolo di Papini, nella Nuova Antologia del 10 gennaio 1933, articolo di Luigi Chiarini nell’«Educazione Fascista» del dicembre 1932. Attacchi contro Papini nell’«Italia Letteraria» ecc. Polemiche noiose e quanto inconcludenti. Papini è cattolico e anticrociano; le contraddizioni del suo superficiale scritto risultano da questa doppia qualità. In ogni modo questo rinnovarsi delle polemiche (alcuni articoli di «Critica Fascista», quelli di Gherardo Casini e uno di Bruno Spampanato contro gli intellettuali sono i più voli e si avvicinano di più al nocciolo della quistione) è sintomatico e mostra come si senta il disagio per il contrasto tra le parole e i fatti, tra le affermazioni recise e la realtà che le contraddice.
Pare però che oggi sia più possibile far riconoscere la realtà della situazione: c’è indubbiamente più buona volontà di comprendere, più spregiudicatezza ed esse sono date dal diffuso spirito antiborghese anche se generico e di origini spurie. Per lo meno si vorrebbe creare una effettiva unità nazionale‑popolare, anche se con mezzi estrinseci, pedagogici, scolastici, col «volontarismo»: per lo meno si sente che questa unità manca e che tale mancanza è una debolezza nazionale e statale. Ciò differenzia radicalmente l’attuale epoca da quella degli Ojetti, dei Panzini e C. Perciò nella trattazione di questa rubrica conviene tenerne conto. Le debolezze, d’altronde, sono evidenti: la prima è quella dell’essere persuasi che sia avvenuto un rivolgimento radicale popolare‑nazionale; se è avvenuto, vuol dire che non si deve far nulla più oltre di radicale, ma che si tratta solo di «organizzare», educare, ecc.; tutt’al più si parla di «rivoluzione permanente» ma in significato ristretto, nella solita accezione che tutta la vita è dialettica, è milizia, quindi rivoluzione. Le altre debolezze sono di più difficile comprensione: esse infatti possono risultare solo da una esatta analisi della composizione sociale italiana, da cui risulta che la grande massa degli intellettuali appartiene a quella borghesia rurale, la cui posizione economica è possibile solo se le masse contadine sono spremute fino alle midolla. Quando dalle parole si dovesse passare ai fatti concreti, questi significherebbero una distruzione radicale della base economica di questi gruppi intellettuali.
Q14 §36 Criteri metodologici. Una manifestazione tipica del dilettantismo intellettuale (e dell’attività intellettuale dei dilettanti) è questa: che nel trattare una quistione si tende ad esporre tutto quello che si sa e non solo ciò che è necessario e importante di un argomento. Si coglie ogni occasione per fare sfoggio dei propri imparaticci, di tutti gli sbrendoli e nastri del proprio bazar; ogni piccolo fatterello è elevato a momento mondiale per poter dare corso alla propria concezione mondiale, ecc. Avviene poi che, siccome si vuol essere originali e non ripetere le cose già dette, ogni altra volta si deve sostenere un gran mutamento nei «fattori» fondamentali del quadro e quindi si cade in stupidaggini d’ogni genere.
Q14 §37 Letteratura popolare. Italia e Francia. Si può forse affermare che tutta la vita intellettuale italiana fino al 1900 (e precisamente fino al formarsi della corrente culturale idealistica Croce‑Gentile) in quanto ha tendenze democratiche, cioè in quanto vuole (anche se non ci riesce sempre) prendere contatto con le masse popolari è semplicemente un riflesso francese, dell’ondata democratica francese che ha avuto origine dalla Rivoluzione del 1789: l’artificiosità di questa vita è nel fatto che in Italia essa non aveva avuto le premesse storiche che invece erano state in Francia. Niente in Italia di simile alla Rivoluzione del 1789 e alle lotte che ne seguirono; tuttavia in Italia si «parlava» come se tali premesse fossero esistite. Ma si capisce che un tale parlare non poteva essere che a fior di labbra. Da tal punto di vista, s’intende il significato «nazionale», seppure poco profondo, delle correnti conservatrici e reazionarie in confronto di quelle democratiche; queste erano grandi «fuochi di paglia», di grande estensione superficiale, quelle erano di poca estensione, ma ben radicate e intense. Se non si studia la cultura italiana fino al 1900 come un fenomeno di provincialismo francese, se ne comprende ben poco. Tuttavia occorre distinguere: c’è misto un sentimento nazionale antifrancese, nell’ammirazione per le cose di Francia: si vive di riflesso e si odia nello stesso tempo. Almeno fra gli intellettuali. Nel popolo i sentimenti «francesi» non sono tali, appaiono come «senso comune», come cose proprie del popolo stesso e il popolo è francofilo o francofobo secondo che viene aizzato o meno dalle forze dominanti. Era comodo far credere che la Rivoluzione del 1789, poiché avvenuta in Francia, era come se avvenuta in Italia, per quel tanto che delle idee francesi era comodo servirsi per guidare le masse; ed era comodo servirsi dell’antigiacobinismo forcaiolo per andare contro la Francia, quando ciò serviva.
Q14 §38 di cultura italiana. 1) La scienza e la cultura. Le correnti filosofiche idealistiche (Croce e Gentile) hanno determinato un primo processo di isolamento degli scienziati (scienze naturali o esatte) dal mondo della cultura. La filosofia e la scienza si sono staccate e gli scienziati hanno perduto molto del loro prestigio. Un altro processo di isolamento si è avuto per il nuovo prestigio dato al cattolicesimo e per il formarsi del centro neoscolastico. Così gli scienziati «laici» hanno contro la religione e la filosofia più diffusa: non può non avvenire un loro imbozzolamento e una «denutrizione» dell’attività scientifica che non può svilupparsi isolata dal mondo della cultura generale. D’altronde: poiché l’attività scientifica è in Italia strettamente legata al bilancio dello Stato, che non è lauto, all’atrofizzarsi di uno sviluppo del «pensiero» scientifico, della teoria, non può per compenso neanche aversi uno sviluppo della «tecnica» strumentale e sperimentale, che domanda larghezza di mezzi e di dotazioni. Questo disgregarsi dell’unità scientifica, del pensiero generale, è sentito: si è cercato di rimediare elaborando, anche in questo campo, un «nazionalismo» scientifico, cioè sostenendo la tesi della «nazionalità» della scienza. Ma è evidente che si tratta di costruzioni esteriori estrinseche, buone per i Congressi e le celebrazioni oratorie, ma senza efficacia pratica. E tuttavia gli scienziati italiani sono valorosi e fanno, con pochi mezzi, sacrifici inauditi e ottengono risultati mirabili. Il pericolo più grande pare essere rappresentato dal gruppo neoscolastico, che minaccia di assorbire molta attività scientifica sterilizzandola, per reazione all’idealismo gentiliano. (È da vedere l’attività organizzatrice del Consiglio Nazionale delle Ricerche e l’efficacia che ha avuto per sviluppare l’attività scientifica e tecnologica, e quella delle sezioni scientifiche dell’Accademia d’Italia).
2) Centralismo nazionale e burocratico. Lo scioglimento delle associazioni regionali avvenuto verso l’agosto del 1932. Vedere quali reazioni ha suscitato nel tempo. Vi si è visto un movimento di sempre più salda coscienza nazionale. Ma l’illazione è giustificata? Confrontare col movimento di centralizzazione avutosi in Francia dopo la Rivoluzione e specialmente con Napoleone. La differenza pare evidente: in Francia si era avuto un movimento nazionale unitario, di cui l’accentramento fu l’espressione burocratica. In Italia non si è avuto lo stesso processo nazionale, anzi la burocrazia accentrata aveva proprio il fine di ostacolare un tale processo. Sarebbe interessante vedere quali forze unitarie nel dopoguerra si siano formate accanto alla burocraziatradizionale: ciò che è da notare è che tali forze, se pure relativamente voli, non hanno un carattere di omogeneità e di permanente sistematicità, ma sono di tipo «burocratico» (burocrazia sindacale, di partito, podestà, ecc.).
3) Scienza. Vedere il volume pubblicato da Gino Bargagli‑Petrucci (presso il Le Monnier) in cui sono raccolti i discorsi di scienziati italiani all’Esposizione di storia delle scienze del 1929. In questo volume è pubblicato un discorso del padre Gemelli che è segno dei tempi per vedere la baldanza che hanno assunto questi fratacci (su questo discorso è da vedere la recensione nell’«Educazione Fascista» del 1932 e l’articolo di Sebastiano Timpanaro nell’«Italia Letteraria» dell’11 settembre e 16 ottobre 1932).
Q14 §39 Letteratura popolare. Manzoni e gli «umili». L’atteggiamento «democratico» del Manzoni verso gli umili (nei Promessi Sposi) in quanto è d’origine «cristiana» e in quanto è da connettere con gli interessi storiografici che il Manzoni aveva derivato dal Thierry e dalle sue teorie sul contrasto tra le razze (conquistatrice e conquistata) divenuto contrasto di classi. Queste teorie del Thierry sono da vedere in quanto sono legate al romanticismo e al suo interesse storico per il Medio Evo e per le origini delle nazioni moderne, cioè nei rapporti tra razze germaniche invaditrici e razze neolatine invase, ecc. (Su questo argomento del «democraticismo» o «popolarismo» del Manzoni vedere altre ). Anche su questo punto dei rapporti tra l’atteggiamento del Manzoni e le teorie del Thierry è da vedere il libro dello Zottoli, Umili e potenti nella poetica di A. Manzoni.
Queste teorie di Thierry nel Manzoni si complicano, o almeno hanno aspetti nuovi nella discussione sul «romanzo storico» in quanto esso rappresenta persone delle «classi subalterne» che «non hanno storia», cioè la cui storia non lascia tracce nei documenti storici del passato. (Questo punto è da connettere con la rubrica «Storia delle classi subalterne», in cui si può fare riferimento alle dottrine del Thierry, che del resto hanno avuto tanta importanza per le origini della storiografia della filosofia della prassi).
Q14 §40 Passato e presente. Ricordare il saggio pubblicato da Gino Doria (nella «Nuova Italia» del 1930 o 1931) in cui si sostiene che la morale e i comportamenti dei re sono unicamente in rapporto agli interessi della dinastia ed in funzione di questa debbono essere giudicati. Il Doria è napoletano ed è da notare come i teorici più ortodossi della monarchia siano sempre stati napoletani (De Meis, per esempio). Il Doria scrisse il saggio in occasione del così detto anno carlalbertino, quando si ridiscusse la figura di Carlo Alberto, ecc., ma forse le sue intenzioni erano più estensive e comprensive. Ma cosa significa la formula del Doria? Non è poi essa una vacua generalità? E corrisponde alla propaganda che è stata fatta per rafforzare l’istituto monarchico e che ha creato l’«ortodossia»? La tesi del Doria è un riflesso della tesi del Maurras, che poi dipende dalla concezione dello «Stato patrimoniale».
Q14 §41 Balzac. (Cfr qualche altra nota: accenni all’ammirazione per Balzac dei fondatori della filosofia della prassi; lettera inedita di Engels in cui questa ammirazione è giustificata criticamente). Confrontare l’articolo di Paolo Bourget, Les idées politiques et sociales de Balzac nelle «Nouvelles Littéraires» dell’8 agosto 1931. Il Bourget comincia col notare come oggi si dà sempre più importanza alle idee di Balzac: «l’école traditionaliste (cioè forcaiola), que nous voyons grandir chaque jour, inscrit son nom à côté de celui de Bonald, de Le Play, de Taine lui même». Invece non era così nel passato. Sainte‑Beuve, nell’articolo dei Lundis consacrati a Balzac dopo la sua morte, non accenna neppure alle sue idee politiche e sociali. Taine, che ammirava lo scrittore di romanzi, gli negò ogni importanza dottrinale. Lo stesso critico cattolico Caro, verso gli inizi del secondo Impero, giudicava futili le idee del Balzac. Flaubert scrive che le idee politiche e sociali di Balzac non valgono la pena di essere discusse: «Il était catholique, légitimiste, propriétaire! – scrive Flaubert – un immense bonhomme, mais de second ordre». Zola scrive: «Rien de plus étrange que ce soutien du pouvoir absolu, dont le talent est essentiellement démocratique et qui a ecrit l’œuvre la plus révolutionnaire». Eccetera.
Si capisce l’articolo del Bourget. Si tratta di trovare in Balzac l’origine del romanzo positivista, ma reazionario, la scienza al servizio della reazione (tipo Maurras), che d’altronde è il destino più esatto del positivismo stabilito dal Comte.
Balzac e la scienza. Cfr la «Prefazione generale» della Commedia umana, dove il Balzac scrive che il naturalista avrà l’onore eterno di aver mostrato che «l’animal est un principe qui prend sa forme extérieure, ou mieux, les différences de sa forme, dans les milieux où il est appelé à se développer. Les espèces zoologiques résultent des ces différences… Pénétré de ce système, je vis que la société ressemble à la nature. Ne fait‑elle pas de l’homme, suivant les milieux où son action se déploie, autant d’hommes différents qu’il y a des variétés zoologiques?… Il a donc existé, il existera de tout temps des espèces sociales comme il y a des espèces zoologiques. Les différences entre un soldat, un ouvrier, un administrateur, un oisif (!!), un savant, un homme d’Etat, un commerçant, un marin, un poéte, un pauvre (!!), un prêtre, sont aussi considérables que celles qui distinguent le loup, le lion, l’âne, le corbeau, le requin, le veau marin la brebis».
Che Balzac abbia scritto queste cose e magari le prendesse sul serio e immaginasse di costruire tutto un sistema sociale su queste metafore, non fa maraviglia e neanche diminuisce per nulla la grandezza di Balzac artista. Ciò che è notevole è che oggi il Bourget e, come egli dice, la «scuola tradizionalista», si fondi su queste povere fantasie «scientifiche» per costruire sistemi politico‑sociali senza giustificazione di attività artistica.
Partendo da queste premesse il Balzac si pone il problema di «perfezionare al massimo queste specie sociali» e di armonizzarle tra loro, ma siccome le «specie» sono create dall’ambiente, bisognerà «conservare» e organizzare l’ambiente dato per mantenere e perfezionare la specie data. Eccetera. Pare che non avesse torto Flaubert scrivendo che non merita la pena di discutere le idee sociali di Balzac. E l’articolo del Bourget mostra solo quanto sia fossilizzata la scuola tradizionalista francese.
Ma se tutta la costruzione del Balzac è senza importanza come «programma pratico», cioè dal punto di vista da cui l’esamina il Bourget, in essa sono elementi che hanno interesse per ricostruire il mondo poetico del Balzac, la sua concezione del mondo in quanto si è realizzata artisticamente, il suo «realismo» che, pur avendo origini ideologiche reazionarie, di restaurazione, monarchiche, ecc., non perciò è meno realismo in atto. E si capisce l’ammirazione che per il Balzac nutrirono i fondatori della filosofia della prassi: che l’uomo sia tutto il complesso delle condizioni sociali in cui egli si è sviluppato e vive, che per «mutare» l’uomo occorre mutare questo complesso di condizioni è intuito chiaramente dal Balzac. Che «politicamente e socialmente» egli sia un reazionario, appare solo dalla parte extra‑artistica dei suoi scritti (divagazione, prefazioni, ecc.). Che anche questo «complesso di condizioni» o «ambiente» sia inteso «naturalisticamente» è anche vero; infatti il Balzac precede una determinata corrente letteraria francese, ecc.
Q14 §42 Cultura italiana. Si insiste molto sul fatto che sia aumentato il numero dei libri pubblicati. L’Istituto italiano del Libro comunica che la media annuale del decennio 1908‑1918 è stata esattamente di 7300. I calcoli fatti per il 1929 (i più recenti) danno la cifra di 17 718 (libri ed opuscoli; esclusi quelli della Città del Vaticano, di S. Marino, delle colonie e delle terre di lingua italiana non facenti parte del Regno). Pubblicazioni polemiche e quindi tendenziose. Bisognerebbe vedere: 1) se le cifre sono omogenee cioè se si calcola oggi come nel passato, ossia se non è cambiato il tipo dell’unità editoriale base; 2) bisogna tener conto che nel passato la statistica libraria era molto approssimativa e incerta (ciò si osserva per tutte le statistiche, per esempio quella della raccolta del grano; ma specialmente vero per i libri: si può dire che oggi non solo è mutato il tipo di unità calcolata, ma niente sfugge all’accertamento statistico); 3) è da vedere se e come è mutata la composizione organica del complesso librario: è certo che si sono moltiplicate le case editrici cattoliche, per esempio, e quindi la pubblicazione di opericciuole senza nessuna importanza culturale (così si sono moltiplicare le edizioni scolastiche cattoliche, ecc.). In questo calcolo occorrerebbe tener conto delle tirature, e ciò specialmente per i giornali e le riviste.
Si legge meno o più? E chi legge meno o più? Si sta formando una «classe media colta» più numerosa che in passato, che legge di più, mentre le classi popolari leggono molto meno; ciò appare dal rapporto tra libri, riviste e giornali. I giornali sono diminuiti di numero e stampano meno copie; si leggono più riviste e libri (cioè ci sono più lettori di libri e riviste). Confronto tra Italia e altri paesi nei modi di fare la statistica libraria e nella classificazione per gruppi di ciò che si pubblica.
Q14 §43 Nozioni enciclopediche. Riscossa. Deve essere d’origine militare e francese. Il grido di battaglia dell’esercito di Carlo VIII a Fornovo era appunto: «Montoison à la recousse!» Nel linguaggio militare francese «recousse o rescousse» indicava un nuovo attacco e «A la rescousse!» si gridava in battaglia per domandare soccorsi.
Q14 §44 Concordati. Sul concordato del Laterano è da vedere: il libro di Vincenzo Morello Il conflitto dopo la Conciliazione (Bompiani 1931) e la risposta di Egilberto Martire, Ragioni della Conciliazione (Roma, «Rassegna Romana» 1932). Sulla polemica Morello‑Martire è da vedere l’articolo firmato Novus nella «Critica Fascista» del 1° febbraio 1933 (Una polemica sulla conciliazione). Il Morello pone in rilievo quei punti del Concordato in cui lo Stato è venuto meno a se stesso, ha abdicato alla sua sovranità non solo, ma, pare, mette in rilievo come in alcuni punti le concessioni fatte alla Chiesa siano superiori a quelle fatte da altri paesi concordatari. I punti controversi sono principalmente quattro: 1) Il matrimonio; per l’art. 43 del Concordato il matrimonio è disciplinato dal diritto canonico, cioè è applicato nell’ambito dello Stato un diritto estraneo ad esso. Per esso, i cattolici, per un diritto estraneo allo Stato, possono avere annullato il matrimonio, a differenza dei non‑cattolici, mentre «l’essere o non essere cattolici, dovrebbe essere irrilevante agli effetti civili». 2) Per l’art. 5 comma 3°, c’è l’interdizione da alcuni uffici pubblici per i sacerdoti apostati o irretiti da censura; cioè si applica una «pena» del Codice Penale a persone che non hanno commesso, di fronte allo Stato, nessun reato punibile; l’art. 1° del Codice vuole invece che nessun cittadino possa essere punito se non per un fatto espressamente preveduto dalla legge penale come reato. 3) Per il Morello non si vede quali siano le ragioni di utilità per cui lo Stato ha fatto tabula rasa delle leggi eversive, riconoscendo agli enti ecclesiastici e ordini religiosi esistenza giuridica, facoltà di possedere ed amministrare i propri beni. 4) Insegnamento. Esclusione recisa e totale dello Stato dalle scuole ecclesiastiche, e non solo già da quelle che preparano tecnicamente i sacerdoti (cioè esclusione dello Stato dall’insegnamento della teologia, ecc.), ma dall’insegnamento dell’istruzione generale. L’art. 39 del Concordato si riferisce infatti anche alle scuole elementari e medie tenute dal clero in molti seminari, collegi e conventi, delle quali il clero si serve per attrarre fanciulli e giovinetti al sacerdozio e alla vita monastica, ma che in sé non sono ancora specializzate. Questi alunni dovrebbero aver diritto alla tutela dello Stato. Pare che in altri concordati si sia tenuto conto di certe garanzie verso lo Stato per cui anche il clero non sia formato in modo contrario alle leggi e all’ordine nazionale, e precisamente imponendo che per avere molti uffici ecclesiastici è necessario un titolo di studio pubblico (quello che dà adito alle università).
Q14 §45 Letteratura popolare. Manzoni. Adolfo Faggi nel «Marzocco» del 1° novembre 1931 scrive alcune osservazioni sulla sentenza «Vox populi vox Dei» nei Promessi Sposi. La sentenza è citata due volte (secondo il Faggi) nel romanzo: una volta nell’ultimo capitolo ed appare detta da Don Abbondio a proposito del marchese successore di Don Rodrigo: «E poi non vorrà che si dica che è un grand’uomo. Lo dico e lo voglio dire. E anche se io stessi zitto, già non servirebbe a nulla, perché parlan tutti, e vox populi, vox Dei». Il Faggi fa osservare che questo solenne proverbio è impiegato da don Abbondio un po’ enfaticamente, mentre egli si trova in quella felice disposizione d’animo per la morte di don Rodrigo, ecc.; non ha particolare importanza o significato. L’altra volta la sentenza si trova nel cap. XXXI, dove si parla della peste: «Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?) deridevano gli auguri sinistri, gli avvertimenti minacciosi dei pochi, ecc.». Qui il proverbio è riportato in italiano e in parentesi, con intonazione ironica. Negli Sposi Promessi (cap. III del tomo IV, ediz. Lesca) il Manzoni scrive a lungo sulle idee tenute generalmente per vere in un tempo o in un altro dagli uomini e conchiude che se oggi si possono trovare ridicole le idee diffuse tra il popolo al tempo della peste di Milano, non possiamo sapere se idee odierne non saranno trovate ridicole domani, ecc. Questo lungo ragionamento della prima stesura è riassunto nel testo definitivo nella breve domanda: «Era anche in questo caso voce di Dio?»
Il Faggi distingue tra i casi in cui per il Manzoni la voce del popolo non è in certi casi voce di Dio, da altri in cui può esser tale. Non sarebbe voce di Dio «quando si tratti d’idee o meglio di cognizioni specifiche, che soltanto dalla scienza e dai suoi continui progressi possono essere determinate; ma quando si tratti di quei principii generali e sentimenti comuni per natura a tutti quanti gli uomini, che gli antichi comprendevano nella ben nota espressione di conscentia generis humani». Ma il Faggi non pone molto esattamente la quistione, che non può essere risolta senza riferirsi alla religione del Manzoni, al suo cattolicismo. Così riporta per esempio il famoso parere di Perpetua a don Abbondio, parere che coincide con l’opinione del card. Borromeo. Ma nel caso non si tratta di una quistione morale o religiosa, ma di un consiglio di prudenza pratica, dettato dal senso comune più banale. Che il card. Borromeo si trovi d’accordo con Perpetua non ha quella importanza che sembra al Faggi. Mi pare sia legato al tempo e al fatto che l’autorità ecclesiastica aveva un potere politico e un’influenza; che Perpetua pensi che don Abbondio debba ricorrere all’arcivescovo di Milano, è cosa naturale (serve solo a mostrare come Don Abbondio avesse perduto la testa in quel momento e Perpetua avesse più «spirito di corpo» di lui), come è naturale che Federico Borromeo così parli. Non c’entra la voce di Dio in questo caso. Così non ha molto rilievo l’altro caso: Renzo non crede all’efficienza del voto di castità fatto da Lucia e in ciò si trova d’accordo col padre Cristoforo. Si tratta anche qui di «casistica» e non di morale. Il Faggi scrive che «il Manzoni ha voluto fare un romanzo di umili», ma ciò ha un significato più complesso di ciò che il Faggi mostri di credere. Tra il Manzoni e gli «umili» c’è distacco sentimentale; gli umili sono per il Manzoni un «problema di storiografia», un problema teorico che egli crede di poter risolvere col romanzo storico, col «verosimile» del romanzo storico. Perciò gli umili sono spesso presentati come «macchiette» popolari, con bonarietà ironica, ma ironica. E il Manzoni è troppo cattolico per pensare che la voce del popolo sia voce di Dio: tra il popolo e Dio c’è la chiesa, e Dio non s’incarna nel popolo, ma nella chiesa. Che Dio s’incarni nel popolo può crederlo il Tolstoi, non il Manzoni.
Certo questo atteggiamento del Manzoni è sentito dal popolo e perciò i Promessi Sposi non sono mai stati popolari: sentimentalmente il popolo sentiva il Manzoni lontano da sé e il suo libro come un libro di devozione non come un’epopea popolare.
Q14 §46 I nipotini di padre Bresciani. Parlando di Gioacchino Belli nella prima edizione dell’Ottocento (Vallardi), Guido Mazzoni ne trova una che è impagabile e può servire per caratterizzare gli scrittori di questa rubrica, specialmente Ugo Ojetti. Per il Mazzoni la debolezza di carattere del Belli «si trasformava in un aiuto di prim’ordine alle sue facoltà artistiche, perché lo rendeva più malleabile alle impressioni».
Q14 §47 Caratteri della cultura italiana. Si potrebbero raccogliere, in uno stesso saggio, diverse serie di , scritte partendo da interessi intellettuali diversi, ma che in realtà sono espressione di uno stesso problema fondamentale. Così le sulle quistioni: della lingua, del romanticismo italiano (se sia esistito), del perché la letteratura italiana non sia popolare, dell’esistenza o meno di un teatro italiano, ecc., con le sulle varie interpretazioni che sono state date del moto del Risorgimento fino alle discussioni più recenti sulla «razionalità» e sul significato del presente regime (psicosi di guerra, ecc.). Tutti questi argomenti sono strettamente collegati e sono da connettere come blocco alle discussioni e alle interpretazioni che della passata storia svoltasi nella penisola italiana si ebbero in tutto il secolo XIX e di cui una parte almeno è documentata nel libro del Croce sulla Storia della Storiografia italiana nel secolo XIX (di cui occorrerà vedere l’ultima edizione, specialmente per la parte che riguarda il Volpe, e la sua Italia in cammino, così come occorrerà vedere la prefazione del Volpe alla terza edizione di questo suo libro, in cui si polemizza col Croce. Del Volpe sono poi da vedere tutti gli scritti di storia e di teoria o storia della storia). Che tali polemiche e tanta varietà di interpretazione dei fatti siano state e siano ancora possibili, è fatto di per se stesso molto importante e caratteristico di una determinata situazione politico‑culturale. Non pare che una cosa simile sia avvenuta per nessun altro paese, almeno con tale assiduità, abbondanza e pertinacia. (Si potrebbe forse ricordare per la Francia l’opera del Jullian sull’elemento celtico nella storia francese, sul suo antiromanesimo, ecc., ma è da notare che in Francia stessa il Jullian ha colpito come una stranezza, nonostante le sue doti di erudito e di scrittore. Forse qualcosa di simile si ha in Ispagna, con le discussioni se la Spagna sia Europa o Africa, ecc.; è da vedere questo lato della coltura spagnola).
In questo fenomeno caratteristico italiano sono da distinguere vari aspetti: 1) il fatto che gli intellettuali sono disgregati, senza gerarchia, senza un centro di unificazione e centralizzazione ideologica e intellettuale, ciò che è risultato di una scarsa omogeneità, compattezza e «nazionalità» della classe dirigente; 2) il fatto che queste discussioni sono, in realtà, la prospettiva e il fondamento storico di programmi politici impliciti, che rimangono impliciti, retorici, perché l’analisi del passato non è fatta obbiettivamente, ma secondo pregiudizi letterari o di nazionalismo letterario (anche di antinazionalismo letterario, come nel caso del Montefredini).
Alla serie di quistioni aggiungere: la quistione meridionale (nell’impostazione del Fortunato, per esempio, o del Salvemini, col relativo concetto di «unità»), la quistione siciliana (da vedere Le più belle pagine di Michele Amari raccolte da V. E. Orlando in modo da fare apparire la Sicilia come un «momento» della storia mondiale); la quistione sarda (carte di Arborea, da paragonare col simile tentativo boemo verso il 48, cioè contemporaneamente).
Che la politica nazionale sia «teorizzata» in forme così astratte, dai letterati, senza che a questi teorici corrisponda un gruppo adeguato di tecnici della politica che sappiano porre le quistioni in termini di «effettuabilità», è il carattere più spiccato della situazione politica italiana; gli affari reali sono nelle mani dei funzionari specializzati, uomini indubbiamente di valore e di capacità dal punto di vista tecnico‑professionale burocratico, ma senza legami continuati con l’«opinione pubblica», cioè con la vita nazionale. Si è avuto in Italia qualcosa di simile a ciò che si aveva nella Germania guglielmina, con questa differenza: che nella Germania dietro la burocrazia c’erano gli Junker, una classe sociale sia pure mummificata e mutilata, mentre in Italia una forza di tal genere non esisteva: la burocrazia italiana può essere paragonata alla burocrazia papale, o meglio ancora, alla burocrazia cinese dei mandarini. Essa certamente faceva gli interessi di gruppi ben precisi (in primo luogo gli agrari, poi l’industria protetta, ecc.), ma senza piano e sistema, senza continuità, sulla base, per dirla rapidamente, dello «spirito di combinazione» che era necessario per «armonizzare» le tante contraddizioni della vita nazionale che non si cercò mai di risolvere organicamente e secondo un indirizzo conseguente. Questa burocrazia non poteva non essere specialmente «monarchica»; per cui si può dire che la monarchia italiana è stata essenzialmente una «monarchia burocratica» e il re il primo dei funzionari, nel senso che la burocrazia era la sola forza «unitaria» del paese, permanentemente «unitaria».
Altro problema tipico italiano: il papato, che anch’esso dette origini a interpretazioni dinamiche del Risorgimento che non sono state senza effetto nella coltura nazionale e lo sono anche ora: basta ricordare il giobertismo e la teoria del Primato, che entra anche oggi nel guazzetto ideologico di moda. Occorre ricordare l’atteggiamento dei cattolici in politica, il non expedit e il fatto che nel dopoguerra il Partito Popolare era un partito che ubbidiva a interessi anazionali, una forma paradossale di ultramontanismo poiché il Papato era in Italia e non poteva apparire politicamente come appariva in Francia e in Germania, cioè nettamente fuori dello Stato.
Tutti questi elementi contradditori si sintetizzano nella posizione internazionale del paese, estremamente debole e precaria, senza possibilità di una linea a lunga prospettiva, situazione che ebbe la sua espressione nella guerra del 14 e nel fatto che l’Italia combatté nel campo opposto a quello delle sue alleanze tradizionali.
Altro documento di interpretazione della storia italiana il volume di Nello Quilici, Origine, sviluppo e insufficienza della borghesia italiana (Edizione dei «Nuovi Problemi», Ferrara).
Q14 §48 Passato e presente. Centralismo organico e centralismo democratico. Disciplina. Come deve essere intesa la disciplina, se si intende con questa parola un rapporto continuato e permanente tra governanti e governati che realizza una volontà collettiva? Non certo come passivo e supino accoglimento di ordini, come meccanica esecuzione di una consegna (ciò che però sarà pure necessario in determinate occasioni, come per esempio nel mezzo di un’azione già decisa e iniziata) ma come una consapevole e lucida assimilazione della direttiva da realizzare. La disciplina pertanto non annulla la personalità in senso organico, ma solo limita l’arbitrio e l’impulsività irresponsabile, per non parlare della fatua vanità di emergere. Se si pensa, anche il concetto di «predestinazione» proprio di alcune correnti del cristianesimo non annulla il così detto «libero arbitrio» nel concetto cattolico, poiché l’individuo accetta «volente» il volere divino (così pone la quistione il Manzoni nella Pentecoste) al quale, è vero, non potrebbe contrastare, ma a cui collabora o meno con tutte le sue forze morali. La disciplina pertanto non annulla la personalità e la libertà: la quistione della «personalità e libertà» si pone non per il fatto della disciplina, ma per l’«origine del potere che ordina la disciplina». Se questa origine è «democratica», se cioè l’autorità è una funzione tecnica specializzata e non un «arbitrio» o una imposizione estrinseca ed esteriore, la disciplina è un elemento necessario di ordine democratico, di libertà. Funzione tecnica specializzata sarà da dire quando l’autorità si esercita in un gruppo omogeneo socialmente (o nazionalmente); quando si esercita da un gruppo su un altro gruppo, la disciplina sarà autonoma e libera per il primo, ma non per il secondo.
In caso di azione iniziata o anche già decisa (senza che ci sia il tempo di rimettere utilmente in discussione la decisione) la disciplina può anche apparire estrinseca e autoritaria. Ma altri elementi allora la giustificano. È osservazione di senso comune che una decisione (indirizzo) parzialmente sbagliata può produrre meno danno di una disubbidienza anche giustificata con ragioni generali, poiché ai danni parziali dell’indirizzo parzialmente sbagliato si cumulano gli altri danni della disubbidienza e del duplicarsi degli indirizzi (ciò si è verificato spesso nelle guerre, quando dei generali non hanno ubbidito a ordini parzialmente erronei e pericolosi, provocando catastrofi peggiori e spesso insanabili).
Q14 §49 Machiavelli. Lo Stato. Il prof. Giulio Miskolczy, direttore dell’Accademia ungherese di Roma, nella «Magyar Szemle» (articolo riportato nella «Rassegna della Stampa Estera» del 3‑10 gennaio 1933) scrive che in Italia il «Parlamento, che prima era, per così dire, fuori dello Stato, è rimasto un collaboratore prezioso, ma è stato inserito nello Stato ed ha subito un cambiamento essenziale nella sua composizione ecc.» Che il Parlamento possa essere «inserito» nello Stato è una scoperta di scienza e di tecnica politica degna dei Cristoforo Colombo del forcaiolismo moderno. Tuttavia l’affermazione è interessante, per vedere come concepiscono lo Stato praticamente molti uomini politici. E in realtà è da porsi la domanda: i Parlamenti fanno parte della struttura degli Stati, anche nei paesi dove pare che i Parlamenti abbiano il massimo di efficienza, oppure che funzione reale hanno? E in che modo, se la risposta è positiva, essi fanno parte dello Stato, e in che modo esplicano la loro funzione particolare? Tuttavia: l’esistenza dei Parlamenti, anche se essi organicamente non fanno parte dello Stato, è senza significato statale? E quale fondamento hanno le accuse che si fanno al parlamentarismo e al regime dei partiti, che è inseparabile dal parlamentarismo? (fondamento obbiettivo, s’intende, cioè legato al fatto che l’esistenza dei Parlamenti, di per sé, ostacola e ritarda l’azione tecnica del governo). Che il regime rappresentativo possa politicamente «dar noia» alla burocrazia di carriera s’intende; ma non è questo il punto. Il punto è se il regime rappresentativo e dei partiti invece di essere un meccanismo idoneo a scegliere funzionari eletti che integrino ed equilibrino i burocratici nominati, per impedire ad essi di pietrificarsi, sia divenuto un inciampo e un meccanismo a rovescio e per quali ragioni. Del resto, anche una risposta affermativa a queste domande non esaurisce la quistione: perché anche ammesso (ciò che è da ammettere) che il parlamentarismo è divenuto inefficiente e anzi dannoso, non è da concludere che il regime burocratico sia riabilitato ed esaltato. È da vedere se parlamentarismo e regime rappresentativo si identificano e se non sia possibile una diversa soluzione sia del parlamentarismo che del regime burocratico, con un nuovo tipo di regime rappresentativo.
Q14 §50 Passato e Presente. Il proverbio: «fratelli, coltelli». È poi così strano e irrazionale che le lotte e gli odi diventino tanto più accanite e grandi quanto più due elementi «sembrano» vicini e portati dalla «forza delle cose» a intendersi e a collaborare? Non pare. Almeno «psicologicamente» il fatto si spiega. Infatti uno non si può attendere nulla di buono da un nemico o da un avversario; invece ha il diritto di attendersi e di fatto si attende unità e collaborazione da chi gli sta vicino, da chi è legato con lui da vincoli di solidarietà o di qualsiasi genere. Infatti, non solo il proverbio «fratelli, coltelli», si applica ai legami di affetto, ma anche ai legami costituiti da obblighi legali. Che ti faccia del male chi ti è nemico o anche solo indifferente, non ti colpisce, ti rimane «indifferente», non suscita reazioni sentimentali di esasperazione. Ma se chi ti fa del male aveva il dovere morale di aiutarti (nelle associazioni volontarie) o l’obbligo legale di fare diversamente (nelle associazioni di tipo statale) ciò ti esaspera e aumenta il male, poiché ti rende difficile prevedere l’avvenire, ti impedisce di fare progetti e piani, di fissarti una linea di condotta.
È certo che ogni uomo cerca di fissare quanti più elementi è possibile di riferimenti certi nella sua condotta, di limitare il «casuale» e la «forza maggiore»; nello sforzo di questa limitazione entra in calcolo la solidarietà, la parola data, le promesse fatte da altri, che dovrebbero portare a certi fatti certi. Se essi vengono a mancare per incuria, per negligenza, per imperizia, per slealtà, al male che ne risulta si aggiunge l’esasperazione morale che è tipica di questo ordine di relazioni. Se un nemico ti arreca un danno e te ne lamenti, sei uno stupido, perché è proprio dei nemici di arrecare danni. Ma se un amico ti arreca danno, è giustificato il tuo risentimento. Così se un rappresentante della legge commette un’illegalità la reazione è diversa che se l’illegalità la commette un bandito. Perciò mi pare che non sia da maravigliarsi dell’accanimento nelle lotte e negli odi tra vicini (per esempio tra due partiti così detti affini); il contrario sarebbe sorprendente cioè l’indifferenza e l’insensibilità morale, come avviene negli urti tra nemici aperti e dichiarati.
Q14 §51 Machiavelli. Morale e politica. Si verifica una lotta. Si giudica della «equità» e della «giustizia» delle pretese delle parti in conflitto. Si giunge alla conclusione che una delle parti non ha ragione, che le sue pretese non sono eque, o addirittura che esse mancano di senso comune. Queste conclusioni sono il risultato di modi di pensare diffusi, popolari, condivisi dalla stessa parte che in tal modo viene colpita da biasimo. Eppure questa parte continua a sostenere di «aver ragione», di essere nell’«equo» e ciò che più conta, continua a lottare, facendo dei sacrifici, ciò che significa che le sue convinzioni non sono superficiali e a fior di labbra, non sono ragioni polemiche, per salvar la faccia, ma realmente profonde e operose nelle coscienze. Significherà che la quistione è mal posta e mal risolta. Che i concetti di equità e di giustizia sono puramente formali. Infatti può avvenire che di due parti in conflitto, ambedue abbiano ragione, «così stando le cose», e una appaia aver più ragione dell’altra «così stando le cose», ma non abbia ragione «se le cose dovessero mutare». Ora appunto in un conflitto ciò che occorre valutare non sono le cose così come stanno, ma il fine che le parti in conflitto si propongono col conflitto stesso; e come questo fine, che non esiste ancora come realtà effettuale e giudicabile, potrà essere giudicato? E da chi potrà essere giudicato? Il giudizio stesso non diventerà un elemento del conflitto, cioè non sarà niente altro che una forza del giuoco a favore o a danno di una o dell’altra parte?
In ogni caso si può dire: 1) che in un conflitto ogni giudizio di moralità è assurdo perché esso può essere fatto sui dati di fatto esistenti che appunto il conflitto tende a modificare; 2) che l’unico giudizio possibile è quello «politico» cioè di conformità del mezzo al fine (quindi implica una identificazione del fine o dei fini graduati in una scala successiva di approssimazione). Un conflitto è «immorale» in quanto allontana dal fine o non crea condizioni che approssimano al fine (cioè non crea mezzi più conformi al raggiungimento del fine) ma non è «immorale» da altri punti di vista «moralistici». Così non si può giudicare l’uomo politico dal fatto che esso è o meno onesto, ma dal fatto che mantiene o no i suoi impegni (e in questo mantenimento può essere compreso l’«essere onesto», cioè l’essere onesto può essere un fattore politico necessario, e in generale lo è, ma il giudizio è politico e non morale), viene giudicato non dal fatto che opera equamente, ma dal fatto che ottiene o no dei risultati positivi o evita un male e in questo può essere necessario l’«operare equamente», ma come mezzo politico e non come giudizio morale.
Q14 §52 Cattolici integrali, gesuiti, modernisti. Nella «Cultura» dell’ottobre‑dicembre 1932 (pp. 846 sgg.) Luigi Salvatorelli scrive di Joseph Turmel recensendo questi due libri: 1) Felix Sartiaux, Joseph Turmel, prêtre historien des dogmes, Paris, Rieder, 1931, pp. 295; 2) J. Turmel, Histoire des dogmes, I, Le péché originel. La rédemption, Paris, Rieder, 1931.
Il libro del Sartiaux è indispensabile per la valutazione del caso Turmel. Secondo il Salvatorelli, il Turmel non sarebbe mai stato un modernista, in quanto non avrebbe mai «concepito l’idea di una trasformazione della chiesa e del domma». E qui si pone il problema, per l’esatta compilazione di questa rubrica, di che cosa debba intendersi per modernista.
È evidente che non esiste un modello fisso e sempre facilmente identificabile del «modernista» e del « modernismo», come non esiste per ogni «‑ista» e «‑ismo». Si è trattato di un movimento complesso e molteplice, con varie accezioni: 1) quella che di se stessi davano i modernisti; 2) quella che dei modernisti davano i loro avversari, che certo non coincidevano. Si può dire che del modernismo esistevano diverse manifestazioni: 1) quella politico‑ sociale, quindi favorevole al socialismo riformista e alla democrazia (questa manifestazione è forse quella che più ha contribuito a suscitare la lotta da parte dei cattolici integrali, legati strettamente alle classi più reazionarie e specialmente alla nobiltà terriera e ai latifondisti in generale, come mostra l’esempio francese dell’Action Française e l’esempio italiano del così detto «Centro cattolico») ossia genericamente alle correnti liberali; 2) quella «scientifico‑religiosa», cioè in sostegno di un nuovo atteggiamento verso il «dogma» e la «critica storica» in confronto della tradizione ecclesiastica, quindi tendenza a una riforma intellettuale della Chiesa. Su questo terreno la lotta tra modernisti e cattolici integrali fu meno aspra, anzi, secondo i gesuiti, ci fu spesso alleanza e collusione tra le due forze, cioè le riviste cattoliche integrali pubblicarono scritti dei modernisti (secondo la «Civiltà cattolica», la rivista di Mons. Benigni pubblicò spesso scritti del Buonaiuti contro i gesuiti. Ciò dietro le quinte, naturalmente, perché sulla scena la lotta doveva presentarsi specialmente, anzi unicamente, come religiosa; ciò che non toglie che i cattolici integrali appoggiassero un ateo dichiarato come il Maurras e che per il Maurras la quistione non potesse essere che solamente politica e sociale.
Per i gesuiti Turmel era ed è un modernista in senso «scientifico» (sebbene il Turmel realmente sia un ateo, cioè completamente fuori dal campo religioso, nella sua coscienza, sebbene continui ad essere «prete» per ragioni subordinate, ciò che pare sia un caso abbastanza comune nel clero come appare dal libro del Sartiaux o dalle Memorie del Loisy).
Ciò che importa qui notare è che sia il modernismo, sia il gesuitismo, sia l’integralismo hanno significati più vasti che non siano quelli strettamente religiosi: sono «partiti» nell’«impero assoluto internazionale» che è la Chiesa Romana ed essi non possono evitare di porre in forma religiosa problemi che spesso sono puramente mondani, di «dominio».
Q14 §53 Machiavelli. La forza dei partiti agrari. Uno dei fenomeni caratteristici dell’epoca moderna è questo: che nei parlamenti, o almeno in una serie di essi, i partiti agrari hanno una forza relativa che non corrisponde alla loro funzione storica, sociale, economica. Ciò è dovuto al fatto che nelle campagne si è mantenuto un blocco di tutti gli elementi della produzione agraria, blocco che spesso è guidato dalla parte più retriva di questi elementi, mentre nelle città e nelle popolazioni di tipo urbano, già da alcune generazioni, un blocco simile si è disciolto, se pure è mai esistito (poiché non poteva esistere, non si allargava il suffragio elettorale). Così avviene che in paesi eminentemente industriali, dato il disgregarsi dei partiti medi, gli agrari abbiano il sopravvento «parlamentare» e impongano indirizzi politici «antistorici». È da fissare perché questo avvenga e se non ne siano responsabili i partiti urbani e il loro corporativismo o gretto economismo.
Q14 §54 Passato e Presente. Oltre al gettito delle imposte (i redditi patrimoniali sono trascurabili) i governi hanno a loro disposizione le grandi somme rappresentate dal movimento delle assicurazioni, che spesso sono imponenti. È da vedere se attraverso le assicurazioni non si riesca a imporre nuove tasse. Vedere quanto costa l’assicurazione e se essa è «pagata» con maggior o minore facilità e subito o con ritardo. Se, rendendola più a buon prezzo, potrebbe diffondersi maggiormente, quali classi sono assicurate e quali escluse; l’assicurazione è una forma di risparmio, anzi la più tipica e popolare. Come lo Stato reintegra le somme che si fa passare dagli istituti di assicurazione? Con buoni del tesoro o con debito pubblico? In ogni modo, il governo ha la possibilità di spendere senza il controllo del Parlamento. È escluso un fallimento o difficoltà delle assicurazioni? Le assicurazioni sono organizzate come una specie di gioco del lotto: si calcola che sempre ci sarà guadagno e ingente. Errore: il guadagno dovrebbe essere ridotto ai margini del calcolo delle probabilità attuarie. Inoltre: i capitali ingenti a disposizione dell’assicurazione dovrebbero avere investimenti sicuri, certo, e di tutto riposo, ma produttivi in senso più elastico che non siano gli investimenti di Stato. Come lo Stato, attraverso l’obbligo della conversione in titoli dei patrimoni di una serie di enti specialmente di beneficenza, sia riuscito a espropriare parti voli del patrimonio dei poveri: esempio il Collegio delle Province di Torino. Le conversioni della rendita e le inflazioni, anche se a lungo intervallo, sono catastrofiche per tali enti e li distruggono completamente.
Q14 §55 Azione Cattolica. Don ErnestoVercesi ha iniziato la pubblicazione di un’opera, I papi del secolo XIX di cui è uscito il primo volume su Pio VII (pp. 340, Torino, Società Editrice Internazionale, L. 12).
Per uno studio dell’Azione Cattolica è necessario studiare la storia generale del Papato e della sua influenza nella vita politica e culturale nel secolo XIX (forse addirittura dal tempo delle monarchie illuminate, del giuseppinismo, ecc., che è la «prefazione» alla limitazione della Chiesa nella società civile e politica). Il libro del Vercesi è anche scritto contro il Croce e la sua Storia d’Europa. Il succo del libro del Vercesi pare sia riassunto in queste parole: «Il secolo XIX attaccò il cristianesimo nei suoi aspetti più diversi, sul terreno politico, religioso, sociale, culturale, storico, filosofico, ecc. Il risultato definitivo fu che al tramonto del secolo XIX il cristianesimo in genere, il cattolicismo romano in ispecie, era più forte, più robusto che all’alba dello stesso secolo. È questo un fatto che non può essere contestato dagli storici imparziali».
Che possa essere «contestato» risulta anche solo da questo fatto: che il cattolicismo è diventato un partito fra gli altri, è passato dal godimento incontestato di certi diritti, alla difesa di essi e alla rivendicazione di essi in quanto perduti. Che sotto certi aspetti la Chiesa abbia rinforzato certe sue organizzazioni è certo incontestabile, che sia più concentrata, che abbia stretto le file, che abbia fissato meglio certi principii e certe direttive, ma questo significa appunto un suo minore influsso nella società e quindi la necessità della lotta e di una più strenua milizia. È anche vero che molti Stati non lottano più con la Chiesa, ma perché vogliono servirsene e vogliono subordinarla ai propri fini.
Si potrebbe fare un elenco di attività specifiche in cui la Chiesa conta molto poco e si è rifugiata in posizioni secondarie; per alcuni aspetti, cioè dal punto di vista della credenza religiosa, è poi vero che il cattolicismo si è ridotto in gran parte a una superstizione di contadini, di ammalati, di vecchi e di donne. Nella filosofia cosa conta oggi la chiesa? In quale Stato il tomismo è filosofia prevalente tra gli intellettuali? E socialmente, dove la chiesa dirige e padroneggia con la sua autorità le attività sociali? Appunto l’impulso sempre maggiore dato all’Azione Cattolica dimostra che la Chiesa perde terreno, sebbene avvenga che ritirandosi si concentri e opponga maggiore resistenza e «sembri» più forte (relativamente).
Q14 §56 Cultura italiana. Servizi pubblici intellettuali: oltre alla scuola, nei suoi vari gradi, quali altri servizi non possono essere lasciati all’iniziativa privata, ma, in una società moderna, devono essere assicurati dallo Stato e dagli enti locali (comuni e province)? Il teatro, le biblioteche, i musei di vario genere, le pinacoteche, i giardini zoologici, gli orti botanici, ecc. È da fare una lista di istituzioni che devono essere considerate di utilità per l’istruzione e la cultura pubblica e che tali sono infatti considerate in una serie di Stati, le quali non potrebbero essere accessibili al grande pubblico (e si ritiene, per ragioni nazionali, devono essere accessibili) senza un intervento statale. È da osservare che proprio questi servizi sono da noi trascurati quasi del tutto; tipico esempio le biblioteche e i teatri. I teatri esistono in quanto sono un affare commerciale: non sono considerati servizio pubblico. Data la scarsezza del pubblico teatrale e la mediocrità delle città, in decadenza.
In Italia invece abbondanti le opere pie e i lasciti di beneficenza: forse più che ogni altro paese. E dovuti all’iniziativa privata. È vero che male amministrati e mal distribuiti. (Questi elementi sono da studiare come nessi nazionali tra governanti e governati, come fattori di egemonia. Beneficenza elemento di «paternalismo»; servizi intellettuali elementi di egemonia, ossia di democrazia in senso moderno).
Q14 §57 Passato e presente. Elementi della crisi economica. Nella pubblicità della «Riforma sociale» le cause «più caratteristiche e gravi» della crisi sono elencate come segue: 1) alte imposte; 2) consorzi industriali; 3) sindacati operai; 4) salvataggi; 5) vincoli; 6) battaglie per il prodotto nazionale; 7) contingentamento; 8) debiti interalleati; 9) armamenti; 10) protezionismo.
Appare che alcuni elementi sono simili, sebbene siano elencati partitamente, come cause specifiche. Altri non sono elencati, esempio le proibizioni all’emigrazione. Mi pare che facendo un’analisi si dovrebbe incominciare dall’elencare gli impedimenti posti dalle politiche nazionali (o nazionalistiche) alla circolazione: 1) delle merci; 2) dei capitali; 3) degli uomini (lavoratori e fondatori di nuove industrie e nuove aziende commerciali). Che non si parli da parte dei liberali degli ostacoli posti alla circolazione degli uomini è sintomatico, poiché nel regime liberale tutto si tiene e un ostacolo ne crea una serie di altri. Se si ritiene che gli ostacoli alla circolazione degli uomini sono «normali», ossia giustificabili, ossia dovuti a «forza maggiore», significa che tutta la crisi è «dovuta a forza maggiore», è «strutturale» e non di congiuntura e non può essere superata che costruendo una nuova struttura, che tenga conto delle tendenze insite nella vecchia struttura e le domini con nuove premesse.
La premessa maggiore in questo caso è il nazionalismo, che non consiste solo nel tentativo di produrre nel proprio territorio tutto ciò che vi si consuma (il che significa che tutte le forze sono indirizzate nella previsione dello stato di guerra), ciò che si esprime nel protezionismo tradizionale, ma nel tentativo di fissare le principali correnti di commercio con determinati paesi, o perché alleati (perché quindi li si vuol sostenere e li si vuol foggiare in un modo più acconcio allo stato di guerra) o perché li si vuole stroncare già prima della guerra militare (e questo nuovo tipo di politica economica è quello dei «contingentamenti» che parte dall’assurdo che tra due paesi vi debba essere «bilancia pari» negli scambi, e non che ogni paese può bilanciare alla pari solo commerciando con tutti gli altri paesi indistintamente).
Tra gli elementi di crisi fissati dalla Riforma Sociale non tutti sono accettabili senza critica; per esempio… «le alte imposte». Esse sono dannose quando sono rivolte a mantenere una popolazione sproporzionata alle necessità amministrative, non quando servono ad anticipare capitali che solo lo Stato può anticipare, anche se questi capitali non sono immediatamente produttivi (e non accenna alla difesa militare). La così detta politica dei «lavori pubblici» non è criticabile in sé, ma solo in condizioni date: cioè sono criticabili i lavori pubblici inutili o anche lussuosi, non quelli che creano le condizioni per un futuro incremento dei traffici o evitano danni certi (alluvioni per esempio) ed evitabili, senza che individualmente nessuno possa esser spinto (abbia il guadagno) a sostituire lo Stato in questa attività. Così dicasi dei «consorzi industriali»: sono criticabili i consorzi «artificiosi» non quelli che nascono per la forza delle cose; se ogni «consorzio» è dannabile, allora il sistema è dannabile, perché il sistema, anche senza spinte artificiali, cioè senza lucri prodotti dalla legge, spinge a creare consorzi, cioè a diminuire le spese generali.
Così è dei «sindacati operai» che non nascono artificialmente, anzi nascono o sono nati nonostante tutte le avversità e gli ostacoli di legge (e non solo di legge, ma dell’attività criminosa privata impunita dalla legge). Gli elementi elencati dalla Riforma Sociale mostrano così la debolezza degli economisti liberali di fronte alla crisi: 1) essi tacciono alcuni elementi; 2) mescolano arbitrariamente gli elementi considerati, non distinguendo quelli che sono «necessari» dagli altri, ecc.
Q14 §58 Passato e presente. Perché gli uomini sono irrequieti? Da che viene l’irrequietezza? Perché l’azione è «cieca», perché si fa per fare. Intanto non è vero che irrequieti siano solo gli «attivi» ciecamente: avviene che l’irrequietezza porta all’immobilità: quando gli stimoli all’azione sono molti e contrastanti, l’irrequietezza appunto si fa «immobilità». Si può dire che l’irrequietezza è dovuta al fatto che non c’è identità tra teoria e pratica, ciò che ancora vuol dire che c’è una doppia ipocrisia: cioè si opera mentre nell’operare c’è una teoria o giustificazione implicita che non si vuole confessare, e si «confessa» ossia si afferma una teoria che non ha una corrispondenza nella pratica. Questo contrasto tra ciò che si fa e ciò che si dice produce irrequietezza, cioè scontentezza, insoddisfazione. Ma c’è una terza ipocrisia: all’irrequietezza si cerca una causa fittizia, che non giustificando e non spiegando, non permette di vedere quando l’irrequietezza stessa finirà. Ma la quistione così posta è semplificata.
Nella realtà le cose sono più complesse. Intanto occorre tener conto che nella realtà gli uomini d’azione non coincidono con gli intellettuali e inoltre che esistono i rapporti tra generazioni anziane e giovani. Le responsabilità maggiori in questa situazione sono degli intellettuali e degli intellettuali più anziani. L’ipocrisia maggiore è degli intellettuali e degli intellettuali anziani. Nella lotta dei giovani contro gli anziani, sia pure nelle forme caotiche del caso, c’è il riflesso di questo giudizio di condanna, che è ingiusto solo nella forma. In realtà gli anziani «dirigono» la vita, ma fingono di non dirigere, di lasciare ai giovani la direzione, ma anche la «finzione» ha importanza in queste cose. I giovani vedono che i risultati delle loro azioni sono contrari alle loro aspettative, credono di «dirigere» (o fingono di credere) e diventano tanto più irrequieti e scontenti. Ciò che aggrava la situazione è che si tratta di una crisi di cui si impedisce che gli elementi di risoluzione si sviluppino con la celerità necessaria; chi domina non può risolvere la crisi, ma ha il potere di impedire che altri la risolva, cioè ha solo il potere di prolungare la crisi stessa. Candido forse potrebbe dire che ciò è appunto necessario perché gli elementi reali della soluzione si preparino e si sviluppino, dato che la crisi è talmente grave e domanda mezzi così eccezionali, che solo chi ha visto l’inferno può decidersi ad impiegarli senza tremare ed esitare.
Q14 §59 Giustificazione delle autobiografie. Una delle giustificazioni può essere questa: aiutare altri a svilupparsi secondo certi modi e verso certi sbocchi. Spesso le autobiografie sono un atto di orgoglio: si crede che la propria vita sia degna di essere narrata perché «originale», diversa dalle altre, perché la propria personalità è originale, diversa dalle altre, ecc. L’autobiografia può essere concepita «politicamente». Si sa che la propria vita è simile a quella di mille altre vite, ma che per un «caso» essa ha avuto uno sbocco che le altre molte non potevano avere e non ebbero di fatto. Raccontando si crea questa possibilità, si suggerisce il processo, si indica lo sbocco. L’autobiografia sostituisce quindi il «saggio politico» o «filosofico»: si descrive in atto ciò che altrimenti si deduce logicamente. È certo che l’autobiografia ha un grande valore storico, in quanto mostra la vita in atto e non solo come dovrebbe essere secondo le leggi scritte o i principii morali dominanti.
Q14 §60 Giornalismo. Almanacchi. Poiché il giornalismo è stato considerato, nelle ad esso dedicate, come esposizione di un gruppo che vuole, attraverso diverse attività pubblicistiche, diffondere una concezione integrale del mondo, si può prescindere dalla pubblicazione di un almanacco? L’almanacco è, in fondo, una pubblicazione periodica annuale, in cui, anno per anno, si esamina l’attività storica complessa di un anno da un certo punto di vista. L’almanacco è il «minimo» di «pubblicità» periodica che si può dare alle proprie idee e ai propri giudizi sul mondo e la sua varietà mostra quanto nel gruppo si sia venuto specializzando ogni singolo momento di tale storia, così come la organicità mostra la misura di omogeneità che il gruppo è venuto acquistando. Certo, per la diffusione, occorre che l’almanacco tenga conto di determinati bisogni del gruppo di compratori cui si rivolge, gruppo che non può, spesso, spendere due volte, per uno stesso bisogno. Occorrerà pertanto scegliere il contenuto: 1) quelle parti che rendono inutile l’acquisto di altro almanacco; 2) quella parte per cui si vuole influire sui lettori per indirizzarli secondo un senso prestabilito. La prima parte sarà ridotta al minimo: a quanto basta per soddisfare il bisogno dato. La seconda parte insisterà su quegli argomenti che si ritengono di maggior peso educativo e formativo.
Q14 §61 Critica letteraria. Sincerità (o spontaneità) e disciplina. La sincerità (o spontaneità) è sempre un pregio e un valore? È un pregio e un valore se disciplinata. Sincerità (e spontaneità) significa massimo di individualismo, ma anche nel senso di idiosincrasia (originalità in questo caso è uguale a idiotismo). L’individuo è originale storicamente quando dà il massimo di risalto e di vita alla «socialità», senza cui egli sarebbe un «idiota» (nel senso etimologico, che però non si allontana dal senso volgare e comune). C’è dell’originalità, della personalità, della sincerità un significato romantico, e questo significato è giustificato storicamente in quanto nacque in opposizione con un certo conformismo essenzialmente «gesuitico»: cioè un conformismo artificioso, fittizio, creato superficialmente per gli interessi un piccolo gruppo o cricca, non di una avanguardia. C’è conformismo «razionale» cioè rispondente alla necessità, al minimo sforzo per ottenere un risultato utile e la disciplina di tale conformismo è da esaltare e promuovere, è da fare diventare «spontaneità» o «sincerità». Conformismo significa poi niente altro che «socialità», ma piace impiegare la parola «conformismo» appunto per urtare gli imbecilli. Ciò non toglie la possibilità di formarsi una personalità e di essere originali, ma rende più difficile la cosa.
È troppo facile essere originali facendo il contrario di ciò che fanno tutti; è una cosa meccanica. È troppo facile parlare diversamente dagli altri, essere neolalici, il difficile è distinguersi dagli altri senza perciò fare delle acrobazie. Avviene proprio oggi che si cerca una originalità e personalità a poco prezzo. Le carceri e i manicomi sono pieni di uomini originali e di forte personalità.
Battere l’accento sulla disciplina, sulla socialità, e tuttavia pretendere sincerità, spontaneità, originalità, personalità: ecco ciò che è veramente difficile e arduo.
Né si può dire che il conformismo è troppo facile e riduce il mondo a un convento. Intanto: qual è il «vero conformismo», cioè qual è la condotta «razionale» più utile, più libera in quanto ubbidisce alla «necessità»? Cioè quale è la «necessità»? Ognuno è portato a far di sé l’archetipo della «moda», della «socialità» e a porsi come «esemplare». Pertanto la socialità, il conformismo, è il risultato di una lotta culturale (e non solo culturale), è un dato «oggettivo» o universale, così come non può non essere oggettiva e universale la «necessità» su cui si innalza l’edificio della libertà. Libertà e arbitrio, ecc.
Nella letteratura (arte) contro la sincerità e spontaneità si trova il meccanismo o calcolo, che può essere un falso conformismo, una falsa socialità, cioè l’adagiarsi nelle idee fatte e abitudinarie.
Ricordare l’esempio classico di Nino Berrini che «scheda» il passato e cerca l’originalità nel fare ciò che non appare nelle schede. Principii del Berrini per il teatro: 1) lunghezza del lavoro: fissare la media della lunghezza, stabilendola su quei lavori che hanno avuto successo; 2) studio dei finali. Quali finali hanno avuto successo e strappato l’applauso? 3) studio delle combinazioni: per esempio nel dramma sessuale borghese, marito, moglie, amante, vedere quali combinazioni sono più sfruttate, e per esclusione «inventare» nuove combinazioni, meccanicamente trovate. Così il Berrini aveva trovato che un dramma non deve avere più di 50 000 parole, cioè non deve durare più di un tanto tempo. Ogni atto o ogni scena principale deve culminare in un modo dato e questo modo è studiato sperimentalmente, secondo una media di quei sentimenti e di quegli stimoli che tradizionalmente hanno avuto successo, ecc. Con questi criteri è certo che non si possono avere catastrofi commerciali. Ma è questo «conformismo», o «socialità», nel senso detto? Certo no. È un adagiarsi nel già esistente.
La disciplina è anche uno studio del passato, in quanto il passato è elemento del presente e del futuro, ma non elemento «ozioso», ma necessario, in quanto è linguaggio, cioè elemento di «uniformità» necessaria, non di uniformità «oziosa», impigrita.
Q14 §62 Giornalismo. I lettori. I lettori devono essere considerati da due punti di vista principali: 1) come elementi ideologici, «trasformabili» filosoficamente, capaci, duttili, malleabili alla trasformazione; 2) come elementi «economici», capaci di acquistare le pubblicazioni e di farle acquistare ad altri. I due elementi, nella realtà, non sono sempre distaccabili, in quanto l’elemento ideologico è uno stimolo all’atto economico dell’acquisto e della diffusione. Tuttavia, occorre nel costruire un piano editoriale, tenere distinti i due aspetti, perché i calcoli siano realisti e non secondo i propri desideri. D’altronde, nella sfera economica, le possibilità non corrispondono alla volontà e all’impulso ideologico e pertanto occorre predisporre perché sia data la possibilità dell’acquisto «indiretto», cioè compensato con servizi (diffusione). Un’impresa editoriale pubblica tipi diversi di riviste e libri, graduati secondo livelli diversi di cultura. È difficile stabilire quanti «clienti» possibili esistano di ogni livello. Occorre partire dal livello più basso e su questo si può stabilire il piano commerciale «minimo», cioè il preventivo più realistico, tenendo conto tuttavia che l’attività può modificare (e deve modificare) le condizioni di partenza non solo nel senso che la sfera della clientela può (deve) essere allargata, ma che può (deve) determinarsi una gerarchia di bisogni da soddisfare e quindi di attività da svolgere.
È osservazione ovvia che le imprese finora esistite si sono burocratizzate, cioè non hanno stimolato i bisogni e organizzato il loro soddisfacimento, per cui è spesso avvenuto che l’iniziativa individuale caotica ha dato migliori frutti dell’iniziativa organizzata. La verità era che in questo secondo caso non esisteva «iniziativa» e non esisteva «organizzazione» ma solo burocrazia e andazzo fatalistico. Spesso la così detta organizzazione invece di essere un potenziamento di sforzi era un narcotico, un deprimente, addirittura un ostruzionismo o un sabotaggio. D’altronde non si può parlare di azienda giornalistica ed editoriale seria se manca questo elemento: l’organizzazione del cliente della vendita, che essendo un cliente particolare (almeno nella sua massa) ha bisogno di una organizzazione particolare, strettamente legata all’indirizzo ideologico della «merce» venduta. È osservazione comune che in un giornale moderno il vero direttore è il direttore amministrativo e non quello redazionale.
Q14 §63 Argomenti di cultura. Come studiare la storia? Ho letto l’osservazione dello storico inglese Seeley il quale faceva notare che, a suo tempo, la storia dell’indipendenza americana attirò meno attenzione della battaglia di Trafalgar, degli amori di Nelson, degli episodi della vita di Napoleone, ecc. Eppure da quei fatti dovevano uscire conseguenze di grande portata per la storia mondiale: l’esistenza degli Stati Uniti come potenza mondiale non è certo piccola cosa nello svolgersi degli avvenimenti degli ultimi anni. Come fare dunque nello studiare la storia? Ci si dovrebbe fermare sui fatti che sono fecondi di conseguenze? Ma nel momento in cui tali fatti nascono come si fa a sapere della loro fecondità avvenire? La quistione è realmente irrisolvibile. Nella affermazione del Seeley si trova implicita la rivendicazione di una storia obbiettiva, in cui l’obbiettività è concepita come nesso di causa ed effetto. Ma quanti fatti non solo sfuggono, ma sono trascurati dagli storici e dall’interesse dei lettori, che obbiettivamente sono importanti?
La lettura dei libri dello Wells sulla storia mondiale richiama a questa trascuratezza e dimenticanza. In realtà ci ha finora interessato la storia europea e abbiamo chiamato «storia mondiale» quella europea con le sue dipendenze non europee. Perché la storia ci interessa per ragioni «politiche» non oggettive sia pure nel senso di scientifiche. Forse oggi questi interessi diventano più vasti con la filosofia della praxis, in quanto ci convinciamo che solo la conoscenza di tutto un processo storico ci può render conto del presente e dare una certa verosimiglianza che le nostre previsioni politiche siano concrete. Ma non è da illudersi neanche su questo argomento. Se in Russia c’è molto interesse per le quistioni orientali, questo interesse nasce dalla posizione geopolitica della Russia e non da influssi culturali più universali e scientifici. Devo dire la verità: tanta gente non conosce la storia d’Italia anche in quanto essa spiega il presente, che mi pare necessario far conoscere questa prima di ogni altra. Però un’associazione di politica estera che studiasse a fondo le quistioni anche della Cocincina e dell’Annam non mi dispiacerebbe intellettualmente: ma quanti ci si interesserebbero?
Q14 §64 Giustificazione dell’autobiografia. L’importanza dei particolari è tanto più grande quanto più in un paese la realtà effettuale è diversa dalle apparenze, i fatti dalle parole, il popolo che fa dagli intellettuali che interpretano questi fatti. Osservazione già fatta del come in certi paesi le costituzioni siano modificate dalle leggi, le leggi dai regolamenti e l’applicazione dei regolamenti dalla loro parola scritta. Chi esegue la «legge» (il regolamento) è arruolato in un certo strato sociale, di un certo livello di cultura, selezionato attraverso un certo stipendio, ecc. La legge è questo esecutore, è il modo in cui viene eseguita, specialmente perché non esistono organi di controllo e di sanzione. Ora solo attraverso l’autobiografia si vede il meccanismo in atto, nella sua funzione effettuale che molto spesso non corrisponde per nulla alla legge scritta. Eppure la storia, nelle sue linee generali, si fa sulla legge scritta: quando poi nascono fatti nuovi che rovesciano la situazione, si pongono delle domande vane, o per lo meno manca il documento del come si è preparato il mutamento «molecolarmente», finché è esploso nel mutamento. Certi paesi sono specialmente «ipocriti», cioè in certi paesi ciò che si vede e ciò che non si vede (perché non si vuol vedere, e perché volta per volta ciò che si vede sembra eccezione o «pittoresco») è specialmente in contrasto: proprio in questi paesi non abbondano i memorialisti oppure le autobiografie sono «stilizzate», strettamente personali e individuali.
Q14 §65 Letteratura popolare. Cosa corrisponde in letteratura al «razionalismo» architettonico? Certamente la letteratura «secondo un piano», cioè la letteratura «funzionale», secondo un indirizzo sociale prestabilito. È strano che in architettura il razionalismo sia acclamato e giustificato e non nelle altre arti. Ci deve essere un equivoco. Forse che l’architettura sola ha scopi pratici? Certo apparentemente così pare, perché l’architettura costruisce le case d’abitazione, ma non si tratta di questo: si tratta di «necessità». Si dirà che le case sono più necessarie che non le altre arti e si vuol dire solo che le case sono necessarie per tutti, mentre le altre arti sono necessarie solo per gli intellettuali, per gli uomini di coltura. Si dovrebbe concludere che proprio i «pratici» si propongono di rendere necessarie tutte le arti per tutti gli uomini, di rendere tutti «artisti».
Ancora. La coercizione sociale! Quanto si blatera contro questa coercizione. Non si pensa che essa è una parola! La coercizione, l’indirizzo, il piano, sono semplicemente un terreno di selezione degli artisti, nulla più: e da scegliere per scopi pratici, cioè in un campo in cui la volontà e la coercizione sono perfettamente giustificate. Sarebbe da vedere se la coercizione non è sempre esistita! Perché è esercitata inconsciamente dall’ambiente e dai singoli e non da un potere centrale o da una forza centralizzata non sarebbe forse coercizione? Si tratta in fondo sempre di «razionalismo» contro l’arbitrio individuale. Allora la quistione non verte sulla coercizione, ma sul fatto se si tratta di razionalismo autentico, di reale funzionalità, o di atto d’arbitrio, ecco tutto. La coercizione è tale solo per chi non l’accetta, non per chi l’accetta: se la coercizione si sviluppa secondo lo sviluppo delle forze sociali non è coercizione, ma «rivelazione» di verità culturale ottenuta con un metodo accelerato. Si può dire della coercizione ciò che i religiosi dicono della determinazione divina: per i «volenti» essa non è determinazione, ma libera volontà. In realtà la coercizione in parola è combattuta perché si tratta di una lotta contro gli intellettuali e contro certi intellettuali, quelli tradizionali e tradizionalisti, i quali, tutto al più, ammettono che le novità si facciano strada a poco a poco, gradualmente.
È curioso che in architettura si contrappone il razionalismo al «decorativismo», e questo viene chiamato «arte industriale». È curioso, ma giusto. Infatti dovrebbe chiamarsi sempre industriale qualsiasi manifestazione artistica che è diretta a soddisfare i gusti di singoli compratori ricchi, ad «abbellire» la loro vita, come si dice. Quando l’arte, specialmente nelle sue forme collettive, è diretta a creare un gusto di massa, ad elevare questo gusto, non è «industriale», ma disinteressata, cioè arte.
Mi pare che il concetto di razionalismo in architettura, cioè di «funzionalismo», sia molto fecondo di conseguenze di principi di politica culturale; non è casuale che esso sia nato proprio in questi tempi di «socializzazioni» (in senso vasto) e di interventi di forze centrali per organizzare le grandi masse contro i residui di individualismi e di estetiche dell’individualismo nella politica culturale.
Q14 §66 Giornalismo. Integralismo. Il tipo di giornalismo che viene considerato in queste è quello «integrale», cioè quello che presuppone non solo di soddisfare tutti i bisogni del suo pubblico, ma di creare questi bisogni e quindi di creare, in un certo senso, il pubblico stesso. Se si osserva, tutte le forme di giornalismo e di attività editoriale in genere esistenti presuppongono che altre forze esistono che sono da integrare. Mi pare invece, per esaurire il problema e vederne tutti i lati, sia da presupporre tutt’altra situazione, che esista solo, come punto di partenza, un gruppo più o meno omogeneo, di un certo tipo, di un certo livello e specialmente con un certo orientamento generale e che su di esso occorra far leva per stabilire un edifizio completo, a cominciare dalla… lingua, cioè dal mezzo di espressione e di contatto. Tutto l’edifizio deve essere costruito secondo principii razionalistici, cioè funzionali, in quanto si hanno determinate premesse e si vuole raggiungere determinate conseguenze. È evidente che durante l’elaborazione le stesse premesse vengono a mutare, perché se è vero che un fine presuppone certe premesse è anche vero che oltre un certo limite il fine stesso reagisce sulle premesse, mutandole. L’esistenza oggettiva delle premesse permette di pensare a certi fini, cioè le premesse date sono tali solo dei fini, solo in quanto… pensabili. Ma se questi fini cominciano a realizzarsi, per il fatto di realizzarsi, di diventare effettuali, mutano necessariamente le premesse iniziali, che non sono più… iniziali e quindi mutano anche i fini pensabili, ecc. È questo un nesso al quale si pensa ben raramente e che pure è chiaro e lampante. La sua applicazione la vediamo nelle imprese «secondo un piano», che non sono puri meccanismi appunto perché si basano su questo modo di pensare, in cui entra più libertà e spirito d’iniziativa di quanto sogliono ammettere, per il ruolo di maschera da commedia dell’arte che recitano, i rappresentanti della «libertà» e dell’«iniziativa».
Q14 §67 Argomenti di cultura. «Razionalismo». Concetto romantico dell’innovatore. Secondo questo concetto è innovatore chi vuol distruggere tutto l’esistente, senza curarsi di ciò che avverrà poi, poiché, già si sa, metafisicamente ogni distruzione è creazione, anzi non si distrugge che ciò che si sostituisce ricreando. A questo concetto romantico si accompagna un concetto «razionale» o «illuministico». Si pensa che tutto ciò che esiste è una «trappola» dei forti contro i deboli, dei furbi contro i poveri di spirito. Il pericolo viene dal fatto che «illuministicamente» le parole sono prese alla lettera, materialmente. La filosofia della prassi contro questo modo di concepire.
La verità è questa, invece: che ogni cosa che esiste è «razionale», cioè ha avuto o ha una funzione utile. Che ciò che esiste sia esistito, cioè abbia avuto la sua ragion d’essere in quanto «conforme» al modo di vita, di pensare, di operare, della classe dirigente, non significa che sia divenuto «irrazionale» perché la classe dominante è stata privata del potere e della sua forza di dare impulso a tutta la società. Una verità che si dimentica è questa: ciò che esiste ha avuto la sua ragione d’esistere, è servito, è stato razionale, ha «facilitato» lo sviluppo storico e la vita.
Che a un certo punto ciò non sia avvenuto più, che da modi di progresso, certe forme di vita siano divenute un inciampo e un ostacolo, è vero, ma non è vero «su tutta l’area»: è vero dove è vero, cioè nelle forme più alte di vita, in quelle decisive, in quelle che segnano la punta del progresso ecc. Ma la vita non si sviluppa omogeneamente, si sviluppa invece per avanzate parziali, di punta, si sviluppa per così dire per crescenza «piramidale». Dunque di ogni modo di vita occorre studiare la storia, cioè l’originaria «razionalità» e poi, riconosciuta questa, porsi la domanda, se ogni singolo caso questa razionalità esiste ancora, in quanto esistono ancora le condizioni su cui la razionalità si basava. Il fatto invece a cui non si bada è questo: che i modi di vita appaiono a chi li vive come assoluti, «come naturali», così come si dice, e che è già una grandissima cosa il mostrarne la «storicità», il dimostrare che essi sono giustificati in quanto esistono certe condizioni, ma mutate queste non sono più giustificati, ma «irrazionali». La discussione pertanto contro certi modi di vita e di operare assume un carattere odioso, persecutorio, diventa un fatto di «intelligenza» o «stupidaggine», ecc. Intellettualismo, illuminismo puro, contro cui occorre combattere incessantemente.
Se ne deduce: 1) che ogni fatto è stato «razionale»; 2) che esso è da combattere in quanto non è più razionale, cioè non più conforme al fine ma si trascina per la vischiosità dell’abitudine; 3) che non bisogna credere che poiché un modo di vivere, di operare o di pensare è diventato «irrazionale» in un ambiente dato, sia diventato irrazionale da per tutto e per tutti e che solo la malvagità o la stupidaggine lo facciano ancora vivere; 4) che però il fatto che un modo di vivere, di pensare, di vivere e di operare, sia diventato irrazionale in qualche posto abbia una grandissima importanza, è vero, ed occorre metterlo in luce in tutti i modi: così si modifica inizialmente il costume, introducendo il modo di pensare storicistico, che faciliterà i mutamenti di fatto appena le condizioni saranno mutate, che cioè renderà meno «vischioso» il costume abitudinario.
Un altro punto da fissare è questo: che un modo di vivere, di operare, di pensare, si sia introdotto in tutta la società perché proprio della classe dirigente, non significa di per sé che sia irrazionale e da rigettare. Se si osserva da vicino si vede: che in ogni fatto esistono due aspetti: uno «razionale», cioè conforme al fine, economico, e uno di «moda», che è un determinato modo di essere del primo aspetto razionale. Portare le scarpe è razionale, ma la determinata foggia di scarpe sarà dovuta alla moda. Portare il colletto è razionale perché permette di cambiare spesso quella parte dell’indumento camicia che più facilmente si sporca, ma la foggia del colletto dipenderà dalla moda, ecc.
Si vede insomma che la classe dirigente «inventando» una utilità nuova, più economica o più conforme alle condizioni date o al fine dato, ha nello stesso tempo dato una «sua» particolare forma all’invenzione, all’utilità nuova. È modo di pensare da muli bendati confondere l’utilità permanente (in quanto lo è) con la moda. Invece compito del moralista e del creatore di costumi è quello di analizzare i modi di essere e di vivere, e di criticarli, sceverando il permanente, l’utile, il razionale, il conforme al fine (in quanto sussiste il fine), dall’accidentale, dallo snobistico, dallo scimmiesco, ecc. Sulla base del «razionale», può essere utile creare una «moda» originale, cioè una forma nuova che interessi.
Che il modo di pensare notato non sia giusto si vede dal fatto che esso ha dei limiti: per esempio nessuno (almeno che sia matto) predicherà di non insegnare più a leggere e a scrivere, perché il leggere e lo scrivere è certamente stato introdotto dalla classe dirigente, perché la scrittura serve a diffondere certa letteratura o a scrivere le lettere di ricatto o i rapporti delle spie.
Q14 §68 Machiavelli. Scritto (a domande e risposte) di Giuseppe Bessarione [Stalin ndc] del settembre 1927 su alcuni punti essenziali di scienza e di arte politica. Il punto che mi pare sia da svolgere è questo: come secondo la filosofia della prassi (nella sua manifestazione politica) sia nella formulazione del suo fondatore, ma specialmente nella precisazione del suo più recente grande teorico, la situazione internazionale debba essere considerata nel suo aspetto nazionale. Realmente il rapporto «nazionale» è il risultato di una combinazione «originale» unica (in un certo senso) che in questa originalità e unicità deve essere compresa e concepita se si vuole dominarla e dirigerla. Certo lo sviluppo è verso l’internazionalismo, ma il punto di partenza è «nazionale» ed è da questo punto di partenza che occorre prender le mosse. Ma la prospettiva è internazionale e non può essere che tale. Occorre pertanto studiare esattamente la combinazione di forze nazionali che la classe internazionale dovrà dirigere e sviluppare secondo la prospettiva e le direttive internazionali. La classe dirigente è tale solo se interpreterà esattamente questa combinazione, di cui essa stessa è componente e in quanto tale appunto può dare al movimento un certo indirizzo in certe prospettive.
Su questo punto mi pare sia il dissidio fondamentale tra Leone Davidovici e Bessarione come interprete del movimento maggioritario. Le accuse di nazionalismo sono inette se si riferiscono al nucleo della quistione. Se si studia lo sforzo dal 1902 al 1917 da parte dei maggioritari si vede che la sua originalità consiste nel depurare l’internazionalismo di ogni elemento vago e puramente ideologico (in senso deteriore) per dargli un contenuto di politica realistica.
Il concetto di egemonia è quello in cui si annodano le esigenze di carattere nazionale e si capisce come certe tendenze di tale concetto non parlino o solo lo sfiorino. Una classe di carattere internazionale in quanto guida strati sociali strettamente nazionali (intellettuali) e anzi spesso meno ancora che nazionali, particolaristi e municipalisti (i contadini), deve «nazionalizzarsi», in un certo senso, e questo senso non è d’altronde molto stretto, perché prima che si formino le condizioni di una economia secondo un piano mondiale, è necessario attraversare fasi molteplici in cui le combinazioni regionali (di gruppi di nazioni) possono essere varie. D’altronde non bisogna mai dimenticare che lo sviluppo storico segue le leggi della necessità fino a quando l’iniziativa non sia nettamente passata dalla parte delle forze che tendono alla costruzione secondo un piano, di pacifica e solidale divisione del lavoro.
Che i concetti non nazionali (cioè non riferibili a ogni singolo paese) siano sbagliati si vede per assurdo: essi hanno portato alla passività e all’inerzia in due fasi ben distinte: 1) nella prima fase, nessuno credeva di dover incominciare, cioè riteneva che incominciando si sarebbe trovato isolato; nell’attesa che tutti insieme si muovessero, nessuno intanto si muoveva e organizzava il movimento; 2) la seconda fase è forse peggiore, perché si aspetta una forma di «napoleonismo» anacronistico e antinaturale (poiché non tutte le fasi storiche si ripetono nella stessa forma).
Le debolezze teoriche di questa forma moderna del vecchio meccanicismo sono mascherate dalla teoria generale della rivoluzione permanente che non è altro che una previsione generica presentata come dogma e che si distrugge da sé, per il fatto che non si manifesta effettualmente.
Mat.Bibliog.: Gramsci, Stalin e Trotzky
Q14 §69 Argomento di cultura. L’autodidatta. Non si vuole ripetere il solito luogo comune che tutti i dotti sono autodidatti, in quanto l’educazione è autonomia e non impressione dal di fuori. Luogo comune tendenzioso che permette di non organizzare nessun apparato di cultura e di negare ai poveri il tempo da dedicare allo studio, unendo allo scorno la beffa, cioè la dimostrazione teorica che se non sono dotti la colpa è loro poiché ecc. ecc.
Ammettiamo dunque che, salvo a pochi eroi della cultura (e nessuna politica può fondarsi sull’eroismo), per istruirsi e educarsi è necessario un apparato di cultura, attraverso cui la generazione anziana trasmette alla generazione giovane tutta l’esperienza del passato (di tutte le vecchie generazioni passate), fa acquistar loro determinate inclinazioni e abitudini (anche fisiche e tecniche che si assimilano con la ripetizione) e trasmette arricchito il patrimonio del passato. Ma non di ciò vogliamo parlare. Vogliamo proprio parlare degli autodidatti in senso stretto, cioè di quelli che sacrificano una parte o tutto il tempo che gli altri appartenenti alla loro generazione dedicano ai divertimenti o ad altre occupazioni, per istruirsi ed educarsi, e rispondere alla domanda: oltre alle istituzioni ufficiali esistono attività che soddisfino i bisogni nascenti da queste inclinazioni e come le soddisfano? Ancora: le istituzioni politiche esistenti, in quanto dovrebbero, si pongono questo compito di soddisfare tali bisogni? Mi pare che questo sia un criterio di critica da non buttar via, da non trascurare in ogni modo.
Si può osservare che gli autodidatti in senso stretto sorgono in certi strati sociali a preferenza di altri e si capisce. Parliamo di quelli che hanno a loro disposizione solo la loro buona volontà e disponibilità finanziarie limitatissime, possibilità di spendere molto piccole o quasi nulle. Devono essere trascurati? Non pare, in quanto appunto pare che nascano partiti dedicati proprio a questi elementi, i quali appunto partono dal concetto di aver che fare con simili elementi. Ebbene: se questi elementi sociali esistono, non esistono le forze che cercano di ovviare ai loro bisogni, di elaborare questo materiale. O meglio: tali forze sociali esistono a parole, ma non nei fatti, come affermazione ma non come attuazione.
D’altronde non è detto che non esistano forze sociali generiche che di tali bisogni si occupano, anzi fanno il loro unico lavoro, la loro precipua attività, con questo risultato: che esse finiscono col contare più di quel che dovrebbero, con avere un influsso più grande di quello che «meriterebbero» e spesso addirittura collo «speculare» finanziariamente su questi bisogni, perché gli autodidatti, nel loro stimolo, se spendono poco singolarmente, finiscono con lo spendere ragguardevolmente come insieme (ragguardevolmente nel senso che permettono con la loro spesa di vivere a parecchie persone).
Il movimento di cui si parla (o si parlava) è quello libertario, e il suo antistoricismo, la sua retrività, si vede dal carattere dell’autodidattismo, che forma persone «anacronistiche» che pensano con modi antiquati e superati e questi tramandano, «vischiosamente». Dunque: 1) un movimento sorpassato, superato, in quanto soddisfa certi bisogni impellenti, finisce con l’avere un influsso maggiore di quanto storicamente gli spetterebbe; 2) questo movimento tiene arretrato il mondo culturale per le stesse ragioni ecc.
Sarebbe da vedere tutta la serie delle ragioni che in Italia per tanto tempo hanno permesso che un movimento arretrato, superato, tenesse più campo di quanto gli spettasse, provocando spesso confusioni e anche catastrofi. D’altronde bisogna affermare energicamente che in Italia il moto verso la cultura è stato grande, ha provocato sacrifici, che cioè le condizioni obbiettive erano molto favorevoli. Il principio che una forza non vale tanto per la propria «forza intrinseca» quanto per la debolezza degli avversari e delle forze in cui si trova inserita, non è tanto vero come in Italia.
Un altro elemento della forza relativa dei libertari è questo: che essi hanno più spirito di iniziativa individuale, più attività personale. Perché questo avvenga dipende da cause complesse: 1) che hanno maggior soddisfazione personale dal loro lavoro; 2) che sono meno intralciati da impacci burocratici, i quali non dovrebbero esistere per le altre organizzazioni: perché mai l’organizzazione che dovrebbe potenziare l’iniziativa individuale, si dovrebbe mutare in burocrazia, cioè in impaccio delle forze individuali ? 3) (e forse maggiore) che un certo numero di persone vivono del movimento, ma ci vivono liberamente, cioè non per posti occupati per nomina, ma in quanto la loro attività li rende degni di essi: per mantenere questo posto, cioè per mantenere il loro guadagno, fanno degli sforzi che altrimenti non farebbero.
Q14 §70 Machiavelli. Quando si può dire che un partito sia formato e non possa essere distrutto con mezzi normali. Il punto di sapere quando un partito sia formato, cioè abbia un compito preciso e permanente, dà luogo a molte discussioni e spesso anche luogo, purtroppo, a una forma di boria che non è meno ridicola e pericolosa che la «boria delle nazioni» di cui parla il Vico. È vero che si può dire che un partito non è mai compiuto e formato, nel senso che ogni sviluppo crea nuovi compiti e mansioni e nel senso che per certi partiti è vero il paradosso che essi sono compiuti e formati quando non esistono più, cioè quando la loro esistenza è diventata storicamente inutile. Così, poiché ogni partito non è che una nomenclatura di classe, è evidente che per il partito che si propone di annullare la divisione in classi, la sua perfezione e compiutezza consiste nel non esistere più perché non esistono classi e quindi loro espressioni.
Ma qui si vuole accennare a un particolare momento di questo processo di sviluppo, al momento successivo a quello in cui un fatto può esistere e può non esistere, nel senso che la necessità della sua esistenza non è ancora divenuta «perentoria», ma dipende in «gran parte» dall’esistenza di persone di straordinario potere volitivo e di straordinaria volontà. Quando un partito diventa «necessario» storicamente? Quando le condizioni del suo «trionfo», del suo immancabile diventar Stato sono almeno in via di formazione e lasciano prevedere normalmente i loro ulteriori sviluppi. Ma quando si può dire, in tali condizioni, che un partito non può essere distrutto con mezzi normali?
Per rispondere occorre sviluppare un ragionamento: perché esista un partito è necessario che confluiscano tre elementi fondamentali (cioè tre gruppi di elementi). 1) Un elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è offerta dalla disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito creativo ed altamente organizzativo. Senza di essi il partito non esisterebbe, è vero, ma è anche vero che il partito non esisterebbe neanche «solamente» con essi. Essi sono una forza in quanto c’è chi li centralizza, organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo impotente. Non si nega che ognuno di questi elementi possa diventare una delle forze coesive, ma di essi si parla appunto nel momento che non lo sono e non sono in condizioni di esserlo, o se lo sono lo sono solo in una cerchia ristretta, politicamente inefficiente e senza conseguenza. 2) L’elemento coesivo principale, che centralizza nel campo nazionale, che fa diventare efficiente e potente un insieme di forze che lasciate a sé conterebbero zero o poco più; questo elemento è dotato di forza altamente coesiva, centralizzatrice e disciplinatrice e anche (anzi forse per questo, inventiva, se si intende inventiva in una certa direzione, secondo certe linee di forza, certe prospettive, certe premesse anche): è anche vero che da solo questo elemento non formerebbe il partito, tuttavia lo formerebbe più che non il primo elemento considerato. Si parla di capitani senza esercito, ma in realtà è più facile formare un esercito che formare dei capitani. Tanto vero che un esercito già esistente è distrutto se vengono a mancare i capitani, mentre l’esistenza di un gruppo di capitani, affiatati, d’accordo tra loro, con fini comuni non tarda a formare un esercito anche dove non esiste. 3) Un elemento medio, che articoli il primo col terzo elemento, che li metta a contatto, non solo «fisico» ma morale e intellettuale. Nella realtà, per ogni partito esistono delle «proporzioni definite» tra questi tre elementi e si raggiunge il massimo di efficienza quando tali «proporzioni definite» sono realizzate.
Date queste considerazioni, si può dire che un partito non può essere distrutto con mezzi normali, quando, esistendo necessariamente il secondo elemento, la cui nascita è legata all’esistenza delle condizioni materiali oggettive (e se questo secondo elemento non esiste, ogni ragionamento è vacuo) sia pure allo stato disperso e vagante, non possono non formarsi gli altri due, cioè il primo che necessariamente forma il terzo come sua continuazione e mezzo di esprimersi. Occorre che perché ciò avvenga si sia formata la convinzione ferrea che una determinata soluzione dei problemi vitali sia necessaria. Senza questa convinzione non si formerà il secondo elemento, la cui distruzione è la più facile per lo scarso suo numero, ma è necessario che questo secondo elemento, se distrutto, abbia lasciato come eredità un fermento da cui riformarsi. E dove questo fermento sussisterà meglio e potrà meglio formarsi che nel primo e nel terzo elemento, che, evidentemente, sono i più omogenei col secondo? L’attività del secondo elemento per costituire questo elemento è perciò fondamentale: il criterio di giudizio di questo secondo elemento sarà da cercare: 1) in ciò che realmente fa; 2) in ciò che prepara nell’ipotesi di una sua distruzione. Tra i due fatti è difficile dire quale sia più importante. Poiché nella lotta si deve sempre prevedere la sconfitta, la preparazione dei propri successori è un elemento altrettanto importante di ciò che si fa per vincere.
A proposito della «boria» del partito, si può dire che essa è peggiore della boria delle nazioni di cui parla Vico. Perché? Perché una nazione non può non esistere e nel fatto che esiste è sempre possibile, sia pure con la buona volontà e sollecitando i testi, trovare che l’esistenza è piena di destino e di significato. Invece un partito può non esistere per forza propria. Non occorre mai dimenticare che nella lotta fra le nazioni, ognuna di esse ha interesse che l’altra sia indebolita dalle lotte interne e che i partiti sono appunto gli elementi delle lotte interne. Per i partiti dunque, è sempre possibile la domanda se essi esistano per forza propria, come propria necessità, o esistano invece solo per interesse altrui (e infatti nelle polemiche questo punto non è mai dimenticato, anzi è motivo d’insistenza anche, specialmente quando la risposta non è dubbia, ciò che significa che ha presa e lascia dubbi). Naturalmente, chi si lasciasse dilaniare da questo dubbio, sarebbe uno sciocco. Politicamente la quistione ha una rilevanza solo momentanea.
Nella storia del così detto principio di nazionalità, gli interventi stranieri a favore dei partiti nazionali che turbavano l’ordine interno degli Stati antagonisti sono innumerevoli, tanto che quando si parla per esempio della politica «orientale» di Cavour si domanda se si trattava di una «politica» cioè di una linea d’azione permanente, o di uno stratagemma del momento per indebolire l’Austria in vista del 59 e del 66. Così nei movimenti mazziniani dei primi del 1870 (esempio, fatto Barsanti) si vede l’intervento di Bismark, che in vista della guerra con la Francia e del pericolo di un’alleanza italo‑francese, pensava, con conflitti interni, a indebolire l’Italia. Così nei fatti del giugno 1914 alcuni vedono l’intervento dello Stato Maggiore austriaco in vista della successiva guerra. Come si vede, la casistica è numerosa e occorre avere idee chiare in proposito. Ammesso che qualunque cosa si faccia, si fa sempre il gioco di qualcuno, l’importante è di cercare in tutti i modi di fare bene il proprio gioco, cioè di vincere nettamente. In ogni modo occorre disprezzare la «boria» del partito e alla boria sostituire i fatti concreti. Chi ai fatti concreti sostituisce la boria, o fa la politica della boria, è da sospettare di poca serietà senz’altro. Non occorre aggiungere che per i partiti occorre evitare anche l’apparenza «giustificata» che si faccia il gioco di qualcuno, specialmente se il qualcuno è uno Stato straniero: che poi si speculi, nessuno può evitare che non avvenga.
Q14 §71 Giornalismo. Movimenti e centri intellettuali. È dovere dell’attività giornalistica (nelle sue varie manifestazioni) seguire e controllare tutti i movimenti e i centri intellettuali che esistono e si formano nel paese. Tutti. Cioè con l’esclusione appena di quelli che hanno un carattere arbitrario e pazzesco; sebbene anche questi, col tono che si meritano, devono essere per lo meno registrati. Distinzione tra centri e movimenti intellettuali e altre distinzioni e graduazioni. Per esempio il cattolicismo è un grande centro e un grande movimento: ma nel suo interno esistono movimenti e centri parziali che tendono a trasformare l’intero, o ad altri fini più concreti e limitati e di cui occorre tener conto. Pare che prima di ogni altra cosa occorra «disegnare» la mappa intellettuale e morale del paese, cioè circoscrivere i grandi movimenti d’idee e i grandi centri (ma non sempre ai grandi movimenti corrispondono grandi centri, almeno coi caratteri di visibilità e di concretezza che di solito si attribuisce a questa parola e l’esempio tipico è il centro cattolico). Occorre poi tener conto delle spinte innovatrici che si verificano, che non sempre sono vitali, cioè hanno una conseguenza, ma non perciò devono essere meno seguite e controllate. Intanto all’inizio un movimento è sempre incerto, di avvenire dubbio, ecc.; bisognerà attendere che abbia acquistato tutta la sua forza e consistenza per occuparsene? Neanche è necessario che esso sia fornito delle doti di coerenza e di ricchezza intellettuale: non sempre sono i movimenti più coerenti ed intellettualmente ricchi quelli che trionfano. Spesso anzi un movimento trionfa proprio per la sua mediocrità ed elasticità logica: tutto ci può stare, i compromessi più vistosi sono possibili e questi appunto possono essere ragioni di trionfo. Leggere le riviste dei giovani oltre quelle che si sono già affermate e rappresentano interessi seri e ben certi. Nell’«Almanacco letterario» Bompiani del 1933 (pp. 360‑361) sono indicati i programmi essenziali di sei riviste di giovani che dovrebbero rappresentare le spinte di movimento della nostra cultura: «Il Saggiatore», «Ottobre», «Il Ventuno», «L’Italia vivente», «L’Orto», «Espero» che non paiono molto perspicue, eccetto forse qualcuna. L’«Espero» per esempio, «per la filosofia» si propone «di ospitare i postidealisti, che eseguiscono un’attenta critica dell’idealismo, e quei soli idealisti che sanno tener conto di tale critica». Il direttore di «Espero» è Aldo Capasso, ed essere postidealista è qualcosa come essere «contemporaneo», cioè proprio nulla. Più chiaro, anzi forse il solo chiaro, è il programma di «Ottobre». Tuttavia tutti questi movimenti sarebbero da esaminare, snobismo a parte.
Distinzione tra movimenti militanti, che sono i più interessanti, e movimenti di «retroguardia» o di idee acquisite e divenute classiche o commerciali. Tra questi dove mettere l’«Italia Letteraria»? Non certo militante e neppure classica! Sacco di patate mi pare proprio la definizione più esatta e appropriata.
Q14 §72 Letteratura popolare. Contenuto e forma. L’accostamento di questi due termini può assumere nella critica d’arte molti significati. Ammesso che contenuto e forma sono la stessa cosa, ecc. ecc., non significa ancora che non si possa fare la distinzione tra contenuto e forma. Si può dire che chi insiste sul «contenuto» in realtà lotta per una determinata cultura, per una determinata concezione del mondo contro altre culture e altre concezioni del mondo; si può anche dire che storicamente, finora, i così detti contenutisti sono stati «più democratici» dei loro avversari parnassiani, per esempio, cioè volevano una letteratura che non fosse per gli «intellettuali», ecc. Si può parlare di una priorità del contenuto sulla forma? Se ne può parlare in questo senso, che l’opera d’arte è un processo e che i cambiamenti di contenuto sono anche cambiamenti di forma, ma è «più facile» parlare di contenuto che di forma, perché il contenuto può essere «riassunto» logicamente. Quando si dice che il contenuto precede la forma si vuol dire semplicemente che, nell’elaborazione, i tentativi successivi vengono presentati col nome di contenuto, niente altro. Il primo contenuto che non soddisfaceva era anche forma e in realtà quando si è raggiunta la «forma» soddisfacente anche il contenuto è cambiato. È vero che spesso quelli che chiacchierano di forma ecc. contro il contenuto, sono completamente vuoti, accozzano parole che non sempre si tengono neanche secondo grammatica (esempio Ungaretti); per tecnica, forma ecc. intendono vacuità di gergo da conventicola di teste vuote.
Anche questa è da porre fra le quistioni della storia nazionale italiana, in altra nota registrata, e assume varie forme: 1) c’è una differenza di stile tra gli scritti dedicati al pubblico e gli altri, per esempio tra le lettere e le opere letterarie. Sembra spesso di aver che fare con due scrittori diversi tanta è la differenza. Nelle lettere (salvo eccezioni, come quella di D’Annunzio che fa la commedia anche allo specchio, per se stesso), nelle memorie e in generale in tutti gli scritti dedicati a poco pubblico o a se stesso, predomina la sobrietà, la semplicità, la immediatezza, mentre negli altri scritti predomina la tronfiezza, lo stile oratorio, l’ipocrisia stilistica. Questa «malattia» è talmente diffusa che si è attaccata al popolo, per il quale infatti «scrivere» significa «montare sui trampoli», mettersi a festa, «fingere» uno stile ridondante, ecc., in ogni modo esprimersi in modo diverso dal comune; e siccome il popolo non è letterato, e di letteratura conosce solo il libretto dell’opera ottocentesca, avviene che gli uomini del popolo «melodrammatizzano». Ecco allora che «contenuto e forma» oltre che un significato «estetico» hanno anche un significato «storico». Forma «storica» significa un determinato linguaggio, come «contenuto» indica un determinato modo di pensare, non solo storico, ma «sobrio», espressivo senza pugni in faccia, passionale senza che le passioni siano arroventate all’Otello o al melodramma, senza la maschera teatrale, insomma. Questo fenomeno, credo, si verifica solo nel nostro paese, come fenomeno di massa, s’intende, perché papi singoli sono da per tutto. Ma occorre stare attenti: perché il paese nostro è quello in cui al convenzionale barocco è successo il convenzionale arcadico: sempre teatro e convenzione però.
Occorre dire che in questi anni le cose sono molto migliorate: D’Annunzio è stato l’ultimo accesso di malattia del popolo italiano e il giornale, per le sue necessità, ha avuto il gran merito di «razionalizzare» la prosa. Però l’ha impoverita e stremenzita e anche questo è un danno. Ma purtroppo nel popolo, accanto ai «futuristi antiaccademici» esistono ancora i «secentisti» di conversione. D’altronde qui si fa una quistione storica, per spiegare il passato, e non una lotta puramente attuale, per combattere mali attuali, sebbene anche questi non siano del tutto scomparsi e si ritrovano in alcune manifestazioni specialmente (discorsi solenni, specialmente funebri, patriottici, iscrizioni idem, ecc.). (Si potrebbe dire che si tratta di «gusto» e sarebbe errato. Il gusto è «individuale» o di piccoli gruppi; qui si tratta di grandi masse, e non può non trattarsi di cultura, di fenomeno storico, di esistenza di due culture; individuale è il gusto «sobrio», non l’altro, il melodramma è il gusto nazionale, cioè la cultura nazionale). Né si dica che di tale quistione non occorre occuparsi: anzi, la formazione di una prosa vivace ed espressiva e nello stesso tempo sobria e misurata deve essere uno dei fini culturali da proporsi. Anche in questo caso forma ed espressione si identificano ed insistere sulla «forma» non è che un mezzo pratico per lavorare sul contenuto, per ottenere una deflazione della retorica tradizionale che guasta ogni forma di cultura, anche quella «antiretorica», ahimè!
La domanda se sia esistito un romanticismo italiano può avere diverse risposte, a seconda di ciò che s’intende per romanticismo. E certo molte sono le definizioni che del termine di romanticismo sono state date. Ma a noi importa una di queste definizioni e importa non precisamente l’aspetto «letterario» del problema. Romanticismo ha, tra gli altri significati, assunto quello di uno speciale rapporto o legame tra gli intellettuali e il popolo, la nazione, cioè è un particolare riflesso della «democrazia» (in senso largo) nelle lettere (in senso largo, per cui anche il cattolicismo può essere stato «democratico» mentre il «liberalismo» può esserlo non stato). In questo senso ci interessa il problema per l’Italia ed esso è legato ai problemi che abbiamo raccolto in serie: se è esistito un teatro italiano, la quistione della lingua, perché la letteratura non è stata popolare, ecc. Occorre dunque, nella sterminata letteratura sul romanticismo, isolare questo aspetto e di esso interessarsi, teoricamente e praticamente, come fatto storico cioè e come tendenza generale che può dar luogo a un movimento attuale, a un attuale problema da risolvere. In questo senso il romanticismo precede, accompagna, sanziona e svolge tutto quel movimento europeo che prese nome dalla Rivoluzione francese; ne è l’aspetto sentimentale‑letterario (più sentimentale che letterario, nel senso che l’aspetto letterario è stato solo una parte dell’espressione della corrente sentimentale che ha pervaso tutta la vita e una parte molto importante della vita, e di questa vita solo una piccolissima parte ha potuto trovare espressione nella letteratura).
La ricerca quindi è di storia della cultura e non di storia letteraria, meglio di storia letteraria in quanto parte e aspetto di una più vasta storia della cultura. Ebbene, in questo preciso senso, il romanticismo non è esistito in Italia, e nel miglior caso le sue manifestazioni sono state minime, scarsissime e in ogni caso di aspetto puramente letterario. (Su questo punto è necessario il ricordo delle teorie del Thierry e del riflesso manzoniano, teorie del Thierry che appunto sono uno degli aspetti più importanti di questo aspetto del romanticismo di cui si vuole parlare). È da vedere come in Italia anche queste discussioni abbiano assunto un aspetto intellettuale e astratto: i pelasgi del Gioberti, le popolazioni «preromane», ecc., in realtà niente che fosse in rapporto col vivente popolo attuale che invece interessava il Thierry e la storiografia politica affine. Si è detto che la parola «democrazia» non deve essere assunta in tal senso, solo nel significato «laico» o «laicista» che si vuol dire; ma anche nel significato «cattolico», anche reazionario, se si vuole; ciò che importa è il fatto che si ricerchi un legame col popolo, con la nazione, che si ritenga necessaria una unità non servile, dovuta all’obbedienza passiva, ma un’unità attiva, vivente, qualunque sia il contenuto di questa vita. Questa unità vivente, a parte ogni contenuto, è appunto mancata in Italia, è mancata almeno nella misura sufficiente a farla diventare un fatto storico, e perciò si capisce il significato della domanda: «è esistito un romanticismo italiano»?
Q14 §73 Giornalismo. Riviste tipo. Confronto tra il primo numero della rivista «Leonardo» edita dal Sansoni di Firenze e i numeri editi da Casa Treves. La differenza è molto notevole e tuttavia Casa Treves è tipograficamente non delle ultime. Grande importanza che ha la veste esteriore di una rivista, sia commercialmente, sia «ideologicamente» per assicurare la fedeltà e l’affezione: in realtà in questo caso è difficile distinguere il fatto commerciale da quello ideologico. Fattori: pagina, composta dai margini, dagli intercolonni, dall’ampiezza delle colonne (lunghezza della linea), dalla compattezza della colonna, cioè dal numero delle lettere per linea e dall’occhio di ogni lettera, dalla carta e dall’inchiostro (bellezza dei titoli, nitidezza del carattere dovuta al maggiore o minore logorio delle matrici o delle lettere a mano, ecc.). Questi elementi non hanno importanza solo per le riviste, ma anche per i quotidiani. Il problema fondamentale di ogni periodico (quotidiano o no) è quello di assicurare una vendita stabile (possibilmente in continuo incremento), ciò che significa poi possibilità di costruire un piano commerciale (in isviluppo, ecc.). Certo l’elemento fondamentale di fortuna per un periodico è quello ideologico, cioè il fatto che soddisfa o no determinati bisogni intellettuali‑politici.
Ma sarebbe grosso errore il credere che questo sia l’unico elemento e specialmente che esso sia valido «isolatamente» preso. Solo in condizioni eccezionali, in determinati periodi di boom dell’opinione pubblica, avviene che un’opinione, qualunque sia la forma esteriore in cui è presentata, ha fortuna. Di solito, il modo di presentazione ha una grande importanza per la stabilità dell’azienda e l’importanza può essere positiva ma anche negativa. Dare gratis o sottocosto non sempre è una «buona speculazione», come non è buona speculazione far pagare troppo caro o dare «poco» per il «proprio denaro». Ciò almeno in politica. Di una opinione la cui manifestazione stampata non costa nulla, il pubblico diffida, ci vede sotto il tranello. E viceversa: diffida «politicamente» di chi non sa amministrare bene i fondi che il pubblico stesso dà. Come potrebbe essere ritenuto capace di amministrare il potere di Stato un partito che non ha o non sa scegliere (il che è lo stesso) gli elementi per amministrare bene un giornale o una rivista? Viceversa: un gruppo che con mezzi scarsi sa ottenere giornalisticamente risultati apprezzabili, dimostra con ciò, o già con ciò, che saprà amministrare bene anche organismi più ampi, ecc.
Ecco perché «l’esteriore» di una pubblicazione deve essere curato con la stessa attenzione che il contenuto ideologico e intellettuale: in realtà le due cose sono inscindibili e giustamente. Un buon principio (ma non sempre) è quello di dare all’esterno di una pubblicazione una caratteristica che di per sé si faccia notare e ricordare: è una pubblicità gratuita, per così dire. Non sempre, perché dipende dalla psicologia del particolare pubblico che si vuole conquistare.
Q14 §74 Passato e presente. L’autocritica e l’ipocrisia del l’autocritica. È certo che l’autocritica è diventata una parola di moda. Si vuole, a parole, far credere che alla critica rappresentata dalla «libera» lotta politica nel regime rappresentativo, si è trovato un equivalente, che di fatto, se applicato sul serio, è più efficace e produttivo di conseguenze dell’originale. Ma tutto sta lì: che il surrogato sia applicato sul serio, che l’autocritica sia operante e «spietata», perché in ciò è la sua maggiore efficacia: che deve essere spietata. Si è trovato invece che l’autocritica può dar luogo a bellissimi discorsi, a declamazioni senza fine e nulla più: l’autocritica è stata «parlamentarizzata». Poiché non è stato osservato finora che distruggere il parlamentarismo non è così facile come pare. Il parlamentarismo «implicito» e «tacito» è molto più pericoloso che non quello esplicito, perché ne ha tutte le deficienze senza averne i valori positivi. Esiste spesso un regime di partito «tacito», cioè un parlamentarismo «tacito» e «implicito» dove meno si crederebbe. È evidente che non si può abolire una «pura» forma, come è il parlamentarismo, senza abolire radicalmente il suo contenuto, l’individualismo, e questo nel suo preciso significato di «appropriazione individuale» del profitto e di iniziativa economica per il profitto capitalistico individuale. L’autocritica ipocrita è appunto di tali situazioni. Del resto la statistica dà l’indizio dell’effettualità della posizione. A meno che non si voglia sostenere che è sparita la criminalità, ciò che del resto altre statistiche smentiscono e come!
Tutto l’argomento è da rivedere, specialmente quello riguardante il regime dei partiti e il parlamentarismo «implicito», cioè funzionante come le «borse nere» e il «lotto clandestino» dove e quando la borsa ufficiale e il lotto di Stato sono per qualche ragione tenuti chiusi. Teoricamente l’importante è di mostrare che tra il vecchio assolutismo rovesciato dai regimi costituzionali e il nuovo assolutismo c’è differenza essenziale, per cui non si può parlare di un regresso; non solo, ma di dimostrare che tale «parlamentarismo nero» è in funzione di necessità storiche attuali, è «un progresso», nel suo genere; che il ritorno al «parlamentarismo» tradizionale sarebbe un regresso antistorico, poiché anche dove questo «funziona» pubblicamente, il parlamentarismo effettivo è quello «nero». Teoricamente mi pare si possa spiegare il fenomeno nel concetto di «egemonia», con un ritorno al «corporativismo», ma non nel senso «antico regime», nel senso moderno della parola, quando la «corporazione» non può avere limiti chiusi ed esclusivisti, come era nel passato; oggi è corporativismo di «funzione sociale», senza restrizione ereditaria o d’altro (vedi sotto)La frase, interrotta a questo punto, continua nel successivo Q14 § 76..
Q14 §75 Passato e presente. Convinzione ogni giorno più radicata che non meno delle iniziative conta il controllo che l’iniziativa sia attuata, che mezzi e fini coincidano perfettamente (sebbene non sia ciò da intendere materialmente) e che si può parlare di volere un fine solo quando si sanno predisporre con esattezza, cura, meticolosità, i mezzi adeguati, sufficienti e necessari (né più né meno, né di qua né di là dalla mira). Convinzione anche radicata che poiché le idee camminano e si attuano storicamente con gli uomini di buona volontà, lo studio degli uomini, la scelta di essi, il controllo delle loro azioni è altrettanto necessario che lo studio delle idee, ecc. Perciò ogni distinzione tra il dirigere e l’organizzare (e nell’organizzare è compreso il «verificare» o controllare) indica una deviazione e spesso un tradimento.
Q14 §76 Passato e presente (continua il penultimo Q14 §) … genere (che del resto era relativa anche nel passato, in cui il carattere più evidente era quello del «privilegio legale»).
Trattando l’argomento è da escludere accuratamente ogni anche solo apparenza di appoggio alle tendenze «assolutiste» e ciò si può ottenere insistendo sul carattere transitorio» (nel senso che non fa epoca, non nel senso di poca durata») del fenomeno. (A questo proposito è da notare come troppo spesso si confonda il «non far epoca» con la scarsa durata «temporale»; si può «durare» a lungo, relativamente, e non «fare epoca»; le forze di vischiosità di certi regimi sono spesso insospettate, specialmente se essi sono «forti» della altrui debolezza, anche procurata: a questo proposito sono da ricordare le opinioni di Cesarino Rossi, che certo erano sbagliate «in ultima istanza», ma realmente avevano un contenuto di realismo effettuale).
Il parlamentarismo «nero» pare un argomento da svolgere con certa ampiezza, anche perché porge l’occasione di precisare i concetti politici che costituiscono la concezione «parlamentare». I raffronti con altri paesi, a questo riguardo, sono interessanti: per esempio, la liquidazione di Leone Davidovi non è un episodio della liquidazione «anche» del parlamento «nero» che sussisteva dopo l’abolizione del parlamento «legale»?
Fatto reale e fatto legale. Sistema di forze in equilibrio instabile che nel terreno parlamentare trovano il terreno «legale» del loro equilibrio «più economico» e abolizione di questo terreno legale, perché diventa fonte di organizzazione e di risveglio di forze sociali latenti e sonnecchianti; quindi questa abolizione è sintomo (o previsione) di intensificarsi delle lotte e non viceversa. Quando una lotta può comporsi legalmente, essa non è certo pericolosa: diventa tale appunto quando l’equilibrio legale è riconosciuto impossibile. (Ciò che non significa che abolendo il barometro si abolisca il cattivo tempo).
Q14 §77 Passato e presente. Viene spesso osservato come un’incongruenza e un sintomo di ciò che la politica di per sé pervertisce gli animi, il fatto che dopo una rottura «si scopre» contro il transfuga o il traditore un mucchio di malefatte che prima pareva si ignorassero. Ma la quistione non è così semplice. In primo luogo la rottura è di solito un lungo processo, del quale solo l’ultimo atto si rivela al pubblico: in questa «istruttoria» si raccolgono tutti i fatti negativi ed è naturale che si cerchi di mettere il «transfuga» in condizioni di torto anche immediato, cioè si finge di essere «longanimi» per mostrare che la rottura era proprio necessaria e inevitabile. Pare che ciò sia abbastanza comprensibile politicamente. Anzi mostra come l’appartenenza a un partito sia ritenuta essere importante e si decida l’atto risolutivo solo quando la misura è colma. Che l’enumerazione dei «fatti» sia facile «dopo» è dunque chiaro: essa non è che il rendere pubblico un processo che privatamente durava già da un pezzo. In secondo luogo, è anche chiaro che tutta una serie di fatti passati può essere illuminata da un ultimo fatto in modo incontrovertibile. Tizio frequenta quotidianamente una casa: niente di notevole, finché non si viene a sapere, per esempio, che quella tal casa è un covo di spionaggio e Tizio è una spia. Evidentemente chi avesse segnato tutte le volte che Tizio si è recato in questa casa, può enumerare quante volte Tizio si è incontrato con delle spie consapevolmente, senza poter recar sorpresa in nessuno.
Q14 §78 Passato e presente. Molti spunti raccolti in questa rubrica di «Passato e presente», in quanto non hanno una portata «storica» concreta, con riferimenti cioè a fatti particolari, possono essere raccolti insieme sul modello dei Ricordi politici e civili del Guicciardini. L’importante è di dar loro la stessa essenzialità e pedagogica universalità e chiarezza, ciò che a dire il vero non è poco, anzi è il tutto, sia stilisticamente, sia teoricamente, cioè come ricerca di verità.
Q14 §79 Passato e presente. È stato osservato che è preferibile il briccone allo sciocco, perché col briccone si può venire a patti e fargli fare il galantuomo per tornaconto, ma dallo sciocco… sequitur quodlibet. È anche vero che il briccone è preferibile al semibriccone. In realtà nella vita non si incontrano mai bricconi dichiarati, tutti d’un pezzo, di carattere, per così dire, ma solo semibricconi, ti vedo e non ti vedo, dalle azioni ambigue, che riuscirebbero sempre a giustificare facendosi applaudire. È da pensare che il briccone sia un’invenzione romantica, oppure sia tale solo quando si incontra con la stupidaggine (ma allora è poco pericoloso perché si scopre da sé). È da osservare che il briccone vero è superiore al galantuomo; infatti: il briccone può anche essere «galantuomo» (cioè può «fare» il galantuomo), mentre il galantuomo non fa bricconerie in nessun caso e per questo appunto è «galantuomo». Stupido davvero chi si aspetta di aver che fare con bricconi dichiarati, patenti, indiscutibili: invece si ha anche troppo spesso a che fare coi semibricconi, che pertanto sono essi i… veri ed unici bricconi, quelli della realtà quotidiana. Per il rapporto «sciocco-briccone» è da ricordare il rapporto «sciocco‑intelligente», nel senso che l’intelligente può fingersi sciocco e riuscire a farsi credere tale, ma lo sciocco non può fingersi intelligente e farsi credere tale, a meno che non trovi gente più sciocca di lui, ciò che non è difficile.
Q14 §80 Giornalismo. Riviste tipo. La rivista di Gentile «Educazione politica» il cui nome fu poi trasformato. Il titolo è vecchio: Arcangelo Ghisleri diresse una rivista di questo titolo e aveva più congruenza col fine proposto. Ma il Ghisleri quante riviste diresse e, a parte l’onestà dell’uomo, con quanta inutilità? È vero che l’educazione può prospettarsi in piani diversi per ottenere livelli diversi. Tutto sta nel livello che crede di avere il «direttore» ed è naturale che i direttori credono sempre di essere al livello più alto e pongono come ideale la loro posizione per il minuto gregge dei lettori.