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Library:Prison Notebooks In Original Italian/Notebook 27

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     QUADERNO 27


       OSSERVAZIONI SUL «FOLCLORE»


Q27 §1 Giovanni Crocioni (nel volume Problemi fondamentali del Folclore, Bologna, Zanichelli, 1928) critica come confusa e imprecisa la ripartizione del materiale folcloristico proposta dal Pitrè nel 1897 nella Premessa alla Bibliografia delle tradizioni popolari e propone una sua ripartizione in quattro sezioni: arte, letteratura, scienza, morale del popolo. Ma anche questa ripartizione è criticata come imprecisa, mal definita e troppo lata. Raffaele Ciampini, nella «Fiera Letteraria» del 30 dicembre 1928, domanda: «È essa scientifica? Come per es. farvi rientrare le superstizioni? E che vuole dire una morale del popolo? Come studiarla scientificamente? E perché, allora, non parlare anche di una religione del popolo?» Si può dire che finora il folclore sia stato studiato prevalentemente come elemento «pittoresco» (in realtà finora è stato solo raccolto materiale da erudizione e la scienza del folclore è consistita prevalentemente negli studi di metodo per la raccolta, la selezione e la classificazione di tale materiale, cioè nello studio delle cautele pratiche e dei principii empirici necessari per svolgere proficuamente un aspetto particolare dell’erudizione, né con ciò si misconosce l’importanza e il significato storico di alcuni grandi studiosi del folclore). Occorrerebbe studiarlo invece come «concezione del mondo e della vita», implicita in grande misura, di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione (anch’essa per lo più implicita, meccanica, oggettiva) con le concezioni del mondo «ufficiali» (o in senso più largo delle parti colte della società storicamente determinate) che si sono successe nello sviluppo storico. (Quindi lo stretto rapporto tra folclore e «senso comune» che è il folclore filosofico).

Concezione del mondo non solo non elaborata e sistematica, perché il popolo (cioè l’insieme delle classi subalterne e strumentali di ogni forma di società finora esistita) per definizione non può avere concezioni elaborate, sistematiche e politicamente organizzate e centralizzate nel loro sia pur contradditorio sviluppo, ma anzi molteplice – non solo nel senso di diverso, e giustapposto, ma anche nel senso di stratificato dal più grossolano al meno grossolano – se addirittura non deve parlarsi di un agglomerato indigesto di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia, della maggior parte delle quali, anzi, solo nel folclore si trovano i superstiti documenti mutili e contaminati.

Anche il pensiero e la scienza moderna danno continuamente nuovi elementi al «folclore moderno», in quanto certe nozioni scientifiche e certe opinioni, avulse dal loro complesso e più o meno sfigurate, cadono continuamente nel dominio popolare e sono «inserite» nel mosaico della tradizione (la Scoperta dell’America di C. Pascarella mostra come le nozioni, diffuse dai manuali scolastici e dalle «Università popolari», su Cristoforo Colombo e su tutta una serie di opinioni scientifiche, possano essere bizzarramente assimilate). Il folclore può essere capito solo come un riflesso delle condizioni di vita culturale del popolo, sebbene certe concezioni proprie del folclore si prolunghino anche dopo che le condizioni siano (o sembrino) modificate o diano luogo a combinazioni bizzarre.

Certo esiste una «religione di popolo», specialmente nei paesi cattolici e ortodossi, molto diversa da quella degli intellettuali (che siano religiosi) e specialmente da quella organicamente sistemata dalla gerarchia ecclesiastica – sebbene si possa sostenere che tutte le religioni, anche le più dirozzate e raffinate, siano «folclore» in rapporto al pensiero moderno, con la capitale differenza che le religioni e quella cattolica in primo luogo, sono appunto «elaborate e sistemate» dagli intellettuali (c. s.) e dalla gerarchia ecclesiastica e pertanto presentano speciali problemi (è da vedere se una tale elaborazione e sistemazione non sia necessaria per mantenere il folclore disseminato e molteplice: le condizioni della Chiesa prima e dopo la Riforma e il Concilio di Trento e il diverso sviluppo storico‑culturale dei paesi riformati e di quelli ortodossi dopo la Riforma e Trento sono elementi molto significativi). Così è vero che esiste una «morale del popolo», intesa come un insieme determinato (nel tempo e nello spazio) di massime per la condotta pratica e di costumi che ne derivano o le hanno prodotte, morale che è strettamente legata, come la superstizione, alle credenze reali religiose: esistono degli imperativi che sono molto più forti, tenaci ed effettuali che non quelli della «morale» ufficiale. Anche in questa sfera occorre distinguere diversi strati: quelli fossilizzati che rispecchiano condizioni di vita passata e quindi conservativi e reazionari, e quelli che sono una serie di innovazioni, spesso creative e progressive, determinate spontaneamente da forme e condizioni di vita in processo di sviluppo e che sono in contraddizione, o solamente diverse, dalla morale degli strati dirigenti.

Il Ciampini trova molto giusta la necessità sostenuta dal Crocioni che il folclore sia insegnato nelle scuole dove si preparano i futuri insegnanti, ma poi nega che possa porsi la quistione della utilità del folclore (c’è indubbiamente confusione tra «scienza del folclore», «conoscenza del folclore» e «folclore» cioè «esistenza del folclore»; pare che il Ciampini qui voglia proprio dire «esistenza del folclore» così che l’insegnante non dovrebbe combattere la concezione tolemaica, che è propria del folclore). Per il Ciampini il folclore (?) è fine a se stesso o ha la sola utilità di offrire a un popolo gli elementi per una più profonda conoscenza di se stesso (qui folclore dovrebbe significare «conoscenza e scienza del folclore»). Studiare le superstizioni per sradicarle sarebbe per il Ciampini, come se il folclore uccidesse se stesso, mentre la scienza non è che conoscenza disinteressata, fine a se stessa! Ma allora perché insegnare il folclore nelle scuole che preparano gli insegnanti? Per accrescere la cultura disinteressata dei maestri? Per mostrar loro ciò che non devono distruggere?

Come appare, le idee del Ciampini sono molto confuse e anzi intimamente incoerenti, poiché, in altra sede, il Ciampini stesso riconoscerà che lo Stato non è agnostico ma ha una sua concezione della vita e ha il dovere di diffonderla, educando le masse nazionali. Ma questa attività formativa dello Stato, che si esprime, oltre che nell’attività politica generale, specialmente nella scuola, non si svolge sul niente e dal niente: in realtà essa è in concorrenza e in contradditorio con altre concezioni esplicite ed implicite e tra queste non delle minori e meno tenaci è il folclore, che pertanto deve essere «superato». Conoscere il «folclore» significa pertanto per l’insegnante conoscere quali altre concezioni del mondo e della vita lavorano di fatto alla formazione intellettuale e morale delle generazioni più giovani per estirparle e sostituirle con concezioni ritenute superiori. Dalle scuole elementari alle… Cattedre d’agricoltura, in realtà, il folclore era già sistematicamente battuto in breccia: l’insegnamento del folclore agli insegnanti dovrebbe rafforzare ancor più questo lavoro sistematico. È certo che per raggiungere il fine occorrerebbe mutare lo spirito delle ricerche folcloristiche oltre che approfondirle ed estenderle. Il folclore non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa che è molto seria e da prendere sul serio. Solo così l’insegnamento sarà più efficiente e determinerà realmente la nascita di una nuova cultura nelle grandi masse popolari, cioè sparirà il distacco tra cultura moderna e cultura popolare o folclore. Un’attività di questo genere, fatta in profondità, corrisponderebbe nel piano intellettuale a ciò che è stata la Riforma nei paesi protestanti.

Q27 §2 «Diritto naturale» e folclore. Viene esercitata ancora oggi una certa critica, per lo più di carattere giornalistico e superficiale, non molto brillante contro il così detto diritto naturale (cfr qualche elucubrazione di Maurizio

Maraviglia e i sarcasmi e le beffe più o meno convenzionali e stantie dei giornali e delle riviste). Qual è il significato reale di queste esercitazioni?

Per comprendere ciò occorre, mi pare, distinguere alcune delle espressioni che tradizionalmente ha assunto il «diritto naturale»:

1) La espressione cattolica, contro la quale gli attuali polemisti non hanno il coraggio di prendere una netta posizione, sebbene il concetto di «diritto naturale» sia essenziale ed integrante della dottrina sociale e politica cattolica. Sarebbe interessante ricordare lo stretto rapporto che esiste tra la religione cattolica, così come è stata intesa sempre dalle grandi masse e gli «immortali principii dell’89». I cattolici stessi della gerarchia ammettono questo rapporto quando affermano che la rivoluzione francese è stata una «eresia» o che da essa si è iniziata una nuova eresia, riconoscono cioè che allora è avvenuta una scissione nella stessa fondamentale mentalità e concezione del mondo e della vita: d’altronde solo così si può spiegare la storia religiosa della Rivoluzione francese, ché sarebbe altrimenti inesplicabile l’adesione in massa alle nuove idee e alla politica rivoluzionaria dei giacobini contro il clero, di una popolazione che era certo ancora profondamente religiosa e cattolica. Per ciò si può dire che concettualmente non i principii della Rivoluzione francese superano la religione, poiché appartengono alla sua stessa sfera mentale, ma i principii che sono superiori storicamente (in quanto esprimono esigenze nuove e superiori) a quelli della Rivoluzione francese, cioè quelli che si fondano sulla realtà effettuale della forza e della lotta.

2) La espressione di diversi gruppi intellettuali, di diverse tendenze politico‑giuridiche, che è quella sulla quale si è svolta finora la polemica scientifica sul «diritto naturale». A questo proposito la quistione è stata risolta fondamentalmente dal Croce, col riconoscimento che si è trattato di correnti politiche e pubblicistiche, che avevano il loro significato e la loro importanza in quanto esprimevano esigenze reali nella forma dogmatica e sistematica della così detta scienza del diritto (cfr la trattazione del Croce). Contro questa tendenza si svolge la polemica «apparente» degli attuali esercitatori di scienza del diritto, che in realtà, non distinguendo tra il contenuto reale del «diritto naturale» (rivendicazioni concrete di carattere politico‑economico‑sociale), la forma della teorizzazione e le giustificazioni mentali che del contenuto reale dà il diritto naturale, sono essi più acritici e antistorici dei teorici del diritto naturale, cioè sono dei muli bendati del più gretto conservatorismo (che si riferisce anche alle cose passate e «storicamente» superate e spazzate via).

3) La polemica in realtà mira ad infrenare l’influsso che specialmente sui giovani intellettuali potrebbero avere (e hanno realmente) le correnti popolari del «diritto naturale», cioè quell’insieme di opinioni e di credenze sui «proprii» diritti che circolano ininterrottamente nelle masse popolari, che si rinnovano di continuo sotto la spinta delle condizioni reali di vita e dello spontaneo confronto tra il modo di essere dei diversi ceti. La religione ha molto influsso su queste correnti, la religione in tutti i sensi, da quella come è realmente sentita e attuata a quella quale è organizzata e sistematizzata dalla gerarchia, che non può rinunziare al concetto di diritto popolare. Ma su queste correnti influiscono, per meati intellettuali incontrollabili e capillari, anche una serie di concetti diffusi dalle correnti laiche del diritto naturale e ancora diventano «diritto naturale», per contaminazioni le più svariate e bizzarre, anche certi programmi e proposizioni affermati dallo «storicismo». Esiste dunque una massa di opinioni «giuridiche» popolari, che assumono la forma del «diritto naturale» e sono il «folclore» giuridico. Che tale corrente abbia importanza non piccola è stato dimostrato dalla organizzazione delle «Corti d’Assisi» e di tutta una serie di magistrature arbitrali o di conciliazione, in tutti i campi dei rapporti individuali e di gruppo, che appunto dovrebbero giudicare tenendo conto del «diritto» come è inteso dal popolo, controllato dal diritto positivo o ufficiale. Né è da pensare che l’importanza di questa quistione sia sparita con l’abolizione delle giurie popolari, perché nessun magistrato può in una qualsiasi misura prescindere dall’opinione: è anzi probabile che la quistione si ripresenti in altra forma e in misura ben più estesa che nel passato, ciò che non mancherà di sollevare pericoli e nuove serie di problemi da risolvere.