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Antonio Gramsci's prison notebooks.
Notebook 1 written in 1929-30
Prison Notebooks(Italian) | |
---|---|
Author | Antonio Gramsci |
Written in | 1929-1935 |
Quaderni del carcere
Source: www.gramscisource.org
P
Indice Quaderni
Quaderno 1 (§ 1-158) <#QUADERNO_1__> Quaderno 2 (§ 1-150) <#QUADERNO_2> Quaderno 3 (§ 1-166) <#QUADERNO_3_> Quaderno 4 (§ 1-95) <#QUADERNO_4> Quaderno 5 (§ 1-161) <#QUADERNO_5_> Quaderno 6 (§ 1-211) <#QUADERNO_6> Quaderno 7 (§ 1-108) <#QUADERNO_7> Quaderno 8 (§ 1-245) <#QUADERNO_8> Quaderno 9 (§ 1-142) <#QUADERNO_9> Quaderno 10 (§ 1-61) <#QUADERNO_10> Quaderno 10b (§ 1-12) <#QUADERNO_10b> Quaderno 11 (§ 1-70) <#QUADERNO_11> Quaderno 12 (§ 1-3) <#QUADERNO_12> Quaderno 13 (§ 1-40) <#QUADERNO_13> Quaderno 14 (§1-80) <#QUADERNO_14> Quaderno 15 (§ 1-76) <#QUADERNO_15> Quaderno 16 (§ 1-30) <#QUADERNO_16> Quaderno 17 (§ 1-53) <#QUADERNO_17> Quaderno 18 (§1-3) <#QUADERNO_18> Quaderno 19 (§1-58) <#QUADERNO_19> Quaderno 20 (§ 1-4) <#QUADERNO_20_> Quaderno 21 (§ 1-15) <#QUADERNO_21> Quaderno 22 (§ 1-16) <#QUADERNO_22> Quaderno 23 (§ 1-59) <#QUADERNO_23_> Quaderno 24 (§ 1-9) <#QUADERNO_24> Quaderno 25 (§ 1-8) <#QUADERNO_25> Quaderno 26 (§ 1-11) <#QUADERNO_26> Quaderno 27 (§ 1-2) <#QUADERNO_27_> Quaderno 28 (§ 1-18) <#QUADERNO_28> Quaderno 29 (§ 1-8) <#QUADERNO_29>
QUADERNO 1
(8 febbraio 1929)
Note e appunti
Argomenti principali:
1) Teoria della storia e della storiografia.
2) Sviluppo della borghesia italiana fino al 1870.
3) Formazione dei gruppi intellettuali italiani: svolgimento, atteggiamenti.
4) La letteratura popolare dei «romanzi d’appendice» e le ragioni della sua persistente fortuna.
5) Cavalcante Cavalcanti: la sua posizione nella struttura e nell’arte della Divina Commedia.
6) Origini e svolgimento dell’Azione Cattolica in Italia e in Europa.
7) Il concetto di folklore.
8) Esperienze della vita in carcere.
9) La «quistione meridionale» e la quistione delle isole.
10) Osservazioni sulla popolazione italiana: sua composizione, funzione dell’emigrazione.
11) Americanismo e fordismo.
12) La quistione della lingua in Italia: Manzoni e G. I. Ascoli.
13) Il «senso comune» (cfr 7).
14) Riviste tipo: teorica, critico‑storica, di cultura generale (divulgazione).
15) Neo‑grammatici e neo‑linguisti («questa tavola rotonda è quadrata»).
16) I nipotini di padre Bresciani.
Q1 §1 Sulla povertà, il cattolicismo e il papato. Ricordare la risposta data da un operaio cattolico francese all’autore di un libretto su Ouvriers et Patrons, memoria premiata nel 1906 dall’Accademia di scienze morali e politiche di Parigi. La risposta rispondeva in modo epigrammatico all’obbiezione mossagli che, secondo l’affermazione di Gesù Cristo, ci devono essere sempre ricchi e poveri: «vuol dire che lasceremo almeno due poveri, perché Gesù Cristo non abbia ad aver torto». Questa quistione generale dovrebbe essere esaminata in tutta la tradizione e la dottrina della Chiesa Cattolica.
Affermazioni principali fatte nelle encicliche degli ultimi papi, cioè di quelli più importanti da quando la quistione ha assunto una importanza storica: 1° La proprietà privata, specialmente quella «fondiaria», è un «diritto naturale», che non si può violare neanche con forti imposte (da questa affermazione sono derivati i programmi delle tendenze «democratiche cristiane», per la distribuzione delle terre, con indennità, ai contadini poveri e le loro dottrine finanziarie); 2° I poveri devono contentarsi della loro sorte, poiché le distinzioni di classe e la distribuzione della ricchezza sono disposizioni di dio, e sarebbe empio cercare di eliminarle; 3° L’elemosina è un dovere cristiano e implica l’esistenza della povertà; 4° La quistione sociale è anzitutto morale e religiosa, non economica, e dev’essere risolta con la carità cristiana e con i dettami della moralità e il giudizio della religione. (Vedi Codice sociale e Sillabo).
Q1 §2 Faccia a faccia col nemico, di Luigi Galleani, stampato negli Stati Uniti (Boston?) verso il 1910 dalle «Cronache Sovversive». È uno zibaldone compilatorio sui processi degli individualisti (Ravachol, Henry ecc.), poco utile in generale. Qualche osservazione:
A Livorno nel suo discorso, Abbo ripeté l’introduzione della dichiarazione di principii di Etievant, riportata in appendice nel libro: la frase, che suscitò l’ilarità generale, sulla «linguistica», è presa letteralmente; Abbo conosceva a memoria la prima parte della dichiarazione, certamente. Può servire, questo rilievo, per far notare come si facevano la cultura questi uomini e come questa specie di letteratura sia diffusa e popolare.
In tutte le dichiarazioni degli imputati, risulta che uno dei motivi fondamentali delle loro azioni è il «/diritto al benessere/» che ritengono un diritto naturale (i francesi, s’intende, che occupano la maggior parte del libro). Da vari imputati è ripetuta la frase che «un’orgia dei signori consuma ciò che basterebbe a mille famiglie operaie». Non c’è neanche un accenno ai rapporti di produzione. La dichiarazione di Etievant, riportata integralmente in appendice, è tipica, perché cerca di costruire un sistema giustificativo degli individualisti d’azione; naturalmente, le stesse giustificazioni sono valide per tutti, per i giudici, per i giurati, per il carnefice: ogni elemento sociale è chiuso nella rete delle sue sensazioni, come un porco in una botte di ferro e non può evaderne; l’individualista lancia la «marmitta», il giudice condanna, il carnefice taglia la testa. Non c’è uscita. È un volontarismo che per giustificarsi moralmente nega se stesso in modo tragicomico. L’analisi di questa dichiarazione mostra come queste «azioni» individuali erano il portato di uno sconcerto morale della società francese che dal ’70 arriva fino al dreyfusismo, nel quale trova il suo sfogo collettivo.
A proposito dell’Henry c’è nel volume riportata la lettera di un certo Galtey (mi pare, ma bisognerebbe verificare) a proposito dell’amore represso di Henry per sua moglie. Questa donna, saputo che Henry era stato innamorato di lei (pare che non se ne fosse accorta) dichiara a un giornalista che se avesse saputo, si sarebbe data, forse. Il marito, nella lettera, dichiara di non trovar nulla da dire sulle dichiarazioni della moglie e spiega: se un uomo non è riuscito a incarnare il sogno romantico della sua donna sul cavaliere azzurro (o qualcosa di simile), peggio per lui; deve ammettere che un altro lo sostituisca. È tipico questo miscuglio di cavalieri azzurri e di razionalismo materialistico.
Nella sua dichiarazione al processo di Lione del 1894 (vedi) Kropotkin afferma con certezza che entro dieci anni ci sarà lo sconvolgimento finale: il tono di sicurezza è notevole.
Q1 §3 Rapporti tra Stato e Chiesa. Il «Vorwärts» del 14 giugno 1929 in un articolo a proposito del Concordato tra la Città del Vaticano e la Prussia scrive che «Roma ha ritenuto fosse decaduta (la legislazione precedente che già costituiva di fatto un concordato) in seguito ai cambiamenti politici intervenuti in Germania». Questo potrebbe essere un precedente molto importante e da ricordare.
Q1 §4 Diritto naturale e cattolicismo. Gli attuali polemisti contro il diritto naturale si guardano bene dal ricordare che esso è parte integrante del cattolicismo e della sua dottrina. Sarebbe interessante una ricerca che dimostrasse lo stretto rapporto tra la religione e gli «immortali principii». I cattolici stessi ammettono questi rapporti quando affermano che con la rivoluzione francese è cominciata una «eresia», riconoscono cioè che si tratta della scissione dottrinale di una stessa mentalità e concezione generale. Si potrebbe dire, pertanto, che non i principii della rivoluzione francese superano la religione, ma le dottrine che superano questi principii, cioè le dottrine della forza contrapposte al diritto naturale.
Q1 §5 Rapporti tra Stato e Chiesa. Nella «Vossische Zeitung» del 18 giugno 1929 Hoepker‑Aschoff, ministro democratico delle finanze di Prussia, poneva così la questione, rilevata più su dal «Vorwärts»: «Egualmente non è possibile disconoscere la fondatezza della tesi di Roma che, in presenza dei molti cambiamenti politici e territoriali avvenuti, richiedeva che gli accordi venissero adattati alle nuove circostanze». Nello stesso articolo l’Hoepker‑Aschoff ricorda che lo Stato prussiano «aveva sempre sostenuto che gli accordi del 1821 erano ancora in vigore». (E il periodo del Kulturkampf?).
Q1 §6 «Per lodare un libro non è affatto necessario di aprirlo; ma, se si è deciso di criticarlo, è sempre prudente leggerlo. Almeno sinché l’autore è vivo... ». /Rivarol/.
Q1 §7 Margherita Sarfatti e le «giostre». Nella recensione di Goffredo Bellonci del /Palazzone/ di Margherita Sarfatti «Italia letteraria», 23 giugno 29 si legge: «verissima quella timidezza della vergine che si ferma pudica innanzi al letto matrimoniale mentre pur sente che “esso è benigno e accogliente per le future giostre”». Questo /pudore/ che sente con le espressioni tecniche dei novellieri licenziosi è impagabile: avrà sentito anche le future «molte miglia» e il suo «pelliccione» ben scosso.
Q1 §8 Generazione vecchia e nuova. La vecchia generazione degli intellettuali ha fallito, ma ha avuto una giovinezza Papini, Prezzolini, Soffici ecc.). La generazione dei giovani attuali non ha neanche questa età delle brillanti promesse: asini brutti anche da piccoletti (Titta Rosa, Angioletti, Malaparte ecc.).
Q1 §9 Soffici. Un cafone senza ingenuità e spontaneità.
Q1 §10 Su Machiavelli. Si suole troppo considerare Machiavelli come il «politico in generale» buono per tutti i tempi: ecco già un errore di politica. Machiavelli legato al suo tempo: 1) lotte interne nella repubblica fiorentina; 2) lotte tra gli stati italiani per un equilibrio reciproco; 3) lotte degli stati italiani per equilibrio europeo.
Su Machiavelli opera l’esempio della Francia e della Spagna che hanno raggiunto una forte unità statale. Fa un «paragone ellittico» come direbbe il Croce e desume le regole per un forte stato in generale e italiano in particolare. Machiavelli è uomo tutto della sua epoca e la sua arte politica rappresenta la filosofia del tempo che tende alla monarchia nazionale assoluta, la forma che può permettere uno sviluppo e un’organizzazione borghese. In Machiavelli si trova in nuce la separazione dei poteri e il parlamentarismo; la sua «ferocia» è contro i residui del feudalismo, non contro le classi progressive; il principe deve porre fine all’anarchia feudale e ciò fa il Valentino in Romagna, appoggiandosi sulle classi produttive, contadini e mercanti. Dato il carattere militare del capo dello stato, come si richiede in un periodo di lotta per la formazione e il consolidamento del potere, l’indicazione di classe contenuta nell’Arte della guerra si deve intendere per la struttura generale statale: se i borghesi della città vogliono porre fine al disordine interno e all’anarchia esterna, devono appoggiarsi sui contadini come massa, costituendo una forza armata sicura e fedele.
Si può dire che questa concezione essenzialmente politica è così dominante nel Machiavelli che gli fa commettere gli errori di carattere militare: egli pensa specialmente alla fanteria, le cui masse possono essere arruolate con un’azione politica, e perciò misconosce il valore dell’artiglieria. Insomma deve essere considerato come un politico che deve occuparsi di arte militare in quanto ciò è necessario per la sua costruzione politica, ma lo fa in modo unilaterale, perché non lì è il centro del suo pensiero.
Q1 §11 Dell’originalità nella scienza. /Einaudi/: «Una teoria non va attribuita a chi la intuì, o per incidente la enunciò o espose un principio da cui poteva essere dedotta o raccontò slegatamente le diverse nozioni, le quali aspiravano ad essere ricomposte in unità». Manca la parte positiva accennata in seguito nella frase: «in quale altro libro fu assunto come oggetto “voluto” di “particolare” trattato la seguente proposizione, ecc.?» Il /Croce/: «Altro è metter fuori un’osservazione incidentale, che si lascia poi cadere senza svolgerla, ed altro stabilire un principio di cui si sono scorte le feconde conseguenze; altro enunciare un pensiero generico ed astratto ed altro pensarlo realmente e in concreto; altro, finalmente, inventare, ed altro ripetere di seconda o di terza mano». L’enunziazione dell’Einaudi è molto difettosa e piena di curiose improprietà linguistiche, ma è derivata dal Croce (Einaudi, «Riforma Sociale», 1929, p. 277; Croce, / Mat. storico/^IV , p. 26).
Q1 §12 Giovanni Papini. Il «pio autore» della «Civiltà Cattolica».
Q1 §13 Alfredo Panzini. Scrive F. Palazzi nell’«Italia che scrive» (Giugno 1929) a proposito di I giorni del sole e del grano: «soprattutto si occupa e si preoccupa della vita campestre come può occuparsene un padrone che vuol essere tranquillo sulle doti lavorative delle bestie da lavoro che possiede, sia di quelle quadrupedi, sia di quelle bipedi e che a veder un campo coltivato, pensa subito se il raccolto sarà quale spera». Panzini negriero, insomma.
Q1 §14 Fortunato Rizzi ossia dell’italiano meschino. Louis Reynaud, che deve essere un discepolo di Maurras, ha scritto un libro: Le Romantisme (Les origines anglo‑germaniques. Influences étrangères et traditions nationales. Le réveil du génie français), Paris, Colin, per esporre diffusamente e dimostrare una tesi propria del nazionalismo integrale: che il romanticismo è contrario al genio francese ed è un’importazione straniera, germanica e anglo‑tedesca. In questa proposizione, per Maurras e indubbiamente anche per il Reynaud, l’Italia è e deve essere con la Francia, e anzi in generale le nazioni cattoliche, il cattolicismo, sono solidali contro le nazioni protestanti, il latinismo contro il germanesimo. Il romanticismo è una infezione d’origine germanica, infezione per la latinità, per la Francia, che ne è stata la grande vittima: nei suoi paesi originari, Inghilterra e Germania, il romanticismo sarà o è stato senza conseguenze, ma in Francia esso è diventato lo spirito delle rivoluzioni successive dal 1789 in poi, ha distrutto o devastato la tradizione ecc. ecc.
Ora ecco come il prof. Fortunato Rizzi, autore di un libro a quanto pare mediocrissimo (non fa maraviglia, a giudicare dal modo come egli tratta le correnti di pensiero e di sentimenti) sul 500, vede il libro del Reynaud in un articolo (Il Romanticismo francese e l’Italia) pubblicato nei «Libri del giorno» del giugno 1929. Il Rizzi ignora l’«antefatto», ignora che il libro del Reynaud è più politico che letterario, ignora le proposizioni del nazionalismo integrale di Maurras nel campo della cultura e va a cercare con la sua lucernina di meschino italiano le traccie dell’Italia nel libro. Perbacco! l’Italia non c’è, l’Italia dunque è negletta, è misconosciuta! «È veramente singolare il silenzio quasi assoluto per quanto si riferisce all’Italia. Si direbbe che per lui (il Reynaud) l’Italia non esista né sia mai esistita: eppure se la deve esser trovata innanzi agli occhi ogni momento». Il Reynaud ricorda che il 600 nella civiltà europea è francese. E il Rizzi: «Ci voleva proprio uno sforzo eroico a notare, almeno di passaggio, di quanto la Francia del 600 sia debitrice all’Italia del 500? Ma l’Italia non esiste per i nostri buoni fratelli d’oltralpe». Che malinconia!
Il Reynaud scrive: «les anglais, puis les allemands, nous communiquent leur superstition de l’antique». E il Rizzi: «Oh guarda donde viene alla Francia l’/adorazione /degli antichi! Dall’Inghilterra e dalla Germania! E il Rinascimento italiano con la sua maravigliosa potenza di diffusione in Europa e, sì proprio, anche in Francia? Cancellato dalla storia... ». Altri esempi sono altrettanto divertenti. «stentata o inconscia indifferenza o ignoranza nei riguardi dell’Italia» che, secondo il Rizzi, non aggiunge valore all’opera ma anzi «per certi rispetti la attenua grandemente e sminuisce». Conclusione: «ma noi che siamo i figli primogeniti o, meglio (secondo il pensiero del Balbo) unigeniti di Roma, noi siamo dei signori di razza e non facciamo le piccole vendette ecc. ecc.» e quindi riconosce che l’opera del Reynaud è ordinata, acuta, dotta, lucidissima ecc. ecc.
Ridere o piangere. Ricordo questo episodio: parlando di un Tizio, un articolista ricordava che un antenato dell’eroe era ricordato da Dante nella Divina Commedia, «questo libro d’oro della nobiltà italiana». Era ricordato infatti, ma in una bolgia dell’Inferno: non importa per l’italiano meschino, che non si accorge, per la sua mania di grandezza da nobiluomo decaduto che il Reynaud, non parlando dell’Italia nel suo libro, le ha voluto fare il più grande omaggio, dal suo punto di vista. Ma al Rizzi importa che il Manzoni sia stato solo ricordato in una rella a piè di pagina!
Q1 §15 Delle università italiane. Perché non esercitano nel paese quell’influsso di regolatrici della vita culturale che esercitano in altri paesi?
Uno dei motivi deve ricercarsi in ciò che nelle università il contatto tra insegnanti e studenti non è organizzato. Il professore insegna dalla cattedra alla massa degli ascoltatori, cioè svolge la sua lezione, e se ne va. Solo nel periodo della laurea avviene che lo studente si avvicini al professore, gli chieda un tema e consigli specifici sul metodo della ricerca scientifica. Per la massa degli studenti i corsi non sono altro che una serie di conferenze, ascoltate con maggiore o minore attenzione, tutte o solo una parte: lo studente si affida alle dispense, all’opera che il docente stesso ha scritto sull’argomento o alla bibliografia che ha indicato.
Un maggiore contatto esiste tra i singoli insegnanti e singoli studenti che vogliono specializzarsi su una determinata disciplina: questo contatto si forma, per lo più, casualmente ed ha una importanza enorme per la continuità accademica e per la fortuna delle varie discipline. Si forma, per esempio, per cause religiose, politiche, di amicizia famigliare.
Uno studente diventa assiduo di un professore, che lo incontra in biblioteca, lo invita a casa, gli consiglia libri da leggere e ricerche da tentare. Ogni insegnante tende a formare una sua «scuola», ha suoi determinati punti di vista (chiamati «teorie») su determinate parti della sua scienza, che vorrebbe veder sostenuti da «suoi seguaci o discepoli». Ogni professore vuole che dalla sua università, in concorrenza con le altre, escano giovani «distinti» che portino contributi «seri» alla sua scienza. Perciò nella stessa facoltà c’è concorrenza tra professori di materie affini per contendersi certi giovani che si siano già distinti con una recensione o un articoletto o in discussioni scolastiche (dove se ne fanno). Il professore allora guida veramente il suo allievo; gli indica un tema, lo consiglia nello svolgimento, gli facilita le ricerche, con le sue conversazioni assidue accelera la sua formazione scientifica, gli fa pubblicare i primi saggi nelle riviste specializzate, lo mette in rapporto con altri specialisti e lo accaparra definitivamente.
Questo costume, salvo casi sporadici di camorra, è benefico, perché integra la funzione delle università. Dovrebbe, da fatto personale, di iniziativa personale, diventare funzione organica: non so fino a che punto, ma mi pare che i seminari di tipo tedesco, rappresentino questa funzione o cerchino di svolgerla. Intorno a certi professori c’è ressa di procaccianti, che sperano raggiungere più facilmente una cattedra universitaria. Molti giovani invece, che vengono dai licei di provincia specialmente, sono spaesati e nell’ambiente sociale universitario e nell’ambiente di studio. I primi sei mesi del corso servono per orientarsi sul carattere specifico degli studi universitari e la timidezza nei rapporti personali è immancabile tra docente e discepolo. Nei seminari ciò non si verificherebbe o almeno non nella stessa misura.
In ogni modo, questa struttura generale della vita universitaria non crea, già all’università, alcuna gerarchia intellettuale permanente tra professori e massa di studenti; dopo l’università anche quei pochi legami si sciolgono e nel paese manca ogni struttura culturale che si impernii sull’università. Ciò ha costituito uno degli elementi della fortuna della diade Croce‑Gentile, prima della guerra, nel costituire un gran centro di vita intellettuale nazionale; tra l’altro essi lottavano anche contro l’insufficienza della vita universitaria e la mediocrità scientifica e pedagogica (talvolta anche morale) degli insegnanti ufficiali.
Q1 §16 Ignobile pigiama. Bruno Barilli in un articolo della «Nuova Antologia» (16 giugno 1929) chiama l’uniforme del bagno penale «quella specie di ignobile /pijama/». Ma forse già molti modi di vedere e di pensare a proposito delle cose carcerarie sono andati mutando. Quando ero nel carcere di Milano ho letto nella «Domenica del Corriere» una «Cartolina del pubblico» che press’a poco diceva: «In treno due si incontrano e uno dice che è stato 20 anni in carcere. – “Certo per ragioni politiche” dice l’altro». Ma la punta epigrammatica non è in questa risposta, come potrebbe apparire nel riferimento. Dalla «cartolina» appare che l’essere stato in carcere non desta più repulsione, perché si può esservi stati per ragioni politiche. E le «cartoline del pubblico» sono uno dei documenti più tipici del senso comune popolare italiano. E Barilli è perfino al di sotto (di) questo senso comune: filisteo per i filistei classici della «Domenica del Corriere».
Q1 §17 Riccardo Balsamo-Crivelli. A proposito di «Cartoline del Pubblico» della «Domenica del Corriere» è da notare questo inciso del signor Domenico Claps («L’Italia che scrive», giugno 1929) in un articolo su Riccardo Balsamo‑Crivelli (che nel titolo e nel sommario è confuso con Gustavo!): «chi gliel’avrebbe detto che questo libro (Cammina... cammina...) si sarebbe adottato come testo di lingua all’Università di Francoforte?», Ahilui! una volta che prima della guerra all’Università di Strasburgo adoperavano come testo di lingua le «Cartoline del Pubblico»! Naturalmente per Università bisogna intendere solo il seminario di filologia romanza, chi sceglie non è il professore ma solo il lettore d’italiano che può essere un semplice studente universitario italiano e per «testo di lingua» bisogna intendere il testo che dia agli studenti tedeschi un modello della lingua parlata dalla media degli italiani e non della lingua letteraria o artistica. La scelta delle «Cartoline del Pubblico» è pertanto molto assennata e il signor Domenico Claps è anch’egli un «italiano meschino» al quale il Balsamo‑Crivelli dovrebbe mandare i padrini.
Q1 §18 L’errore di Maurras. sul partito monarchico francese. Il partito monarchico in regime repubblicano, come il partito repubblicano in regime monarchico e il partito nazionalista in regime di soggezione nazionale, non può non essere un partito sui generis: deve essere, cioè, se vuole ottenere un successo relativamente rapido, la centrale di una federazione di partiti, più che un partito caratterizzato in tutti i punti particolari del suo programma di governo. Il partito di un sistema generale di governo e non di un governo particolare. (Un posto a parte in questa stessa serie, però, spetta ai partiti confessionali, come il Centro tedesco e i diversi partiti popolari ‑ cristiano‑sociali). Ogni partito si fonda su una classe e il partito monarchico si fonda in Francia su i residui della vecchia nobiltà terriera e su una piccola parte di intellettuali.
Su che sperano i monarchici per diventare capaci di prendere il potere e restaurare la monarchia? Sperano sul collasso del regime parlamentare‑borghese e sulla incapacità di qualsiasi altra forza organizzata esistente ad essere il nucleo politico di una dittatura militare prevedibile o da loro stessi preordinata. Le loro forze sociali di classe in nessun modo potrebbero altrimenti giungere al potere. In attesa, il centro dirigente svolge questa attività: 1) azione organizzatrice politico‑militare (militare nel senso di partito), per raggruppare nel modo più efficace possibile la angusta base sociale su cui storicamente s’appoggia il movimento. Essendo questa base costituita di elementi in generale più scelti per intelligenza, cultura ricchezza, pratica di amministrazione ecc. che in qualsiasi altro, è possibile avere un partito‑movimento notevole, imponente persino, ma che si esaurisce in se stesso, che non ha cioè, riserve da buttare nella lotta in una crisi risolutiva. È notevole dunque solo nei periodi normali, quando gli elementi attivi si contano solo a decine di migliaia, ma diventerà insignificante (numericamente) nei momenti di crisi, quando gli attivi si potranno contare a centinaia di migliaia e forse a milioni (Continua).
Q1 §19 Notizie sui rapporti tra ebrei e cristiani nel Risorgimento. Nel 1921 l’editore Bocca ha raccolto in tre volumi, con prefazione di un D. Parodi, una serie di Confessioni e professioni di fede di Letterati, Filosofi, Uomini politici, ecc., apparse precedentemente nel «Coenobium» di Bignami, come risposta a un quistionario sul sentimento religioso e i suoi diversi rapporti. La raccolta può essere interessante per chi voglia studiare le correnti di opinione verso la fine del secolo scorso e il principio dell’attuale, sebbene difettosa per molti aspetti. Raffaele Ottolenghi, invece di attenersi al quistionario, fa, secondo il suo carattere, una scorribanda lirico‑sentimentale nei suoi ricordi di «ebreo» piemontese. Estraggo dal suo scritto qualche notizia sulla situazione degli ebrei nel periodo del Risorgimento.
Un ebreo, veterano di Napoleone, ritornò al suo paese con una donna francese: il vescovo, saputo che la donna era cristiana, contro la sua volontà, la fece portar via dai gendarmi. Il vescovo si impadroniva dei fanciulli ebrei che avessero minacciato di farsi cristiani durante qualche lite coi genitori. (Il Brofferio registrò questi fatti nella sua storia).
Dopo il 15 gli ebrei cacciati dalle Università e quindi dalle professioni liberali.
Nel 1799 durante l’invasione austro‑russa, pogrom di ebrei; ad Acqui solo l’intervento del vescovo riesce a salvare il bisavolo dell’Ottolenghi dai fucili della folla. Ricorda un pogrom a Siena, dove ebrei furono mandati al rogo e il vescovo rifiutò di intervenire.
Nel 1848 il padre dell’Ottolenghi tornò ad Acqui da Torino, vestito da Guardia Nazionale; irritazione dei reazionari; fu sparsa la voce del sacrifizio rituale di un bambino da parte dell’Ottolenghi padre; campane a stormo; venuta dei villani dalla campagna per saccheggiare il Ghetto. Il vescovo si rifiutò di intervenire; l’Ottolenghi fu salvato dal sindaco, con un arresto simulato fino all’arrivo delle truppe. I reazionari e i clericali volevano fare apparire le innovazioni liberali del 48 come una «invenzione» degli ebrei. (La storia del fanciullo Mortara).
Q1 §20 Salvator Gotta. Oremus sugli altari e flatulenze in sacrestia.
Q1 §21 Nel 1° volume delle Confessioni e professioni di fede già citate sono contenute le risposte dei seguenti letterati ecc. italiani: Angiolo Silvio Novaro, prof. Alfredo Poggi, prof. Enrico Catellani, Raffaele Ottolenghi, prof. Bernardino Varisco, Augusto Agabiti, prof. A. Renda, Vittore Marchi, direttore del giornale «Dio e Popolo», Ugo Janni, pastore valdese, A. Paolo Nunzio, Pietro Ridolfi Bolognesi, Nicola Toscano Stanziale, direttore della «Rassegna Critica», Dott. Giuseppe Gasco, Luigi Di Mattia, Ugo Perucci, maestro elementare, prof. Casimiro Tosini, direttore di Scuola Normale, Adolfo Artioli, prof. Giuseppe Morando, direttore della «Rivista Rosminiana», preside del Liceo Ginnasio di Voghera, prof. Alberto Friscia, Vittorio Nardi, Luigi Marrocco, pubblicista, G. B. Penne, Guido Piccardi, Renato Bruni, prof. Giuseppe Rensi.
Q1 §22 Nel 2° volume delle Confessioni e professioni di fede sono contenute le risposte dei seguenti italiani: Del Greco Francesco, prof., direttore di Manicomio, Alessandro Bonucci, prof. Università, Francesco Cosentini, prof. Università, Luigi Pera, medico, Filippo Abignente, direttore del «Carattere», Giampiero Turati, Bruno Franchi, redattore‑capo della «Scuola Positiva di Diritto Criminale», Manfredi Siotto‑Pintor, prof. Università, Enrico Caporali, prof., Giovanni Lanzalone, direttore della rivista «Arte e Morale», Leonardo Gatto Roissard, tenente degli Alpini, Pietro Raveggi, pubblicista, Widar Cesarini‑Sforza, Leopoldo De Angelis, prof. Giovanni Predieri, Orazio Bacci, Giuseppe Benetti, pubblicista, prof. G. Capra‑Cordova, Costanza Palazzo, Pietro Romano, Giulio Carvaglio, Leone Luzzatto, Adolfo Faggi, prof. Università, Ercole Quadrelli, Carlo‑Francesco Gabba, senatore, prof. Università, Dott. Ernesto Lattes, pubblicista, Settimio Corti, prof. di filosofia, B. Villanova D’Ardenghi, pubblicista (Bruno Brunelli), Paolo Calvino, pastore evangelico, Giuseppe Lipparini, prof., Prof. Oreste Ferrini, Luigi Rossi Casè, prof., Prof. Antioco Zucca, Vittoria Fabrizi de’ Biani, Guido Falorsi, prof., Prof. Benedetto De Luca, pubblicista, Giacomo Levi Minzi (bibliofilo marciano), prof. Alessandro Arrò, Bice Sacchi, prof. Ferdinando Belloni‑Filippi, Nella Doria Cambon, prof. Romeo Manzoni.
Q1 §23 Nel volume 3° delle Confessioni e professioni di fede: Romolo Murri, Giovanni Vidari, prof. Università, Luigi Ambrosi, prof. Università, Salvatore Farina, Angelo Flavio Guidi, pubblicista, Conte Alessandro D’Aquino, Baldassarre Labanca, prof. di Storia del Cristianesimo all’Università, Giannino Antona‑Traversi, autore drammatico, Mario Pilo, prof., Alessandro Sacchi, prof. Università, Angelo De Gubernatis, Giuseppe Sergi, prof. Università, Adolfo Zerboglio, prof. Università, Vittorio Benini, prof., Paolo Arcari, Andrea Lo Forte Randi, Arnaldo Cervesato, Giuseppe Cimbali, prof. Università, Alfredo Melani, architetto, Giovanni Preziosi, Silvio Adrasto Barbi, prof., Massimo Bontempelli, Achille Monti, prof. Università, Velleda Benetti, studentessa, Achille Loria, Francesco Pietropaolo, prof., Amilcare Lauria, prof., Eugenio Bermani, scrittore, Ugo Fortini Del Giglio, Luigi Puccio, avv., Maria Nono Villari, scrittrice, Gian Pietro Lucini, Angelo Valdarnini, prof. Università, Teresina Bontempi, ispettrice degli asili d’infanzia nel Canton Ticino, Luigi Antonio Villari, Guido Podrecca, Alfredo Panzini, Amedeo Massari, avv., Giuseppe Barone, prof., Giulio Caprin, Gabriele Morelli, avv., Riccardo Gradassi‑Luzi, Torquato Zucchelli, tenente colonnello onorario (sic), Ricciotto Canudo, Felice Momigliano, prof., Attilio Begey, Antonino Anile, prof. Università, Enrico Morselli, prof. Università, Francesco Di Gennaro, Ezio Maria Gray, Roberto Ardigò, Arturo Graf, Pio Viazzi. Innocenzo Cappa, duca Colonna di Cesarò, P. Villari, Antonio Cippico, Alessandro Groppali, prof. Università, Angelo Marzorati, Italo Pizzi, Angelo Crespi, E. A. Marescotti, F. Belloni‑Filippi, prof. Università, Francesco Porro, astronomo, Fortunato Rizzi, prof.
Q1 §24 I nipotini del padre Bresciani. Esame di una parte cospicua della letteratura narrativa italiana, specialmente di questo ultimo decennio. La preistoria del Brescianesimo moderno: 1°) Antonio Beltramelli, con Gli Uomini Rossi, Il Cavalier Mostardo ecc.; 2°) Polifilo (Luca Beltrami), con le diverse storie su /Casale Olona/; 3°) la letteratura abbastanza vasta, più tecnicamente di «sagrestia», in generale poco conosciuta e studiata, nella quale il carattere propagandistico è apertamente confessato.
A mezza strada tra la letteratura di sagrestia e il Brescianesimo laico sono i romanzi di Giuseppe Molteni, dei quali conosco solo l’/Ateo/. L’aberrazione morale di questo libro è tipica: in esso si riflette lo scandalo Don Riva ‑ suor Fumagalli. L’autore giunge fino ad affermare che appunto data la sua qualità di prete, legato al voto di castità, bisogna compatire Don Riva (che ha violentato e contagiato una trentina di bambine) e crede che a questo massacro possa essere contrapposto, come moralmente equivalente, il volgare adulterio di un socialista ateo. Il Molteni è un uomo molto noto nel mondo clericale: è stato critico letterario e articolista di tutta una serie di quotidiani e di periodici cattolici.
Il Brescianesimo laico assume una certa importanza nel dopoguerra e va sempre più diventando la «scuola» letteraria preminente e ufficiale.
Ugo Ojetti, /Mio figlio ferroviere/. Caratteristiche generali della letteratura di Ojetti. Suoi diversi atteggiamenti ideologici. Scritti su Ojetti di Giovanni Ansaldo nelle riviste dove l’Ansaldo collaborava. Ma la manifestazione più tipica di Ugo Ojetti è la sua lettera aperta al padre Rosa, pubblicata nel «Pègaso» e riprodotta nella «Civiltà Cattolica» col commento del padre Rosa. L’Ojetti dopo l’annunzio della avvenuta conciliazione tra Stato e Chiesa non solo era persuaso che ormai tutte le manifestazioni intellettuali italiane sarebbero state controllate secondo uno stretto conformismo cattolico e clericale, ma si era già adattato a questa idea, e si rivolgeva al padre Rosa con uno stile untuosamente adulatorio delle benemerenze culturali della Compagnia di Gesù per impetrare una «giusta» libertà artistica. Non si può dire, alla luce degli avvenimenti posteriori (discorsi del capo del governo) se sia più abbietta la prostrazione dell’Ojetti o più comica la sicura baldanza del padre Rosa, che in ogni caso dava una lezione di carattere all’Ojetti, al modo dei gesuiti, già si intende. Il caso Ojetti è stato tipico da più punti di vista: ma la codardia intellettuale dell’uomo eccelle su tutto.
Alfredo Panzini – già nella preistoria con qualche brano della /Lanterna di Diogene/ (l’episodio del livido acciaro per esempio)–, /Il padrone sono me/, /Il mondo è rotondo/ e quasi tutti i libri dell’ultimo decennio. Sul recente /I giorni dei sole e del grano/ vedi giudizio di F. Palazzi già annotato. Nella /Vita di Cavour/ un accenno al padre Bresciani veramente strabiliante. Tutta la letteratura pseudo‑storica del Panzini è da riesaminare dal punto di vista del Brescianesimo laico. Episodio Croce‑Panzini, riferito recentemente nella «Critica», è un caso di gesuitismo personale, oltre che letterario.
Salvator Gotta nel suo /«Ciclo dei Vela»/ deve ricadere specificamente nel Brescianesimo, oltre che genericamente in tutta la sua produzione.
Margherita Sarfatti e il /Palazzone/. Cfr nota precedente sulle sue «giostre». Su questo punto ci sarebbe da spassarsi assai: ricordare l’episodio leggendario di Dante e la prostituta di Rimini (?) riportato nella raccolta Papini (Carabba) di leggende e aneddoti su Dante; per dire che di «giostre» può parlar l’uomo, non la donna; ricordare l’espressione di Chesterton nella Nuova Gerusalemme sulla chiave e la serratura a proposito della lotta dei sessi: per dire che il «punto di vista» della chiave non può essere quello della serratura. Ricordare che G. Bellonci, il «fine» intenditore di cose artistiche e che civetta volentieri con l’erudizione preziosa (a buon mercato) per fare spicco tra il giornalistume, trova naturale che la vergine Fiorella pensi alle giostre.
Mario Sobrero, Pietro e Paolo, può rientrare nel quadro generale per il chiaroscuro.
Francesco Perri, /Gli emigranti/. Questo Perri non è poi il Paolo Albatrelli dei Conquistatori? Tener conto in ogni modo anche dei / Conquistatori/. /Gli Emigranti/: la caratteristica più appariscente è la rozzezza, ma una rozzezza non da principiante ingenuo, che in tal caso potrebbe essere il grezzo non elaborato che però lo può diventare, ma una rozzezza opaca, materiale, non da primitivo ma da decadente. Romanzo verista (vedi articolo del Perri nella «Fiera Letteraria»); ma può esistere «verismo» non storicista? Il verismo stesso è una continuazione del vecchio romanzo storico nell’ambiente dello storicismo moderno (del secolo XIX). Negli /Emigranti /non c’è accenno alcuno cronologico. È questa una cosa casuale? Non pare. Due riferimenti generici: il fenomeno dell’emigrazione meridionale che ha avuto un decorso storico e un tentativo di invasione delle terre signorili usurpate che anch’esso può essere fatto rientrare in un’epoca determinata.
Storicamente il fenomeno emigratorio ha creato un’ideologia (il mito dell’America), come ad una ideologia è legato il fenomeno dei tentativi sporadici ma endemici di invasioni di terre prima della guerra (tutt’altro è il movimento del ’19‑’20, che è generalizzato, e che ha una organizzazione implicita nel combattentismo meridionale). Negli Emigranti l’uno e l’altro fenomeno si riflettono in modo rozzo, brutale, senza preparazione né generica né specifica, in modo meccanico. È evidente che il Perri conosce l’ambiente popolare contadino: calabrese non immediatamente, per esperienza sentimentale e psicologica diretta, ma per il tramite dei vecchi clichés regionalistici (se egli è l’Albatrelli occorre tener conto delle sue origini politiche). Il fatto dell’occupazione delle terre a Pandure nasce da intellettuali, su una base giuridica, e si termina nel nulla, come se non avesse sfiorato neppure le abitudini di un villaggio patriarcale. Puro meccanismo. Così l’emigrazione. Questo villaggio di Pandure, con la famiglia di Rocco Blefasi, è (per dirla con una frase di Leonida Rèpaci)) un parafulmine di tutti i guai.
Insistenza su errori di parole, è tipica nel brescianismo. Le «macchiette» (il Galeoto, ecc.) pietose. La mancanza di storicità è «ricercata» per poter mettere in un sacco alla rinfusa tutti i motivi folkloristici generici, che in realtà sono molto ben distinti nel tempo, oltre che nello spazio.
Leonida Rèpaci), L’ultimo Cireneo. Si può vedere come la ficelle è stata intrecciata.
Umberto Fracchia. Non ho letto nulla: mi pare che in ci sono elementi che rientrano in questo quadro. Nella intelaiatura generale occupano il primo piano Ojetti‑Beltramelli‑Panzini. Il carattere gesuitesco è in essi più appariscente e più importante è il posto che essi occupano nella valutazione più corrente (oltre che per un certo riconoscimento ufficiale: Beltramelli e Panzini nell’Accademia). Vedere libri di divulgazione critica (tipico deve essere il recente libro di Camillo Pellizzi). (Continua).
Q1 §25 Achille Loria. A proposito di Achille Loria bisogna ricordare i principali documenti in cui si trovano le principali «stranezze»:
1° Sull’influenza sociale dell’aeroplano, nella «Rassegna Contemporanea» diretta dal Colonna di Cesarò e da (Vincenzo) Picardi del 1912: in questo articolo si incontra la teoria sull’emancipazione operaia dalla coercizione della fabbrica per mezzo degli svolazzamenti sugli aeroplani unti di vischio. Tutto l’articolo è un monumento mostruoso di insulsaggini e stoltezze: la caduta del credito fiduciario, lo sfrenarsi delle birbonate sessuali (adulteri, seduzioni), l’ammazzamento sistematico dei portinai per le cadute dei cannocchiali, la teoria del grado di moralità secondo l’altezza al livello del mare, con la proposta pratica di rigenerare i delinquenti costruendo le prigioni sui monti o addirittura su immensi aeroplani che stiano sempre ad alta quota ecc.
2° La conferenza tenuta a Torino durante la guerra e pubblicata nella Nuova Antologia (del 1916 o 1917) dove l’unico «documento concreto» sul Dolore universale (deve essere anche questo il titolo della conferenza) riportato era la nota di ciò che costa la «claque» agli attori di teatro (da una statistica fissata dal Reina) e dove si trova questo ragionamento: «la natura provvida ha creato l’antidoto contro questo avvelenamento universale del dolore, dando ai poverelli che sono costretti a pernottare all’aria aperta una pelle più spessa».
3° L’articolo pubblicato nel «Palvese» di Trieste verso il 1910 o 1911 riguardante la scienza del linguaggio e intitolato press’a poco: Perché i bergamaschi triplicano e i veneziani scempiano. Questo articolo era stato inviato dal Loria al Comitato organizzato a Trieste per le onoranze ad Attilio Hortis in occasione del cinquantenario della sua attività letteraria e che doveva mettere insieme una Miscellanea in onore del festeggiato (uscita infatti in quel torno di tempo). Il Comitato non poteva pubblicare l’articolo per la sua insulsaggine, ma non voleva neppure mancare di riguardi al Loria che era un esponente illustre della scienza italiana: se la cavò, scrivendo al Loria che la Miscellanea era ormai completa e che il suo articolo era stato passato al (settimanale) letterario il «Palvese». L’articolo espone un aspetto (quello linguistico) della teoria loriana sull’influenza dell’altimetria sulla civiltà: i montanari, moralmente più puri, sono fisicamente più robusti e «triplicano» le consonanti, la gente di pianura (guai poi se sta al livello del mare come i veneziani) invece, oltre che moralmente depravata, è anche fisicamente degenerata e «scempia» le consonanti.
4° La prefazione alla 1ª edizione del Corso di Economia Politica importante anche perché vi si trova la istoria del suo «ritrovamento» del materialismo storico: vi si espone la teoria della connessione tra «misticismo» e «sifilide».
5° Lo scritto nella Riforma Sociale del Settembre‑Ottobre 1929: Documenti ulteriori a suffragio dell’economismo storico. Questi cinque documenti sono i più vistosi che io ricordo, ma la quistione è interessante appunto perché nel Loria non si tratta di qualche caso di obnubilamento dell’intelligenza occasionale, sia pure con ricadute. Si tratta di un filone, di una continuità sistematica, che accompagna tutta la sua carriera letteraria. Non si può neanche negare che il Loria sia uomo d’un certo ingegno e che abbia del giudizio. In tutta una serie di articoli le «stranezze» appaiono qua e là, e anche di un certo tipo, legate cioè a determinati modi di pensiero. Per esempio si è vista la «teoria» altimetrica apparire nella quistione dell’aeroplano e in quella «linguistica». Così in un articoletto pubblicato nella «Proda» (o «Prora», usciva a Torino durante la guerra, diretto da un certo Cipri‑Romanò, un giornalettucolo un po’ losco, certamente di bassissima speculazione ai margini della guerra e dell’antidisfattismo) si dividevano i protagonisti della guerra in mistici (gl’imperi centrali) e positivisti (Clemenceau e Lloyd George): ricchi di elementi sono la poesia Al mio bastone pubblicata nella Nuova Antologia (durante la guerra) e l’articolo sull’epistolario di Marx (pure nella «Nuova Antologia»).
La «leziosità letteraria» notata dal Croce in Loria è un elemento secondario del suo squilibrio, ma che ha una certa importanza in quanto si manifesta continuamente. Un altro elemento è la pretesa all’«originalità» intellettuale a tutti i costi. Un certo opportunismo di bassa estrazione non manca spesso: ricordo due articoli pubblicati a distanza breve, uno nella «Gazzetta del Popolo» (ultra reazionaria), l’altro nel «Tempo» di Pippo Naldi (nittiano), sullo stesso argomento (la Russia) e con un’immagine del Macaulay che nell’uno era usata in un senso e nell’altro nel senso opposto.
A proposito dell’osservazione di Croce sui «servi a spasso» e sulla loro importanza nella sociologia loriana, ricordare un capocronaca della «Gazzetta del Popolo» del ’19 o ’20 in cui si parla degli intellettuali come di quelli che tengono dritta la «scala d’oro» sulla quale sale il popolo, con avvertimenti al popolo di tenersi buoni questi intellettuali ecc.
Loria non è un caso teratologico individuale: è l’esemplare più compiuto e finito di una serie di rappresentanti di un certo strato intellettuale di un certo periodo; in generale degli intellettuali positivisti che si occupano della quistione operaia e che più o meno credono di approfondire, o correggere, o superare il Marxismo. Enrico Ferri – Arturo Labriola – lo stesso Turati potrebbero dare una messe di osservazioni e di aneddoti.
In Luzzatti, in un altro campo sarebbe da mietere.
Ma non bisogna dimenticare Guglielmo Ferrero e Corrado Barbagallo. Nel Barbagallo forse la manifestazione è più occasionale che negli altri: pure il suo scritto sul capitalismo antico pubblicato nella «Nuova Rivista Storica» del 1929 è estremamente sintomatico (con la postilla un po’ comica che segue al successivo articolo del Sanna). In generale dunque il Lorismo è un carattere di certa produzione letteraria e scientifica del nostro paese (molti documenti di esso si trovano nella «Critica» di Croce, nella «Voce» di Prezzolini, nell’«Unità» di Salvemini) connesso alla scarsa organizzazione della cultura e quindi alla mancanza di controllo e di critica.
Q1 §26 L’ossicino di Cuvier. Osservazione legata alla nota precedente. Il caso Lumbroso. Da un ossicino di topo si ricostruiva talvolta un serpente di mare.
Q1 §27 Postumi del basso romanticismo? La tendenza della sociologia di sinistra in Italia a occuparsi della criminalità. Legata al fatto che a tale corrente avevano aderito Lombroso e altri che parevano allora la suprema espressione della scienza? O un postumo del basso romanticismo del 48 (Sue ecc.)? O legato al fatto che in Italia impressionava questi uomini la grande quantità di reati di sangue ed essi credevano di non poter procedere oltre senza aver spiegato «scientificamente» questo fenomeno?
Q1 §28 Diritto naturale. Vedi le due noticine precedenti a p. 2 e a p. 3 bis. Nella polemica presente contro il diritto naturale non bisogna cercare una intenzione scientifica qualunque. Si tratta di esercitazioni giornalistiche non molto brillanti, che si propongono lo scopo propagandistico di distruggere certi stati d’animo molto diffusi e che sono ritenuti pericolosi.
A questo proposito vedere l’opuscolo del Tilgher su «Storia e Antistoria», dal quale apparirebbe che mai come oggi la mentalità illuministica da cui è nata la teoria del diritto naturale è diffusa. L’opuscolo del Tilgher, a suo modo, è una riprova di tale diffusione, perché il Tilgher cerca con esso di farsi un posticino al nuovo sole. Mi pare che chi studi con una certa profondità (se si astrae dal linguaggio sforzato) le contraddizioni psicologiche che nascono sul terreno dello storicismo, come concezione generale della vita e dell’azione, sia Filippo Burzio. Per lo meno la sua affermazione: «essere sopra alle passioni e ai sentimenti pur provandoli» mi pare ricca di molte conseguenze. Infatti questo è il nodo della quistione dello «storicismo» che il Tilgher non sfiora neppure: «come si possa essere critici e uomini d’azione nello stesso tempo, in modo non solo che l’uno aspetto non indebolisca l’altro, ma anzi lo convalidi». Il Tilgher scinde molto meccanicamente i due aspetti di ogni personalità umana (dato che non esiste e non è mai esistito un uomo tutto critico e uno tutto passionale) invece di cercare di determinare come in diversi periodi storici i due aspetti si combinino in modo che nel mondo della cultura prevalga una corrente o l’altra. (L’opuscolo del Tilgher lo dovrò ancora rivedere).
Q1 §29 Il sarcasmo come espressione di transizione negli storicisti. In un articolo di Bonaventura Tecchi Il Demiurgo diBurzio («Italia letteraria», 20 ottobre 1929) da cui è preso lo spunto succitato delBurzio, si accenna spesso all’elemento «ironia» come caratteristico di questa posizione. «Ironia» è giusto per la letteratura, per indicare il distacco dell’artista dal contenuto sentimentale della sua creazione: ma nel caso dell’azione storica, l’elemento «ironia» sarebbe appunto troppo letterario (basterebbe dire semplicemente «letterario») e indicherebbe una forma di distacco connessa piuttosto allo scetticismo più o meno dilettantesco (dovuto a disillusione, a stanchezza o anche a «superominismo»). Invece in questo caso (cioè dell’azione storica) l’elemento caratteristico è il «sarcasmo» e in una sua certa forma, cioè «appassionato». In Marx troviamo l’espressione più alta anche esteticamente, del «sarcasmo appassionato». Da distinguere da altre forme, in cui il contenuto è opposto a quello di Marx. Di fronte alle «illusioni» popolari (credenza nella giustizia, nell’uguaglianza, nella fraternità, cioè negli elementi della «religione dell’umanità») Marx si esprime con «sarcasmo» appassionatamente «positivo», cioè si capisce che egli non vuol dileggiare il sentimento più intimo di quelle «illusioni» ma la loro forma contingente legata a un determinato mondo «perituro», il loro puzzo di cadavere, per così dire, che trapela dal belletto. C’è invece il sarcasmo di «destra», che raramente è appassionato, ma è sempre «negativo», puramente distruttivo, non solo della «forma» contingente, ma del contenuto «umano» di quei sentimenti. (A proposito di questo «umano» vedi in Marx stesso quale significato occorre dargli, specialmente la Sacra Famiglia). Marx cerca di dare a certe aspirazioni una forma nuova (quindi cerca di rinnovare anche queste aspirazioni) non di distruggerle: il sarcasmo di destra cerca di distruggere invece proprio il contenuto di queste aspirazioni, e in fondo l’attacco alla loro forma non è che un espediente «didattico».
Questa nota sul «sarcasmo» dovrebbe poi analizzare alcune manifestazioni di esso: c’è stata una manifestazione «meccanica», pappagallesca (o che è diventata tale per l’«abuso») che ha dato luogo anche a una specie di cifra o gergo e che potrebbe dar luogo a osservazioni piccanti (per es. quando le parole «civiltà» o «civile» sono sempre accompagnate dall’aggettivo «sedicente» può nascere il dubbio che si creda nell’esistenza di una «civiltà» astratta, esemplare, o almeno ci si comporta come se si credesse, cioè si ottiene proprio il risultato opposto a quello che probabilmente si voleva ottenere); e c’è da analizzare la sua significazione in Marx, di una espressione transitoria, che cerca di porre il distacco dalle vecchie concezioni in attesa che le nuove concezioni, con la loro saldezza acquistata attraverso lo sviluppo storico, dominino fino ad acquistare la forza delle «convinzioni popolari». Queste nuove concezioni esistono già in chi adopera il «sarcasmo», ma nella fase ancora «polemica»; se fossero espresse «senza sarcasmo» sarebbero una «utopia» perché solo individuali o di piccoli gruppi. D’altronde lo stesso «storicismo» non può concepirle come esprimibili in questa forma apodittica o predicatoria; lo «storicismo» crea un «gusto» nuovo e un linguaggio nuovo. Il «sarcasmo» diventa il componente di tutte queste esigenze, che possono apparire come contradittorie. Ma il suo elemento essenziale è sempre la «passionalità».
Da questo punto di vista occorre esaminare le ultime affermazioni del Croce nella sua prefazione del 1917 al Materialismo Storico a proposito della «maga Alcina».
Ricordare l’articolo di L. Einaudi nella «Riforma Sociale», su questa prefazione del Croce, per discutere l’importanza culturale del Marx nella rinascita della storiografia economica.
Q1 §30 Orano e Loria. Nella precedente nota su Loria ho dimenticato di ricordare le «stranezze» di Paolo Orano. Ne ricordo ora due: l’articolo «Ad metalla» nel volume Altorilievi (ed. Puccini, Milano), tipicamente «loriano», e il suo volumetto sulla Sardegna (credo sia uno dei primi libri dell’Orano) dove parla del «liquido ambiente». Nei medaglioni ci deve essere, se ben ricordo, da spulciare parecchio e così in tutte le altre pubblicazioni.
Q1 §31 Lettere del Sorel al Croce. Nelle lettere del Sorel al Croce si può spigolare più di un elemento sul «lorismo» o «lorianismo». Per esempio, il fatto che nella tesi di laurea di Arturo Labriola si scrive come se si credesse che il Capitale di Marx è stato elaborato sull’esperienza economica francese e non su quella inglese.
Q1 §32 Loria e Lumbroso. Alberto Lumbroso è da collocare nella serie loriana ma da un altro punto di vista e in un altro campo. Si potrebbe fare una introduzione generale che servirebbe appunto a dimostrare come Loria non sia una eccezione unica, ma si tratti in gran parte di un fatto generale di cultura, che poi si è «tumefatto» nel campo della «sociologia». In questa parte appunto possono dare elementi la «Critica», la «Voce» e l’«Unità». (Ricordare per esempio «la casa dei parti» di Tomaso Sillani, la «gomma di Vallombrosa» di Filippo Carli, del quale è anche notevole l’articolo della «Perseveranza» sul prossimo ritorno trionfale della navigazione a vela; la letteratura economica dei protezionisti vecchia covata è piena di molte preziosità del genere, di cui un ricordo può rintracciarsi negli scritti del Belluzzo sulle possibili ricchezze nascoste nelle montagne italiane). Tutti questi elementi piuttosto generici del «lorianismo» potrebbero servire per «agrémenter» l’esposizione. Così si potrebbe ricordare come limite «assurdo», perché sconfina nel caso clinico (tecnicamente clinico), la candidatura del Lenzi al IV collegio di Torino, con l’«aereo cigno» e con la proposta di radere le montagne italiane, ingombranti, per trasportarne il materiale in Libia e fertilizzare così il deserto di sabbia.
Il caso del Lumbroso è molto interessante, perché suo padre era un erudito di gran marca (Giacomo Lumbroso: ma la metodologia dell’erudizione non si trasmette per generazione e neppure per il contatto intellettuale anche il più assiduo, a quanto pare.
C’è da domandarsi, nel caso Lumbroso, come i suoi due ponderosi volumi sulle Origini Diplomatiche e politiche della guerra abbiano potuto essere accolti nella Collezione Gatti. Qui la responsabilità del sistema è evidente. Così per Loria e la «Riforma Sociale» e per Luzzatti e il «Corriere della Sera» (a proposito di Luzzatti ricordare il caso del «fioretto» di S. Francesco pubblicato come inedito dal «Corriere della Sera» del 1913 — mi pare —, con un commento economico spassosissimo, proprio dal Luzzatti che aveva poco prima pubblicato un’edizione dei Fioretti nella Collezione Notari; il così detto «inedito» era una variante inviata al Luzzatti dal Sabatier. Del Luzzatti famose le frasi, tra le quali «Lo sa il tonno» in un articoletto del «Corriere» che poi ha dato lo spunto al libro del Bacchelli).
Q1 §33 Freud. La diffusione della psicologia freudiana pare che dia come risultato la nascita di una letteratura tipo 700; al «selvaggio», in una forma moderna, si sostituisce il tipo freudiano. La lotta contro l’ordine giuridico viene fatta attraverso l’analisi psicologica freudiana. Questo è un aspetto della quistione, a quanto pare. Non ho potuto studiare le teorie di Freud e non conosco l’altro tipo di letteratura così detta «freudiana» Proust‑Svevo‑Joyce.
Q1 §34 Il Pragmatismo americano. Si potrebbe dire del pragmatismo americano (James), ciò che Engels ha detto dell’agnosticismo inglese? (Mi pare nella prefazione inglese al Passaggio dall’Utopia alla Scienza).
Q1 §35 Riviste tipo. Teorica: «storiografia» specialmente. Molto unitaria, quindi pochi collaboratori «principali», cioè che scrivano il corpo principale di ogni fascicolo. Il tipo più corrente non può essere che quello medio, di una rivista legata all’attualità e i cui articoli siano di tipo divulgativo, espositivo. L’esperienza ha insegnato che anche in questo tipo occorre una certa omogeneità, o per lo meno una forte organizzazione interna redazionale che fissi molto chiaramente (e per iscritto) il terreno comune di lavoro.
Il primo tipo può essere dato dalla «Critica» di B. Croce + la «Politica» di Coppola.
Il secondo tipo dalla «Voce» di Prezzolini prima e seconda maniera + «Unità» di Salvemini.
Un terzo tipo molto interessante si può ricavare dai numeri meglio riusciti del «Leonardo» di L. Russo + «L’Italia che scrive» del Formiggini.
Un’organizzazione unitaria di cultura che organizzasse i tre tipi con una casa editrice di collezioni «librarie» connesse alle riviste, darebbe soddisfazione alle esigenze di quella massa di pubblico che è più attiva intellettualmente e che più importa far pensare e trasformare.
Q1 §36 Lorianismo. Ricordare il libro del prof. Alberto Magnaghi sui geografi spropositanti: questo libro è un modello del genere.
Non ricordo il titolo esatto né il nome dell’editore. Credo che non fosse stato Messo in commercio.
Ricordare il primo volume (ediz. Lumachi o Ferr. Gonnelli) sulla Cultura Italiana di Papini e Prezzolini.
Q1 §37 Turati e il lorianismo. Il discorso sulle «salariate dell’amore» mi pare da connettere al lorianismo. Di Turati si possono raccogliere alcuni tratti di «cattivo gusto» sul genere di «lecca, popol sovrano, lecca ma ascolta».
Q1 §38 Riviste tipo. Terzo tipo. Critico‑ storico‑bibliografico.
Esami analitici di libri, per lettori che non possono, in generale, leggere i libri stessi.
Uno studioso che esamina un fenomeno storico per costruire un lavoro sintetico, deve compiere tutta una serie di operazioni preliminari, che solo in piccola parte, in ultima analisi, risultano utilizzabili. Questo lavoro è utilizzabile invece per questo tipo di rivista, dedicata a un tipo determinato di lettore, al quale occorre, oltre all’opera sintetica, presentare l’attività analitica prelirninare nel suo complesso. Il lettore comune non ha e non può avere un abito «scientifico» che solo viene dato dal lavoro specializzato: occorre perciò aiutarlo con una attività letteraria opportuna. Non basta dargli dei «concetti» storici; la loro concretezza gli sfugge: occorre dargli serie intiere di fatti specifici, molto individualizzati. Un movimento storico complesso si scompone nel tempo e nello spazio da una parte e in piani diversi (problemi speciali) dall’altro, anch’essi scomponibili nel tempo e nello spazio. Un esempio: l’Azione Cattolica.
Essa ha avuto sempre una direttiva centrale e centralizzata, ma anche una grande varietà di atteggiamenti regionali nei diversi tempi. L’Azione Cattolica nata specificatamente dopo il ’48 era molto diversa da quella attuale riorganizzata da Pio XI. La posizione dell’A. C. subito dopo il ’48 può essere caratterizzata con la stessa osservazione che uno storico ha fatto a proposito di Luigi XVIII: Luigi XVIII non riusciva a persuadersi che nella Francia dopo il 1815 la monarchia dovesse avere un partito politico specifico per sostenersi. Tutti i ragionamenti fatti dagli storici cattolici per spiegare la nascita dell’A. C. e i tentativi per riallacciare questa nuova formazione a movimenti e attività precedenti, sono fallacissimi.
Dopo il ’48 in tutta Europa (in Italia la crisi finale assume la forma specifica di fallimento del neoguelfismo) è superata vittoriosamente per il liberalismo (inteso come concezione della vita oltre che come azione politica positiva) la lotta con la concezione «religiosa» della vita. Prima si formavano dei partiti contro la religione, più o meno effimeri; ora la religione «deve» avere un partito suo, non può più parlare (altro che ufficialmente, perché non confesserà mai questo stato di cose) come se sentisse ancora di essere la premessa necessaria, universale di ogni modo di pensare e di agire. Molti oggi non riescono più neanche a persuadersi che così potesse essere una volta.
Per dare un’idea di questo fatto si potrebbe dare questo modello: — oggi nessuno pensa sul serio a fondare un partito contro il suicidio (è possibile che esista in qualche parte qualche associazione contro il suicidio, ma è un’altra cosa), perché non esiste un partito che cerchi persuadere gli uomini che bisogna suicidarsi in massa (sebbene siano apparsi singoli individui e anche piccoli gruppi che hanno sostenuto forme simili di nichilismo radicale, pare in Ispagna); la «vita» è la premessa necessaria di ogni manifestazione di vita evidentemente.
La religione ha avuto una funzione simile e se ne trovano abbondanti tracce nel linguaggio e nei modi di pensare dei contadini: cristiano e uomo significa la stessa cosa («Non sono cristiano» «E allora cosa sei, un animale? »): i coatti dicono: «cristiani e coatti» (in principio ad Ustica mi maravigliavo perché all’arrivo del vaporetto qualche coatto diceva: «sono tutti cristiani, non ci sono che cristiani, non c’è neanche un cristiano»: in carcere invece si dice più comunemente «borghesi e detenuti» o scherzosamente «borghesi e soldati» sebbene i meridionali dicano anche «cristiani e detenuti»), sarebbe interessante studiare tutta la serie di passaggi semantici per cui nel francese da «cristiano» si è venuti a «crétin» (donde il «cretino» italiano) e addirittura a «grédin»; il fenomeno deve essere simile a quello per cui «villano» da «uomo di campagna» ha finito col significare «screanzato» e addirittura «mascalzone», cioè il nome «cristiano» usato dai contadini per indicare se stessi come «uomini» si è, nella forma più popolare, staccato da «cristiano» in senso religioso e ha avuto la stessa sorte di «manant». Forse anche il russo «krestianin», «contadino» ha la stessa origine mentre «cristiano» religioso, forma più colta, ha mantenuto l’aspirazione del χ greco.
Forse a questa concezione è legato anche il fatto (bisogna poi vedere se è vero) che molti contadini russi, che non conoscevano personalmente gli ebrei, credevano che gli ebrei avessero la coda o altro attributo animalesco.
L’esame storico del movimento dell’A. C. può dar luogo, analiticamente, a diverse serie di ricerche e di studi.
I Congressi Nazionali. Come sono preparati dalla stampa centrale e locale. Il materiale ufficiale preparatorio: relazioni ufficiali e d’opposizione.
L’Azione Cattolica è stata sempre un organismo complesso, anche prima della costituzione della Confederazione bianca del Lavoro e del Partito Popolare, il quale non può non essere considerato parte politicamente integrante dell’A. C. anche se ufficialmente ne era separato. La stessa complessità si verificava e si verifica anche nel campo internazionale: l’A. C. ufficialmente si accentra nella persona del Papa, che è centro internazionale per eccellenza, ma di fatto esiste più di un ufficio che funziona da centro internazionale più esplicitamente politico, come l’Ufficio di Malines che ha compilato il Codice Sociale o come un ufficio di Friburgo per l’azione sindacale (verificare).
Svolgimento dei Congressi. — Ciò che viene messo all’ordine del giorno e ciò che viene omesso per evitare dissensi radicali. — L’ordine del giorno dovrebbe risultare dai problemi concreti che nello spazio tra un Congresso e l’altro si sono imposti alla soluzione, oltre che dai punti generali dottrinari intorno ai quali si formano le correnti e le frazioni. Su quale base vengono scelte o rinnovate in parte le direzioni? Sulla base di una tendenza generica alla quale si dà una fiducia generica, oppure dopo che il Congresso stesso ha fissato un indirizzo concreto e preciso di attività? La democrazia interna di un movimento (il grado più o meno grande di democrazia interna, cioè di partecipazione della base del P. alle decisioni e alla fissazione del programma) si può misurare e giudicare anche e forse specialmente a questa stregua. — Altro elemento importante è la composizione sociale dei Congressi, degli oratori e della direzione eletta, in rapporto alla composizione sociale del P. — I giovani e i loro rapporti con gli adulti. I Congressi si occupano del movimento giovanile che dovrebbe essere la fonte maggiore per il reclutamento e la migliore scuola per il P. stesso? — Che influenza hanno sui congressi di P. le organizzazioni subordinate al P. (o che dovrebbero essere subordinate): il gruppo parlamentare o gli organizzatori sindacali ecc.? Viene fatta organicamente. una posizione speciale nei congressi ai deputati e agli organizzatori sindacali?
Q1 §39 Répaci. I nipotini del padre Bresciani. Nella sua novella (autobiografica) Crepuscolo («Fiera Letteraria» 3 marzo 1929) scrive: «A quell’epoca io già schieravo dentro di me, fortificandole ogni giorno sulle ime radici dell’istinto, quelle belle qualità che più tardi, negli anni a venire, avrebbero fatto di me una centrale di guai: l’amore dei vinti, degli offesi, degli umili, lo sprezzo del pericolo per la giusta causa, l’indipendenza del carattere che palesa la rettitudine, l’orgoglio matto che braveggia persino sulle rovine, ecc. ecc. ».
Q1 §40 La «formula» di Léon Blum. Le pouvoir est tentant. Mais seule l’opposition est confortable.
Q1 §41 Lorianismo.— Luzzatti. Ricordare l’episodio alla Camera dei Deputati o al Senato nel 1911 o 12, quando fu proposta una cattedra speciale all’Università di Roma di «filosofia della storia» per Guglielmo Ferrero. Il ministro Credaro, mi pare in risposta al Croce (quindi al Senato) che aveva parlato contro la cattedra, fra l’altro giustificò la «filosofia della storia» con l’importanza che i filosofi avevano avuto nello svolgimento della storia (sic), esempio... Cicerone. Luzzatti assentì gravemente: «È vero, è vero!»
Q1 §42 I nipotini di padre Bresciani. — Curzio Malaparte ‑ Kurt Erich Suckert. Lo sfoggio del nome straniero nel periodo del dopoguerra. — Sua appartenenza all’organizzazione italiana di Guglielmo Lucidi che arieggiava alla «Clarté» francese e al «Controllo democratico» inglese e pubblicava la «Rivista (o Rassegna) Internazionale»; nella collezione di questa rivista pubblica La rivolta dei santi maledetti poi «brescianescamente» corretta nella edizione successiva e, credo, ritirata dal commercio in un terzo periodo.
A proposito dell’«esibizione» del nome straniero notare una corrente generale degli «intellettuali» italiani «moralizzatori» che era portata a ritenere che all’«estero» la gente era più «onesta» che in Italia, oltre che più «capace», più «intelligente» ecc. Questa «esteromania» assumeva forme noiose e talvolta rivoltanti, come in Graziadei, ma era abbastanza generalizzata e dava luogo a una «posa» snobistica: ricordate il breve colloquio con Prezzolini a Roma nel 24 e la sua affermazione sconsolata: «Avrei dovuto procurare a tempo ai miei figli la nazionalità inglese» o qualcosa di simile. Questo stato di animo non è stato caratteristico solo di alcuni ceti intellettuali italiani: è stato abbastanza diffuso, in certe epoche, anche in Russia, per esempio. Si confonde tutto il popolo con certi strati corrotti della piccola borghesia, molto numerosi specialmente nei paesi agricoli poco sviluppati, che possono essere paragonati, al lumpen‑proletariat delle città industriali (nella maffia siciliana e nella camorra meridionale abbondano questi tipi): si cade nel pessimismo perché le «prediche» moralizzatrici lasciano il tempo che trovano e si arriva a una conclusione implicita di «inferiorità» di un intero popolo, per cui non c’è niente da fare.
Q1 §43 Riviste tipo. Terzo tipo — critico‑storico‑bibliografico —. Nell’esame dei partiti: — fissare lo svolgimento che hanno avuto nel tempo e nello spazio i problemi concreti più importanti — Quistione sindacale — Rapporti tra il partito e i sindacati — Quistione agraria — ecc. ecc. Ogni quistione due aspetti: come è stata trattata teoricamente e come è stata affrontata praticamente.
Un’altra rubrica è quella della stampa, nei suoi diversi aspetti: stampa quotidiana, stampa periodica, opuscoli.
Il gruppo parlamentare. Trattando di una determinata attività parlamentare bisogna tener presenti alcuni criteri di ricerca e di giudizio: quando un deputato di un partito di massa parla in parlamento, ci possono essere tre versioni del suo discorso: 1° la versione degli atti parlamentari, che di solito è riveduta e corretta e spesso edulcorata post festum; 2° la versione dell’organo ufficiale del partito al quale il deputato appartiene: essa è combinata dal deputato d’accordo col corrispondente del giornale in modo da non urtare certe suscettibilità della maggioranza ufficiale del partito e non creare ostacoli prematuri a determinate combinazioni in corso; 3° la versione dei giornali di altri partiti o dei così detti organi della pubblica opinione (giornali a grande diffusione), che è fatta dal deputato d’accordo coi rispettivi corrispondenti in modo da favorire determinate combinazioni in corso: questi giornali mutano da periodo a periodo e secondo i mutamenti delle rispettive direzioni politiche.
Lo stesso criterio può essere esteso al campo sindacale, a proposito dell’interpretazione da dare a determinati movimenti concreti e anche all’indirizzo generale dell’organizzazione sindacale data. Esempi promemoria: la «Stampa», il «Resto del Carlino», il «Tempo» (di Naldi) hanno servito da casse di risonanza e da strumento di combinazioni politiche tanto ai socialisti che ai popolari. Un discorso parlamentare socialista o popolare era presentato sotto un certo aspetto da uno di questi giornali per il suo pubblico, mentre era presentato sotto un altro aspetto dagli organi socialisti o popolari. I giornali popolari tacevano addirittura per il loro pubblico certe affermazioni dei loro deputati che tendevano a rendere possibile un avvicinamento ai socialisti, ecc. ecc. — Da questo punto di vista è indispensabile tener conto delle interviste date dai deputati ad altri giornali e degli articoli pubblicati in altri giornali. — L’omogeneità politica di un partito può essere saggiata anche con questo criterio: quali indirizzi sono favoriti dai membri di questi partiti nella loro collaborazione a giornali di altri partiti o di «opinione pubblica» così detti: il dissidio interno si manifesta talvolta solo così, i dissidenti scrivono articoli in altri giornali, firmati e non firmati, dànno interviste, suggeriscono motivi polemici, non smentiscono le opinioni loro attribuite, ecc. ecc.
Nelle riviste di questo tipo sono indispensabili alcune rubriche: — un dizionario enciclopedico politico‑scientifico‑filosofico. In questo senso: in ogni numero sono pubblicate una o più piccole monografie di carattere enciclopedico su concetti politici, filosofici, scientifici che ricorrono spesso nei giornali e nelle riviste e che la media dei lettori difficilmente afferra o addirittura travisa. In realtà ogni movimento politico crea un suo linguaggio, cioè partecipa allo sviluppo generale di una determinata lingua, introducendo termini nuovi, arricchendo di nuovo contenuto termini già in uso, creando metafore, servendosi di nomi storici per facilitare la comprensione e il giudizio su determinate situazioni politiche attuali, ecc. ecc. Le trattazioni devono essere veramente pratiche, cioè devono riallacciarsi a bisogni realmente sentiti ed essere, per la forma d’esposizione, adeguate alla media dei lettori. Possibilmente i compilatori devono essere informati degli errori più diffusi risalendo alle fonti stesse degli errori, cioè alla pubblicazione di paccotiglia scientifica tipo «Biblioteca popolare Sonzogno» o dizionari (Melzi, Premoli ecc.) o enciclopedie popolari più diffuse. Queste trattazioni non devono presentarsi già in forma organica (per es. ordine alfabetico o di materia) né secondo un’economia prefissata di spazio come se già una pubblicazione complessiva fosse in vista, ma invece devono essere messe in rapporto con altre pubblicazioni di quella o di altre riviste collegate che hanno trattato questo o quell’argomento: l’ampiezza della trattazione deve essere determinata volta per volta non dall’importanza intrinseca dell’argomento, ma dall’interesse immediato (ciò sia detto solo in generale): insomma non deve presentarsi come un libro pubblicato a puntate, ma come una rubrica interessante di per sé, volta per volta, dalla quale magari potrà scaturire un libro.
Legata alla precedente è la rubrica delle biografie, non in quanto il nome del biografato entra nel dizionario enciclopedico per un determinato concetto politico, ma in quanto tutta la vita di un uomo può interessare la cultura generale di un certo strato sociale. Per esempio, può darsi che nel dizionario enciclopedico si debba parlare di lord Carson per accennare alla crisi del regime parlamentare già prima della guerra mondiale e proprio in Inghilterra, nel paese dove il regime parlamentare era più efficiente; ciò non vorrà dire che si debba fare la biografia di lord Carson. A una persona di media cultura interessano due soli dati biografici: 1° lord Carson nel 1914 prese le armi nell’Ulster per opporsi all’applicazione della legge sull’Home Rule irlandese, approvata dal Parlamento che «può far tutto eccetto che un uomo diventi donna»; 2° lord Carson non solo non fu punito ma divenne ministro poco dopo, allo scoppio della guerra. — Invece di un altro interessa tutta la biografia, quindi rubrica separata.
Un’altra rubrica può essere quella delle autobiografie politiche‑intellettuali. Se fatte bene esse possono essere del massimo interesse giornalistico e di grande efficacia formativa. Sincerità, semplicità. Come uno supera il suo ambiente, attraverso quali impulsi esterni e quali crisi di pensiero e di sentimento. (Poche, ma buone). Un’altra rubrica, fondamentale questa: l’esame storico‑bibliografico delle situazioni regionali. Molti vorrebbero studiare le situazioni locali, che interessano molto, ma non sanno come fare, da dove incominciare: non conoscono il materiale bibliografico, non sanno fare ricerche nelle biblioteche, ecc. Si tratta dunque di dare l’ordito generale di un problema concreto o di un tema scientifico, indicando i libri che l’hanno trattato, gli articoli delle riviste specializzate ecc., in forma di rassegne bibliografico‑critiche, con speciale diffusione per le pubblicazioni poco comuni o in lingue straniere. Ciò può essere fatto per le regioni, da diversi punti di vista, per problemi generali di cultura ecc. ecc.
Uno spoglio sistematico di giornali e riviste per la parte che interessa le rubriche principali (fondamentali) — Sola citazione di autori, titoli, dati con brevi cenni di tendenza (ogni numero) — Recensioni dei libri. Due tipi di recensione. Informativo‑critico: si suppone che il lettore non possa leggere il libro, ma che sia interessante per lui conoscerne il contenuto generale. — Teorico‑critico: si suppone che il lettore debba leggere il libro e allora non si riassume, ma si trattano criticamente le obbiezioni che gli si devono muovere o si svolge qualche parte che vi è sacrificata ecc. Questo secondo tipo di recensione è più adatto per l’altro tipo di rivista («Critica» ‑ «Politica»).
Uno spoglio critico‑bibliografico della produzione letteraria degli autori fondamentali per la teoria generale. Uno spoglio simile per gli autori italiani, o per le traduzioni italiane di autori stranieri; questo spoglio deve essere molto minuto e circostanziato, perché occorre tener presente che attraverso questo lavoro e questa elaborazione si può solo raggiungere la fonte autentica di tutta una serie di concezioni erronee che circolano incontrollate. Occorre tener presente che in ogni regione, specialmente in Italia, data la ricchissima varietà di tradizioni locali, esistono gruppi e gruppetti caratterizzati da motivi ideologici e psicologici propri; «ogni paese ha o ha avuto il suo santo locale, quindi il suo culto e la sua cappella». La elaborazione unitaria di una coscienza collettiva domanda condizioni e iniziative molteplici. La diffusione da un centro omogeneo di un modo di pensare e di operare omogeneo è la condizione principale, ma non deve essere e non può essere la sola. Un errore molto diffuso consiste nel pensare che ogni strato sociale elabori la sua coscienza e la sua cultura allo stesso modo, con gli stessi metodi, cioè i metodi degli intellettuali di professione.
Anche l’intellettuale è un «professionista» che ha le sue «macchine» specializzate e il suo «tirocinio», che ha un suo sistema Taylor. È illusorio attribuire a tutti questa capacità «acquisita» e non innata. È illusorio pensare che una «idea chiara» opportunamente diffusa si inserisca nelle diverse coscienze con gli stessi effetti «organizzatori» di chiarezza diffusa. È un errore «illuministico». La capacità dell’intellettuale di professione di combinare abilmente l’induzione e la deduzione, di generalizzare, di dedurre, di trasportare da una sfera a un’altra un criterio di discriminazione, adattandolo alle nuove condizioni, ecc. è una «specialità», non è un dato del «senso comune». Ecco dunque che non basta la premessa della «diffusione organica da un centro omogeneo di un modo di pensare e di operare omogeneo». Lo stesso raggio luminoso passa per prismi diversi e dà rifrazioni di luce diverse: se si vuole la stessa rifrazione occorre tutta una serie di rettificazioni dei singoli prismi. La «ripetizione» paziente e sistematica è il principio metodico fondamentale. Ma la ripetizione non meccanica, materiale: l’adattamento di ogni principio alle diverse peculiarità, il presentarlo e ripresentarlo in tutti i suoi aspetti positivi e nelle sue negazioni tradizionali, organizzando sempre ogni aspetto parziale nella totalità. Trovare la reale identità sotto l’apparente differenziazione e contraddizione e trovare la sostanziale diversità sotto l’apparente identità, ecco la più essenziale qualità del critico delle idee e dello storico dello sviluppo sociale. Il lavoro educativo‑formativo che un centro omogeneo di cultura svolge, l’elaborazione di una coscienza critica che esso promuove e favorisce su una determinata base storica che contenga le premesse materiali a questa elaborazione, non può limitarsi alla semplice enunciazione teorica di principi «chiari» di metodo; questa sarebbe pura azione «illuministica». Il lavoro necessario è complesso e deve essere articolato e graduato: ci deve essere la deduzione e l’induzione combinate, l’identificazione e la distinzione, la dimostrazione positiva e la distruzione del vecchio. Ma non in astratto, in concreto: sulla base del reale. Ma come sapere quali sono gli errori radicati o più generalmente diffusi? Evidentemente è impossibile una «statistica» dei modi di pensare e delle singole opinioni individuali, che dia un quadro organico e sistematico: non rimane che la revisione della letteratura più diffusa e più popolare combinata con lo studio e la critica delle correnti ideologiche precedenti, ognuna delle quali «può» aver lasciato un sedimento, variamente combinatosi con quelli precedenti e susseguenti.
In questo stesso ordine di osservazioni si inserisce un criterio più generale: i mutamenti nei modi di pensare, nelle credenze, nelle opinioni, non avvengono per «esplosioni» rapide e generalizzate, avvengono per lo più per «combinazioni successive» secondo «formule» disparatissime. L’illusione «esplosiva» nasce da assenza di spirito critico. Come non si è passati, nei metodi di trazione, dalla diligenza a trazione animale, agli espressi moderni elettrici, ma si è passati attraverso una serie di «combinazioni intermedie» che in parte ancora sussistono (come la trazione animale su rotaie ecc. ecc.) e come avviene che il materiale ferroviario invecchiato negli Stati Uniti viene ancora utilizzato per molti anni in Cina e vi rappresenta un progresso tecnico — così nella sfera della cultura i diversi strati ideologici si combinano variamente e ciò che è diventato «ferravecchio» nella città è ancora «utensile» in provincia. Nella sfera della coltura anzi, le esplosioni» sono ancora meno frequenti e meno intense che nella sfera della tecnica.
Si confonde l’esplosione «di passioni» politiche accumulate in un periodo di trasformazioni tecniche alle quali non corrispondono adeguate nuove forme di organizzazione giuridica con le sostituzioni di nuove forme di cultura alle vecchie.
L’accenno al fatto che talvolta ciò che è diventato «ferravecchio» in città è ancora «utensile» in provincia può essere utilmente svolto. I rapporti tra popolazione urbana e popolazione rurale non sono sempre gli stessi. Bisogna determinare i «tipi» di urbano e di rurale. Si verifica il paradosso che il tipo rurale sia più progressivo del tipo urbano. Una città «industriale» è sempre più progressiva della campagna che ne dipende. Ma in Italia non tutte le città sono «industriali» e sono meno ancora le città «tipicamente» industriali. Le «cento» città italiane. In Italia l’urbanesimo non è solo e nemmeno «specialmente» un fenomeno industriale. La più grande città italiana, Napoli, non è una città industriale. Tuttavia anche in queste città esistono nuclei di popolazione tipicamente urbana. Ma qual è la loro posizione relativa? Essi sono sommersi, premuti, schiacciati dall’altra parte che è rurale, di tipo rurale, ed è la grandissima maggioranza. Le città del «silenzio». In questo tipo di città esiste una unità «urbana» ideologica contro la campagna: c’è ancora l’odio e il disprezzo contro il «villano»: per reciproca c’è un’avversione «generica» della campagna contro la città. Questo fenomeno generale, che poi è molto complesso e si presenta in forme talvolta apparentemente contraddittorie, sarebbe da studiare nel corso del Risorgimento. Esempio tipico di apparenti contraddizioni è l’episodio della Repubblica partenopea del 1799: la campagna ha schiacciato la città con le orde del cardinal Ruffo, perché la città aveva completamente trascurato la campagna. Nel Risorgimento si verifica già embrionalmente il rapporto storico tra Nord e Sud come un rapporto simile a quello di una grande città a una grande campagna: essendo questo rapporto non gia quello organico normale di provincia e capitale industriale, ma assumendo l’aspetto di un vasto territorio, si accentuano le colorazioni di contrasto nazionale. Ciò che nel Risorgimento è specialmente notevole è il fatto che nelle crisi politiche il Sud ha l’iniziativa: 1799 Napoli — 20‑21 Palermo — 47 Messina, 47‑48 Napoli e Sicilia.
Altro fatto notevole è l’aspetto particolare che assume il movimento nell’Italia centrale, come una via di mezzo tra Nord e Sud: il periodo delle iniziative popolari (relativamente) va dal 1815 al 48 e culmina nella Repubblica Romana (le Romagne e la Lunigiana bisogna sempre congiungerle al Centro). Queste peculiarità hanno un riscontro anche in seguito: i fatti del giugno 1914 hanno avuto una forma particolare nel Centro (Romagna e Marche). La crisi del 94 in Sicilia e Lunigiana, col contraccolpo a Milano nel 98; 1919 nel Mezzogiorno e 1920 nel Settentrione. Questo relativo sincronismo mostra l’esistenza di una struttura economico‑politica omogenea (relativamente) da una parte e mostra come nei periodi di crisi, sia la parte più debole, periferica, a reagire per la prima.
La relazione di città e campagna tra Nord e Sud può essere studiata nelle diverse forme di cultura. Benedetto Croce e Giustino Fortunato sono a capo, nell’inizio di questo secolo, di un movimento culturale che si contrappone al movimento culturale del Nord (futurismo). È notevole il fatto che la Sicilia si stacca dal Mezzogiorno per molti rispetti: Crispi è l’uomo dell’industria settentrionale; Pirandello nelle linee generali è più vicino al futurismo; Gentile ed il suo idealismo attuale sono anch’essi più vicini al movimento futurista, inteso in senso largo, come opposizione al classicismo tradizionale, come forma di un «romanticismo» contemporaneo. Diversa struttura elle classi intellettuali: — nel mezzogiorno domina ancora il tipo del «curiale» o del paglietta, che pone a contatto la massa contadina con quella dei proprietari fondiari e con l’apparato statale; — nel Nord domina il tipo del «tecnico» d’officina che serve di collegamento tra la massa operaia e la classe capitalistica; il collegamento tra massa operaia e Stato era dato dagli organizzatori sindacali e dai partiti politici, cioè da un ceto intellettuale completamente nuovo (l’attuale corporativismo, con la sua conseguenza della diffusione su scala nazionale di questo tipo sociale, in modo più sistematico e conseguente che non avesse potuto fare il vecchio sindacalismo, e in un certo senso uno strumento di unità morale e politica.
Questo rapporto città‑campagna è visibile nei programmi politici effettuati prima del fascismo: il programma Giolitti o dei liberali democratici è questo: — creare nel Nord un blocco «urbano» (capitalisti‑operai) che dia la base allo stato protezionista per rafforzare l’industria settentrionale, cui il Mezzogiorno è mercato di vendita semicoloniale; il Mezzogiorno è «curato» con due sistemi di misure: 1) sistema poliziesco (repressione implacabile di ogni movimento di massa, stragi periodiche di contadini); nella commemorazione di Giolitti «Spectator» della Nuova Antologia si maraviglia che Giolitti si sia sempre strenuamente opposto ad ogni diffusione del socialismo nel Mezzogiorno, mentre la cosa è naturale e ovvia, poiché un protezionismo operaio (riformismo, cooperative, lavori pubblici) è solo possibile se parziale, cioè perché ogni privilegio presuppone dei sacrificati; 2) misure politiche: favori personali al ceto dei paglietta o pennaioli (impieghi pubblici, permesso di saccheggio delle pubbliche amministrazioni, legislazione ecclesiastica meno rigida che nel Nord ecc. ecc.), cioè incorporamento a «titolo personale» degli elementi più attivi meridionali nelle classi dirigenti, con particolari privilegi «giudiziari», impiegatizi ecc., in modo che lo strato che avrebbe potuto organizzare il malcontento meridionale diventava uno strumento della politica settentrionale, un suo accessorio «poliziesco»; il malcontento non poteva così assumere aspetto politico e le sue manifestazioni esprimendosi solo in modo caotico e tumultuario diventavano «sfera» della «polizia». A questo fenomeno di corruzione aderivano sia pure passivamente e indirettamente anche uomini egregi come il Croce e il Fortunato per il feticismo dell’«Unità» (episodio Fortunato‑Salvemini a proposito dell’«Unità» raccontato da Prezzolini nella prima edizione della Cultura italiana)4.
Non bisogna dimenticare questo fattore politico‑morale della campagna di intimidazione che si faceva contro ogni anche obbiettivissima constatazione di motivi di contrasto tra Nord e Sud. Ricordare: conclusione dell’inchiesta Pais‑Serra sulla Sardegna dopo la crisi 94‑98, l’accusa fatta da Crispi ai fasci siciliani di essere venduti agli Inglesi (trattato di Bisacquino) ecc.; specialmente tra gli intellettuali siciliani esiste questa forma di esasperazione unitaria (conseguenza della popolarità regionale di Crispi) che anche recentemente si è manifestata in attacco Natoli contro Croce per gli accenni nella Storia d’Italia (cfr risposta di Croce nella «Critica»).
Il programma Giolitti fu «turbato» da due «fattori»: l’affermarsi degli intransigenti nel partito socialista con Mussolini e il loro civettare coi meridionalisti (libero scambio, elezioni di Molfetta ecc.), che distruggeva il blocco «urbano» e l’introduzione del suffragio universale che allargava in modo impressionante la base parlamentare nel Mezzogiorno e rendeva difficile la corruzione individuale (troppi da corrompere!). Giolitti muta «partenaire»: al blocco «urbano» sostituisce il patto Gentiloni o meglio lo rafforza per impedirne il completo crollo, cioè, in definitiva un blocco tra gli industriali settentrionali e i rurali della campagna «organica e normale» (forze elettorali cattoliche specialmente nel Nord e nel Centro), con estensione degli effetti anche nel Sud nella misura immediatamente sufficiente per «rettificare» utilmente gli effetti dell’allargamento della massa elettorale.
L’altro programma è quello che si può chiamare del «Corriere della Sera» o di Albertini e può essere fatto coincidere con una alleanza degli industriali settentrionali (con a capo i tessili, cotonieri, setaioli libero scambisti) coi rurali meridionali (blocco rurale): il «Corriere» ha sostenuto Salvemini a Molfetta (campagna Ojetti), ha sostenuto il ministero Salandra, ha sostenuto il ministero Nitti, cioè i primi due ministeri formati da meridionali (i siciliani sono da considerarsi a parte).
Il suffragio universale già nel 1913 aveva suscitato i primi accenni di quel fenomeno che avrà la massima espressione nel 19‑20‑21 in conseguenza dell’esperienza politica‑organizzativa acquistata dalle masse contadine durante la guerra, cioè la rottura relativa del blocco rurale meridionale e il distacco dei contadini guidati da una parte degli intellettuali (ufficiali in guerra) dai grandi proprietari: si ha il sardismo, il partito riformista siciliano (gruppo Bonomi con 22 deputati siciliani) e il «rinnovamento» nell’Italia meridionale con tentativi di partiti regionali d’azione (rivista «Volontà» col Torraca, «Popolo romano» ecc.). In questi movimenti l’importanza della massa contadina è graduata dalla Sardegna, al Mezzogiorno, alla Sicilia a seconda della forza organizzata e della pressione esercitata ideologicamente dai grandi proprietari, che hanno in Sicilia un massimo di organizzazione e hanno invece una importanza relativamente piccola in Sardegna. Altrettanto graduata è l’indipendenza relativa dei rispettivi intellettuali.
Per intellettuali occorre intendere non solo quei ceti comunemente intesi con questa denominazione, ma in generale tutta la massa sociale che esercita funzioni organizzative in senso lato, sia nel campo della produzione, sia nel campo della cultura, sia nel campo amministrativo‑politico: corrispondono ai sott’ufficiali e agli ufficiali subalterni nell’esercito (e anche a una parte degli ufficiali superiori con esclusione degli stati maggiori nel senso più ristretto della parola).
Per analizzare le funzioni sociali degli intellettuali occorre ricercare ed esaminare il loro atteggiamento psicologico verso le grandi classi che essi mettono a contatto nei diversi campi: hanno atteggiamento «paternalistico» verso le classi strumentali? o «credono» di esserne una espressione organica? hanno «servile» verso le classi dirigenti o si credono essi stessi dirigenti, parte integrante delle classi dirigenti?
Nella storia del Risorgimento il così detto Partito d'Azione aveva un atteggiamento «paternalistico», perciò non è riuscito che in misura minima a mettere le grandi masse a contatto con lo stato. Il così detto «trasformismo» è legato a questo fatto: il Partito d'Azione viene incorporato molecolarmente dai moderati e le masse vengono decapitate, non assorbite nell’ambito del nuovo stato.
Dal rapporto «città‑campagna» deve muovere l’esame delle forze motrici fondamentali della storia italiana e dei punti programmatici da cui occorre studiare l’indirizzo del Partito d’Azione nel Risorgimento: 1° la forza urbana settentrionale; 2° la forza rurale meridionale; 3° la forza rurale settentrionale‑centrale; 4°-5° la forza rurale della Sicilia e della Sardegna.
Restando ferma la posizione di «locomotiva» della prima forza, occorre studiare le diverse combinazioni «più utili» per formare un «treno» che progredisca il più speditamente nella storia. La prima forza incomincia con l’avere i problemi «propri», di organizzazione, di articolazione per omogeneità, di direzione politica e militare; ma rimane fissato che, già «meccanicamente», se questa forza ha raggiunto un certo grado di unità e di combattività, essa esercita una funzione direttiva «indiretta».
Nei diversi periodi del Risorgimento appare che il porsi di questa forza in posizione di intransigenza e di lotta contro il dominio straniero determina un’esaltazione delle forze progressive meridionali; da ciò il sincronismo relativo, ma non la simultaneità nei movimenti del 20‑21, del 31, del 48; si realizza nel 59‑60 un sincronismo in senso inverso, cioè il Nord inizia, il Centro aderisce pacificamente o quasi e nel Sud lo Stato borbonico crolla per la spinta dei garibaldini, relativamente debole: questo avviene perché il P. d’A. (Garibaldi) interviene, dopo che i moderati (Cavour) avevano organizzato il Nord e il Centro; non è cioè la stessa direzione politica e militare (moderati ‑ Stato sardo o P. d’A.) che organizza la simultaneità relativa ma la collaborazione (meccanica) delle due direzioni che si integrano felicemente.
La prima forza si deve poi porre il problema di organizzare intorno a sé le forze urbane delle altre sezioni nazionali. Questo problema è il più difficile: esso si presenta irto di contraddizioni e di motivi che scatenano ondate di passioni. Ma la sua soluzione, appunto per questo, era il punto cruciale. Le forze urbane sono socialmente omogenee, quindi devono trovarsi in una posizione di perfetta eguaglianza. Teoricamente questo è vero, ma storicamente la quistione si pone altrimenti: le forze urbane del Nord sono nettamente alla testa della loro sezione nazionale, mentre per le forze urbane del Sud questo non si verifica perlomeno in egual misura. Le forze urbane del Nord dovevano quindi far capire a quelle del Sud che la loro funzione direttiva non poteva non consistere che nell’assicurare la direzione del Nord verso il Sud nel rapporto generale di città‑campagna, cioè la funzione direttiva delle forze urbane del Sud non poteva esser altro che una «funzione» della più vasta funzione direttiva del Nord. La contraddizione più dolorosa nasceva da questo ordine di fatti: la forza urbana del Sud non poteva essere considerata come qualcosa a sé, indipendente da quelle del Nord; porre la quistione così avrebbe significato affermare pregiudizialmente un insanabile dissidio «nazionale», dissidio tanto grave che neanche la soluzione federalistica avrebbe potuto comporre; si sarebbe trattato di nazioni diverse, tra le quali poteva realizzarsi solo un’alleanza diplomatico‑militare contro il comune nemico, l’Austria (l’unica «comunità» e solidarietà, insomma, sarebbe consistita solo nell’avere un «comune» nemico).
Ora, in realtà, esistevano solo alcuni aspetti della quistione nazionale, ma non «tutti» gli aspetti e neanche quelli più essenziali. L’aspetto più grave era la debole posizione delle forze urbane meridionali in rapporto alle forze rurali, rapporto sfavorevole che si manifestava talvolta in una vera e propria soggezione della città alla campagna. Il collegamento tra forze urbane del Nord e del Sud, doveva aiutare queste a rendersi autonome, ad acquistare coscienza della loro funzione storica dirigente in modo «concreto» e non puramente teorico e astratto, suggerendo loro le soluzioni da dare ai vasti problemi regionali. Era naturale che si trovassero opposizioni nel Sud; il compito più grave spettava però alle forze urbane del Nord che non solo dovevano convincere i loro «fratelli» del Sud, ma dovevano incominciare col convincere se stesse di questa complessità di sistema politico: praticamente cioè la quistione consisteva nell’esistenza di un forte centro di direzione politica, al quale necessariamente avrebbero dovuto collaborare forti e popolari individualità meridionali e delle isole. Il problema, dunque, di creare una unità Nord‑Sud è strettamente legato e in gran parte assorbito nel problema di creare una coesione tra tutte le forze urbane nazionali. (Il ragionamento su esposto vale infatti per le tre sezioni meridionali, Napoletano, Sicilia, Sardegna). La forza rurale settentrionale‑centrale pone una serie di problemi che la forza urbana del Nord deve porsi per il rapporto regionale città‑campagna. Bisognava distinguere in essa due sezioni: quella laica e quella clericale. La forza clericale aveva il suo peso massimo nel Lombardo‑Veneto, quella laica nel Piemonte, «peso massimo», con interferenze marginali più o meno vaste non solo tra Piemonte e Lombardo‑Veneto, ma tra queste due regioni‑tipo e le altre settentrionali e centrali e in minore misura anche meridionali e insulari. Risolvendo bene questi rapporti immediati le forze urbane settentrionali avrebbero dato un ritmo a tutte le quistioni simili su scala nazionale.
Su questo problema il Partito d'Azione fallì completamente. Non si può dire fallisse il partito moderato perché esso voleva soldati nell’esercito piemontese e non eserciti garibaldini troppo grandi. Perché il Partito d’Azione non pose in tutta la sua vastità il problema agrario? Che non lo ponessero i moderati era naturale: l’impostazione data dai moderati al problema nazionale domandava un blocco di tutte le forze di destra, comprese le classi dei grandi proprietari terrieri. La minaccia fatta dall’Austria di risolvere la quistione agraria a favore dei contadini, minaccia seguita dai fatti in Galizia contro i latifondisti polacchi, non solo gettò lo scompiglio tra gli interessati, determinando tutte le oscillazioni dell’aristocrazia, per esempio (fatti di Milano del febbraio 53 e atto di omaggio delle più illustri famiglie milanesi a Francesco Giuseppe proprio alla vigilia delle impiccagioni di Belfiore) ma paralizzò il Partito d’Azione. Mazzini, dopo il febbraio 53, pur con qualche accenno, non seppe poi decidersi (vedi Epistolario di quel periodo). Condotta dei garibaldini in Sicilia nel 60: schiacciamento implacabile dei movimenti dei contadini insorti contro i baroni mano a mano che Garibaldi avanzava — opera repressiva di Nino Bixio —. Nelle relle di uno dei mille di G. C. Abba elementi per dimostrare che la quistione agraria era la molla per far entrare in moto le grandi masse — ricordare discorsi dell’Abba col frate che va incontro ai garibaldini subito dopo lo sbarco a Marsala — In alcune novelle di G. Verga elementi pittoreschi di queste sommosse i contadine — formazione della Guardia Nazionale per soffocare questi moti col terrore e le fucilazioni in massa (questo lato della spedizione dei Mille non è stato ancora studiato).
La non impostazione della quistione agraria portava alla quasi impossibilità di risolvere la quistione del clericalismo e dell’atteggiamento del Papa. Sotto questo riguardo i moderati furono molto più arditi del Partito d'Azione: è vero che essi non distribuirono i beni ecclesiastici fra i contadini, ma se ne servirono per creare un ceto nuovo di grandi e medi proprietari legato alla nuova situazione politica, ma almeno non esitarono a mettere le mani sulle congregazioni. Il P. d’A. era invece paralizzato dalle velleità mazziniane di una riforma religiosa che non solo non toccava le grandi masse, ma le rendeva passibili di una sobillazione contro i nuovi eretici. L’esempio della Francia era lì a dimostrare che i giacobini, che erano riusciti a schiantare i girondini sulla quistione agraria e non solo a impedire la coalizione rurale contro Parigi ma a moltiplicare nelle provincie i loro aderenti, furono invece danneggiati dai tentativi di Robespierre di instaurare una riforma religiosa.
Bisognerebbe studiare minutamente la politica agraria della Repubblica Romana e il vero carattere della missione repressiva data da Mazzini a Felice Orsini nelle Romagne e nelle Marche: in questo periodo e fino al 70 sotto il nome di brigantaggio si intendeva per lo più il movimento dei contadini per impadronirsi delle terre. (Cercare specialmente nella Corrispondenza e negli articoli di giornali i giudizi di Marx e di Engels sulla quistione agraria in Italia dal 48 al 60).
Q1 §44 Direzione politica di classe prima e dopo l’andata al governo. Tutto il problema delle varie correnti politiche del Risorgimento, dei loro rapporti reciproci e dei loro rapporti con le forze omogenee o subordinate delle varie sezioni (o settori) storiche del territorio nazionale si riduce a questo fondamentale: che i moderati rappresentavano una classe relativamente omogenea, per cui la direzione subì oscillazioni relativamente limitate, mentre il Partito d'Azione non si appoggiava specificamente a nessuna classe storica e le oscillazioni che subivano i suoi organi dirigenti in ultima analisi si componevano secondo gli interessi dei moderati: cioè storicamente il Partito d'Azione fu guidato dai moderati (l’affermazione di Vittorio Emanuele II di «avere in tasca», o qualcosa di simile, il Partito d'Azione è esatta, e non solo per i suoi contatti personali con Garibaldi; il Partito d’Azione storicamente fu guidato da Cavour e da Vittorio Emanuele II).
Il criterio storico‑politico su cui bisogna fondare le proprie ricerche è questo: che una classe è dominante in due modi, è cioè «dirigente» e «dominante». È dirigente delle classi alleate, è dominante delle classi avversarie. Perciò una classe già prima di andare al potere può essere «dirigente» (e deve esserlo): quando è al potere diventa dominante ma continua ad essere anche «dirigente». I moderati continuarono a dirigere il Partito d'Azione anche dopo il 70 e il «trasformismo» è l’espressione politica di questa azione di direzione; tutta la politica italiana dal 70 ad oggi è caratterizzata dal «trasformismo», cioè dall’elaborazione di una classe dirigente nei quadri fissati dai moderati dopo il 48, con l’assorbimento degli elementi attivi sorti dalle classi alleate e anche da quelle nemiche. La direzione politica diventa un aspetto del dominio, in quanto l’assorbimento delle élites delle classi nemiche porta alla decapitazione di queste e alla loro impotenza. Ci può e ci deve essere una «egemonia politica» anche prima della andata al Governo e non bisogna contare solo sul potere e sulla forza materiale che esso dà per esercitare la direzione o egemonia politica.
Dalla politica dei moderati appare chiara questa verità ed è la soluzione di questo problema che ha reso possibile il Risorgimento nelle forme e nei limiti in cui esso si è effettuato di rivoluzione senza rivoluzione o di rivoluzione passiva secondo l’espressione di V. Cuoco. In quali forme i moderati riuscirono a stabilire l’apparato della loro direzione politica? In forme che si possono chiamare «liberali» cioè attraverso l’iniziativa individuale, «privata» (non per un programma «ufficiale» di partito, secondo un piano elaborato e costituito precedentemente all’azione pratica e organizzativa). Ciò era «normale», data la struttura e la funzione delle clagsi rappresentate dai moderati, delle quali i moderati erano il ceto dirigente, gli «intellettuali» in senso organico. Per il Partito d'Azione il problema si poneva in altro modo e diversi sistemi avrebbero dovuto essere applicati. I moderati erano «intellettuali», «condensati» già naturalmente dall’organicità dei loro rapporti con le classi di cui erano l’espressione (per tutta una serie di essi si realizzava l’identità di rappresentato e rappresentante, di espresso e di espressivo, cioè gli intellettuali moderati erano una avanguardia reale, organica delle classi alte perché essi stessi appartenevano economicamente alle classi alte: erano intellettuali e organizzatori politici e insieme capi di azienda, grandi proprietari‑amministratori terrieri, imprenditori commerciali e industriali, ecc.). Data questa «condensazione» o concentrazione organica, i moderati esercitavano una potente attrazione, in modo «spontaneo», su tutta la massa d’intellettuali esistenti nel paese allo stato «diffuso», «molecolare», per le necessità, sia pure elementarmente soddisfatte, della istruzione pubblica e dell’amministrazione. Si rivela qui la verità di un criterio di ricerca storico‑politico: non esiste una classe indipendente di intellettuali, ma ogni classe ha i suoi intellettuali; però gli intellettuali della classe storicamente progressiva esercitano un tale potere di attrazione, che finiscono, in ultima analisi, col subordinarsi gli intellettuali delle altre classi e col creare l’ambiente di una solidarietà di tutti gli intellettuali con legami di carattere psicologico (vanità ecc.) e spesso di casta (tecnico‑giuridici, corporativi).
Questo fenomeno si verifica «spontaneamente» nei periodi in cui quella determinata classe è realmente progressiva, cioè fa avanzare l’intera società, soddisfacendo alle sue esigenze esistenziali non solo, ma ampliando continuamente i suoi quadri per una continua presa di possesso di nuove sfere di attività industriale‑produttiva. Quando la classe dominante ha esaurito la sua funzione, il blocco ideologico tende a sgretolarsi e allora alla «spontaneità» succede la «costrizione» in forme sempre meno larvate e indirette, fino alle misure vere e proprie di polizia e ai colpi di Stato.
Il Partito d'Azione non poteva avere questo potere di attrazione ed anzi egli stesso era attratto, sia per l’atmosfera di intimidazione che lo rendeva esitante ad accogliere nel suo programma determinate rivendicazioni popolari, sia perché alcuni dei suoi uomini maggiori (Garibaldi, per es.) erano, sia pure saltuariamente («oscillazioni») in rapporto personale di subordinazione coi capi dei moderati. Perché il P. d’A. diventasse una forza autonoma e, in ultima analisi, per lo meno riuscisse a imprimere al moto del Risorgimento un carattere più marcatamente popolare e democratico (più in là non poteva andare date le premesse fondamentali del moto stesso) avrebbe dovuto contrapporre all’azione «empirica» dei moderati (che era empirica solo per modo di dire) un programma organico di governo che abbracciasse le rivendicazioni essenziali delle masse popolari, in primo luogo dei contadini. All’attrazione «spontanea» esercitata dai moderati, doveva cioè contrapporre un’attrazione «organizzata», secondo un piano.
Come esempio tipico di attrazione spontanea dei moderati bisogna ricordare il fatto della nascita del movimento «cattolico‑liberale», che tanto impressionò il papato e in parte riuscì a paralizzarlo e a demoralizzarlo, cacciandolo in una posizione più destra di quella che avrebbe potuto occupare e quindi parzialmente isolandolo; il papato ha appreso la lezione e ha saputo perciò manovrare magnificamente nei tempi più recenti. Il modernismo prima e il popolarismo poi sono fenomeni simili a quello dei «cattolico‑liberali» del Risorgimento: essi sono in gran parte dovuti al potere di attrazione «spontanea» esercitata dal movimento operaio moderno. Il papato (sotto Pio X) ha colpito il modernismo come tendenza riformatrice della religione, ma ha sviluppato il popolarismo, cioè la base economica del modernismo, e oggi, con Pio XI, fa di ciò il fulcro della sua politica mondiale.
Intanto il Partito d'Azione avrebbe dovuto avere un programma di governo, ciò che sempre gli mancò. Esso in sostanza fu sempre, più di tutto, un movimento di agitazione e propaganda dei moderati. I dissidi e i conflitti interni del Partito d'Azione, gli odi tremendi che Mazzini suscitò contro di sé da parte dei più cospicui uomini d’azione (Garibaldi stesso, Felice Orsini ecc.) sono dovuti a questa mancanza di direzione politica. Le polemiche interne sono in gran parte altrettanto astratte della predicazione di Mazzini, ma da esse si possono trarre utili indicazioni storiche (valgano per tutti gli scritti del Pisacane, che d’altronde commise errori militari gravissimi, come l’opposizione alla dittatura militare di Garibaldi nella Repubblica Romana). Il Partito d'Azione segue la tradizione «retorica» della letteratura italiana. Confonde l’unità culturale con l’unità politica e territoriale. Confronto tra giacobini e Partito d’Azione: i giacobini lottarono strenuamente per assicurare il legame tra città e campagna; furono sconfitti perché dovettero soffocare le velleità di classe degli operai; il loro continuatore è Napoleone e sono oggi i radico‑socialisti francesi.
Nella letteratura politica francese questa necessità del legame tra città e campagna era vivissima: ricordare i Misteri del Popolo di Eugenio Sue, diffusissimi anche in Italia intorno al 1850 (il Fogazzaro nel Piccolo Mondo Antico ricorda che F. Maironi riceveva clandestinamente dalla Svizzera i Misteri del Popolo che a Vienna furono bruciati dal carnefice, credo) e che insistono con particolare costanza sulla necessità di legare i contadini alla città; il Sue è il romanziere della tradizione giacobina e un antenato di Herriot e di Daladier da tanti punti di vista (leggenda napoleonica in Ebreo Errante, anticlericalismo in tutti i libri ma specialmente nell’Ebreo Errante, riformismo piccolo‑borghese nei Misteri di Parigi ecc. ecc.).
Il Partito d'Azione era implicitamente antifrancese per l’ideologia mazziniana (cfr in «Critica» l’articolo dell’Omodeo Primato francese e iniziativa italiana, anno 1929, p. 223); ma aveva nella storia italiana la tradizione a cui collegarsi. La storia dei Comuni è ricca di esperienza in proposito: la borghesia nascente cerca alleati nei contadini contro l’Impero e contro il proprio feudalismo locale (è vero che la quistione è resa più complessa dalla lotta tra borghesia e nobiltà terriera per contendersi la mano d’opera: i borghesi hanno bisogno di mano d’opera ed essa può esser data solo dalle classi rurali; ma i nobili vogliono legati al suolo i contadini; fuga dei contadini in città, dove i nobili non possono catturarli. In ogni modo, anche in diversa situazione, appare nell’epoca dei Comuni la funzione direttiva della città che approfondisce la lotta interna delle campagne e se ne serve come strumento politico‑militare per abbattere il feudalismo). Ma il più classico maestro di politica per le classi dirigenti italiane, il Machiavelli, aveva anch’esso posto il problema, naturalmente nei termini e con le preoccupazioni del tempo: nelle scritture militari del Machiavelli è vista abbastanza bene la necessità di legarsi i contadini per avere una milizia nazionale che elimini le compagnie di ventura.
Pisacane, credo, deve proprio essere legato a questa corrente del Machiavelli; anche per Pisacane il problema delle soddisfazioni da dare alle rivendicazioni popolari è visto prevalentemente dal punto di vista militare. A proposito di Pisacane deve essere analizzata la contraddizione della sua concezione militare: il Pisacane, principe napoletano, era riuscito a impossessarsi di alcune concezioni militari derivate dall’esperienza della rivoluzione francese e delle campagne di Napoleone, e che a Napoli furono trapiantate durante i regni di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat, ma specialmente per l’esperienza viva degli ufficiali napoletani che avevano militato con Napoleone (vedi in Nuova Antologia nella commemorazione di Cadorna l’importanza che ha avuto questa esperienza militare napoletana, attraverso il Pianell, nell’organizzazione del nuovo esercito italiano): egli cioè comprese che senza una politica democratica non si possono avere eserciti nazionali a coscrizione obbligatoria; ma è inspiegabile la sua avversione contro la strategia di Garibaldi e la sua diffidenza di Garibaldi; egli ha verso Garibaldi la stessa attitudine sprezzante che avevano i vecchi stati maggiori contro Napoleone.
L’individualità che più occorre studiare per questi problemi del Risorgimento è Giuseppe Ferrari, non tanto nelle sue opere così dette maggiori, veri zibaldoni farraginosi e confusi, quanto nei suoi opuscoli d’occasione e nelle sue lettere. Però il Ferrari era in gran parte fuori della realtà concreta italiana; egli si era troppo francesizzato. Certe volte sembra più acuto di quanto realmente fosse, solo perché adattava all’Italia gli schemi francesi, i quali rappresentavano una situazione ben più avanzata di quella italiana. Il Ferrari, si può dire, si trovava, nei rapporti con l’Italia, nella posizione di un «postero»: era, in un certo senso, il suo, un «senno del poi». Il politico invece deve essere un realizzatore «effettuale e attuale»; egli non riusciva a costruire l’anello tra la situazione italiana e quella francese più avanzata, ma era proprio quest’anello che importava saldare per passare a quello successivo. Il Ferrari non seppe tradurre il «francese» in «italiano», perciò la sua acutezza stessa diventava un inciampo, creava nuove sette e scolette, ma non incideva nel movimento reale.
Per molti aspetti appare che la differenza tra molti uomini del Partito d'Azione e i moderati era più di «temperamento» che politica. La parola «giacobini» ha finito con l’assumere due significati: uno è il significato proprio, storicamente caratterizzato: un deterininato partito della Rivoluzione francese, che concepiva la rivoluzione in un determinato modo, con un determinato programma, sulla base di determinate forze sociali e che esplicò la sua azione di partito e di governo con una determinata azione metodica caratterizzata da una estrema energia e risolutezza dipendenti dalla credenza fanatica nella bontà e di quel programma e di quel metodo. Nel linguaggio politico i due aspetti del giacobinismo furono scissi e si chiamò giacobino l’uomo politico energico e risoluto perché fanaticamente persuaso delle virtù taumaturgiche delle sue idee. Crispi è «giacobino» solo in questo senso. Per il suo programma egli è un moderato puro e semplice. La sua «ossessione» giacobina è l’unità politico‑territoriale del paese. Questo principio è sempre la sua bussola d’orientamento, non solo nel periodo del Risorgimento ma anche nel periodo successivo del suo governo. Uomo fortemente passionale, egli odia i moderati come persone; egli vede nei moderati uomini dell’ultima ora, eroi della sesta giornata, gente che avrebbe fatto la pace coi vecchi regimi se questi fossero diventati costituzionali, gente, come i moderati toscani, che si erano aggrappati alla giacca del granduca per non farlo scappare: egli si fidava poco di una unità fatta da non unitari. Perciò si lega alla monarchia che egli sente sarà assolutamente unitaria per interessi dinastici e abbraccia il principio‑fatto dell’egemonia piemontese con una energia e una foga che non avevano gli stessi politici piemontesi.
Cavour aveva avvertito di non trattare il Mezzogiorno con gli stati d’assedio, e Crispi invece subito stabilisce lo stato d’assedio in Sicilia per il movimento dei Fasci: accusa i dirigenti dei Fasci di tramare con l’Inghilterra per il distacco della Sicilia (trattato di Bisacquino). Si lega strettamente coi latifondisti siciliani perché la classe più unitaria per paura delle rivendicazioni contadine, nello stesso tempo in cui la sua politica generale tende a rafforzare l’industrialismo settentrionale con la guerra di tariffe contro la Francia e col protezionismo doganale. Egli non esita a gettare tutto il Mezzogiorno in una crisi commerciale paurosa pur di rafforzare l’industria che può dare al paese una vera indipendenza e allargare la classe dominante: è la politica di fabbricare il fabbricante. Il governo dei moderati dal 61 al 76 aveva solo e timidamente creato le condizioni esterne di uno sviluppo economico — sistemazione dell’apparato statale, strade, ferrovie, telegrafi — e sanato le finanze oberate dai debiti del Risorgimento; il governo della Sinistra cercò di rimediare all’odio suscitato nel popolo dal fiscalismo della Destra, ma non riuscì ad altro che a questo, ad essere una valvola di sicurezza; era la politica della destra con uomini e frasi di sinistra. Crispi invece dette un reale colpo in avanti alla società italiana, fu il vero uomo della nuova borghesia. La sua figura è diminuita dalla sproporzione tra i fatti e le parole, tra le repressioni e l’oggetto da reprimere, tra lo strumento e il colpo vibrato: maneggiava una colubrina arrugginita come fosse un moderno pezzo d’artiglieria. Anche la sua politica d’espansione coloniale è legata alla sua ossessione unitaria. In questo seppe comprendere l’innocenza politica del Mezzogiorno; il contadino meridionale voleva la terra; Crispi non gliela voleva dare in Italia stessa, non voleva fare del «giacobinismo economico»; gli prospettò il miraggio delle terre coloniali da sfruttare. L’imperialismo di Crispi è un imperialismo rettorico passionale, senza base economico‑finanziaria. L’Europa capitalistica, ricca di capitali, li esportava negli imperi coloniali che andò allora creando. Ma l’Italia non solo non aveva capitali da esportare, ma doveva ricorrere al capitale straniero per i suoi stessi strettissimi bisogni. Mancava una base reale all’imperialismo italiano, e alla base reale fu sostituita la «passionalità»: imperialismo‑castello in aria, avversato dagli stessi capitalisti che avrebbero più volentieri visto impiegate in Italia le somme ingenti spese in Africa. Ma nel Mezzogiorno Crispi fu popolare per il miraggio della terra.
Crispi ha dato una forte impronta agli intellettuali siciliani, specialmente, ha creato quel fanatismo «unitario» che ha determinato una permanente atmosfera di sospetto contro tutto ciò che può arieggiare a separatismo. Ciò naturalmente non ha impedito che nel 1920 i latifondisti siciliani si riunissero a Palermo e pronunziassero un vero ultimatum contro il governo minacciando la separazione, come non impedisce che parecchi di questi latifondisti continuino a mantenere la cittadinanza spagnola e facciano intervenire il governo spagnolo (caso del duca di Bivona) per tutelare i loro interessi compromessi dall’agitazione dei contadini. L’atteggiamento delle classi meridionali dal 19 al 26 serve a mettere in luce alcune debolezze della politica «ossessionatamente» unitaria di Crispi e a mettere in rilievo alcune correzioni (poche in realtà, perché da questo punto di vista Giolitti si mantenne nel solco di Crispi) apportatevi da Giolitti.
L’episodio dei latifondisti siciliani del 1920 non è isolato e di esso potrebbe darsi altra interpretazione, per i precedenti delle alte classi lombarde che in qualche occasione minacciarono di «far da sé» (trovare i riscontri e i documenti) se non trovasse una interpretazione autentica nelle campagne, fatte dal «Mattino» dal 19 al 26 (fino alla espulsione dei fratelli Scarfoglio), che sarebbe semplicistico ritenere completamente campate in aria, cioè non legate in qualche modo a correnti di opinione pubblica e a stati d’animo rimasti sotterranei, latenti, potenziali per l’atmosfera d’intimidazione formata dall’«unitarismo ossessionato». Il «Mattino» a due riprese sostenne questa tesi: «che il Mezzogiorno è entrato a far parte dello Stato unitario su una base contrattuale, lo Statuto Albertino, ma che (implicitamente) continua a conservare la sua personalità e che ha il diritto di uscire dall’unità se la base contrattuale viene, in qualsiasi modo, meno, se cioè la costituzione è mutata». Questa tesi fu sostenuta nel 19‑20 contro un mutamento costituzionale di sinistra, nel 24‑25‑26 contro un mutamento costituzionale di destra. Bisogna tener presente il carattere del «Mattino» che fu organo crispino con Edoardo Scarfoglio (amicizia di Scarfoglio con Carducci), africanista ecc. e che mantenne sempre un atteggiamento espansionista e colonialista, dando il tono all’ideologia meridionale creata dalla fame di terra e dall’emigrazione verso la colonizzazione imperialista. Del «Mattino» occorre ricordare anche la violentissima campagna contro il Nord a proposito della manomissione da parte dei tessili lombardi delle industrie cotoniere meridionali e dei tentativi di trasportarne le macchine in Lombardia sotto veste di ferro vecchio. In questa campagna (del 1923) il «Mattino» giunse fino a fare una esaltazione dei Borboni e della loro politica economica. Ricordare inoltre la commemorazione fatta dal «Mattino» di Maria Sofia nel 1925 che destò molto scandalo.
È certo che in questo atteggiamento del «Mattino» occorre apportare alcune correzioni metodiche: il carattere «avventuroso» dei fratelli Scarfoglio, la loro venalità (ricordare che Maria Sofia cercava sempre d’intervenire nella politica interna italiana per spirito di vendetta se non con la speranza di restaurare il regno di Napoli: ricordare il trafiletto di Salvemini nell’«Unità» del 14 o 15 contro Malatesta per i fatti del giugno 1914 che si insinuava potessero essere stati patrocinati dallo Stato Maggiore austriaco per il tramite di Zita di Borbone e l’episodio ricordato da Benedetto Croce in Uomini e cose della vecchia Italia sui legami tra Malatesta e Maria Sofia per far evadere un anarchico che aveva fatto un attentato e sul passo diplomatico fatto dal governo italiano presso il governo francese per queste attività di Maria Sofia: — ricordare gli aneddoti della signora [...] che nel 1919 frequentò Maria Sofia per farle il <ritratto> [Nel ms alcune parole cancellate, non leggibili; l’integrazione redazionale è ripresa dal testo C.]), il loro dilettantismo politico e ideologico, ma occorre pur ricordare che il «Mattino» era il giornale più diffuso del Mezzogiorno e che i fratelli Scarfoglio erano dei giornalisti nati, cioè possedevano quell’intuizione rapida e «simpatica» delle correnti passionali popolari che rende possibile la diffusione della stampa gialla.
Un altro elemento per saggiare la portata reale della politica «unitaria ossessionata» di Crispi è il complesso di sentimenti creatosi nel settentrione per riguardo al mezzogiorno. La «miseria» del Mezzogiorno era inspiegabile «storicamente» per le masse popolari del Nord: queste non capivano che l’unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città‑campagna, cioè che il Nord era una «piovra» che si arricchiva alle spese del Sud, che l’incremento industriale era dipendente dall’impoverimento dell’agricoltura meridionale. Esse invece pensavano che se il Mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dagli impacci che allo sviluppo moderno opponeva il borbonismo, ciò significava che le cause della miseria non erano esterne ma interne; poiché d’altronde era radicata la persuasione della grande ricchezza naturale del terreno, non rimaneva che una spiegazione, l’incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica.
Queste opinioni già diffuse (il lazzaronismo napoletano era una leggenda di vecchia data) furono consolidate e teorizzate addirittura dai sociologhi del positivismo (Niceforo, Ferri, Orano ecc.) assumendo la forza delle «verità scientifiche» in un tempo di superstizione della scienza. Si ebbe così una polemica Nord‑Sud sulle razze e sulle superiorità e inferiorità del Settentrione e del Mezzogiorno (libri di Colajanni in difesa del Mezzogiorno e collezione della «Rivista Popolare»). Intanto rimase nel Nord la credenza della «palla di piombo» che il Mezzogiorno rappresenterebbe per l’Italia, la persuasione dei più grandi progressi che la civiltà moderna industriale del Nord avrebbe fatto senza questa «palla di pionibo» ecc. ecc. Nei principi del secolo c’è una forte reazione meridionale anche su questo terreno. Congresso Sardo del 1911 sotto la presidenza del generale Rugiu, nel quale si calcola quanti milioni sono stati estorti alla Sardegna nei primi 50 anni di unità a favore del continente. Campagne di Salvemini culminate nella fondazione dell’«Unità», ma condotte già nella «Voce» (numero unico della «Voce» sulla «Quistione meridionale» pubblicato anche in opuscolo).
In questo secolo si realizza un certo blocco «intellettuale» che ha a capo B. Croce e Giustino Fortunato e che si dirama in tutta Italia; in ogni rivistina di giovani, che abbiano tendenze liberali‑democratiche e in generale si propongano di svecchiare la cultura italiana, in tutti i campi, dell’arte, della letteratura, della politica, appare non solo l’influenza del Croce e del Fortunato, ma la loro collaborazione: esempio tipico la «Voce» e l’«Unità», ma si vede anche nella «Patria» di Bologna, nell’«Azione Liberale» di Milano, nei «borelliani» ecc.. Appare anche nel «Corriere della Sera» e finisce nel dopoguerra, date le nuove situazioni, con l’apparire nella «Stampa» (attraverso Cosmo, Salvatorelli, Ambrosini) e nel giolittismo, con l’assunzione di Croce nell’ultimo governo Giolitti.
Di questo movimento, oggi, vien data una interpretazione tendenziosa anche da G. Prezzolini che ne fu una tipica incarnazione; ma rimane la prima edizione della Cultura italiana di Prezzolini, del 1923, con le sue «omissioni», come documento autentico. Questo movimento giunge fino al Gobetti e alle sue iniziative di cultura e trova in lui il suo punto di risoluzione. Gobetti rappresenta il punto d’approdo di questo movimento e la fine del blocco, cioè l’origine della sua dissoluzione. La polemica di Giovanni Ansaldo contro Guido Dorso è il documento più espressivo di questa dissoluzione, anche per una certa comicità di atteggiamenti gladiatori di intimidazione dell’«unitarismo ossessionato». Da questo complesso di avvenimenti e di spunti polemici deriva un criterio per ricercare la diversa «saggezza» delle diverse correnti che si contesero la direzione politica e ideologica del Partito d’Azione: il collegamento delle diverse classi rurali che si realizza in un blocco attraverso i diversi ceti intellettuali può essere dissolto per addivenire a una nuova formazione (passaggio dal borbonesimo al regime liberale nazionale nell’Italia meridionale) solo se si fa forza in due direzioni: sui contadini di base accettandone le rivendicazioni e facendo di esse parte integrante del nuovo programma di governo e sugli intellettuali insistendo sui motivi che più li possono interessare. Il rapporto tra queste due azioni è dialettico: se i contadini si muovono, gli intellettuali incominciano a oscillare e reciprocamente se un gruppo di intellettuali si pone sulla nuova base, essi finiscono col trasportare con sé frazioni di massa sempre più importanti.
Si può dire, data la dispersione e l’isolamento della popolazione rurale e la difficoltà quindi di concentrarli in forti organizzazioni, che conviene iniziare il lavoro politico dagli intellettuali, ma in generale è il rapporto dialettico tra le due azioni che occorre tener presente. Si può dire anche che partiti contadini nel senso proprio della parola è quasi impossibile crearne: il partito nei contadini si realizza in generale come forte corrente di opinioni, non in forme schematiche; ma l’esistenza anche di uno scheletro di partito è di immensa utilità, sia per una certa selezione di uomini, sia per controllare gli intellettuali e impedire che gli «interessi di casta» li trasportino impercettibilmente in altro terreno.
Questo criterio deve essere tenuto presente nello studio di Giuseppe Ferrari che fu lo specialista inascoltato in questioni agrarie del Partito d'Azione. In Giuseppe Ferrari bisogna anche studiare bene il suo atteggiamento verso il bracciantato agricolo, cioè i contadini senza terra, sui quali egli fonda una parte cospicua delle sue ideologie per cui egli è ancora ricercato e studiato da determinate correnti moderne (opere del Ferrari ristampate dal Monanni con prefazione di Luigi Fabbri). Occorre riconoscere che il problema del bracciantato è difficilissimo e rende arduo anche oggi il trovarne una soluzione. In generale occorre tener presenti questi criteri: i braccianti sono anche oggi ed erano tanto più nel periodo del Risorgimento, dei semplici contadini senza terra, non degli operai di una industria agricola sviluppata con capitale concentrato. La loro psicologia perciò è, salvo eccezioni, la stessa del colono e del piccolo proprietario. (Bisognerebbe rivedere la polemica tra i senatori Bassini e Tanari nel «Resto del Carlino» e nella «Perseveranza» della fine del 17 o del 18 a proposito della realizzazione della formula «la terra ai contadini» lanciata durante la guerra: il Tanari era pro, il Bassini contro sulla base della sua esperienza di grande industriale agricolo, di proprietario di aziende agricole in cui la divisione del lavoro era già talmente progredita da rendere indivisibile la terra per la sparizione del contadino‑artigiano e l’emergere dell’operaio). In una forma acuta la quistione si poneva non tanto nel Mezzogiorno, dove il carattere artigianesco del lavoro contadino è troppo evidente, ma nella valle padana dove esso è più velato.
Anche in tempi recenti però l’esistenza del bracciantato padano era dovuta in parte a cause extraeconomiche: 1° sovrappopolazione che non trovava lo sbocco nell’emigrazione come nel Sud ed era artificialmente mantenuta con la politica dei lavori pubblici; 2° volontà dei proprietari che non volevano consolidare in un’unica classe né di braccianti né di mezzadri la popolazione rurale e quindi alternavano alla mezzadria la conduzione a economia, servendosi di questa alternanza anche per selezionare un gruppo di mezzadri privilegiati che fossero i loro alleati politici (in ogni congresso di agrari della regione padana si discute sempre se convenga meglio la mezzadria o la conduzione diretta, e traspare la motivazione politica della scelta che vien fatta). Il problema del bracciantato padano appariva nel Risorgimento sotto la forma di fenomeno pauroso di pauperismo. Così è visto da Tullio Martello nella sua Storia dell’Internazionale del 1871‑72, lavoro che occorre tener presente perché riflette ancora le passioni politiche e le preoccupazioni sociali del periodo precedente.
La posizione del Ferrari poi è indebolita dal suo «federalismo», che specialmente in lui, vivente in Francia, appariva ancor più come il riflesso degli interessi nazionali e statali francesi. Ricordare Proudhon e i suoi pamphlets contro l’unità italiana, combattuta dal punto di vista confessato dell’interesse statale francese e della democrazia: tutte le correnti principali della politica francese erano contro l’unità italiana. Ancora oggi i monarchici (Bainville, ecc.) fanno la lotta contro il principio nazionalitario dei due Napoleoni che avrebbe portato all’unificazione della Germania e dell’Italia, abbassando così la statura relativa della Francia.
È proprio sulle parole d’ordine di «unità e indipendenza» senza tener conto del concreto contenuto politico che i moderati formarono il blocco nazionale sotto la loro egemonia. Come fossero riusciti nell’intento lo dimostra anche questa espressione di Guerrazzi in una lettera a uno studente siciliano (pubblicata nell’«Archivio Storico Siciliano» da Eugenio de Carlo — carteggio di F. D. Guerrazzi col notaio Francesco Paolo Sardofontana di Riella, riassunto nel «Marzocco» del 24 novembre 1929): «Sia che vuolsi — o dispotismo, o repubblica o che altro, — non cerchiamo di dividerci; con questo cardine, caschi il mondo, ritroveremo la via»; ma di questi esempi se ne potrebbero citare a migliaia e tutta l’operosità di Mazzini è stata concretamente riassunta nella propaganda per l’unità. (Naturalmente i moderati dopo il 48, quando furono riorganizzati da Cavour intorno al Piemonte).
A proposito del giacobinismo e del Partito d'Azione un elemento da ricordare è che i giacobini conquistarono con la lotta la loro funzione di partito dirigente: essi si imposero alla borghesia francese, conducendola su una posizione molto più avanzata di quella che la borghesia avrebbe voluto «spontaneamente» e anche molto più avanzata di quella che le premesse storiche dovevano consentire, e perciò i colpi di ritorno e la funzione di Napoleone. Questo tratto, caratteristico del giacobinismo e quindi di tutta la Rivoluzione Francese, del forzare la situazione (apparentemente) e del creare fatti compiuti irreparabili, cacciando avanti la classe borghese a calci nel sedere, da parte di un gruppo di uomini estremamente energici e risoluti può essere «schematizzato» così: il terzo stato era il meno omogeneo degli stati; la borghesia ne costituiva la parte più avanzata culturalmente ed economicamente; lo sviluppo degli avvenimenti francesi mostra lo sviluppo politico di questa parte, che inizialmente pone le questioni che solo interessano i suoi componenti fisici attuali, i suoi interessi «corporativi» immediati (corporativi in un senso speciale, di immediati ed egoistici di un determinato gruppo ristretto sociale); i precursori della rivoluzione sono dei riformisti moderati, che fanno la voce grossa ma in realtà domandano ben poco. Questa parte avanzata perde a mano a mano i suoi caratteri «corporativi» e diventa classe egemone per l’azione di due fattori: la resistenza delle vecchie classi e l’attività politica dei giacobini.
Le vecchie classi non vogliono cedere nulla e se cedono qualche cosa lo fanno con l’intenzione di guadagnare tempo e preparare la controffensiva; la borghesia sarebbe caduta in questi «tranelli» successivi senza l’azione energica dei giacobini, che si oppongono ad ogni arresto intermedio e mandano alla ghigliottina non solo i rappresentanti delle vecchie classi, ma anche i rivoluzionari di ieri oggi diventati reazionari. I giacobini dunque rappresentano il solo partito della rivoluzione, in quanto essi non solo vedono gli interessi immediati delle persone fisiche attuali che costituiscono la borghesia francese, ma vedono gli interessi anche di domani e non di quelle sole determinate persone fisiche, ma degli altri strati sociali del terzo stato che domani diventeranno borghesi, perché essi sono persuasi dell’égalité e della fraternité. Bisogna ricordare che i giacobini non erano astrattisti, anche se il loro linguaggio «oggi» in una nuova situazione e dopo più di un secolo di elaborazione storica, sembra «astrattista». Il linguaggio dei giacobini, la loro ideologia, rifletteva perfettamente i bisogni dell’epoca, secondo le tradizioni e la cultura francese (cfr nella Sacra Famiglia l’analisi di Marx da cui risulta che la fraseologia giacobina corrispondeva perfettamente ai formulari della filosofia classica tedesca, alla quale oggi si riconosce maggiore concretezza e che ha dato origine allo storicismo moderno): 1° bisogno: annientare la classe avversaria o almeno ridurla all’impotenza; creare l’impossibilità di una controrivoluzione; 2° allargare gli interessi di classe della borghesia, trovando gli interessi comuni tra essa e gli altri strati del terzo stato, mettere in moto questi strati, condurli alla lotta, ottenendo due risultati: 1° di opporre un bersaglio più largo ai colpi della classe avversa, cioè di creare un rapporto militare favorevole alla rivoluzione; 2° di togliere alla classe avversa ogni zona di passività in cui essa avrebbe certamente creato eserciti vandeani (senza la politica agraria dei giacobini Parigi sarebbe stata circondata dalla Vandea fino alle sue porte: la resistenza della Vandea propriamente detta è legata alla quistione nazionale determinata tra i Brettoni dalla formula della «repubblica una e indivisibile», alla quale i giacobini non potevano rinunziare pena il suicidio: i girondini cercarono di far leva sul federalismo per schiacciare i giacobini, ma le truppe provinciali condotte a Parigi passarono ai giacobini: eccetto la Brettagna e altre piccole zone periferiche, la quistione agraria si presentava scissa dalla quistione nazionale, come si vede in questo e altri episodi militari: la provincia accettava l’egemonia di Parigi, cioè i rurali comprendevano che i loro interessi erano legati a quelli della borghesia). I giacobini dunque forzarono la mano, ma sempre nel senso dello sviluppo storico reale, perché essi fondarono non solo lo Stato borghese, fecero della borghesia la classe «dominante», ma fecero di più (in un certo senso), fecero della borghesia la classe dirigente, egemone, cioè dettero allo Stato una base permanente.
Che i giacobini siano sempre rimasti sul terreno di classe, è dimostrato dagli avvenimenti che segnarono la loro fine e la morte di Robespierre: essi non vollero riconoscere agli operai il diritto di coalizione (legge Chapelier e [sue conseguenze nella legge del «maximum»]) e così spezzarono il blocco urbano di Parigi; le loro forze d’assalto, che si riunivano nel Comune, si dispersero, deluse, e il Termidoro ebbe il sopravvento: la rivoluzione aveva trovato i suoi limiti di classe: la politica degli «alleati» aveva fatto sviluppare quistioni nuove che allora non potevano essere risolte.
Nel Partito d'Azione non troviamo questo spirito giacobino, questa volontà di diventare «partito dirigente». Occorre tener conto delle differenze: in Italia la lotta si presentava come lotta contro i vecchi trattati e contro la Potenza straniera, l’Austria, che li rappresentava e li sosteneva in Italia con le armi, occupando il Lombardo‑Veneto ed esercitando un controllo sul resto del territorio. Anche in Francia il problema si presentò, almeno in un certo senso, perché ad un certo punto la lotta interna divenne lotta nazionale combattuta alla frontiera, ma i giacobini seppero trarne elementi di maggior energia: essi compresero bene che per vincere il nemico esterno dovevano schiacciare all’interno i suoi alleati e non esitarono a compiere le stragi di settembre. In Italia questo legame che pur esisteva, esplicito ed implicito, tra l’Austria e una parte almeno delle alte classi nobiliari e terriere, non fu denunziato dal Partito d’Azione o almeno non fu denunziato con la dovuta energia: in ogni modo non divenne elemento politico attivo. Si trasformò, curiosamente, in una quistione di maggiore o minore dignità patriottica e dette poi luogo a uno strascico di polemiche acrimoniose, ma sterili fino al 98 (cfr articoli di «Rerum Scriptor» nella «Critica Sociale» e il libro di Bonfadini Cinquant’anni di patriottismo).
Ricordare a questo proposito la quistione dei «costituti» di Federico Confalonieri; il Bonfadini nel suo libro su citato afferma che i «costituti» si trovano nell’Archivio di Stato di Milano; mi pare accenni a 80 fascicoli; altri hanno sempre negato che i «costituti» esistessero in Italia e così spiegavano la non pubblicazione; in un articolo sul «Corriere della Sera» del senatore Salata, incaricato dal Governo di far ricerche negli Archivi di Vienna sulla storia italiana, si diceva, verso il 24 o 25, che i «costituti» erano stati da lui trovati. Ricordare il fatto che in un certo periodo la «Civiltà Cattolica» sfidò i liberali a pubblicarli, affermando che essi, conosciuti, avrebbero nientedimeno fatto saltare in aria la unità italiana. Il fatto notevole nella quistione Confalonieri consiste in questo: che a differenza di altri patriotti graziati dall’Austria, il Confalonieri, che pure era un rimarchevole uomo di Stato, si ritirò dalla vita politica attiva e mantenne, dopo la sua liberazione, un contegno molto riservato. Tutta la quistione del Confalonieri è da esaminare, insieme con l’atteggiamento tenuto al processo da lui e dai suoi compagni, anche su un esame più approfondito delle memorie scritte dai singoli, quando le scrissero: per le polemiche che suscitò, interessanti le memorie del francese Alessandro Andryane in parte piccolissima pubblicate da Rosolino Guastalla in una edizione Barbera, che, mi pare, se attaccò il Pallavicino per la sua debolezza, tributa invece molto rispetto al Confalonieri.
A proposito delle difese fatte anche recentemente dell’atteggiamento tenuto dall’aristocrazia lombarda verso l’Austria, specialmente dopo l’insurrezione del febbraio 53 e durante il viceregno di Massimiliano, ricordare che Alessandro Luzio, la cui opera storica è completamente tendenziosa, giunge fino a legittimare i fedeli servizi pretati all’Austria dal Salvotti e C.; altro che spirito giacobino!.
La punta comica nella quistione è data da Alfredo Panzini che, nella Vita di Cavour, fa tutta una variazione altrettanto leziosa quanto stucchevole e gesuitica sulla «pelle di tigre» esposta da una finestra aristocratica durante una visita a Milano di Francesco Giuseppe!!.
Da tutti questi punti di vista devono essere considerate le concezioni di Missiroli, Gobetti, Dorso, ecc. sul Risorgimento italiano come «conquista regia».
Se in Italia non sorse un partito giacobino, ci devono essere le ragioni da ricercare nel campo economico, cioè nella relativa debolezza della borghesia italiana, e nella temperatura storica diversa dell’Europa. Il limite trovato dai giacobini, nella loro politica di forzato risveglio delle energie popolari francesi da alleare alla borghesia, con la legge Chapelier e la legge sul «maximum»Aggiunto a margine in epoca posteriore., si presentava nel 48 come uno «spettro» già minaccioso, sapientemente agitato dall’Austria e dai vecchi governi, ma anche da Cavour (oltre che dal Papa). La borghesia non poteva più estendere la sua egemonia su i vasti strati che poté abbracciare in Francia, è vero, ma l’azione sui contadini era sempre possibile. Differenza tra Francia, Germania e Italia nel processo di presa del potere della borghesia (e Inghilterra). In Francia abbiamo il fenomeno completo, la maggior ricchezza di elementi politici. In Germania il fenomeno rassomiglia per alcuni aspetti a quello italiano, per altri a quello inglese. In Germania il 48 fallisce per la poca concentrazione borghese (la parola d’ordine di tipo giacobino fu data nel 48 tedesco da Marx: «rivoluzione in permanenza») e perché la quistione è intrecciata con quella nazionale; le guerre del 64, del 66 e del 70 risolvono la quistione nazionale e la quistione di classe in un tipo intermedio: la borghesia ottiene il governo economico‑industriale, ma le vecchie classi feudali rimangono come ceto governativo con ampi privilegi di casta nell’esercito, nell’amministrazione statale e sulla terra; ma almeno in Germania queste vecchie classi, se conservano tanta importanza e mantengono tanti privilegi, esercitano una funzione, sono gli «intellettuali» della borghesia, con un determinato temperamento dato dall’origine di classe e dalla tradizione. In Inghilterra, dove la Rivoluzione borghese si è svolta prima che in Francia, abbiamo lo stesso fenomeno che in Germania di fusione tra il vecchio e il nuovo, nonostante l’estrema energia dei «giacobini» inglesi, cioè le «teste rotonde» di Cronwell: la vecchia aristocrazia rimane come ceto governativo, con certi privilegi, diventa anch’essa il ceto intellettuale della borghesia inglese (vedi in proposito le osservazioni di Engels nella prefazione inglese, mi pare, a Utopia e Scienza, che occorre ricordare per questa ricerca sugli intellettuali e le loro funzioni storiche di classe).
La spiegazione data da Antonio Labriola sulla permanenza al potere in Germania degli Junker e del kaiserismo nonostante il grande sviluppo capitalistico adombra la giusta spiegazione: il rapporto di classe creatosi per lo sviluppo industriale col raggiungimento del limite dell’egemonia borghese e col rovesciamento delle situazioni di classi progressive, induce la borghesia a non lottare a fondo contro il vecchio mondo, ma a lasciarne sussistere quella parte di facciata che serva a velare il suo dominio.
Questo diverso manifestarsi dello stesso fenomeno nei diversi paesi è da legare ai diversi rapporti non solo interni, ma anche internazionali (i fattori internazionali di solito sono sottovalutati in queste ricerche). Lo spirito giacobino, audace, temerario, è certamente legato all’egemonia esercitata dalla Francia per tanto tempo. Le guerre di Napoleone, invece, con l’enorme distruzione di uomini, tra i più forti e avventurosi, indeboliscono non solo le energie francesi, ma anche quelle delle altre nazioni, sebbene diano anche formidabili lezioni di energia nuova.
I fattori internazionali sono stati certo fortissimi nel determinare la linea del Risorgimento. Essi poi sono stati ancora più esagerati dal partito moderato (Cavour) a scopo di partito: è notevole il fatto, a questo proposito, di Cavour che teme come il fuoco l’iniziativa garibaldina prima della spedizione di Quarto per le complicazioni internazionali che può creare e poi è spinto egli stesso dall’entusiasmo creato dai mille nell’opinione pubblica europea fino a vedere come fattibile una nuova guerra all’Austria. Esisteva dunque in Cavour una certa deformazione professionale del diplomatico, che lo portava a vedere «troppe» difficoltà e lo induceva a una esagerazione cospirativa e a prodigi, che sono in gran parte funamboleschi, di sottigliezza e di intrigo. In ogni caso egli fece bene la sua parte di uomo di partito; che poi questo partito rappresentasse la nazione, anche solo nel senso della più vasta estensione della comunità di interessi della borghesia con altre classi, è un’altra quistione.
A proposito della parola d’ordine «giacobina» lanciata da Marx alla Germania del 48‑49 è da osservare la sua complicata fortuna. Ripresa, sistematizzata, elaborata, intellettualizzata dal gruppo Parvus- Bronstein [Trotzky ndc], si manifestò inerte e inefficace nel 1905 e in seguito: era una cosa astratta, da gabinetto scientifico. La corrente che la avversò in questa sua manifestazione intellettualizzata, invece, senza usarla «di proposito» la impiegò di fatto nella sua forma storica, concreta, vivente, adatta al tempo e al luogo, come scaturiente da tutti i pori della società che occorreva trasformare, di alleanza tra due classi con l’egemonia della classe urbana.
Nell’un caso, temperamento giacobino senza il contenuto politico adeguato, tipo Crispi; nel secondo caso temperamento e contenuto giacobino secondo i nuovi rapporti storici, e non secondo un’etichetta intellettualistica.
Q1 §45 Intellettuali siciliani. Rivalità fra Palermo e Catania per contendersi il primato intellettuale dell’isola. — Catania chiamata l’Atene siciliana, anzi la «sicula Atene». —
Celebrità di Catania: Domenico Tempio, poeta licenzioso, la cui attività viene dopo il terremoto del 1693 che distrusse Catania (Antonio Prestinenza collega il tono licenzioso del poeta al fatto del terremoto: morte — vita — distruzione — fecondità). — Vincenzo Bellini, contrapposto al Tempio per la sua melanconia romantica.
Mario Rapisardi è la gloria moderna di Catania. Garibaldi gli scrive: «All’avanguardia del progresso noi vi seguiremo» e Victor Hugo: «Vous êtes un précurseur». — Rapisardi‑Garibaldi‑Victor Hugo. — Polemica Carducci‑Rapisardi. — Rapisardi‑De Felice (il primo maggio De Felice conduceva il corteo sotto il portone di Rapisardi). — Popolarismo socialista mescolato col culto superstizioso di Sant’Agata: quando Rapisardi in punto di morte si volle che rientrasse nella Chiesa: «Tal visse Argante e tal morì qual visse» disse Rapisardi. — Accanto al Rapisardi: Verga, Capuana, De Roberto, che però non considerati «sicilianissimi», anche perché legati alle correnti continentali e amici del Carducci. — Catania e l’Abruzzo nella letteratura italiana dell’ottocento.
Q1 §46 Moderati e gli intellettuali. I moderati dovevano avere il sopravvento tra gli intellettuali. Mazzini e Gioberti. Gioberti offriva agli intellettuali una filosofia che sembrava nazionale e originale, tale da porre l’Italia allo stesso livello delle nazioni più progredite e dare nuova dignità al «pensiero» italiano; Mazzini dava solo degli aforismi e degli accenni filosofici che a molti intellettuali, specialmente meridionali, dovevano sembrare vuote chiacchiere (il Galiani aveva «sfottuto» quel modo di pensare e di scrivere). Quistione della scuola. Attività dei moderati per introdurre il principio pedagogico dell’«insegnamento reciproco» (Confalonieri, Capponi ecc.); movimento di Ferrante Aporti e degli asili, legato anche al pauperismo. Era il solo movimento concreto contro la scuola «gesuitica» e non poteva non avere efficacia non solo fra i laici, ai quali dava una personalità propria, ma anche nel clero liberaleggiante e antigesuitico (ostilità contro Ferrante Aporti ecc.; il ricovero e l’educazione dell’infanzia abbandonata era un monopolio del clericalismo e queste iniziative spezzavano il monopolio).
Queste attività scolastiche del Risorgimento di carattere liberale o liberaleggiante hanno una grande importanza per afferrare il meccanismo dell’egemonia dei moderati sugli intellettuali. L’attività scolastica, in tutti i suoi gradi, ha un’importanza enorme, anche economica, per gli intellettuali di tutti i gradi; l’aveva allora anche maggiore, data la ristrettezza dei quadri sociali e le scarse strade aperte all’iniziativa degli intellettuali (oggi: giornalismo, movimento di partiti ecc. hanno allargato moltissimo i quadri intellettuali).
L’egemonia di un centro direttivo sugli intellettuali ha queste due linee strategiche: «una concezione generale della vita», una filosofia (Gioberti), che dia agli aderenti una «dignità» da contrapporre alle ideologie dominanti come principio di lotta; un programma scolastico che interessi e dia una attività propria nel loro campo tecnico a quella frazione degli intellettuali che è la più omogenea e la più numerosa (insegnanti, dai maestri ai professori d’Università).
I Congressi degli scienziati che si ripeterono nel Risorgimento ebbero una doppia efficacia: 1° riunire gli intellettuali del grado più elevato, moltiplicando così la loro influenza; 2° ottenere una più rapida concentrazione degli intellettuali dei gradi più bassi, che sono portati normalmente a seguire gli universitari, i grandi scienziati per spirito di casta.
Lo studio delle Riviste enciclopediche e specializzate dà un altro aspetto di questa egemonia. Un partito come quello moderato offriva alla massa degli intellettuali tutte le soddisfazioni per le esigenze generali che possono essere offerte da un governo (da un partito al governo) attraverso i servizi statali (per questa funzione di partito «di governo» servì ottimamente dopo il 48 lo Stato piemontese che accolse gli intellettuali esuli e mostrò in modello ciò che sarebbe stato il futuro Stato unitario).
Q1 §47 Hegel e l’associazionismo. La dottrina di Hegel sui partiti e le associazioni come trama «privata» dello Stato. Essa derivò storicamente dalle esperienze politiche della Rivoluzione francese e doveva servire a dare una maggiore concretezza al costituzionalismo. Governo col consenso dei governati, ma col consenso organizzato, non generico e vago quale si afferma nell’istante delle elezioni: lo Stato ha e domanda il consenso, ma anche «educa» questo consenso con le associazioni politiche e sindacali, che però sono organismi privati, lasciati all’iniziativa privata della classe dirigente. Hegel, in un certo senso supera già, così, il puro costituzionalismo e teorizza lo Stato parlamentare col suo regime dei partiti. La sua concezione dell’associazione non può essere che ancora vaga e primitiva, tra il politico e l’economico, secondo l’esperienza storica del tempo, che era molto ristretta e dava un solo esempio compiuto di organizzazione, quello «corporativo» (politica innestata nell’economia).
Marx non poteva avere esperienze storiche superiori a quelle di Hegel (almeno molto superiori), ma aveva il senso delle masse, per la sua attività giornalistica e agitatoria. Il concetto di Marx dell’organizzazione rimane ancora impigliato tra questi elementi: organizzazione di mestiere, clubs giacobini, cospirazioni segrete di piccoli gruppi, organizzazione giornalistica. La Rivoluzione francese offre due tipi prevalenti: i clubs, che sono organizzazioni non rigide, tipo «comizio popolare», centralizzate da singole individualità politiche, ognuna delle quali ha il suo giornale, con cui tiene desta l’attenzione e l’interesse di una determinata clientela sfumata ai margini, che poi sostiene le tesi del giornale nelle riunioni del club. È certo che in mezzo agli assidui dei clubs dovevano esistere aggruppamenti ristretti e selezionati di gente che si conosceva reciprocamente, che si riuniva a parte e preparava l’atmosfera delle riunioni per sostenere l’una o l’altra corrente secondo i momenti e anche secondo gli interessi concreti in gioco. Le cospirazioni segrete, che poi ebbero tanta diffusione in Italia prima del 48, dovettero svilupparsi dopo il Termidoro in Francia, tra i seguaci di seconda linea del giacobinismo, con molte difficoltà nel periodo napoleonico per l’occhiuto controllo della polizia, con più facilità dal 15 al 30 sotto la Restaurazione, che fu abbastanza liberale alla base e non aveva certe preoccupazioni. In questo periodo dal 15 al 30 dovette avvenire la differenziazione del campo politico popolare, che appare già notevole nelle «gloriose giornate» del 1830, in cui affiorano le formazioni venutesi costituendo nel quindicennio precedente. Dopo il 30 e fino al 48 questo processo di differenziazione si perfeziona e dà dei tipi abbastanza compiuti con Blanqui e con Filippo Buonarroti.
È difficile che Hegel potesse conoscere da vicino queste esperienze storiche, che invece erano più vivaci in Marx (su questa serie di fatti vedere come primo materiale le pubblicazioni di Paul Louis e il Dizionario politico di Maurice Block; per la Rivoluzione francese specialmente Aulard; vedere anche le dell’Andler al Manifesto; per l’Italia il libro del Luzio sulla Massoneria e il Risorgimento, molto tendenzioso).
Q1 §48 Il giacobismo a rovescio di Carlo Maurras (seguito al Q1 § di p. 8 bis). Lo sviluppo del giacobinismo (di contenuto) ha trovato la sua perfezione formale nel regime parlamentare, che realizza nel periodo più ricco di energie «private» nella società l’egemonia della classe urbana su tutta la popolazione, nella forma hegeliana di governo col consenso permanentemente organizzato (coll’organizzazione lasciata all’iniziativa privata, quindi di carattere morale o etico, perché consenso «volontario», in un modo o nell’altro). Il «limite» trovato dai giacobini con la legge Chapelier o il maximum viene superato e allargato attraverso un processo complesso, teorico‑pratico (giuridico‑politico = economico), per cui si riottiene il consenso politico (si mantiene l’egemonia) allargando e approfondendo la base economica con lo sviluppo industriale e commerciale fino alla epoca dell’imperialismo e alla guerra mondiale. In questo processo si alternano insurrezioni e repressioni, allargamenti e restrizioni del suffragio politico, libertà di associazione e restrizione o annullamento di questa libertà, libertà nel campo sindacale ma non nel campo politico, forme diverse del suffragio, di lista o per piccola circoscrizione, proporzionale o individuale, con le varie combinazioni che ne risultano, il sistema di una camera o delle due camere, coi vari modi di scelta per ognuna (camera vitalizia ed ereditaria, o solamente vitalizia, elettiva anch’essa, ma non come la camera bassa, ecc.), col vario equilibrio dei poteri, per cui la magistratura è un potere o un ordine, indipendente o controllato e diretto dal governo, con le diverse attribuzioni del capo dello Stato, col diverso equilibrio interno degli organismi territoriali (centralismo o decentramento, minori o maggiori poteri dei prefetti, dei Consigli provinciali, dei comuni); con un diverso equilibrio tra forze armate di leva e corpi armati professionali (polizia, gendarmeria); con la dipendenza di questi corpi professionali dall’uno o dall’altro potere statale (dalla magistratura, dal ministro dell’interno o da quello della guerra); con la maggiore o minore parte lasciata alla consuetudine o alla legge scritta, per cui si sviluppano delle forme consuetudinarie che possono essere abolite in virtù della legge scritta; con il distacco reale più o meno grande tra i regolamenti e le leggi fondamentali, con l’uso più o meno grande di decreti legge che si sovrappongono alla legislazione ordinaria e la modificano in certe occasioni, forzando la «pazienza» del parlamento. A questo processo contribuiscono i teorici‑filosofi, i pubblicisti, i partiti politici ecc. per la parte formale e i movimenti di massa per la parte sostanziale, con azioni e reazioni reciproche, con iniziative «preventive» prima che un fenomeno si manifesti pericolosamente e con repressioni quando le prevenzioni sono mancate o sono state tardive o inefficaci. L’esercizio «normale» dell’egemonia nel terreno divenuto classico del regime parlamentare, è caratterizzato da una combinazione della forza e del consenso che si equilibrano, senza che la forza soverchi di troppo il consenso, anzi appaia appoggiata dal consenso della maggioranza espresso dai così detti organi dell’opinione pubblica (i quali perciò, in certe situazioni, vengono moltiplicati artificiosamente). Tra il consenso e la forza sta la corruzione‑frode (che è caratteristica di certe situazioni di difficile esercizio della funzione egemonica presentando l’impiego della forza troppi pericoli), cioè lo snervamento e la paralisi procurati all’antagonista o agli antagonisti con l’accaparrarne i dirigenti, copertamente in via normale, apertamente in caso di pericolo prospettato per gettare lo scompiglio e il disordine nelle file antagoniste.
Nel periodo del dopoguerra, l’apparato egemonico si screpola e l’esercizio dell’egemonia diventa sempre più difficile. Il fenomeno viene presentato e trattato con vari nomi e sotto vari aspetti. I più comuni sono: «crisi del principio di autorità» — «dissoluzione del regime parlamentare». Naturalmente del fenomeno si descrivono solo le manifestazioni centrali, nel terreno parlamentare e governativo, e si spiegano col fallimento del «principio» parlamentare, del «principio» democratico ecc., non però del «principio» d’autorità (questo fallimento viene proclamato da altri). Praticamente questa crisi si manifesta nella sempre crescente difficoltà di formare dei governi e nella sempre crescente instabilità dei governi stessi ed ha la sua origine immediata nella moltiplicazione dei partiti parlamentari e nelle crisi interne permanenti di ognuno di questi partiti (cioè si verifica nell’interno di ogni partito ciò che si verifica nell’intero parlamento: difficoltà di governo). Le forme di questo fenomeno sono anche, in una certa misura, di corruzione e dissoluzione morale: ogni gruppetto interno di partito crede di avere la ricetta per arrestare l’indebolimento dell’intero partito e ricorre a ogni mezzo per averne la direzione o almeno per partecipare alla direzione così come nel parlamento il partito crede di essere il solo a dover formare il governo per salvare il paese o almeno, per dare l’appoggio al governo, di doverci partecipare il più largamente possibile; quindi contrattazioni cavillose e minuziose che non possono non essere personalistiche in modo da apparire scandalose. Forse nella realtà, la corruzione è minore di quanto si creda. Che gli interessati a che la crisi si risolva dal loro punto di vista, fingano di credere che si tratti della «corruzione» e «dissoluzione» di un «principio», potrebbe anche essere giustificato: ognuno può essere il giudice migliore nella scelta delle armi ideologiche che sono più appropriate ai fini che vuol raggiungere e la demagogia può essere ritenuta arma eccellente. Ma la cosa diventa comica quando il demagogo non sa di esserlo, quando cioè si opera praticamente come se si creda realmente che l’abito è il monaco, che il berretto è il cervello. Machiavelli e Stenterello. La crisi in Francia. Sua grande lentezza. I partiti francesi. Essi erano molto numerosi anche prima del 14. La loro molteplicità formale dipende dalla ricchezza di avvenimenti politici in Francia dal 1789 all’Affare Dreyfus. Ognuno di questi avvenimenti ha lasciato sedimenti e strascichi che si sono consolidati in partiti; ma le differenze essendo molto meno importanti delle coincidenze, in realtà ha regnato in parlamento il regime dei due partiti: liberali‑democratici (varie gamme del radicalesimo) e conservatori. La molteplicità dei partiti è stata utile nel passato: ha permesso una vasta opera di selezione e ha creato un gran numero di uomini di governo. Così ogni movimento dell’opinione pubblica trovava un immediato riflesso e una composizione. L’egemonia borghese è molto forte e ha molte riserve. Gli intellettuali sono molto concentrati (Accademia, Università, grandi giornali e riviste di Parigi) e quantunque numerosissimi, molto disciplinati ai centri di cultura. La burocrazia militare e civile ha una grande tradizione e ha raggiunto una grande omogeneità. La debolezza interna più pericolosa nell’apparato statale (militare e civile) era data dal clericalismo alleato ai monarchici. Ma la massa popolare, se pure cattolica, non era clericale. Nell’affare Dreyfus è culminata la lotta per paralizzare l’influenza clericale‑monarchica nell’apparato statale e per dare all’elemento laico la netta prevalenza. La guerra non ha indebolito, ma rafforzato l’egemonia; non si è avuto tempo di pensare: il paese è entrato in guerra e quasi subito il suo territorio è stato invaso. Il passaggio dalla vecchia disciplina alla nuova non ha domandato una crisi troppo grande: i vecchi quadri militari erano vasti abbastanza e abbastanza elastici: gli ufficiali subalterni e i sottufficiali erano forse i più scelti del mondo, i meglio allenati.
Confronto con altri paesi. La quistione degli arditi. La crisi dei quadri, il gran numero degli ufficiali di complemento. Gli arditi in altri paesi hanno rappresentato un nuovo esercito di volontari, una selezione militare, che ebbe una funzione tattica primordiale. Il contatto col nemico fu ricercato solo attraverso gli arditi, che formarono come un velo tra il nemico e l’esercito di leva (come le stecche di un busto). La fanteria francese formata in maggioranza di coltivatori diretti, cioè di uomini con una certa riserva muscolare e nervosa che rese più difficile il collasso fisico procurato dalla vita di trincea (il consumo medio di un francese è di circa 1 500 000 calorie all’anno, mentre quello italiano è di meno che un milione); in Francia il bracciantato è minimo (il contadino senza terra è servo di fattoria, cioè vive la stessa vita dei padroni e non conosce l’inedia della disoccupazione neanche stagionale, il vero bracciantato non arriva a un milione di persone); inoltre il vitto in trincea era migliore che in altri paesi e il passato democratico, ricco di lotte, aveva creato il cittadino, nel doppio senso, che l’uomo del popolo si sentiva qualche cosa, non solo, ma era ritenuto qualche cosa dai superiori, cioè non era sfottuto e bistrattato per bazzecole. Non si formarono così quei sedimenti di rabbia avvelenata e sorniona che si formarono altrove. Le lotte interne dopo l’armistizio mancarono perciò di grande asprezza e, specialmente, non si verificò l’inaudita oscillazione delle classi rurali. La crisi parlamentare francese indica che c’è un malessere diffuso nel paese, ma questo malessere non ha avuto sinora un carattere radicale, non ha posto in gioco quistioni «intangibili». C’è stato un allargamento della base industriale, e quindi un accresciuto urbanesimo. Masse di rurali si sono riversate in città, ma non perché ci fosse in campagna disoccupazione o fame insoddisfatta di terra; perché in città si sta meglio, ci sono più soddisfazioni (il prezzo della terra è basso e molte terre buone sono abbandonate agli italiani). La crisi parlamentare riflette (finora) piuttosto uno spostamento di masse normale (non dovuto a crisi economica), con una ricerca di nuovi equilibri di partito e un malessere vago, premonitore di una grande crisi. La stessa sensibilità dell’organismo politico porta a esagerare i sintomi del malessere. Si tratta per ora di una lotta per la divisione dei carichi statali e dei benefici statali, più che altro. Perciò crisi dei partiti medi e del partito radicale in primo luogo, che rappresenta le città medie e piccole e i contadini più avanzati. Le forze politiche si preparano alle grandi lotte future e cercano un miglior assestamento. Le forze extrastatali fanno sentire più sensibilmente il loro peso e impongono i loro uomini in modo più brutale.
Maurras grida già allo sfacelo e si prepara alla presa del potere. Maurras passa per un grande uomo di stato e per un grandissimo realista. In realtà egli è solo un giacobino alla rovescia. I giacobini usavano un certo linguaggio, seguivano una certa ideologia; nel loro tempo quel linguaggio e quella ideologia erano ultra‑realistici perché ottennero di far marciare le forze necessarie per ottenere i fini della rivoluzione e dettero alla classe rivoluzionaria il potere. Furono poi staccati dal tempo e dal luogo e ridotti in formule: erano una cosa diversa, uno spettro, delle parole vane e inerti. Il comico è che Maurras a quelle formule ne contrappose delle altre, in un sistema logico‑letterario formalmente impeccabile, ma del più puro illuminismo. Maurras rappresenta il più puro campione dello «stupido secolo XIX» la concentrazione di tutte le banalità massoniche rovesciate meccanicamente: la sua relativa popolarità viene appunto da questo, che il suo metodo piace perché è proprio quello della ragione ragionante da cui è sorto l’enciclopedismo, l’illuminismo e tutta la cultura massonica francese. Gli illuministi avevano creato il mito del selvaggio o che so io, Maurras crea il mito del passato monarchico francese; solo che questo mito è stato «storia» e le deformazioni intellettualistiche di esso possono essere troppo facilmente corrette.
La formula fondamentale di Maurras è «politique d’abord», ma egli è il primo a non osservarla. Prima della politica per lui c’è sempre l’«astrazione politica», l’accoglimento integrale di un programma «ideologico» minuziosissimo, che prevede tutti i particolari, come nelle utopie, che domanda una determinata concezione non della storia, ma della storia di Francia e d’Europa, cioè una determinata ermeneutica.
Léon Daudet ha scritto che la grande forza dell’Action Française è stata la incrollabile omogeneità e unità del suo gruppo dirigente. Sempre d’accordo, sempre solidali politicamente e ideologicamente.
Certo questa è una forza. Ma di carattere settario e massonico, non di grande partito di governo. Il linguaggio politico è diventato un gergo, si è formata un’atmosfera da conventicola: a forza di ripetere sempre le stesse formule, di maneggiare gli stessi schemi mentali irrigiditi, si finisce, è vero, col pensare allo stesso modo, perché si finisce col non pensar più. Maurras a Parigi e Daudet a Bruxelles pronunziano la stessa frase, senza accordo, sullo stesso avvenimento, ma l’accordo c’era già prima: erano già due macchinette di frasi montate da 20 anni per dire le stesse frasi nello stesso momento.
Il gruppo di Maurras si è formato per «cooptazione»: in principio c’era Maurras col suo verbo, poi si unì Vaugeois, poi Daudet, poi Pujo, ecc. ecc. Quando si staccò Valois fu una catastrofe di polemiche e di accuse. Dal punto di vista di tipo d’organizzazione l’Action Française è molto interessante. La sua forza è costituita di questi elementi: che i suoi elementi di base sono tipi sociali selezionati intellettualmente, nobili, intellettuali, ex‑ufficiali, studenti, gente cioè che è portata a ripetere pappagallescamente le formule di Maurras e anzi a trarne profitto «snobistico»; in una repubblica può essere segno di distinzione l’essere monarchici, in una democrazia parlamentare l’essere reazionar conseguenti; che sono ricchi, così che possono dare tanti fondi da permettere molteplici iniziative che danno l’apparenza di una certa vitalità e attività; la ricchezza di mezzi e la posizione sociale degli aderenti palesi ed occulti permette al giornale e al centro politico di avere una massa di informazioni e di documenti riservati che danno al giornale il mezzo delle polemiche personali: nel passato, ma in parte anche ora, il Vaticano doveva essere una fonte di primo ordine (il Vaticano, come centro, la Segreteria di Stato e l’alto clero francese; molte campagne devono essere a chiave o a mezza chiave: una parte di vero che fa capire che si sa tutto o allusioni furbesche comprensibili dagli interessati). A queste campagne il giornale dà un doppio significato: galvanizzare i propri aderenti sfoggiando conoscenza delle più segrete cose, ciò che dà l’impressione di gran forza d’organizzazione e di capacità, e paralizzare gli avversari, con la minaccia di disonorarli, per fare di alcuni dei fautori segreti.
La concezione pratica che si può ricavare da tutta l’attività dell’Action Française è questa: il regime parlamentare repubblicano si dissolverà ineluttabilmente perché esso è un «monstrum» storico che non corrisponde alle leggi «naturali» della società francese fissate da Maurras. I nazionalisti integrali devono: 1° appartarsi dalla vita reale della politica francese, non riconoscendone la legalità (astensionismo, ecc.), combattendola in blocco; 2° creare un antigoverno, sempre pronto a insediarsi «nei palazzi tradizionali», per un colpo di mano; questo antigoverno si presenta già oggi con tutti gli uffici embrionali, che corrispondono alle grandi attività nazionali. Furono fatti molti strappi a questo rigore: nel 19 furono presentate delle candidature; nelle altre elezioni l’Action Française appoggiò i candidati di destra che accettavano alcuni suoi principii marginali (significa che tra Maurras e gli altri l’accordo non era perfetto). Per uscire dall’isolamento fu progettata la pubblicazione di un grande giornale d’informazione, ma finora non pare che se ne sia fatto nulla (esiste solo la «Revue Universelle» che compie questo ufficio nel campo delle riviste). La recente polemica col Vaticano ha rotto il solo legame che l’Action Frariffise avesse con larghe masse, legame anch’esso piuttosto aleatorio. Il suffragio universale introdotto dalla Repubblica ha portato già da tempo in Francia al fatto che le masse cattoliche politicamente aderiscono ai partiti del centro e di sinistra, sebbene questi partiti siano anticlericali. La formula che la religione è una «quistione privata» si è radicata come forma popolare della separazione della Chiesa dallo Stato. Di più il complesso di associazioni che costituiscono l’Azione Cattolica francese è in mano alla aristocrazia terriera (il generale Castelnau), senza che il basso clero eserciti quella funzione di guida spirituale‑sociale che esercitava in Italia (settentrionale specialmente). Il contadino francese rassomiglia piuttosto al nostro contadino meridionale, che volentieri dice: «il prete è prete sull’altare, ma fuori è un uomo come tutti gli altri» (se non peggio). L’Action Française attraverso lo strato dirigente cattolico pensava di dominare tutto l’apparecchio di massa del cattolicismo francese. Certo c’era molta illusione in ciò, ma tuttavia doveva esserci una parte di verità, perché il legame religioso, rilassato in tempi normali, diventa più vigoroso e assorbente in epoche di grande crisi politico‑morale, quando l’avvenire appare pieno di nubi tempestose. In realtà anche questa riserva possibile è svanita per Maurras. La politica del Vaticano non vuole più «astenersi» dagli affari interni francesi; ma il Vaticano è più realista di Maurras e concepisce meglio il motto «politique d’abord». Finché il contadino cattolico dovrà scegliere tra Herriot e un hobereau, sceglierà Herriot: bisogna creare il tipo politico del «radicale cattolico», cioè del «popolare», bisogna accettare la Repubblica e la democrazia e su questo terreno organizzare le masse facendo sparire (superando) il dissidio tra religione e politica, facendo del prete non solo la guida spirituale (nel campo individuale‑privato) ma anche la guida sociale nel campo politico‑economico.
La sconfitta di Maurras è certa: è la sua concezione che è falsa per troppa perfezione logica. Del resto la sconfitta era sentita da Maurras proprio all’inizio della crisi col Vaticano, che coincise con la crisi parlamentare francese del 25. Quando i ministeri si succedevano a rotazione, l’Action Française pubblicò di essere pronta a prendere il potere. Fu pubblicato un articolo in cui si giunge fino ad invitare Caillaux a collaborare, Caillaux per il quale si annunziava sempre il plotone di esecuzione. L’episodio è classico: la politica irrigidita e razionalistica tipo Maurras, dell’astensionismo aprioristico, delle leggi naturali siderali che reggono la società è condannata al marasma, al crollo, all’abdicazione al momento risolutivo. Allora si vede che le grandi masse di energia non si riversano nei serbatoi creati artificialmente, ma seguono le vie della storia, si spostano secondo i partiti che sono stati sempre attivi. A parte la stoltezza di credere che nel 25 potesse avvenire il crollo della Repubblica per la crisi parlamentare (l’intellettualismo porta a queste allucinazioni monomaniache), ci fu un crollo morale, se non di Maurras, che sarà anche rimasto nel suo stato di illuminazione apocalittica, del suo gruppo, che si senti isolato e fece appello a Caillaux.
Q1 §49 Il «centralismo organico» e le dottrine di Maurras. Il «centralismo organico» ha come principio la «cooptazione» intorno a un «possessore della verità», a un «illuminato dalla ragione» che ha trovato le leggi «naturali» ecc. (Le leggi della meccanica e della matematica funzionano da motore intellettuale; la metafora sta invece del pensiero storico). Collegato col Maurrasismo.
Q1 §50 Un documento dell’Amma per la quistione Nord-Sud. Pubblicato dai giornali torinesi del settembre 1920. È una circolare dell’Amma credo del 1916 in cui si ordina alle industrie dipendenti di non assumere operai che siano nati sotto Firenze.
Cfr con la politica seguita da Agnelli‑Gualino specialmente nel 1925‑26 di far venire a Torino circa 25 000 siciliani da immettere nell’industria (case‑caserme, disciplina interna ecc.). Fallimento dell’emigrazione e moltiplicazione dei reati commessi nelle campagne vicine da questi siciliani che fuggivano le fabbriche: cronache vistose nei giornali che non allentarono certo la credenza che i siciliani sono briganti.
La quistione speciale Piemonte‑Sicilia è legata all’intervento delle truppe piemontesi in Sicilia contro il così detto brigantaggio dal 60 al 70. I soldati piemontesi riportarono la convinzione nei loro paesi della barbarie siciliana e, viceversa, i siciliani si persuasero della ferocia piemontese. La letteratura amena (ma anche quella militare) contribuì a rafforzare questi stati d’animo (cfr la novella di De Amicis sul soldato a cui viene mozzata la lingua dai briganti): nella letteratura siciliana si è più equanimi, perché si descrive anche la ferocia siciliana (una novella di Pirandello: i briganti che giocano alle bocce coi teschi). Ricordare il libro, mi pare di un certo D’Adamo (cfr «Unità» al tempo della guerra libica) nel quale si dice che siciliani e piemontesi devono far la pace, poiché la ferocia degli uni compensa quella degli altri.
A proposito della letteratura amena su Nord‑Sud ricordare Caccia grossa di Giulio Bechi: caccia grossa vuol dire «caccia agli uomini». Giulio Bechi ebbe qualche mese di fortezza; ma non per aver operato in Sardegna come in terra di conquista, ma per essersi messo in una situazione per cui dei signori sardi l’avevano sfidato a duello; la sfida dei sardi, poi, fu fatta non perché il Bechi aveva fatto della Sardegna una jungla, ma perché aveva scritto che le donne sarde non sono belle.
Ricordare un libriccino di ricordi di un ufficiale ligure (stampato in una cittadina ligure, Oneglia o Porto Maurizio) che fu in Sardegna nei fatti del 1906, dove i sardi sono detti «scimmie» o qualcosa di simile e si parla del «genio della specie» che agita l’autore alla vista delle donne.
Q1 §51 Clero come intellettuali. Ricerca sui diversi atteggiamenti del clero nel Risorgimento, in dipendenza delle nuove correnti religiose‑ecclesiastiche. Giobertismo, rosminianismo. Episodio più caratteristico del giansenismo. A proposito della dottrina della grazia e della sua conversione in motivo di energia industriale, e dell’obbiezione che lo Jemolo fa alla tesi giusta dell’Anzilotti (da dove l’Anzilotti l’aveva presa?) cfr in Kurt Kaser, Riforma e Controriforma, a proposito della dottrina della grazia nel calvinismo, e il libro del Philip dove sono citati documenti attuali di questa conversione. In questi fatti è contenuta la documentazione del processo dissolutivo della religiosità americana: il calvinismo diventa una religione laica, quella del Rotary Club, così come il teismo degli illuministi era la religione della massoneria europea, ma senza l’apparato simbolico e comico della massoneria e con questa differenza, che la religione del Rotary non può diventare universale: essa è propria di un’aristocrazia eletta (popolo eletto, classe eletta) che ha avuto e continua ad avere successi; un principio di selezione, non di generalizzazione, di un misticismo ingenuo e primitivo proprio di chi non pensa ma opera come gli industriali americani, che può avere in sé i germi di una dissoluzione anche molto rapida (la storia della dottrina della grazia può essere interessante per vedere il diverso accomodarsi del cattolicesimo e del cristianesimo alle diverse epoche storiche e ai diversi paesi).
Fatti americani riportati dal Philip da cui risulta che il clero di tutte le chiese, in certe occasioni, ha funzionato da pubblica opinione in assenza di un partito medio e di una stampa di tale partito.
Q1 §52 Origine sociale del clero. L’origine sociale del clero ha importanza per giudicare della sua influenza politica: nel Nord il clero è di origine popolare (artigiani e contadini), nel Sud è più legato ai «galantuomini» e alla classe alta. Nel Sud e nelle isole il clero o individualmente o come rappresentante della chiesa, ha voli proprietà terriere e si presta all’usura. Appare al contadino spesso, oltre che come guida spirituale, come proprietario che pesa sugli affitti («gli interessi della chiesa») e come usuraio che ha a sua disposizione le armi spirituali oltre che le temporali. Perciò i contadini meridionali vogliono preti del paese (perché conosciuti, meno aspri, e perché la loro famiglia, offrendo un certo bersaglio, entra come elemento di conciliazione) e qualche volta rivendicano i diritti elettorali dei parrocchiani. Episodi in Sardegna di tali rivendicazioni. (Ricordare articolo di Gennaro Avolio nel numero unico della «Voce» su clero meridionale, dove si accenna al fatto che i preti meridionali fanno apertamente vita coniugale con una donna e hanno rivendicato il diritto di prender moglie). La distribuzione territoriale del Partito Popolare mostra la maggiore o minore influenza del clero, e la sua attività sociale. Nel Mezzogiorno In epoca posteriore queste parole erano collocate tra parentesi e lo stesso G. annotava in interlinea: «no». (occorre tener presente oltre a ciò, il peso delle diverse frazioni: nel Sud Napoli, ecc.) prevaleva la destra, cioè il vecchio clericalismo. conservatore. Ricordare episodio delle elezioni ad Oristano nel 1913.
Q1 §53 Maurrasianesimo e sindacalismo. Nella concezione di Maurras ci sono molti tratti simili a certe teorie catastrofiche formali di certo sindacalismo o economismo. È avvenuta parecchie volte questa trasposizione nel campo politico e parlamentare di concezioni nate sul terreno economico e sindacale. Ogni astensionismo politico si basa su questa concezione (astensionismo politico in generale, non solo parlamentare). Meccanicamente avverrà il crollo dell’avversario se, con metodo intransigente, lo si boicotterà nel campo governativo (sciopero economico, sciopero o inattività politica). L’esempio classico italiano è quello dei clericali dopo il 70. In realtà poi, dopo il 90 il non expedit fu temperato fino al patto Gentiloni. La fondazione del P. P. segnò il rigetto totale di questo meccanicismo catastrofico. Il suffragio universale rovesciò questo piano: esso infatti già diede i sintomi di nuove formazioni legate all’interesse dei contadini di entrare attivamente nella vita dello Stato.
Q1 §54 La battaglia dello Jütland. La trattazione di questa battaglia fatta da Winston Churchill nelle sue memorie di guerra. È notevole come il piano e la direzione strategica della battaglia da parte del comando inglese e di quello tedesco siano in contrasto colla raffigurazione tradizionale dei due popoli. Il comando inglese aveva centralizzato «organicamente» il piano nella nave ammiraglia: le altre unità dovevano «attendere ordini» volta per volta. L’ammiraglio tedesco invece aveva spiegato a tutti i comandi subalterni il piano strategico generale, e aveva lasciato alle unità quella certa libertà di manovra che le circostanze potevano richiedere. La flotta tedesca manovrò molto bene. La flotta inglese corse molti rischi, nonostante la sua superiorità, e non poté conseguire fini strategici positivi, perché a un certo punto, l’ammiraglio perdette le comunicazioni con le unità combattenti e queste commisero errori su errori. Rivedere il libro di Churchill.
Q1 §55 Riviste tipo. Una rivista tipo è l’«Osservatore» del Gozzi, cioè il tipo di rivista moralisteggiante del settecento (tipo perfetto in Inghilterra con l’Addison): essa ebbe una certa importanza per diffondere una nuova concezione della vita, servendo di anello di passaggio per la piccola gente, tra la religione e la civiltà moderna. Oggi il tipo si conserva specialmente nel campo ecclesiastico. (Ma anche l’«Asino» e il «Seme» rientravano in questo tipo).
Q1 §56 Apologo del ceppo e delle frasche secche. Le frasche secche sono indispensabili per far bruciare il ceppo, non in sé e per sé. Solo il ceppo, bruciando, modifica l’ambiente freddo in caldo. Arditi — artiglieria e fanteria. Queste rimangono sempre le regine.
Q1 §57 Reazioni del Nord alle pregiudiziali antimeridionali. 1° Episodio del 1914 a Torino: proposta a Salvemini di candidatura: la città del Nord elegge il deputato per la campagna del Sud. Rifiuto, ma partecipazione di Salvemini alla elezione come oratore. 2° Episodio Giovane Sardegna del 19 con annessi e connessi. 3° Brigata Sassari nel 17 e nel 19. 4° Cooperativa Agnelli nel 20 (suo significato «morale» dopo il settembre; motivazione del rifiuto). 5° Episodio del 21 a Reggio Emilia (di questo Zibordi si guarda bene dal parlarne nel suo opuscolo su Prampolini).
Sono questi fatti che colpirono Gobetti e quindi provocarono atmosfera del libro di Dorso. (B. S.: agnelli e conigli. Miniere‑Ferrovie).
Q1 §58 Emigrazione e movimenti intellettuali. Funzione dell’emigrazione nel provocare nuove correnti e nuovi raggruppamenti intellettuali. Emigrazione e Libia. Discorso di Ferri alla Camera nel 1911 dopo il suo ritorno dall’America (la lotta di classe non spiega l’emigrazione). Passaggio di un gruppo di sindacalisti al partito nazionalista. Concetto di nazione proletaria in Enrico Corradini. Discorso di Pascoli La grande proletaria si è mossa. Sindacalisti-nazionalisti di origine meridionale: Forges Davanzati ‑ Maraviglia. In generale molti sindacalisti intellettuali d’origine meridionale. Loro passaggio episodico nelle città industriali (il ciclonismo): loro più stabile fortuna nelle regioni agricole, dal Novarese alla valle padana e alle Puglie. Movimenti agrari del decennio 1900-10. La statistica dà in quel periodo un aumento del 50% dei braccianti, a scapito specialmente della categoria degli obbligati‑schiavandari (statistica del 1911: cfr prospetto dato dalla «Riforma sociale»). Nella valle del Po ai sindacalisti succedono i riformisti più piatti, eccetto che a Parma e in vari altri centri dove il sindacalismo si unisce al movimento repubblicano formando l’Unione del Lavoro dopo scissione del 14‑15. Il passaggio di tanti contadini al bracciantato è legato al movimento della cosidetta «Democrazia cristiana» («l’Azione» di Cacciaguerra usciva a Cesena) e al modernismo: simpatie di questi movimenti per il sindacalismo.
Bologna è il centro intellettuale di questi movimenti ideologici legati alla popolazione rurale: il tipo originale di giornale che è stato sempre il «Resto del Carlino» non si potrebbe altrimenti spiegare (Missiroli‑Sorel ecc.).
Oriani e le classi della Romagna: il Romagnolo come tipo originale italiano (molti tipi originali: Giulietti ecc.) di passaggio tra Nord e Sud.
Q1 §59 Ugo Ojetti. Ricercare il giudizio datone dal Carducci.
Q1 §60 Papini, Cristo, Giulio Cesare. Papini nel 1912‑13 scrisse in «Lacerba» l’articolo Gesù peccatore, sofistica raccolta di aneddoti e di sforzate ipotesi tratte dagli Evangeli apocrifi; per questo articolo pareva dovesse subire un’azione giudiziaria con grande suo spavento (sostenne come plausibile e probabile l’ipotesi di rapporti tra Gesù e Giovanni). Nel suo articolo su Cristo romano (nel volume Gli operai della vigna) sostiene, con gli stessi procedimenti critici e la stessa «vigoria» intellettuale, che Cesare è un precursore del Cristo, fatto nascere a Roma dalla Provvidenza. Se farà ancora un passo in avanti, usando dei procedimenti loriani, giungerà alla conclusione di rapporti necessari tra il cristianesimo e l’inversione.
Q1 §61 Americanismo. L’americanismo può essere una fase intermedia dell’attuale crisi storica? La concentrazione plutocratica può determinare una nuova fase dell’industrialismo europeo sul modello dell’industria americana? Il tentativo probabilmente sarà fatto (razionalizzazione, sistema Bedaux, taylorismo ecc.). Ma può riuscire? L’Europa reagisce, contrapponendo alla «vergine» America le sue tradizioni di cultura. Questa reazione è interessante non perché una così detta tradizione di cultura possa impedire una rivoluzione nell’organizzazione industriale, ma perché essa è la reazione della «situazione» europea alla «situazione» americana. In realtà, l’americanismo, nella sua forma più compiuta, domanda una condizione preliminare: «la razionalizzazione della popolazione», cioè che non esistano classi numerose senza una funzione nel mondo della produzione, cioè classi assolutamente parassitarie. La «tradizione» europea è proprio invece caratterizzata dall’esistenza di queste classi, create da questi elementi sociali: l’amministrazione statale, il clero e gli intellettuali, la proprietà terriera, il commercio. Questi elementi, quanto più vecchia è la storia di un paese, tanto più hanno lasciato durante i secoli delle sedimentazioni di gente fannullona, che vive della «pensione» lasciata dagli «avi». Una statistica di questi elementi sociali è difficilissima, perché molto difficile è trovare la «voce» che li possa abbracciare. L’esistenza di determinate forme di vita dà degli indizi.
Il numero rilevante di grandi e medi agglomerati urbani senza industria è uno di questi indizi, forse il più importante. Il così detto «mistero di Napoli». Ricordare le osservazioni fatte da Goethe su Napoli e le «consolanti» conclusioni di Giustino Fortunato (opuscolo pubblicato recentemente dalla «Biblioteca editrice» di Rieti nella collana «Quaderni Critici» di Domenico Petrini; recensione di Einaudi nella «Riforma Sociale» dello scritto del Fortunato quando uscì la prima volta, forse nel 1912). Goethe aveva ragione nel rigettare la leggenda del «lazzaronismo» organico dei napoletani e nel notare che essi invece sono molto attivi e industriosi. La quistione consiste però nel vedere quale risultato effettivo abbia questa industriosità: essa non è produttiva, e non è rivolta a soddisfare le esigenze di classi produttive. Napoli è una città dove i proprietari terrieri del Mezzogiorno spendono la rendita agraria: intorno a decine di migliaia di queste famiglie di proprietari, di più o meno importanza economica, con la loro corte di servi e di lacché immediati, si costituisce una buona parte della città, con le sue industrie artigianesche, i suoi mestieri ambulanti, lo sminuzzamento incredibile dell’offerta immediata di merci o servizi agli sfaccendati che circolano nelle strade. Un’altra parte importante è costituita dal commercio all’ingrosso e dal transito. L’industria «produttiva» è una parte relativamente piccola. Questa struttura di Napoli (sarebbe molto utile avere dei dati precisi) spiega molta parte della storia di Napoli città.
Il fatto di Napoli si ripete per Palermo e per tutta una serie di città medie e anche piccole, non solo del Mezzogiorno e delle isole, ma anche dell’Italia centrale (Toscana, Umbria, Roma) e persino di quella settentrionale (Bologna, in parte, Parma, Ferrara ecc.). (Quando un cavallo caca, cento passeri fanno il pasto).
Media e piccola proprietà terriera in mano non a contadini coltivatori, ma a borghesi della cittaduzza o del borgo che la danno a mezzadria primitiva (cioè affitto in natura) o in enfiteusi. Questo volume enorme di piccola o media borghesia di «pensionati» e «redditieri» ha creato nella letteratura economica italiana la figura mostruosa del «produttore di risparmio» così detto, cioè di una classe numerosa di «usurai» che dal lavoro primitivo di un numero determinato di contadini trae non solo il proprio sostentamento, ma ancora riesce a risparmiare.
Le pensioni di Stato: uomini relativamente giovani e ben portanti che dopo 25 anni di impiego statale (qualche volta a 45 anni e con buonissima salute) non fanno più nulla, ma vivacchiano con le 500-600‑700 lire di pensione. In una famiglia si fa un prete che diventa canonico: il lavoro manuale diventa «vergognoso». Tutt’al più il commercio. La composizione della popolazione italiana è stata già resa «malsana» dall’emigrazione e dalla scarsa occupazione delle donne nei lavori produttivi. Il rapporto tra popolazione «potenzialmente» attiva e quella passiva è uno dei più sfavorevoli (vedere studio del Mortara nelle Prospettive Economiche del 1922 e forse ricerche successive): esso è ancora più sfavorevole se si tiene conto: 1) delle malattie endemiche (malaria ecc.) che diminuiscono la forza produttiva; 2) della denutrizione cronica di molti strati inferiori contadineschi (come risulta dalle ricerche di Mario Camis nella «Riforma Sociale» del 1926 — primo o secondo fascicolo —, le cui medie nazionali dovrebbero essere scomposte per medie di classi; ma la media nazionale raggiunge appena lo standard fissato dalla scienza e quindi è ovvia la conclusione di una denutrizione cronica di certi strati. Nella discussione al Senato del bilancio preventivo per le finanze del 1929‑30 l’on. Mussolini riconobbe che in alcune regioni la popolazione vive intere stagioni di sole erbe: vedere); 3) della disoccupazione endemica di alcune regioni agrarie che non risulta dai censimenti; 4) di questa massa di popolazione assolutamente parassitaria (volissima), che per i suoi servizi domanda l’occupazione di altra ingente popolazione; e di quella semiparassitaria, che cioè moltiplica in modo anormale (dato un certo tipo di società) determinate attività, come il commercio.
Questa situazione non si presenta solo in Italia; in misura notevole si presenta in tutta Europa, più in quella meridionale, sempre meno verso il Nord. (In India e in Cina deve essere ancor più anormale che in Italia e ciò spiega il ristagno della storia).
L’America senza «tradizione», ma anche senza questa cappa di piombo: questa una delle ragioni della formidabile accumulazione di capitali, nonostante i salari relativamente migliori di quelli europei. La non esistenza di queste sedimentazioni vischiose delle fasi storiche passate ha permesso una base sana all’industria e specialmente al commercio e permette sempre più la riduzione dei trasporti e del commercio a una reale attività subalterna della produzione, coll’assorbimento di questa attività da parte dell’industria stessa (vedi Ford e quali «risparmi» abbia fatto sui trasporti e sul commercio assorbendoli). Questa «razionalizzazione» preliminare delle condizioni generali della produzione, già esistente o facilitata dalla storia, ha permesso di razionalizzare la produzione, combinando la forza (— distruzione del sindacalismo —) con la persuasione (— salari e altri benefizi —); per collocare tutta la vita del paese sulla base dell’industria. L’egemonia nasce dalla fabbrica e non ha bisogno di tanti intermediari politici e ideologici. Le «masse» di Romier sono l’espressione di questo nuovo tipo di società, in cui la «struttura» domina più immediatamente le soprastrutture e queste sono razionalizzate (semplificate e diminuite di numero). Rotary Club e Massoneria (il Rotary è una massoneria senza i piccoli borghesi). Rotary — America = Massoneria — Europa. YMCA — America = gesuiti — Europa.
Tentativi dell’YMCA in Italia: episodio Agnelli — tentativi di Agnelli verso l’«Ordine Nuovo» che sosteneva un suo «americanismo». In America c’è l’elaborazione forzata di un nuovo tipo umano: ma la fase è solo iniziale e perciò (apparentemente) idillica. È ancora la fase dell’adattamento psico‑fisico alla nuova struttura industriale, non si è verificata ancora (se non sporadicamente, forse) alcuna fioritura «superstrutturale», quindi non è ancora stata posta la quistione fondamentale dell’egemonia: la lotta avviene con armi prese dall’arsenale europeo e ancora imbastardito, quindi appaiono e sono «reazionarie».
La lotta che c’è stata in America (descritta dal Philip) è ancora per la proprietà del mestiere, contro la «libertà industriale», cioè come quella che si è avuta in Europa nel secolo XVIII, sebbene in altre condizioni. L’assenza della fase europea segnata come tipo dalla Rivoluzione francese, in America, ha lasciato gli operai ancora grezzi.
In Italia abbiamo avuto un inizio di fanfara fordistica (esaltazione della grande città — la grande Milano ecc. — il capitalismo è ancora ai suoi inizi ecc., con messa in programma di piani urbanistici grandiosi: vedi «Riforma Sociale» — articoli di Schiavi).
Conversione al ruralismo e all’illuministica depressione delle città: esaltazione dell’artigianato e del patriarcalismo, accenni di «proprietà del mestiere» e di lotta contro la «libertà industriale» (vedi accenno fatto criticamente da U. Ricci in lettera ai «Nuovi Studi»): in ogni caso non «mentalità» americanistica.
Il libro del De Man è legato a questa quistione. È una reazione alle due forze storiche maggiori del mondo.
Q1 §62 Quistione sessuale. Ossessione della quistione sessuale. «Pericoli» di questa ossessione. Tutti i «progettisti» risolvono la quistione sessuale. Notare come nelle «utopie» la quistione sessuale abbia larghissima parte, spesso prevalente (l’osservazione di Croce che le soluzioni del Campanella nella Città del Sole non possono spiegarsi coi bisogni sessuali dei contadini calabresi). Gli istinti sessuali sono quelli che hanno subito la maggiore «repressione» da parte della società in sviluppo. Il loro «regolamento» sembra il più «innaturale», quindi più frequenti in questo campo i richiami alla «natura». La letteratura «freudistica» ha creato un nuovo tipo di «selvaggio» settecentesco sulla base «sessuale» (inclusi i rapporti tra padri e figli).
Distacco tra città e campagna. In campagna avvengono i reati sessuali più mostruosi e più numerosi. Nell’inchiesta parlamentare sul Mezzogiorno si dice che in Abruzzo e Basilicata (maggiore patriarcalismo e maggiore fanatismo religioso) si ha l’incesto nel 30% delle famiglie. In campagna molto diffuso il bestialismo.
La sessualità come funzione riproduttiva e come «sport»: ideale estetico femminile da riproduttrice a ninnolo; ma non è solo in città che la sessualità è diventata uno «sport»; i proverbi popolari — l’uomo è cacciatore, la donna è tentatrice; chi non ha di meglio, va a letto con la moglie — mostrano la diffusione dello «sport». La funzione «economica» della riproduzione non è solo legata al mondo economico produttivo, è anche interna; «il bastone della vecchiaia» mostra la coscienza istintiva del bisogno «economico» che ci sia un certo rapporto tra giovani e vecchi, tra lavoratori attivi e parte passiva della popolazione; lo spettacolo di come sono bistrattati nei villaggi i vecchi e le vecchie senza figliolanza spinge le coppie a desiderare figli; i vecchi senza figli sono trattati come i «bastardi».
I progressi dell’igiene pubblica che hanno elevato le medie della vita umana pongono sempre più la quistione sessuale come una «quistione economica» a sé stante, che pone dei problemi coordinati del tipo di superstruttura. L’aumento della media della vita in Francia, con la scarsa natalità, e con la ricchezza naturale del paese, pone già un aspetto di problema nazionale: le generazioni vecchie vanno mettendosi in un rapporto anormale con le generazioni giovani della stessa stirpe, e le generazioni lavoratrici si impinguano di masse straniere immigrate che modificano la base: si verifica, già come in America, una certa divisione del lavoro (mestieri qualificati per gli indigeni, oltre alle funzioni direttive e organizzative, e mestieri non qualificati per gli immigrati). Lo stesso rapporto si pone in ogni paese tra la città, a bassa natalità, e la campagna prolifica, ponendo un problema economico abbastanza grave: la vita industriale domanda un apprendissaggio in generale, un adattamento psico‑fisico a condizioni di lavoro, di nutrizione, di abitazione ecc. che non sono «naturali»: i caratteri urbani acquisiti si tramandano per ereditarietà. La bassa natalità domanda una continua spesa di apprendissaggio e porta con sé un continuo mutarsi della composizione sociale‑politica delle città, ponendo quindi anche un problema di egemonia.
La quistione più importante è la salvaguardia della personalità femminile: finché la donna non abbia veramente raggiunto una indipendenza di fronte all’uomo, la quistione sessuale sarà ricca di caratteri morbosi e bisognerà esser cauti nel trattarla e nel trarre conclusioni legislative. L’abolizione della prostituzione legale porterà con sé già molte difficoltà: oltre allo sfrenamento che succede a ogni crisi di compressione.
Lavoro e sessualità. È interessante come gli industriali americani si interessino delle relazioni sessuali dei loro dipendenti: la mentalità puritana vela però una necessità evidente: non può esserci lavoro intenso produttivo senza una regolamentazione dell’istinto sessuale.
Q1 §63 Lorianismo e Graziadei. Vedi in Croce (Materialismo storico ecc.) nota su Graziadei e il Paese di Cuccagna. Vedi nel libro di Graziadei Sindacati e salari del 1929 la alquanto comica risposta al Croce dopo quasi trent’anni. Questa risposta al Croce, alquanto gesuitica oltre che alquanto comica, è stata determinata indubbiamente dall’articolo pubblicato nel 1926 nell’«Unter dem Banner des Marxismus» su Prezzo e sovraprezzo, articolo che cominciava proprio con la citazione della nota crociana. Sarebbe interessante ricercare nelle produzioni di Graziadei i possibili accenni al Croce: non ha veramente mai risposto, neppure indirettamente? Eppure la pizzicata era forte! In ogni modo, l’«ossequio» all’autorità scientifica del Croce espresso con tanta unzione, dopo trent’anni, è veramente comico. Il motivo del Paese di Cuccagna rintracciato dal Croce in Graziadei è inoltre interessante perché colpisce una sotterranea corrente di romanticismo popolare creata dal «culto della scienza» dalla «religione del progresso» e dall’ottimismo generale del secolo XIX. In questo senso è da vedere se non sia legittima la reazione del Marx che con la «legge tendenziale della caduta del saggio del profitto» e col «catastrofismo» gettava molta acqua sul fuoco: è da vedere anche quanto queste correnti ottimistiche abbiano impedito una analisi più accurata delle proposizioni di Marx.
Queste osservazioni riconducono alla quistione della «utilità» o meno di tutte le sul lorianismo. A parte il fatto di un «giudizio» spassionato sull’opera complessiva di Loria e della «ingiustizia» di mettere solo in rilievo le manifestazioni strampalate del suo ingegno, che può essere discusso a sé, rimane per giustificare queste notazioni una serie di ragioni. Gli autodidatti sono specialmente portati, per l’assenza in loro di un abito scientifico e crltico, a fantasticare di paesi di Cuccagna e di facili soluzioni di ogni problema. Come reagire? La soluzione migliore sarebbe la scuola, ma è una soluzione di lunga attesa, specialmente per grandi masse di uomini. Bisogna dunque colpire, per intanto, la «fantasia» con dei tipi di ilotismo intellettuale, che creino l’avversione per il disordine intellettuale (e il senso del ridicolo). Questa avversione è ancora poco, ma è già qualcosa per instaurare un ordine intellettuale indispensabile. Come mezzo pedagogico è molto importante.
Ricordare episodi tipici: l’Interplanetaria del 16‑17 di Rab.; episodio del «moto perpetuo» nel 25, mi pare; tipi del 19‑20: quistione degli affitti (Pozzoni di Como ecc.). La mancanza di sobrietà e di ordine intellettuale porta anche al disordine morale. La quistione sessuale porta, con le sue fantasticherie, molti disordini: poca partecipazione delle donne alla vita collettiva, attrazione di farfalloni postribolari verso iniziative serie ecc. (Ricordare episodio narrato da Cecilia De Tourmay: potrebbe essere vero, perché è verosimile: ho sentito dire che a Napoli, quando c’erano riunioni femminili, si precipitavano subito i liberoamoristi coi loro opuscoli neomaltusiani ecc.). Tutti i più ridicoli fantasticatori si precipitano sui movimenti nuovi, per spacciare le loro fanfaluche di geni finallora incompresi, gettando lo scredito. Ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Bisogna creare gente sobria, paziente, che non disperi dinanzi ai peggiori orrori e non si esalti a ogni sciocchezza. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà.
Q1 §64 Lorianismo e G. Ferrero. Ricordare gli spropositi contenuti nella prima edizione delle sue storie: la misura lineare itineraria persiana confusa con una regina di cui si fa la biografia ecc.
Q1 §65 Riviste tipo: «Osservatore» del Gozzi. A questo tipo appartengono anche, nelle forme moderne, le riviste umoristiche, che, a loro modo, vorrebbero essere di critica del costume. Le pubblicazioni tipo «Cri de Paris», «Fantasio», «Charivari». Per alcuni aspetti rientrano in questo tipo i così detti «elzeviri» o «corsivi» dei giornali quotidiani.
La «Frusta letteraria» del Baretti fu una forma intermedia: bibliografia universale, critica del contenuto, con tendenze moralizzatrici (critica dei costumi, dei modi di vedere, dei punti di vista). «Lacerba» di Papini, per la parte non «artistica», era anch’essa di questo tipo, a tendenze «satanistiche» (Gesù Peccatore, Viva il maiale, Contro la famiglia ecc. di Papini; Giornale di Bordo di Soffici; Elogio della prostituzione ecc. di Tavolato). Questo tipo generale appartiene alla sfera del «buon senso» o «senso comune»: cerca di modificare l’opinione media di una certa società, criticando, suggerendo, correggendo, svecchiando, introducendo nuovi «luoghi comuni». Se sono ben scritte, con «verve», con un certo distacco, ma tuttavia con interesse per l’opinione media, esse possono avere grande diffusione ed esercitare una funzione importantissima. Non devono avere nessuna «mutria», né scientifica, né moralisteggiante, non devono essere «filistee» e accademiche, insomma, né apparire fanatiche o soverchiamente partigiane: devono porsi nel campo stesso del «senso comune» distaccandosene quel tanto che permette il sorriso canzonatorio, ma non il disprezzo o la superiorità altezzosa.
«La Pietra», motto dantesco dalle rime della Pietra: «così nel mio parlar voglio esser aspro». «La Compagnia della Pietra». Ogni strato sociale ha il suo «senso comune» che è in fondo la concezione della vita e la motale più diffusa. Ogni corrente filosofica lascia una sedimentazione di «senso comune»: è questo il documento della sua effettualità storica. Il senso comune non è qualcosa di irrigidito e immobile, ma si trasforma continuamente, arricchendosi di nozioni scientifiche e opinioni filosofiche entrate nel costume. Il «senso comune» è il folklore della «filosofia» e sta di mezzo tra il «folklore» vero e proprio (cioè come è inteso) e la filosofia, la scienza, l’economia degli scienziati. Il «senso comune» crea il futuro folklore, cioè una fase più o meno irrigidita di un certo tempo e luogo. (Occorrerebbe fissare bene questi concetti, ripensandoli a fondo).
Q1 §66 Colonie italiane. Nel «Diritto Ecclesiastico» diretto, fra gli altri, dal prof. Cesare Badii dell’Università di Roma e da Amedeo Giannini, consigliere di Stato, del marzo‑aprile 1929, è pubblicato un articolo dell’avv. prof. Arnaldo Cicchitti: La S. Sede nelle Colonie italiane dopo il Concordato con il Regno, nel quale due volte, a p. 138 e a p. 139, si pone l’Albania fra le colonie italiane. L’autore rimanda (in materia, se sia applicabile alla religione cattolica apostolica romana il trattamento nelle Colonie concesso agli altri culti) a suoi studi pubblicati nella «Rivista di diritto pubblico» 1928 (pp. 126‑31) e 1929 (pp. 141‑57) e nella «Rivista delle Colonie Italiane» 1929: sarebbe interessante vedere se anche in questi l’Albania è considerata colonia.
Q1 §67 A proposito del matrimonio religioso con validità civile è interessante notare che da alcuni estratti della succitata rivista mi pare risulti che il Diritto Canonico e il Tribunale della Sacra Rota concedono lo scioglimento del matrimonio (se non ci sono figli) con abbastanza larghezza, purché si abbiano amici compiacenti che testimonino e i due coniugi siano concordi (oltre ai quattrini da spendere). Ne risulterà una situazione di favore per i cattolici.
Q1 §68 La quistione sessuale e la Chiesa cattolica. Elementi dottrinari. Il canone 1013 dice: «Matrimonii finis primarius est procreatio atque educatio prolis; secundarius mutuum adiutorium et remedium concupiscentiae». I giuristi discutono sull’«essenza» del matrimonio cattolico, distinguendo fra fine primario e oggetto (primario?): fine è la procreazione, oggetto la copula. Il matrimonio rende «morale» la copula attraverso il mutuo consenso dei coniugi; mutuo consenso espresso senza condizioni limitative. Il paragone con altri contratti (per es. di compravendita) non regge, perché il fine del matrimonio è nel matrimonio in se stesso: il paragone reggerebbe se il marito o la moglie acquistasse diritti di schiavitù sull’altro, cioè potesse disporne come di un bene (ciò che avviene, in parte, per la non riconosciuta uguaglianza giuridica dell’uomo e della donna; in ogni caso non per la persona fisica).
Il canone 1015 indica ciò che «consuma» il contratto matrimoniale: è l’atto «quo coniuges fiunt una caro»: «Matrimonium baptizatorum validum dicitur ratum, si nondum consummatione completum est; ratum et consummatum si inter coniuges locum habuerit coniugalis actus, ad quem natura sua ordinatur contractus matrimonialis et quo coniuges fiunt una caro». Il significato di «una caro» è assunto da una frase di Cristo, che la ripete dal Genesi: «Non legistis quia fecit hominem ab initio, masculum et feminam fecit eos et dixit: propterea dimittet homo patrem suum et matrem, et adhaerebit uxori suae et erunt duo in carne una? Itaque jam non sunt duo, sed una caro. Qued ergo Deus coniunxit, homo non separet» (Matteo, XIX, 4‑7). Cioè essa è la copula, non il figlio (che non può essere disgiunto, perché materialmente uno). Il Genesi (II, 21-24) dice: «Dixitque Adam: haec vocabitur virago, quoniam de viro sumpta est. Quamobrem relinquet homo patrem suum et matrem et adhaerebit uxori suae et erunt duo in carne una». (Sarebbe da vedere se questi elementi possono essere interpretati come giustificanti l’indissolubilità del matrimonio, per cui sono stati rivolti, come contributo della religione cristiana all’introduzione della monogamia, o non significassero in origine solo l’unione sessuale, cioè si contrapponessero alle tendenze «pessimistiche» della «purità» con l’astensione sessuale. Insomma si riferirebbero ai sessi in generale, che sono indissolubili e non a Pietro, Paolo, Giovanni uniti con Caterina, Maria, Serafina). Canone 1082 Q1 § 2° «Consensus matrimonialis est actus voluntatis quo utraque pars tradit et acceptat ius in corpus, perpetuum et exclusivum, in ordine ad actus per se aptos ad prolis generationem».
Il Q1 § 1° dello stesso dice: «Ut matrimonialis consensus haberi possit, necesse est ut contrabentes saltem non ignorent matrimonium esse societatem permanentem inter virum et mulierem ad filios procreandos» (dovrebbe giustificare e anzi imporre l’educazione sessuale, perché il presumere che si sappia praticamente significa solo che si è certi che l’ambiente compie questa educazione: è cioè una semplice ipocrisia e si finisce col preferire le nozioni saltuarie e «morbose» alle nozioni «metodiche» e educative). In qualche parte esiste esistevaVariante interlineare. la convivenza sessuale di prova e solo dopo la fecondazione avviene avvenivaa il matrimonio (per esempio in piccoli paesi come Zuri, Soddi, ecc. dell’ex circondario di Oristano): era un costume ritenuto moralissimo e che non sollevava obbiezioni, perché non aveva determinato abusi, né da parte delle famiglie né da parte del clero: in quei paesi anche matrimoni molto precoci; fatto legato al regime della proprietà sminuzzata, che domanda più di un lavoratore, ma non permette lavoro salariato. Can. 1013 Q1 § 2°: «essentiales matrimonii proprietates sunt untas ac indissolubilitas, quae in matrimonio christiano peculiarem obtinent firmitatem ratione sacramenti» ». Genesi (1, 27‑28):
«Masculum et feminam creavit eos, benedixitque illis Deus et ait: Crescite et multiplicamini et replete terram».
Q1 §69 Il premio Nobel. Filippo Crispolti ha raccontato in un numero del «Momento» del giugno 1928 (della prima quindicina) che quando nel 1906 si pensò in Svezia di conferire il premio Nobel a Giosuè Carducci, nacque il dubbio che un simile premio al cantore di Satana potesse suscitare scandalo tra i cattolici: chiesero informazioni al Crispolti che le dette per lettera e in un colloquio col ministro svedese a Roma, De Bildt. Le informazioni furono favorevoli. Così il premio Nobel al Carducci sarebbe stato dato da Filippo Crispolti.
Q1 §70 «Impressioni di prigionia» di Jacques Rivière, pubblicate nella «Nouvelle Revue Française» nel terzo anniversario della morte dell’autore (ne riporta alcuni estratti «La Fiera Letteraria» del 1° aprile 1928).
Dopo una perquisizione nella cella: gli hanno tolto fiammiferi, carta da scrivere e un libro: le conversazioni di Goethe con Eckermann, e delle provviste alimentari non permesse. «Penso a tutto ciò di cui mi hanno derubato: sono umiliato, pieno di vergogna, orribilmente spogliato. Conto i giorni che mi restano da «tirare» e, benché tutta la mia volontà sia tesa in questo senso, non sono più così sicuro di arrivare sino in fondo. Questa lenta miseria logora più che le grandi prove. ... Ho l’impressione che dai quattro punti cardinali si possa venirmi addosso, entrare in questa cella, entrare in me, in ogni momento, strapparmi ciò che ancora mi rimane e lasciarmi in un angolo, una volta di più, come una cosa che più non serve, depredato, violato. Non conosco nulla di più deprimente che questa attesa del male che si può ricevere, unita alla totale impotenza di sottrarsi ad esso. ... Con gradazioni e sfumature tutti conoscono questa stretta al cuore, questa profonda mancanza di sicurezza interiore, questo senso di essere incessantemente esposto senza difesa a tutti gli accidenti, dal piccolo fastidio di alcuni giorni di prigione alla morte inclusa. Non vi è rifugio: non scampo, non tregua soprattutto. Non rimane altro che offrire il dorso, che rimpicciolirsi quanto è possibile. ... Una vera timidità generale s’era impadronita di me, la mia immaginazione non mi presentava più il possibile con quella vivacità che gli conferisce in anticipo l’aspetto di realtà: in me era inaridita l’iniziativa. Credo che mi sarei trovato davanti alle più belle occasioni di fuga senza saperne approfittare; mi sarebbe mancato quel non so che, che aiuta a colmare l’intervallo fra ciò che si vede e ciò che si vuol fare, fra le circostanze e l’atto che ne rende padroni; non avrei più avuto fede nella mia buona sorte: la paura mi avrebbe fermato».
Il pianto in carcere: gli altri sentono se il pianto è «meccanico» o «angoscioso». Reazione diversa quando qualcuno grida: «Voglio morire». Collera e sdegno o semplice chiasso. Si sente che tutti sono angosciati quando il pianto è sincero. Pianto dei più giovani. L’idea della morte si presenta per la prima volta (si diventa vecchi d’un colpo).
Q1 §71 Il padre Gioacchino Ventura. Libro di Anna Cristofoli: Il pensiero religioso di Padre Gioacchino Ventura, Milano, Soc. Ed. «Vita e pensiero», 1927, in 8°, pp. 158. Recensione in «Fiera Letteraria» del 15 gennaio 1928 di Guido Zadei, molto severa. Il Ventura, frate siciliano, avrebbe subito l’influenza del Bonald, del Lamennais, del De Maistre. Lo Zadei cita un volume del Rastoul, Le Père Ventura, Parigi, 1906, in 16°, pp. 189. (Clero e intellettuali). (L’influenza del Lamennais).
Q1 §72 I nipotini di padre Bresciani. Arte cattolica. Lo scrittore Edoardo Fenu in un articolo Domande su un’arte cattolica pubblicato sull’«Avvenire d’Italia» e riassunto nella «Fiera Letteraria» del 15 gennaio 1928 rimprovera a «quasi tutti gli scrittori cattolici» il tono apologetico. «Ora la difesa (!) della fede deve scaturire dai fatti, dal processo critico (!) e naturale del racconto, deve cioè essere, manzonianamente il «sugo» dell’arte stessa. È evidente (!) che uno scrittore cattolico per davvero, non andrà mai a battere la fronte contro le pareti opache dell’eresia, morale o religiosa. Un cattolico per il solo fatto di essere tale, è già investito di quello spirito semplice e profondo che, trasfondendosi nelle pagine di un racconto o di una poesia, farà della sua (!) un’arte schietta, serena, nient’affatto pedante. È dunque (!) perfettamente inutile intrattenersi a ogni svolto di pagina a fare capire che lo scrittore ha una strada da farci percorrere, ha una luce per illuminarci. L’arte cattolica dovrà (!) mettersi in grado di essere essa medesima quella strada e quella luce, senza smarrirsi nella fungaia degli inutili predicozzi e degli oziosi avvertimenti». (In letteratura «... se ne togli pochi nomi, Papini, Giuliotti, e in certo senso anche Manacorda, il bilancio è pressoché fallimentare. Scuole?... ne verbum quidem. Scrittori? Sì; a voler essere di manica larga si potrebbe tirar fuori qualche nome, ma quanto fiato per trarlo cogli argani! A meno che non si voglia patentare per cattolico il Gotta, o dar la qualifica di romanziere al Gennari, o battere un applauso a quella caterva innumere di profumati e agghindati scrittori e scrittrici per «signorine» »).
Molte contraddizioni e improprietà: ma la conclusione è giusta: la religione è sterilità per l’arte, almeno nei religiosi. Cioè non esistono più «anime semplici e sincere» che siano artisti. Il fatto è già antico: risale al Concilio di Trento e alla Controriforma. «Scrivere» era pericoloso, specialmente di cose e sentimenti religiosi. La chiesa da quel tempo ha usato un doppio metro: essere «cattolici» è diventato cosa facilissima e difficilissima nello stesso tempo. È cosa facilissima per il popolo al quale non si domanda che di credere genericamente e di avere ossequio per la chiesa. Nessuna lotta reale contro le superstizioni pagane, contro le deviazioni ecc. In realtà tra un contadino cattolico, uno protestante e uno ortodosso non c’è differenza «religiosa», c’è solo differenza «ecclesiastica». È difficilissimo invece essere intellettuale attivo «cattolico» e artista «cattolico» (romanziere specialmente e anche poeta), perché si domanda un tale corredo di nozioni su encicliche, controencicliche, brevi, lettere apostoliche ecc. e le deviazioni storiche dall’indirizzo chiesastico sono state tante e così sottili che cadere nell’eresia o nella mezza eresia o in un quarto di eresia è facilissimo. Il sentimento religioso schietto è stato disseccato: occorre essere dottrinari per scrivere «ortodossamente». Perciò nell’arte la religione non è più un sentimento, è solo un motivo, uno spunto. E la letteratura cattolica può avere solo padri Bresciani, non più S. Franceschi o Passavanti o Tommaso da Kempis. Può essere «milizia», propaganda, agitazione, non più ingenua effusione di sentimenti. O non è cattolica: vedi la sorte di Fogazzaro.
Q1 §73 La letteratura italiana moderna del Crémieux. La«Fiera Letteraria» del 15 gennaio 1928 riassume un articolo di G. Bellonci, sul «Giornale d’Italia» abbastanza scemo e spropositante. Il Crémieux sostiene che in Italia manca una lingua moderna, ciò che è giusto in un senso molto preciso: 1°) che non esiste una classe colta italiana unitaria, che parli e scriva una lingua «viva» unitaria; 2°) che tra la classe colta e il popolo c’è una grande distanza: la lingua del popolo è ancora il dialetto, col sussidio di un gergo italianizzante che è in gran parte il dialetto tradotto meccanicamente. Esiste un forte influsso dei vari dialetti nella lingua scritta, perché anche la classe colta parla la lingua in certi momenti e il dialetto nella parlata famigliare, cioè in quella più viva e più aderente alla realtà immediata. Così la lingua è sempre un po’ fossilizzata e paludata e quando vuol essere famigliare, si frange in tanti riflessi dialettali. Oltre il tono del discorso (il cursus del periodo) che caratterizza le regioni, c’è anche il lessico, la morfologia e specialmente la sintassi. Il Manzoni «sciacquò» in Arno il suo tesoro lessicale, meno la morfologia, e quasi nulla la sintassi, che è più connaturata allo stile e quindi alla coltura personale artistica. Anche in Francia ciò si verifica tra Parigi e la Provenza, ma in misura minore; in un confronto tra A. Daudet e Zola è stato trovato che Daudet non conosce quasi più il passato remoto etimologico, sostituito dall’imperfetto, ciò che non si verifica in Zola che in misura minima.
Il Bellonci scrive: «Sino al cinquecento le forme linguistiche scendono dall’alto, dal seicento in poi salgono dal basso». Sproposito madornale, per superficialità. Proprio fino al 500 Firenze esercita l’egemonia culturale, perché esercita un’egemonia economica (papa Bonifacio VIII diceva che i fiorentini erano il quinto elemento della terra) e c’è uno sviluppo dal basso, dal popolo alle persone colte. Dopo la decadenza di Firenze, l’italiano è la lingua di una casta chiusa, senza contatto con una parlata storica. Non è questa forse la quistione posta dal Manzoni, di ritornare all’egemonia fiorentina e ribattuta dall’Ascoli che, storicista, non crede alle egemonie linguistiche per decreto legge, senza la struttura economico‑culturale?
La domanda del Bellonci: «Negherebbe forse, il Crémieux, che esista (che sia esistita, vorrà dire) una lingua greca perché vi hanno da essa varietà doriche, joniche, eoliche? » è veramente comica e mostra come egli non abbia capito il Crémieux.
Q1 §74 Stracittà e strapaese. Elementi presi dalla «Fiera Letteraria» del 15 gennaio 1928. Di Papini: «La città non crea, ma consuma. Com’è l’emporio dove affluiscono i beni strappati ai campi e alle miniere, così vi accorrono le anime più fresche delle province e le idee dei grandi solitari. La città è come un rogo che illumina perché brucia ciò che fu creato lontano da lei e talvolta contro di lei. Tutte le città sono sterili. Vi nascono in proporzione pochi figlioli e quasi mai di genio. Nelle città si gode, ma non si crea, si ama ma non si genera, si consuma ma non si produce». Tutto l’altro è ancor più settecentesco.
Nello stesso numero della «Fiera Letteraria» si trovano questi altri accenni: «Il nostro arrosto strapaesano si presenta con questi caratteri: avversione decisa a tutte quelle forme di civiltà che non si confacciano alla nostra o che guastino, non essendo digeribili, le doti classiche degli italiani; poi: tutela del senso universale del paese, che è, per dirla alla spiccia, il rapporto naturale e immanente fra l’individuo e la sua terra; infine, esaltazione delle caratteristiche nostrane, in ogni campo e attività della vita, e cioè: fondamento cattolico, senso religioso del mondo, semplicità e sobrietà fondamentali, aderenza alla realtà, dominio della fantasia, equilibrio fra spirito e materia»; e quest’altro di Francesco Meriano (pubblicato nell’«Assalto»): «Nel campo filosofico, io credo di trovare invece una vera e propria antitesi: che è l’antitesi, vecchia di oltre cento anni e sempre vestita di nuovi aspetti, tra il volontarismo il pragmatismo l’attivismo identificabile nella stracittà e l’illuminismo il razionalismo lo storicismo identificabile nello strapaese».
Q1 §75 Intellettuali siciliani. È interessante il gruppo del «Ciclope» di Palermo. Mignosi, Pignato, Sciortino ecc. Relazioni di questo gruppo con Piero Gobetti.
Q1 §76 La crisi dell’«Occidente». La «Fiera Letteraria» del 29 luglio 1928 riporta alcuni brani di un articolo di Filippo Burzio sulla «Stampa». Si parla oggi dell’Occidente come qualche secolo addietro si parlava della «Cristianità». È esistita una prima unità dell’Occidente, quella cristiano‑cattolica medioevale; un primo scisma, o crisi, la Riforma con le guerre di religione. Dopo la Riforma, dopo due secoli, o quasi, di guerre di religione, si realizzò di fatto, in Occidente, una seconda unità, di altra indole, permeando di sé profondamente tutta la vita europea e culminando nei secoli XVIII e XIX: né le resistenze che incontrò la infirmarono, più che le eresie medioevali non abbiano infirmata la prima. È questa nuova unità che è in crisi (il Burzio è in polemica implicita coi cattolici, i quali vorrebbero appropriarsi la «cura» della crisi, come se questa si verificasse nel loro terreno ed essi ne fossero gli antagonisti reali, mentre sono i rottami o i fossili di una unità storica già definitivamente superata). Essa poggia su tre piloni: lo spirito critico, lo spirito scientifico, lo spirito capitalistico (forse sarebbe meglio dire «industriale»). I due ultimi sono saldi (se «capitalismo» = «industrialismo» sì), il primo invece non lo è più, e perciò le élites spirituali di Occidente soffronono di squilibrio e di disarmonia fra la coscienza critica e l’azione (sarebbe sempre la crisi dello «storicismo» per l’opposizione tra «sentimento», «passione» e coscienza critica). Come sostegno al fare, come aiuto al vivere, l’imperativo filosofico è grigio e vuoto quanto il solidarismo scientifico. In questo vuoto l’anima boccheggia e ne sa qualche cosa l’ispirazione poetica, che si è andata facendo sempre più tetra o febbrile. Quasi nessun giorno interiore al nostro tempo è lieto (ma questa crisi non è piuttosto legata alla caduta del mito del progresso indefinito e all’ottimismo che ne dipendeva, cioè a una forma di religione, piuttosto che alla crisi dello storicismo e della coscienza critica? In realtà la «coscienza critica» era ristretta a una piccola cerchia, egemonica, sì, ma ristretta; l’«apparato di governo» spirituale si è spezzato, e c’è crisi, ma essa è anche di diffusione, ciò che porterà a una nuova «egemonia» più sicura e stabile). Dobbiamo salvare l’Occidente integrale; tutta la conoscenza, con tutta l’azione. L’uomo ha voluto navigare, e ha navigato; ha voluto volare, ed ha volato; da tanti secoli che pensa Dio, non dovrà servire a niente? Albeggia, emerge, dalla creatura la mentalità del creatore. Se non si può scegliere tra i vari modi di vita, perché specializzarsi vorrebbe dire mutilarsi, non rimane che fare tutto. Se l’antica religione sembri esausta, non rimane che ringiovanirla. Universalità, interiorità, magicità. Se Dio si cela, resta il demiurgo. Uomo dell’Occidente hic res tua agitur. (Notare come da poli opposti, B. Croce e F. Burzio resistono alla ondata della nuova «religiosità» antistoricistica).
Q1 §77 Clero e intellettuali. Numero commemorativo di «Vita e Pensiero» per il 25° anniversario della morte di Leone XIII. Utile l’articolo di padre Gemelli su «Leone XIII e il movimento intellettuale». Papa Leone è legato, nel campo intellettuale, alla rinnovazione della filosofia cristiana, all’indirizzo negli studi sociali, all’impulso dato agli studi biblici. Tomista, l’idea ispiratrice di Leone XIII fu questa: «ricondurre il mondo ad una dottrina fondamentale grazie alla quale l’intelligenza sia resa di nuovo capace di indicare all’uomo la verità che egli deve riconoscere e ciò non solo preparando la via alla fede, ma dando all’uomo il mezzo di orientarsi in modo sicuro su tutti i problemi della vita. Leone XIII presentava così al popolo cristiano una filosofia, la dottrina scolastica, non come un quadro del sapere, stretto, immobile ed esclusivo, ma come un organismo di pensiero vivo, suscettibile di arricchirsi del pensiero di tutti i dottori e di tutti i padri, capace di armonizzare la speculazione della teologia razionale con i dati della scienza positiva, condizione per stimolare e armonizzare la ragione e la fede; la scienza profana e la sacra; la filosofia e la teologia; il reale e l’ideale; il passato e le scoperte dell’avvenire, l’orazione e l’azione, la vita interiore e la vita sociale, i doveri dell’individuo e della società; i doveri verso Dio e verso l’uomo».
Leone XIII ha rinnovato completamente l’Azione Cattolica. Ricordare che l’enciclica Rerum Novarum è quasi simultanea al Congresso di Genova, cioè al passaggio del movimento operaio italiano dal primitivismo a una fase realistica e concreta, sebbene ancora confusa e indistinta. La neo scolastica ha permesso l’alleanza del cattolicesimo col positivismo (Comte, da cui Maurras). Nell’Azione Cattolica si è usciti dal puro astensionismo meccanico di dopo il 70 e si è iniziata una attività reale che portò allo scioglimento del 98.
Q1 §78 Bergson, il materialismo positivistico, il pragmatismo. Bergson legato al positivismo; si «ribella» contro il suo «ingenuo» dogmatismo. Il positivismo aveva avuto il merito di ridare alla cultura europea il senso della realtà esauritosi nelle antiche ideologie razionalistiche, ma poi aveva avuto il torto di chiudere la realtà nella sfera della natura morta e quindi anche di chiudere la ricerca filosofica in una specie di nuova teologia materialistica. La documentazione di questo «torto» è l’opera del Bergson. La critica del Bergson... si è addentrata, sconsacrando idoli dell’assoluto e risolvendoli in forme di contingenza fugace, per tutti i meandri del dogmatismo positivista, ha sottoposto ad un terribile esame l’intima struttura delle specie organiche e della personalità umana, ed ha infranto tutti gli schemi di quella meccanica staticità in cui il pensiero chiude il perenne fluire della vita e della coscienza.
Affermando il principio dell’eterno fluire e l’origine pratica di ogni sistema concettuale, anche le verità supreme (!) correvano rischio di dissolversi; e qui, in questa fatale tendenza è il limite (!) del Bergsonismo. (Estratti da un articolo di Balbino Giuliano riassunto dalla «Fiera Letteraria» del 25 novembre 1928).
Q1 §79 Italo Chittaro, La capacità di comando, Casa Ed. De Alberti, Rorna. Da una recensione di V. Varanini nella «Fiera Letteraria» del 4 novembre 1928, appare che in questo libro sono contenuti spunti molto interessanti. Necessità degli studi storici per la preparazione professionale degli ufficiali. Per comandare non basta il semplice buon senso: questo, se mai, è frutto di profondo sapere e di lungo esercizio. La capacità di comando è specialmente importante per la fanteria: se altrove si diventa specialisti di compiti particolari, nella fanteria si diventa specialisti nel comando, cioè del compito d’insieme: quindi necessità che tutti gli ufficiali destinati a gradi elevati abbiano tenuto comandi di fanteria. Infine considera la necessità della formazione di uno Stato Maggiore numeroso, valido, popolare alle truppe. — Libro da leggere.
Q1 §80 Il pubblico e la letteratura italiana. «Per una ragione o per l’altra si può dire che gli scrittori italiani non abbiano più pubblico. ... Un pubblico infatti vuol dire un insieme di persone, non soltanto che compra dei libri, ma soprattutto che ammira degli uomini. Una letteratura non può fiorire che in un clima d’ammirazione e l’ammirazione non è come si potrebbe credere, il compenso, ma lo stimolo del lavoro. ... Il pubblico che ammira, che ammira davvero, di cuore, con gioia, il pubblico che ha la felicità di ammirare (niente è più deleterio dell’ammirazione convenzionale) è il più grande animatore di una letteratura. Da molti segni si capisce ahimè che il pubblico sta abbandonando gli scrittori italiani». Leo Ferrero nel «Lavoro» («Fiera Letteraria» del 28 ottobre 1928).
L’ammirazione sarebbe la forma del contatto tra la nazione e i suoi scrittori. Oggi manca questo contatto, cioè la letteratura non è nazionale, perché non è popolare. Paradosso del tempo attuale. E non c’è gerarchia nella letteratura cioè manca ogni personalità eminente. Quistione del perché e di come una letteratura sia popolare. La «bellezza» non basta: ci vuole un contenuto «umano e morale» che sia l’espressione elaborata e compiuta delle aspirazioni del pubblico.
Cioè la letteratura deve essere insieme elemento attuale di cultura (civiltà) e opera d’arte (di bellezza). Altrimenti alla letteratura d’arte viene preferita la letteratura d’appendice, che, a modo suo, è un elemento di cultura, degradata se si vuole, ma attuale.
Q1 §81 Nino Daniele, D’Annunzio politico, San Paulo, 1928. Libro da leggere.
Q1 §82 I nipotini di padre Bresciani. Maddalena Santoro, /L’amore ai forti/. Romanzo. Bemporad, 1928.
Q1 §83 Piero Pieri, /Il regno di Napoli dal luglio 1799 al marzo 1806/, Napoli, Ricciardi, 1928, pp. 330, L. 25 (utile per comprendere meglio la Repubblica Partenopea attraverso la politica dei Borboni nel breve periodo della restaurazione) .
Q1 §84 Giovanni Maioli, Il fondatore della Società Nazionale, Soc. Naz. per la Storia del Risorgimento, Roma, 1928 (contiene 22 lettere di Giorgio Pallavicino e di Felice Foresti, sul periodo 1856‑58, quando il Pallavicino, presidente della Società Nazionale di cui era segretario il La Farina, lavorava a creare il blocco liberale sui due capisaldi «opinione italiana» — «esercito sardo». Una espressione del Pallavicino: «il rivoluzionario italiano, uomo fortissimo sul campo dell’azione, è troppo spesso un fanciullo in quello del pensiero»).
Notare che nell’attuale storiografia del Risorgimento, che è tendenziosissima a modo suo, si dà come «acuto realismo politico» tutto ciò che coincide col programma piemontese dei moderati: è un giudizio del senno di poi abbastanza ingenuo e poco acuto e corrisponde poi alla concezione dei «Gesta dei per Allobrogos» riverniciata e spolverata di concetti moderni.
Q1 §85 Giuseppe Solitro, /Due famigerati gazzettieri dell’Austria (Luigi Mazzoldi, Pietro Perego)/, Padova, Draghi, 1927, L. 15. (Nella recensione pubblicata dalla «Fiera Letteraria» del 16 dicembre 1928, Guido Zadei scrive di possedere del materiale inedito e non sfruttato sul Mazzoldi e di una curiosa polemica in cui Filippo Ugoni accusa il Mazzoldi di propaganda comunista).
Q1 §86 Giovanni Crocioni, /Problemi fondamentali del Folklore/, Bologna, Zanichelli, 1928.
Q1 §87 Gentile e la filosofia della politica italiana. Articolo di Gentile pubblicato dallo «Spectator» del 3 novembre 1928 e ristampato su «Educazione fascista». «Filosofia che non si pensa, ma che si fa, e perciò si enuncia ed afferma non con le formule ma con l’azione». Ogni Stato ha «due» filosofie: quella che si enuncia per formule ed è una semplice arte di governo, e quella che si afferma con l’azione ed è la filosofia reale, cioè la storia. Il problema è di vedere in che misura queste due filosofie coincidono o divergono. La formula gentiliana in realtà non è che la camuffatura sofistica della «filosofia politica» più nota col nome di opportunismo ed empirismo. Se Bouvard e Pécuchet avessero conosciuto Gentile, avrebbero trovato nella sua filosofia la giusta interpretazione della loro attività rinnovatrice e rivoluzionaria (nel senso non corrotto della parola, come oggi si dice).
Q1 §88 Gioberti. Nella prefazione alle Letture del Risorgimento, il Carducci scrive: «Staccatosi dalla Giovane Italia nel 1834 tornò a quello che il Santarosa voleva e chiamava cospirazione letteraria ed egli la fece con certa sua filosofia battagliera, che molto alta portava la tradizione italiana, finché uscì nell’agone col Primato e predicando la lega dei principi riformatori, capo il pontefice, attrasse le anime timorose e gli ingegni timorosi, attrasse e rapi il giovane clero, che alla sua volta traevasi dietro il popolo credente anche della campagna». Altrove il Carducci scrive: «... l’abate italiano riformista e mezzo giacobino col Parini, soprannuotato col Cesarotti e col Barbieri alla Rivoluzione, che s’era fatto col Di Breme banditore di romanticismo e soffiatore nel carbonarismo del 21, che aveva intinto col Gioberti nelle cospirazioni e bandito il Primato d’ltalia e il Rinnovamento, che aveva col Rosmini additato le piaghe della Chiesa, che aveva coll’Andreoli e col Tazzoli salito il patibolo... ».
Q1 §89 Folklore. Il Giovanni Crocioni nel volume /Problemi fondamentali del Folklore/, Bologna, Zanichelli, 1928 critica come confusa e imprecisa la ripartizione del materiale folkloristico data dal Pitré nel 1897 nella premessa alla Bibliografia delle Tradizioni popolari e propone una ripartizione sua in quattro sezioni: arte, letteratura, scienza, morale del popolo. Anche questa divisione è criticata come imprecisa, mal definita e troppo lata. Il Ciampini (Raffaele) nella «Fiera Letteraria» del 30 dicembre 1928, domanda: «È essa scientifica? Come per es. farvi rientrare le superstizioni? E che vuol dire una morale del popolo? Come studiarla scientificamente? E perché, allora, non parlare anche di una religione di popolo?». Il folklore, mi pare, è stato finora studiato (in realtà finora è stato solo raccolto materiale grezzo) come elemento «pittoresco». Bisognerebbe studiarlo come «concezione del mondo» di determinati strati della società, che non sono toccati dalle correnti moderne di pensiero. Concezione del mondo non solo non elaborata e sistemizzata, perché il popolo per definizione non può far ciò, ma molteplice, nel senso che è una giustapposizione meccanica di parecchie concezioni del mondo, se addirittura non è un museo di frammenti di tutte le concezioni del mondo e della vita che si sono succedute nella storia. Anche il pensiero e la scienza moderna danno elementi al folklore, in quanto certe affermazioni scientifiche e certe opinioni, avulse dal loro complesso, cadono nel dominio popolare e sono «arrangiate» nel mosaico della tradizione (la Scoperta dell’America di Pascarella mostra come le nozioni diffuse dai manuali delle scuole elementari su Cristoforo Colombo e su altri personaggi siano assimilate bizzarramente). Il folklore può esser capito solo come riflesso delle condizioni di vita del popolo, sebbene spesso esso si prolunghi anche quando le condizioni siano modificate in combinazioni bizzarre.
Certo esiste una «religione di popolo» specialmente nei paesi cattolici e ortodossi (molto meno nei protestanti). La morale di popolo è il costume ed è strettamente legata, come la superstizione, alle sue credenze reali religiose: esistono degli imperativi, che sono molto più forti e tenaci che non quelli della morale kantiana.
Il Ciampini trova molto giusta la necessità sostenuta dal Crocioni che il folklore sia insegnato nelle scuole dove si preparavano i futuri insegnanti, ma poi nega che possa porsi la quistione della utilità del folklore (vorrà dire dello studio del folklore). Per lui il folklore (lo studio del folklore, cioè) è fine a se stesso o ha la sola utilità di offrire a un popolo gli elementi per una più profonda conoscenza di se stesso. Studiare le superstizioni per sradicarle, sarebbe per lui come se il folklore uccidesse se stesso, mentre la scienza non è che conoscenza disinteressata, fine a se stessa!!! Ma allora perché insegnate il folklore nelle scuole che preparano gli insegnanti? Per accrescere la cultura disinteressata dei maestri? Lo Stato ha una sua concezione della vita e cerca di diffonderla: è un suo compito e un suo dovere. Questa diffusione non avviene su una tabula rasa; entra in concorrenza e si urta per es. col folklore e «deve» superarlo. Conoscere il folklore significa per l’insegnante conoscere quali altre concezioni lavorano alla formazione intellettuale e morale delle generazioni giovani. Solo che bisognerebbe mutare lo spirito delle ricerche folkloristiche oltre che approfondirle: il folklore non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza, una cosa ridicola, una cosa tutt’al più pittoresca: ma deve essere concepito come una cosa molto seria e da prendere sul serio. Solo così l’insegnamento sarà più efficace e più formativo della cultura delle grandi masse popolari e sparirà il distacco tra cultura moderna e cultura popolare o folklore. Un lavoro di questo genere, in profondità, corrisponderebbe intellettualmente a ciò che è stata la Riforma nei paesi protestanti.
Q1 §90 La Voce e Prezzolini. L’articolo in cui Prezzolini difende la «Voce» e «rivendica di pieno diritto un posto per essa nella preparazione dell’Italia contemporanea» è citato nella «Fiera Letteraria» del 24 febbraio 1929 e quindi deve essere stato pubblicato nel «Lavoro fascista» di qualche giorno prima (nei dieci giorni tra il 14 e il 24 febbraio). L’articolo è stato provocato da una serie di articoletti della «Tribuna» contro Papini, nel quale, per il suo studio Su questa letteratura (pubblicato nel primo numero del «Pègaso») si scoprivano tracce del vecchio «protestantesimo» della «Voce». Lo scrittore della «Tribuna» ex nazionalista della prima «Idea Nazionale» non riusciva ancora a dimenticare i vecchi rancori contro la «Voce», mentre Prezzolini non ebbe il coraggio di sostenere la sua posizione d’allora. Su questo argomento Prezzolini pubblicò anche una lettera nel «Davide» che usciva irregolarmente a Torino nel 25‑26 diretto da Gorgerino. Bisogna poi ricordare il suo libro sulla Cultura Italiana del 23 e il suo volume sul «Fascismo» (in francese). Se Prezzolini avesse coraggio civile potrebbe ricordare che la sua «Voce» ha certamente molto influito su alcuni elementi socialisti ed è stata un elemento di revisionismo. Sua collaborazione e di Papini, nonché di molti vociani, al primo «Popolo d’Italia».
Q1 §91 Strapaese. Mino Maccari nella «Stampa» del 4 maggio 1929 scrive: «Quando Strapaese si oppone alle importazioni modernistiche, la sua opposizione vuol salvare il diritto di selezionarle al fine di impedire che i contatti nocivi, confondendosi con quelli che possono esser benefici, corrompano l’integrità della natura e del carattere proprii alla civiltà italiana, quintessenziata nei secoli, ed oggi anelante a una sintesi unificatrice».
Q1 §92 Sull’americanismo ha scritto un articolo Eugenio Giovannetti («Pègaso», maggio 1929, Federico Taylor e l’americanismo). Tra l’altro scrive (estratti dati dall’«Italia Letteraria» del 19 maggio): «L’energia letteraria, astratta, nutrita di retorica generalizzante, non è insomma oggi più in grado di capire l’energia tecnica, sempre più individuale ed acuta, tessuto originalissimo di volontà singolare e d’educazione specializzata. La letteratura energetica è ancora al suo Prometeo scatenato, immagine troppo comoda. L’eroe della civiltà tecnica non è uno scatenato: è un silenzioso che sa portare pei cieli la sua ferrea catena. Non è un ignorante che si goda l’aria: è uno studioso nel più bel senso classico, perché studium significava «punta viva». Mentre la civiltà tecnica o meccanistica, come volete chiamarla, elabora in silenzio questo suo tipo d’eroe incisivo, il culto letterario dell’energia non crea che un gaglioffo aereo, un acchiappanuvole scalmanato» .
È curioso che all’americanismo non si cerchi di applicare la formuletta di Gentile della «filosofia che non si enunzia in formule ma si afferma nell’azione»; è curioso e istruttivo, perché se la formula ha un valore è proprio l’americanismo che può rivendicarlo. Quando si parla dell’americanismo, invece, si trova che esso è meccanicistico, rozzo, brutale, cioè «pura azione» e gli si contrappone la tradizione ecc. Ma questa tradizione ecc. perché non viene assunta anche come base filosofica, come filosofia enunciata in formule per quei movimenti per i quali invece la «filosofia è affermata nell’azione»? Questa contraddizione può spiegare molte cose: differenza tra azione reale, che modifica essenzialmente la realtà esterna (e quindi anche la cultura reale) ed è l’americanismo, e gladiatorismo gaglioffo che si autoproclama azione e modifica solo il vocabolario non le cose, il gesto esterno non l’uomo interiore. La prima crea un avvenire che è intrinseco alla sua attività obbiettiva, e che spesso è ignorato. Il secondo crea dei fantocci perfezionati, secondo un figurino prefissato, che cadranno nel nulla appena tagliati i fili che danno loro l’apparenza del moto e della vita.
Q1 §93 I nipotini di padre Bresciani. Tommaso Gallarati Scotti, /Storie dell’Amor Sacro e dell’Amor Profano/. Ricordare la novella in cui si parla del falso corpo della santa portato dall’Oriente dai Crociati e le considerazioni sbalorditive dello Scotti. Dopo il frate Cipolla del Boccaccio... (Ricordare /La reliquia/ di Eça de Queiroz tradotto dal L. Siciliani in una collezione di Rocco Carabba diretto dal Borgese: in essa è un riflesso della novella del Boccaccio). I bollandisti sono rispettabili, perché almeno hanno estirpato qualche radice di superstizione (sebbene le loro ricerche rimangano chiuse in un cerchio molto ristretto e servano più che altro per gli intellettuali, per far vedere agli intellettuali che il cattolicismo combatte le superstizioni) ma l’estetismo folkloristico dello Scotti è rivoltante. Ricordare il dialogo riportato da W. Steed tra un protestante e un Cardinale a proposito di san Gennaro e la nota di Croce su una sua conversazione con un prete napoletano su san Gennaro a proposito di una lettera di Sorel. La figura dello Scotti entra di scorcio fra i nipotini di padre Bresciani. Come appendice o complemento parallelo.
Q1 §94 Proudhon, Jahier e Raimondi. Nell’«Italia Letteraria» del 21 luglio 1929 Giuseppe Raimondi scrive: «... mi parla di Proudhon, della sua grandezza e della sua modestia, dell’influenza che le sue idee hanno esercitato nel mondo moderno, dell’importanza che queste idee hanno assunto in un mondo retto dal lavoro socialmente organizzato, in un mondo dove la coscienza degli uomini si va sempre più evolvendo e perfezionando in nome del lavoro e dei suoi interessi. Proudhon ha fatto un mito, umano e vivente, di questi poveri interessi. In me l’ammirazione per Proudhon è piuttosto sentimentale, d’istinto, come un affetto e un rispetto che io ho ereditato, che mi sono stati trasmessi nascendo. In Jahier è tutta d’intelletto, derivata dallo studio, perciò profondissima». Questo Raimondi è un discreto poseur con la sua «ammirazione ereditata». Più oltre rò un brano di un altro suo articolo, che fa spiccare ancor di più questa posa.
Q1 §95 Adriano Tilgher, Homo faber. Storia del concetto del lavoro nella civiltà occidentale, Roma, Libreria di Scienza e Lettere, 1929, L. 15.
Q1 §96 Adelchi Baratono ha scritto nel II fascicolo di «Glossa perenne» un articolo sul Novecentismo che deve essere ricchissimo di spunti «sfottendi». Tra l’altro: «L’arte e la letteratura di un tempo non può e non dev’essere (!) che quella corrispondente alla vita e al gusto del tempo, e tutte le deplorazioni, come non servirebbero a mutarne l’ispirazione e la forma, così sarebbero anche contrarie a ogni criterio storico e quindi giusto di giudicare». Ma la vita e il gusto di un tempo sono qualcosa di monolitico? E allora la «corrispondenza» come può verificarsi? Il Risorgimento era «corrisposto» dal Berchet o dal padre Bresciani? La deplorazione lamentosa e moralistica sarebbe certamente scema, ma si può fare la critica senza deplorare. De Sanctis era un partigiano deciso della rivoluzione nazionale, tuttavia seppe criticare il Guerrazzi e non solo il Bresciani. L’agnosticismo del Baratono non è altro che vigliaccheria morale e civile. (Egli riconosce impossibile, per difetto di obbiettività e universalità, il giudizio di merito sui contemporanei).
Q1 §97 Salvadori, Valli e il lorianismo. Valli e la sua interpretazione «cospiratoria» e massonica del Dolce Stil nuovo (col precedente di D. G. Rossetti e del Pascoli) e Giulio Salvadori che nei Promessi Sposi scopre il dramma di Enrichetta (Lucia) oppressa da Condorcet, Donna Giulia e il Manzoni stesso (Don Rodrigo, l’Innominato ecc.) appartengono a una branca del Lorianesimo. (Di Giulio Salvadori e della sua interpretazione vedi un articolo in «Arte e Vita» del giugno 1920 e il libro postumo / Enrichetta Manzoni ‑ Blondel e il Natale del 33/, Treves, 1929).
Q1 §98 Lello Gangemi, /Il problema della durata del lavoro/, Firenze, Vallecchi, 1929, L. 25. (Dalla breve recensione di Luigi Perla in «Italia Letteraria» del 18 agosto 1929 si ricava: il problema della durata del lavoro, passato in seconda linea dopo il miglioramento delle condizioni economiche seguito al periodo di depressione che ebbe inizio nel 1921, è ritornato ora in discussione per la crisi economica attuale. Esame della legislazione vigente in materia nei vari paesi, ponendo in luce la difficoltà di una regolamentazione uniforme. Il problema e la convenzione di Washington. Dal punto di vista dell’organizzazione scientifica del lavoro. Le pretenzioni teoriche e sociali, che hanno dominato il problema, si sono dimostrate inapplicabili nella pratica azione legislativa. Di contro alle ideologie che vorrebbero abolire le ingiustizie sociali e finiscono invece col moltiplicarle e renderle più gravi, la pratica ha confermato come la semplice riduzione delle ore lavorative non possa, da sola (!), raggiungere l’intento di una maggiore produttività e di maggiori vantaggi (!) per il lavoratore. Resta invece dimostrata la utilità di determinate un limite dello sforzo lavorativo; ma questo limite non deve essere imposto in base a ideologie astratte, ma deve risultare dalla razionale coordinazione di concetti (!) fisiologici, economici ed etici).
Q1 §99 Un famoso parabolano arruffone è Antonio Bruers, uno dei tanti tappi di sughero che salgono sulle creste melmose dei bassifondi agitati. Nel «Lavoro fascista» del 23 agosto 1929 egli dà per probabile l’affermarsi in Italia di una filosofia, «la quale, pur non rinunciando a nessuno dei valori concreti dell’idealismo, è in grado di comprendere, nella sua pienezza filosofica e sociale, l’esigenza religiosa. Questa filosofia è lo spiritualismo, dottrina sintetica (!), la quale non esclude l’immanenza, ma conferisce il primato logico (!) alla trascendenza, riconosce praticamente (!) il dualismo e quindi conferisce al determinismo, alla natura, un valore che si concilia con le esigenze dello sperimentalismo». Questa dottrina corrisponderebbe al «genio prevalente della stirpe italica» di cui il Bruers, nonostante il nome esotico, sarebbe naturalmente il coronamento storico, spirituale, immanente, trascendente, ideale, determinato, pratico e sperimentale nonché religioso.
Q1 §100 Goffredo Bellonci, /Pagine e idee/, Edizione Sapientia, Roma. Pare che sia una specie di storia della letteratura italiana originalmente sovvertita dal luogo comune. Questo Bellonci è proprio una macchietta del giornalismo letterario; un Bouvard delle idee e della politica, una vittima di Mario Missiroli che era già una vittima di Oriani e di Sorel.
Q1 §101 Piedigrotta. In un articolo sul «Lavoro» (8 settembre 1929) Adriano Tilgher scrive che la poesia dialettale napoletana e quindi in gran parte la fortuna delle canzoni di Piedigrotta è in fiera crisi. Se ne sarebbero essicate le due grandi fonti: realismo e sentimentalismo. «Il mutamento di sentimenti e di gusti è stato così rapido e sconvolgente, così vorticoso e subitaneo, ed è ancora così lontano dall’essersi cristallizzato in qualcosa di stabile e di duraturo che i poeti dialettali che si avventurano su quelle sabbie mobili per tentare di portarle alla durezza e alla chiarezza della forma sono condannati a sparirvi dentro senza rimedio».
La crisi di Piedigrotta è veramente un segno dei tempi. La teorizzazione di Strapaese ha ucciso strapaese (in realtà si voleva fissare un figurino tendenzioso di strapaese assai ammuffito e scimunito). E poi l’epoca moderna non è espansiva, è repressiva. Non si ride più di cuore: si sogghigna e si fa dell’arguzia meccanica tipo Campanile. La fonte di Piedigrotta non si è essicata, è stata essicata perché era diventata «ufficiale» e i canzonieri erano diventati funzionari (vedi Libero Bovio) (e cfr l’apologo francese del becco funzionario).
Q1 §102 «La Fiera letteraria» divenuta poi «L’Italia letteraria» è stata sempre, ma sta diventando sempre più un sacco di patate. Ha due direttori, ma è come se non ne avesse nessuno e un segretario esaminasse la posta in arrivo, tirando a sorte gli articoli da pubblicare. Il curioso è che i due direttori, Malaparte e Angioletti, non scrivono nel loro giornale ma preferiscono altre vetrine. Le colonne della redazione devono essere Titta Rosa ed Enrico Falqui, e dei due il più comico è quest’ultimo che compila la Rassegna della Stampa, saltabeccando a destra e a sinistra, senza bussola e senza idee. Titta Rosa è più ponteficale e si dà arie da grande pontefice disincantato anche quando scrive delle baggianate. L’Angioletti pare abbastanza ritrosetto a lanciarsi in alto mare: non ha l’improntitudine di Malaparte. È interessante notare come l’«Italia letteraria» non si arrischi a dare giudizi propri e aspetti che abbiano parlato prima i cani grossi. Così è avvenuto per gl’Indifferenti di Moravia, ma cosa più grave per il Malagigi di Nino Savarese, libro veramente saporoso, che fu recensito solo quando entrò in terna per il premio dei trenta, mentre non era stato notato nelle pagine della «Nuova Antologia». Le contraddizioni di questo gruppo di graffiacarte sono veramente spassose, ma non vale la pena di notarle. Ricordano i Bandar Log del Libro della Jungla: «noi faremo, noi creeremo», ecc. ecc.
Q1 §103 Confederazione Generale Fascista dell’Industria italiana, Lo sviluppo dell’Industria Italiana, Litografia del Genio Civile, Roma, 1929, L. 100 (78 tavole in policromia, che passano in rassegna l’industria italiana dal 1876 al 1928). Indispensabile.
Q1 §104 Jean Barois. Riceve i sacramenti della religione prima di morire. La moglie trova poi tra le sue carte il testamento, redatto negli anni della maturità intellettuale. Vi si trova: «per tema che la vecchiaia e le malattie mi indeboliscano a tal segno da farmi temere la morte e da indurmi a cercare le consolazioni della religione, redigo oggi nella pienezza delle mie facoltà e del mio equilibrio intellettuale, il mio testamento. Non credo all’anima sostanziale e immortale. So che la mia personalità è un agglomerato di atomi la cui disgregazione comporta la morte totale. Credo al determinismo universale... ». Il testamento è gettato nel fuoco. Ricercare.
Q1 §105 La filosofia americana. Studiare la posizione di Josiah Royce nel quadro della concezione americana della vita. Quale importanza e quale funzione ha avuto l’hegelismo in questa concezione? Può il pensiero moderno diffondersi in America, superando l’empirismo‑pragmatismo, senza una fase hegeliana?
Q1 §106 La concezione religiosa di Maurras. La «Rivista d’Italia» del 15 gennaio 1927 riassume un articolo di J. Vialatoux pubblicato nella «Chronique Sociale de France» di qualche settimana prima. Il Vialatoux respinge la tesi sostenuta da Jacques Maritain in Une opinion sur Charles Maurras et le devoir des catholiques (Paris, Plon, 1926) che tra la filosofia e la morale pagane di Maurras da una parte e la sua politica dall’altra non vi sia che un rapporto contingente, di modo che se si prende la dottrina politica, astraendo dalla filosofia, si può andare incontro a qualche pericolo, come in ogni movimento umano, ma non v’ha nulla di condannabile. Per il Vialatoux, giustamente, la dottrina politica scaturisce (o per lo meno è inscindibilmente collegata — G.) dalla concezione pagana del mondo (su questo paganesimo bisognerebbe distinguere e chiarire, tra la veste letteraria, estrinseca, in cui consiste questo così detto paganesimo di Maurras e il nocciolo essenziale che è poi un positivismo naturalistico, preso da Comte e mediatamente dal sansimonismo, ciò che col paganesimo entra solo per la nomenclatura gergale della chiesa). La città è fine ultimo dell’uomo: realizza l’ordine umano con le sole forze della natura. Maurras è definibile per i suoi odii ancor più che per i suoi amori. Odia il cristianesimo primitivo (la concezione del mondo degli Evangeli, dei primi apologisti ecc., il cristianesimo fino all’editto di Milano, insomma, che credeva la venuta di Cristo annunziare la fine del mondo e determinava perciò la dissoluzione dell’ordine politico romano in una anarchia morale corrosiva di ogni valore civile e statale) che per lui è una concezione giudaica.
In questo senso Maurras vuole scristianizzare la società moderna. Per Maurras la chiesa cattolica è stata e sarà sempre più lo strumento di questa scristianizzazione. Egli distingue tra cristianesimo e cattolicismo ed esalta quest’ultimo come la reazione dell’ordine romano all’anarchia giudaica. Il culto cattolico, le sue devozioni superstiziose, le sue feste, le sue pompe, le sue solennità, la sua liturgia, le sue immagini, le sue formule, i suoi riti sacramentali, la sua gerarchia imponente, sono come un incantesimo salutare per domare l’anarchia cristiana, per immunizzare il veleno giudaico del cristianesimo autentico. Secondo il Vialatoux il nazionalismo dell’Action Française non è che un episodio della storia religiosa del nostro tempo. (Bisognerebbe aggiungere che l’odio di Maurras contro tutto ciò che sa di protestante ed è di origine anglotedesca ‑ romanticismo, Rivoluzione francese, capitalismo — non è che un aspetto di questo odio del cristianesimo primitivo; bisognerebbe inoltre cercare in Augusto Comte le origini della sua attitudine verso il cattolicismo, che non è indipendente dalla rinascita libresca del tomismo e dell’aristotelismo).
Q1 §107 Filippo Meda, Statisti cattolici, Alberto Morano, Napoli. Sono sei biografie: di Daniele ’O Connel, García Moreno, Luigi Windthorst, Augusto Bernaert, Giorgio Hertling, Antonio Maura. Esponenti del conservatorismo clericale (clerico‑moderati italiani), cioè della preistoria del moderno popolarismo cattolico. È indispensabile per ricostruire lo sviluppo storico dell’Azione Cattolica. La biografia di García Moreno (Venezuela, mi pare) è anche interessante per comprendere alcuni aspetti delle lotte ideologiche dell’ex‑America spagnola e portoghese, dove ancora si attraversa un periodo di Kulturkampf primitivo, dove cioè lo Stato moderno deve ancora lottare contro il passato clericale e feudale. È interessante notare questa contraddizione che esiste nell’America del Sud tra il mondo moderno delle grandi città commerciali della costa e il primitivismo dell’interno, contraddizione che si prolunga per l’esistenza di grandi masse di aborigeni da un lato e di immigrati europei dall’altro più difficilmente assimilabili che nell’America del Nord: il gesuitismo è un progresso in confronto dell’idolatria, ma è un inciampo per lo sviluppo della civiltà moderna rappresentata dalle grandi città costiere: esso serve come mezzo di governo per mantenere al potere le piccole oligarchie tradizionali, che perciò non fanno che una lotta blanda e molle. La massoneria e la Chiesa positivistica sono le ideologie e le religioni laiche della piccola borghesia urbana, alle quali aderisce in gran parte il così detto sindacalismo anarchico che dello scientifismo anticlericale fa il suo pascolo intellettuale. (Problema del risveglio alla vita politica e nazionale delle masse aborigene: nel Messico qualcosa di simile è avvenuto per impulso di Obregon e Calles?)
Q1 §108 Sul Risorgimento. Pubblicazioni di Augusto Sandonà, che dopo l’armistizio ha fatto ricerche negli archivi viennesi per studiare la documentazione austriaca ufficiale.
Q1 §109 Confidenti e agenti provocatori dell’Austria. I confidenti che agivano all’estero e che dipendevano dalla Cancelleria di Stato di Vienna, non dovevano fare gli agenti provocatori; ciò risulta dalle precise istruzioni del principe di Metternich che, in un dispaccio segreto dell’8 febbraio 1844 indirizzato al conte Apponyi ambasciatore d’Austria a Parigi, così si esprimeva in merito al servizio che prestava nella capitale francese il famigerato Attilio Partesotti: «Il grande fine che il Governo imperiale si propone non è di trovare dei colpevoli né di provocare delle imprese criminali... Partesotti deve di conseguenza considerarsi come un osservatore attento e fedele ed evitare con cura di essere agente provocatore» (Staatskanzlei). Così scrive Augusto Sandonà nello studio /Il preludio delle cinque giornate di Milano ‑ Nuovi documenti/, pubblicato nella «Rivista d’Italia» (ho letto solo la prima puntata nel numero del 15 gennaio 1927) a proposito dell’accusa lanciata dal dott. Carlo Casati (/Nuove Rivelazioni sui fatti di Milano nel 1847‑48/, Milano, Hoepli, 1885) e dall’«Archivio triennale delle cose d’Italia» (vol. I, Capolago, Tip. Elvetica, 1850) al barone Carlo Torresani, direttore generale della polizia di Milano dal 1822 al 48, di aver organizzato un servizio di agenti provocatori che inscenassero i tumulti. È da osservare però che, nonostante le disposizioni del Metternich, gli agenti provocatori potevano operare ugualmente per necessità delle polizie locali e anche per necessità personale degli «osservatori» stessi.
Q1 §110 Contraddizioni dei moderati prima del 48. La lega doganale, promossa da Cesare Balbo e stretta a Torino il 3 novembre 1847 dai tre rappresentanti del Piemonte, della Toscana e dello Stato romano, doveva preludere alla costituzione della Confederazione politica che poi fu disdetta dallo stesso Balbo, facendo così abortire anche la Lega doganale. La Confederazione era desiderata dagli Stati minori italiani: i piemontesi reazionari, tra cui Balbo, credendo assicurata l’espansione territoriale del Piemonte, non volevano pregiudicarla con legami che l’avrebbero ostacolata (il Balbo nelle /Speranze d’Italia/ aveva sostenuto che la Confederazione era impossibile finché una parte d’Italia fosse stata in mano agli stranieri) e disdissero la Confederazione dicendo che le leghe si stringono prima o dopo la guerra (la Confederazione fu respinta nel 48 nei primi mesi — cercare). Gioberti con altri vedevano nella confederazione politica e doganale stretta anche durante la guerra la necessaria premessa per rendere possibile il motto «l’Italia farà da sé».
Questo episodio è della massima importanza, con quello dei volontari e della Costituente, per mostrare come il movimento del 48 fallì per gl’intrighi dei reazionari, che poi furono i moderati del periodo successivo. Essi non seppero dare né una direzione politica, né tanto meno una direzione militare alla rivoluzione prima del 48.
Q1 §111 Di Augusto Sandonà. 1°) /Contributo alla storia dei processi del 21 e dello Spielberg/, Torino, Bocca, 1911; 2°) /L’idea unitaria ed i partiti politici alla vigilia del 1848/, «Rivista d’Italia», giugno 1914; 3°) Il Regno lombardo‑veneto. /La costituzione e l’amministrazione/, Milano, Cogliati, 1912.
Q1 §112 Padre Facchinei. Nella «Rivista d’Italia» del 15 gennaio 1927 è pubblicato un articolo di Adolfo Zerboglio intitolato /Il ritorno di padre Facchinei/, autore di un libello contro Cesare Beccaria /ed osservazioni sul libro intitolato «Dei delitti e delle pene»/ pubblicato verso il 1761. Dai brani riportati dallo Zerboglio (p. 27 della rivista) appare che il Facchinei conosceva già la parola «socialisti»: «Domando ai più pregiudicati socialisti: se un uomo trovandosi nella sua primitiva libertà, e prima di essere entrato in qualche società, domando, dico, se un uomo libero abbia diritto di uccidere un altr’uomo, che gli volesse in qualunque maniera levar la vita? Io sono sicuro che tutti i socialisti per questa volta mi risponderanno di sì». Ma cosa significava allora questa parola? Nel Dizionario politico di Maurizio Block la parola «socialisme» è assegnata a un’epoca molto più tarda, verso il 1830, se ben ricordo.
Q1 §113 Rivoluzione nel diritto penale e nella procedura penale e materialismo storico. La espressione di Marx nella prefazione alla Critica dell’Economia politica (del 1859) «così come non si giudica ciò che un individuo è da ciò che egli sembra a se stesso» può essere riallacciata al rivolgimento avvenuto nella procedura penale e alle discussioni teoriche in proposito, allora relativamente recenti. Infatti la vecchia procedura richiedeva la confessione dell’imputato (specialmente per i delitti capitali) per emettere la sentenza di condanna, donde la tortura. Nella nuova procedura l’interrogatorio dell’imputato è solo un elemento, talvolta trascurabile, del processo (non si domanda il giuramento, si riconosce che l’imputato può mentire o essere reticente) mentre il primo posto è preso dalle prove materiali e testimoniali. Ricercare se qualcuno ha rilevato questa coincidenza dei due fenomeni e ha studiato il movimento per la rinnovazione del diritto processuale e penale come un elemento suggestivo dell’innovazione portata da Marx nello studio della storia (Sorel potrebbe aver fatto l’osservazione, perché rientra nel suo stile).
Q1 §114 Risorgimento. Direzione Politica e militare. Nello studio della direzione politica e militare impressa al movimento nazionale prima e dopo il 48 occorre fare alcune preventive osservazioni di metodo e di nomenclatura. Per direzione militare non deve intendersi solo la direzione militare in senso stretto, tecnico, cioè come riferentesi alla strategia e alla tattica dell’esercito piemontese, o delle truppe garibaldine o delle varie milizie improvvisate nelle sollevazioni locali (5 giornate di Milano, difesa di Venezia, difesa della Repubblica Romana, insurrezione di Palermo nel 48 ecc.). Deve intendersi invece in senso molto più largo e più strettamente aderente alla direzione politica vera e propria. Il problema era di espellere dall’Italia una potenza straniera, che aveva uno dei più grandi eserciti dell’Europa d’allora e che aveva inoltre non pochi e deboli aderenti nell’Italia stessa, persino nel Piemonte. Il problema militare era pertanto questo: «come riuscire a mobilitare una forza che fosse in grado di espellere dall’Italia l’esercito austriaco e di impedire che potesse ritornare con una controffensiva, dato che l’espulsione violenta avrebbe messo in pericolo l’Impero e quindi ne avrebbe galvanizzato tutte le forze vitali per una rivincita».
Le soluzioni date teoricamente furono parecchie, tutte contraddittorie. «L’Italia farà da sé». Questa fu la parola d’ordine del 48. Ma volle dire la sconfitta. La politica ambigua, incerta, timida dei partiti di destra piemontesi fu la cagione principale della sconfitta: essi furono d’una astuzia meschina. Essi furono la causa del ritirarsi degli eserciti degli altri stati italiani, napoletani e romani, per aver troppo presto mostrato di volere l’espansione piemontese e non la confederazione italiana: essi non favorivano i volontari: essi, insomma, volevano che soli armati vittoriosi fossero i generali piemontesi. L’assenza di una politica popolare fu disastrosa: i contadini lombardi e veneti arruolati dall’Austria furono lo strumento per soffocare la rivoluzione di Vienna. Essi non vedevano nessun rapporto tra la rivoluzione di Vienna e quella dei loro paesi: il movimento lombardo‑veneto era una cosa dei signori e degli studenti come il movimento viennese. Mentre il partito nazionale italiano avrebbe dovuto, con la sua politica rivoluzionaria, portare o aiutare la disgregazione dell’Impero austriaco, con la sua inerzia ottenne che i reggimenti italiani fossero uno dei migliori puntelli della reazione austriaca. Eppure questo avrebbe dovuto essere il suo fine strategico: non distruggere il nemico e occuparne il territorio, che sarebbe stato fine irraggiungibile e utopistico, ma disgregarlo all’interno e aiutare i liberali austriaci ad andare al potere per mutare la struttura interna dell’impero in federalistica, o almeno per crearvi uno stato prolungato di lotte interne fra le varie nazionalità (lo stesso errore fu commesso da Sonnino durante la guerra mondiale, anche contro il parere di Cadorna: Sonnino non voleva la distruzione dell’Impero absburgico e si rifiutò a ogni politica di nazionalità; anche dopo Caporetto, questa politica fu fatta maltusianamente e non dette i rapidi risultati che avrebbe potuto dare).
Però dopo aver affermato «l’Italia farà da sé» si cercò dopo la sconfitta di avere l’aiuto francese, proprio quando al governo in Francia erano andati i reazionari, nemici di uno Stato italiano forte.
La direzione militare è dunque una quistione più vasta della direzione dell’esercito vero e proprio, della determinazione del piano strategico che questo esercito deve svolgere: essa riguarda la mobilitazione di forze popolari che insorgano alle spalle del nemico e ne intralcino il movimento, essa tende a creare masse ausiliarie e di riserva, da cui si possono trarre nuovi eserciti e che diano all’esercito «tecnico» l’atmosfera di entusiasmo e di ardore. La politica popolare non fu fatta neanche dopo il 48: si cercò l’aiuto della Francia e con l’alleanza francese si equilibrò la forza austriaca. La politica della destra piemontese ritardò l’unità d’Italia di 20 anni.
Q1 §115 A proposito della minaccia continua che il governo viennese faceva ai nobili del Lombardo‑Veneto di promulgare una legislazione agraria favorevole ai contadini (cosa che fu fatta nella Galizia contro i signori polacchi a favore dei contadini ruteni), sono interessanti alcuni particolari contenuti in un articolo della «Pologne littéraire» riassunto nel «Marzocco» del 1° dicembre 1929. Il giornale polacco, ricercando le cause storiche dello spirito militare dei polacchi, per cui si trovano volontari polacchi in tutte le guerre e le guerriglie, in tutte le insurrezioni e in tutte le rivoluzioni del secolo scorso, risale a questo fatto: il 13 luglio 1792 «una nazione che contava 9 milioni di abitanti, che aveva 70 000 soldati sotto le armi, fu conquistata senza essere stata vinta».
Il 3 maggio 1791 era stata proclamata una costituzione il cui spirito largamente democratico poteva divenire un pericolo per i vicini, il re di Prussia, l’imperatore d’Austria e lo zar di Russia, e che aveva parecchi punti di contatto con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino votata dalla Costituente francese nell’agosto del 1789. La Polonia fu conquistata colla piena connivenza dei nobili polacchi, i quali, più previdenti dei loro fratelli di Francia, non avevano atteso l’applicazione della carta costituzionale per provocare l’intervento straniero. Costoro preferirono vendere la nazione al nemico piuttosto che cedere la benché minima parte delle terre ai contadini. Preferirono cadere in servitù essi medesimi, anziché concedere la libertà al popolo. Secondo l’autore dell’articolo, Z. St. Klingsland, i 70 000 soldati presero la via dell’esilio e si diressero verso la Francia, ciò che è per lo meno esagerato. Ma il nocciolo degli avvenimenti è veramente istruttivo e spiega molta parte degli avvenimenti fino al 48 anche in Italia.
È interessante il fatto che un giornale polacco fatto per l’estero preferisca far risalire la spartizione polacca del 92 al tradimento dei nobili piuttosto che alla debolezza militare della Polonia, nonostante che la nobiltà abbia ancora in Polonia una funzione molto importante. Forse episodio della lotta di Pilsudsky contro Witos. Strano «punto d’onore» nazionale. Darwin, mi pare nel suo Viaggio intorno al mondo di un naturalista racconta qualcosa di simile per la Spagna: gli spagnoli sostenevano che una sconfitta della flotta alleata franco-spagnola era stata causata dalla loro slealtà, perché se avessero combattuto davvero, gli spagnoli non avrebbero potuto essere stati vinti. Meglio sleali e traditori che senza «spirito militare invincibile».
Q1 §116 Intellettuali italiani. Confronto tra la concentrazione culturale francese, che si riassume nell’«Istituto di Francia» e la non coordinazione italiana. Riviste di cultura francesi e italiane (tipo Nuova Antologia ‑ «Revue des deux mondes»). Giornali quotidiani italiani molto meglio fatti che i francesi: essi compiono due funzioni — quella di informazione e di direzione politica generale e la funzione di cultura politica, letteraria, artistica, scientifica che non ha un suo organo proprio diffuso (la piccola rivista per la media cultura). In Francia anzi anche la prima funzione si è distinta in due serie di quotidiani: quelli di informazione e quelli di opinione che a loro volta sono dipendenti da partiti direttamente, oppure hanno una apparenza di imparzialità («Action Française» ‑ «Temps» ‑ «Débats»).
In Italia, per l’assenza di partiti organizzati e centralizzati, non si può prescindere dai giornali: sono i giornali, raggruppati a serie, che costituiscono i veri partiti. Per esempio, nel dopoguerra, Giolitti aveva una serie di giornali che rappresentavano le varie correnti o frazioni del partito liberale democratico: la «Stampa» a Torino, che cercava d’influire sugli operai e aveva saltuariamente spiccate tendenze riformistiche (nella «Stampa» tutte le posizioni erano saltuarie, intermittenti, a seconda che Giolitti era o non era al potere ecc.); la «Tribuna» a Roma che era legata alla burocrazia e all’industria protezionista (mentre la «Stampa» era piuttosto liberista — quando Giolitti non era al potere con maggiore accentuazione); il «Mattino» a Napoli legato alle cricche meridionali giolittiane, con altri organi minori (la «Stampa» per certa collaborazione e servizi d’informazione era alla testa di un trust giornalistico di cui facevano parte specialmente il «Mattino», la «Nazione» e anche il «Resto del Carlino»).
Il «Corriere della Sera» formava una corrente a sé, che cercava di essere in Italia ciò che è il «Times» in Inghilterra, custode dei valori nazionali al di sopra delle singole correnti. Di fatto era legato all’industria lombarda d’esportazione tessile (e gomma), e perciò più permanentemente liberista: nel dopoguerra il «Corriere» era alla destra del Nittismo (dopo aver sostenuto Salandra). Il Nittismo aveva anch’esso una serie di giornali: il «Corriere» a destra, il «Carlino» al centro destra, il «Mondo» al centro sinistra, il «Paese» alla sinistra. Il Nittismo aveva due aspetti: plutocratico, legato all’industria protetta e di sinistra. Una posizione a parte occupava il «Giornale d’Italia», legato all’industria protetta e ai grandi proprietari terrieri dell’Emilia, del Centro e del Mezzogiorno. È interessante notare che i grandi giornali che rappresentavano la tradizione del Partito d'Azione — «Secolo» a Milano, «Gazzetta del Popolo» a Torino, «Messaggero» a Roma, «Roma» a Napoli — ebbero dal 21 al 25 un atteggiamento diverso dalla «Stampa», dal «Corriere», dal «Giornale d’Italia» ‑ «Tribuna», dal «Mattino» e anche dal «Resto del Carlino».
Il «Corriere» fu sempre antigiolittiano, come ho spiegato in una precedente nota. Anche al tempo della guerra libica, il «Corriere» si tenne neutrale fino a pochi giorni prima della dichiarazione di guerra, quando pubblicò l’articolo di Andrea Torre, rumoroso e pieno di strafalcioni.
Il Nittismo era ancora una formazione politica in fieri: ma Nitti mancava di alcune doti essenziali dell’uomo di Stato, era troppo pauroso fisicamente e troppo poco deciso: egli era però molto furbo, ma è questa una qualità subalterna. La creazione della Guardia Regia è il solo atto politico importante di Nitti: Nitti voleva creare un parlamentarismo di tipo francese (è da notare come Giolitti cercasse sempre le crisi extraparlamentari: Giolitti con questo «trucco» voleva mantenere formalmente intatto il diritto regio di nominare i ministri all’infuori o almeno a latere del Parlamento; in ogni caso impedire che il governo fosse troppo legato o esclusivamente legato al Parlamento), ma si poneva il problema delle forze armate e di un possibile colpo di Stato. Poiché i carabinieri dipendevano disciplinarmente e politicamente dal Ministero della Guerra, cioè dallo Stato Maggiore (anche se finanziariamente dal ministero degli interni), Nitti creò la Guardia Regia, come forza armata dipendente dal Parlamento, come contrappeso contro ogni velleità di colpo di Stato.
Per uno strano paradosso la Guardia Regia, che era un completo esercito professionale, cioè di tipo reazionario, doveva avere una funzione democratica, come forza armata della rappresentanza nazionale contro i possibili tentativi delle forze irresponsabili e reazionarie. È da notare la occulta lotta svoltasi nel 1922 tra nazionalisti e democratici intorno ai carabinieri e alla guardia regia. I liberali sotto la maschera di Facta volevano ridurre il corpo dei carabinieri o incorporarne una gran parte (il 50%) nella guardia regia. I nazionalisti reagiscono e al Senato il generale Giardino parla contro la Guardia Regia, e ne fa sciogliere la cavalleria (ricordare la comica e miserevole difesa che di questa cavalleria fece il «Paese»: il prestigio del cavallo, ecc. ecc.).
Le direttive di Nitti erano molto confuse: nel 1918, quand’era ministro del Tesoro, fece una campagna oratoria sostenendo la industrializzazione accelerata dell’Italia, e sballando grosse fanfaluche sulle ricchezze minerarie di ferro e carbone del paese (il ferro era quello di Cogne, il carbone era la lignite toscana: il Nitti giunse a sostenere che l’Italia poteva esportare questi minerali, dopo aver soddisfatto una sua industria decuplicata; cfr a questo proposito l’Italia in rissa di F. Ciccotti). Sostenne, prima dell’armistizio, la polizza ai combattenti, di 1000 lire, acquistando la simpatia dei contadini. Significato dell’amnistia ai disertori (italiani all’estero che non avrebbero più mandato rimesse, di cui la Banca di Sconto aveva il quasi monopolio). Discorso di Nitti sulla impossibilità tecnica della rivoluzione in Italia, che produsse un effetto folgorante nel partito socialista (cfr il discorso di Nitti con la lettera aperta di Serrati del novembre o dicembre 1920). La Guardia Regia era per il 90% di meridionali. Programma di Nitti dei bacini montani nell’Italia meridionale che produsse tanto entusiasmo.
La morte del generale Ameglio, suicidatosi dopo un pubblico alterco col generale Tettoni, incaricato di una ispezione amministrativa sulla gestione della Cirenaica (Ameglio era il generalissimo della Guardia Regia). La morte di Ameglio, per la sua tragicità, deve essere collegata al suicidio del generale Pollio nel 1914 (Pollio aveva, nel 19 12, al momento del rinnovo della Triplice, firmato la convenzione militare‑navale con la Germania che entrava in vigore il 6 agosto 1914: mi pare che proprio in base a questa convenzione l’Emden e il Göschen poterono rifugiarsi nel porto di Messina: cfr in proposito le pubblicazioni di Rerum Scriptor nella «Rivista delle Nazioni Latine» e nell’«Unità» del 17‑18, che io riassunsi nel «Grido del Popolo»). Nelle sue memorie Salandra accenna alla morte «repentina» di Pollio (non scrive che fu suicidio): il famoso «Memorandum» di Cadorna, che Salandra dichiara di non aver conosciuto, deve rispecchiare le vedute dello Stato Maggiore sotto la gestione Pollio e in dipendenza della Convenzione del 1912; la dichiarazione di Salandra di non averlo conosciuto è estremamente importante e piena di significati sulla politica italiana e sulla reale situazione dell’elemento parlamentare nelgoverno.
Nello studio dei giornali come funzionanti da partito politico occorre tener conto di singoli individui e della loro attività. Mario Missiroli è uno di questi. Ma i due tipi più interessanti sono Pippo Naldi e Francesco Ciccotti. Naldi ha cominciato come giovane liberale borelliano — collaboratore di piccole riviste liberali — direttore del «Resto del Carlino» e del «Tempo»: è stato un agente importantissimo di Giolitti e di Nitti; legato ai fratelli Perrone e certamente ad altri grossi affaristi; durante la guerra la sua attività è delle più misteriose. L’attività di Ciccotti è delle più complesse e difficili, sebbene il suo valore personale sia mediocre. Durante la guerra ebbe atteggiamenti disparati: fu sempre un agente di Nitti o per qualche tempo anche di Giolitti? A Torino nel 16‑17 era assolutamente disfattista; egli invitava all’azione immediata. Se si può parlare di responsabilità individuali per i fatti dell’agosto 17, Ciccotti avrebbe dovuto ritenersi il più responsabile: invece fu appena interrogato dal giudice istruttore e non si procedette contro di lui. Ricordo la sua conferenza del 16 o del 17, dopo la quale furono arrestati un centinaio di giovani e adulti accusati di aver gridato «Evviva l’Austria! ». Non credo che il grido sia stato emesso da nessuno, ma dopo la conferenza di Ciccotti non sarebbe stato strano che qualcuno avesse anche emesso questo grido.
Ciccotti cominciò la sua conferenza dicendo che i socialisti erano responsabili di una grave colpa: aver affermato che la guerra era capitalistica. Secondo Ciccotti questo significava nobilitare la guerra. Egli allora, con una sottigliezza rimarchevole nell’abilità di suscitare i sentimenti popolari elementari, sviluppò un romanzo d’appendice a forti tinte che cominciava su per giù così: — la sera tale si riunirono al caffè Faraglino Vincenzo Morello (Rastignac), il senatore Artom e un terzo che non ricordo ecc. ecc.; la guerra era dovuta alla congiura di questi tre e ai denari di Barrère. — Ricordo d’aver visto alcuni operai che conoscevo come gente calmissima e temperata coi capelli rizzati in testa, frenetici, uscire dalla sala, dopo la perorazione, in uno stato di eccitazione incredibile.
Il giorno dopo la «Stampa» pubblicava un articolo non firmato, scritto da Ciccotti, in cui si sosteneva la necessità del blocco tra Giolitti e gli operai in tempo prima che l’apparecchio statale cadesse completamente nelle mani dei pugliesi di Salandra. Qualche giorno dopo la «Giustizia» di Reggio Emilia pubblicava il resoconto di una conferenza di Ciccotti a Reggio, dove aveva esaltato il prampolinismo ecc. Ricordo che mostrai questo giornale ad alcuni «rigidi» i quali erano infatuati di Ciccotti e volevano si sostenesse (certo per istigazione del Ciccotti stesso) una campagna per dare l’«Avanti! » a Ciccotti.
Nessuno ha studiato ancora a fondo i fatti di Torino dell’agosto 17. È certissimo che i fatti furono spontanei e dovuti alla mancanza di pane prolungata, che negli ultimi dieci giorni prima dei fatti, aveva determinato la mancanza assoluta di ogni cibo popolare (riso, polenta, patate, legumi ecc.). Ma la quistione è appunto questa: come spiegare questa assoluta deficienza di vettovaglie? (Assoluta: nella casa dove abitavo io si erano saltati tre pasti di fila, dopo un mese in cui i pasti saltati erano andati crescendo, ed era una casa del centro). Il prefetto Verdinois nell’autodifesa pubblicata nel 1925, non dà ragguagli sufficienti; il ministro Orlando richiamò solo amministrativamente il Verdinois e nel discorso alla Camera se la cavò male anch’egli; intanto non fu fatta nessuna inchiesta. Il Verdinois accusa gli operai, ma la sua accusa è una cosa inetta: egli dice che i fatti non avevano come causa la mancanza di pane perché continuarono anche quando fu dato in vendita il pane fatto con la farina dei depositi militari. La «Gazzetta del Popolo» però, già da 20 giorni, prevedeva gravi fatti per la mancanza di pane e avvertiva quotidianamente di provvedere a tempo: naturalmente cambiò tono dopo e parlò solo di denaro straniero. Come fu lasciato mancare il pane a una città, la cui provincia è scarsamente coltivata a grano e che era diventata una grande officina di guerra, con una popolazione accresciuta di più di 100 000 lavoratori per le munizioni?
Io ho avuto la convinzione che la mancanza di pane non fu casuale, ma dovuta al sabotaggio della burocrazia giolittiana, e in parte all’inettitudine di Canepa, che né aveva la capacità per il suo ufficio, né era in grado di padroneggiare la burocrazia dipendente dal suo commissariato. I giolittiani erano di un fanatismo tedescofilo incredibile: essi sapevano che Giolitti non poteva andare ancora al potere, ma volevano creare un anello intermedio, Nitti o Orlando, e rovesciare Boselli; il meccanismo funzionò tardi, quando Orlando era già al potere, ma il fatto era stato preparato per far cadere il governo Boselli su una pozza di sangue torinese.
Perché fu scelta Torino? Perché era quasi tutta neutralista, perché Torino aveva scioperato nel 15, ma specialmente perché i fatti avevano importanza specialmente a Torino. Ciccotti fu il principale agente di questo affare; egli andava troppo spesso a Torino e non sempre per far conferenze agli operai, ma anche per parlare con quei della «Stampa». Non credo che i giolittiani fossero in collegamento con la Germania: ciò non era indispensabile. Il loro livore era tale per i fatti di Roma del 15 e perché pensavano che l’egemonia piemontese sarebbe stata fortemente scossa o addirittura spezzata, che essi erano capaci di tutto: il processo di Portogruaro contro Frassati e l’affare del colonnello Gamba mostrano solo che questa gente aveva perduto ogni controllo. Bisogna aver visto la soddisfazione con cui i redattori della «Stampa», dopo Caporetto, parlavano del panico che regnava a Milano nei dirigenti e della decisione del «Corriere» di trasportar via tutto il suo impianto, per comprendere di che potevano essere capaci: indubbiamente i giolittiani avevano avuto paura di una dittatura militare che li mettesse al muro; essi parlavano di una congiura Cadorna‑Albertini per fare un colpo di Stato: la loro smania di giungere a un accordo coi socialisti era incredibile.
Ciccotti durante la guerra servì di tramite per pubblicare nell’«Avanti! » articoli del Controllo Democratico inglese (gli articoli li riceveva la signora Chiaraviglio). Ricordo il racconto di Serrati del suo incontro a Londra con una signora che lo voleva ringraziare a nome del Comitato e la meraviglia del povero uomo, che fra questi intrighi non sapeva che decisioni prendere. Altro aneddoto raccontato da Serrati: l’articolo di Ciccotti contro la Commerciale lasciato passare, l’articolo contro la Sconto censurato; il commento di Ciccotti a un discorso di Nitti prima censurato, poi permesso dopo telefonata di Ciccotti che si richiamava a (una) promessa di Nitti e non pubblicato da Serrati ecc. Ma l’episodio più interessante è quello dei gesuiti che attraverso Ciccotti cercavano di far cessare la campagna per i SS. Martiri: — cosa avranno dato in cambio i gesuiti a Ciccotti? Ma nonostantetutto Ciccotti non venne espulso, perché bisognava dargli l’indennità giornalistica. Un altro di questi tipi è stato Carlo Bazzi.
Q1 §117 Direzione politica e militare nel Risorgimento. La incertezza politica, le continue oscillazioni tra dispotismo e costituzionalismo ebbero i loro effetti anche sull’esercito piemontese. Si può dire che quanto più un esercito è numeroso, cioè quanto più profonde masse della popolazione vi sono incorporate, tanto più cresce l’importanza della direzione politica su quella meramente tecnica‑militare. La combattività dell’esercito piemontese era altissima al principio della campagna del 48: i destri credettero che questa combattività fosse espressione di un puro «spirito militare» astratto e si dettero ad intrigare per restringere le libertà popolari. Il morale dell’esercito decadde. La polemica sulla «fatal Novara» è tutta qui. A Novara l’esercito non volle combattere, perciò fu sconfitto. I destri accusarono i sinistri d’aver portato la politica nell’esercito, d’averlo disgregato. Ma in realtà l’esercito si accorge di un mutamento di direzione politica, senza bisogno dei disgregatori, da una molteplicità di piccoli fatti, che uno per uno sembrano trascurabili ma nell’insieme formano una nuova atmosfera asfissiante: quindi la causa non è che di chi ha mutato la direzione politica, senza prevederne le conseguenze militari, cioè ha sostituito una cattiva politica a una precedente buona, conforme al fine. Il problema è legato al concetto di opportuno e di conforme al fine: se gli uomini fossero macchine, il concetto di conforme al fine sarebbe semplice. Ma gli uomini non sono uno strumento materiale che si può usare nei limiti della sua coesione meccanica e fisica: nel «conforme al fine» occorre perciò includere sempre la distinzione «secondo lo strumento dato». Se con una mazza di legno si batte un chiodo con la stessa energia con cui si batterebbe con un martello d’acciaio, è il chiodo che penetra nel legno invece di conficcarsi nel muro. Con un esercito di mercenari professionisti, la direzione politica è minima (sebbene esista anche in questo caso in qualche modo): con un esercito nazionale di leva il problema muta; nelle guerre di posizione fatte da grandi masse che solo con grandi riserve di forze morali possono resistere al grande logorio muscolare, nervoso, psichico, solo con un’abilissima direzione politica, che tenga conto delle aspirazioni più profonde delle masse, si impedisce la disgregazione e lo sfacelo.
La direzione militare deve essere sempre subordinata alla direzione politica, ossia i comandi dell’esercito devono essere l’espressione militare di una determinata politica. Naturalmente può darsi il caso che gli uomini politici non valgano nulla, mentre nell’esercito ci siano dei capi che alla capacità militare congiungono la capacità politica. Questo è il caso di Cesare e di Napoleone; ma in Napoleone s’è visto come il mutamento di politica, coordinato alla presunzione di avere uno strumento militare astrattamente militare, abbia portato alla sua rovina: cioè anche in questi esempi di direzione politica e militare unite in una stessa persona, la politica era superiore alla direzione militare. I libri di Cesare, ma specialmente il De bello civili, sono un classico esempio di esposizione di una sapiente combinazione di politica e arte militare: i soldati vedevano in Cesare non solo un grande capo militare, ma anche un grande capo politico.
Ricordare che Bismarck sosteneva la supremazia del politico sul militare, mentre Guglielmo II, secondo quanto riferisce Ludwig, annotò rabbiosamente un giornale in cui o l’opinione di Bismarck era riportata o si esprimeva un’opinione simile. Così i tedeschi vinsero brillantemente quasi tutte le battaglie, ma perdettero la guerra.
Q1 §118 Il problema dei volontari nel Risorgimento. C’è una tendenza a supervalutare l’apporto delle classi popolari al Risorgimento, insistendo specialmente sul fenomeno del volontariato (vedi articolo del Rota nella «Nuova Rivista Storica» per es.). A parte il fatto che da questi articoli appare che i volontari erano mal visti dalle autorità piemontesi, ciò che appunto conferma la cattiva direzione politico‑militare, è in ogni modo da osservare che c’è supervalutazione. Ma questo problema del volontariato pone più in luce la deficienza della direzione politico‑militare. Il governo piemontese poteva arruolare obbligatoriamente soldati nel suo territorio statale, in rapporto alla sua popolazione, come l’Austria poteva farlo nel suo territorio e in rapporto alla sua popolazione enormemente più grandi: una guerra a fondo in questi termini, sarebbe sempre stata disastrosa per il Piemonte dopo un certo tempo. Posto il principio che l’«Italia fa da sé» bisognava o accettare la Confederazione tra eguali con gli altri Stati italiani, o proporsi l’unità politica territoriale su una tale base politica popolare che le masse fossero insorte contro gli altri governi e avessero costituito eserciti volontari che fossero accorsi accanto ai piemontesi. Ma appunto qui è la quistione: che non si può pretendere entusiasmo, spirito di sacrifizio ecc. su un programma astratto e per fiducia generica in un governo lontano. Questo è stato il dramma del 48, ma non si può inveire contro il popolo: la responsabilità è dei moderati e forse più ancora del Partito d’Azione, cioè in fondo della scarsissima efficienza della classe dirigente.
Q1 §119 La demagogia. Le osservazioni fatte sulla deficienza di direzione politico‑militare nel Risorgimento potrebbero essere ribattute con un argomento molto comune e molto frusto: «quegli uomini non furono demagoghi, non fecero della demagogia». Bisogna intendersi sulla parola e sul concetto di demagogia. Quegli uomini effettivamente non seppero guidare il popolo, non seppero destarne l’entusiasmo e la passione, se si intende demagogia nel suo significato primordiale. Ma essi raggiunsero il fine che si proponevano? Bisogna vedere: essi si proponevano di creare lo Stato moderno in Italia e non ci riuscirono, si proponevano di creare una classe dirigente diffusa ed energica e non ci riuscirono, di avvicinare il popolo allo Stato e non ci riuscirono. La meschina vita politica dal 70 al 900, il ribellismo elementare ed endemico delle classi popolari, la creazione stentata e meschina di un ceto dirigente scettico e poltrone sono la conseguenza di quella deficienza. In realtà poi gli uomini del Risorgimento furono dei grandissimi demagoghi: essi fecero del popolo‑nazione uno strumento, degradandolo, e in ciò consiste la massima demagogia, nel senso peggiorativo che la parola ha assunto in bocca dei partiti di destra, in polemica coi partiti di sinistra, sebbene siano i partiti di destra ad aver sempre esercitato la peggiore demagogia.
Q1 § 120. «Credetemi, non abbiate paura né dei bricconi né dei malvagi. Abbiate paura dell’onesto uomo che s’inganna; egli è in buona fede verso se stesso, crede il bene e tutti si fidano di lui; ma, sfortunatamente, s’inganna circa i mezzi di procurare il bene agli uomini». Questo spunto dell’abate Galiani era rivolto contro i «filosofi» del 700, contro i giacobini futuri, ma si attaglia a tutti i cattivi politici così detti in buona fede.
Q1 §121 Novara 1849. Nel febbraio 1849 Silvio Spaventa visitò a Pisa il D’Azeglio e di questo colloquio fa ricordo in uno scritto politico composto nell’ergastolo nel 1856: «Un uomo di Stato piemontese dei più illustri diceva a me un mese innanzi: noi non possiamo vincere, ma combatteremo di nuovo: la nostra sconfitta sarà la sconfitta di quel partito che oggi ci risospinge alla guerra; e tra una sconfitta e una guerra civile noi scegliamo la prima: essa ci darà la pace interna e la libertà e l’indipendenza del Piemonte, che non può darci l’altra. Le previsioni di quel saggio (!) uomo si avverarono. La battaglia di Novara fu perduta per la causa dell’indipendenza e guadagnata per la libertà del Piemonte. E Carlo Alberto fece, secondo me, il sacrifizio della sua corona più a questa che a quella». (Cfr Silvio Spaventa, Dal 1848 al 1861. Lettere, scritti, documenti, pubblicati da B. Croce, 2a ed., p. 58 nota).
Q1 §122 Spunti e stimoli. Il Macaulay attribuisce la facilità di farsi abbagliare da sofismi quasi puerili propria dei Greci anche più colti alla gran predominanza del discorso vivo e parlato nell’educazione e vita greca. L’abitudine della conversazione genera una certa facoltà di trovare con gran prontezza argomenti di qualche apparenza che chiudono momentaneamente la bocca all’avversario. Questa osservazione si può farla anche per alcune classi della vita moderna, come constatazioni di una debolezza (operai) e di causa di diffidenza (contadini, i quali rimuginando ciò che hanno sentito declamare e che li ha colpiti momentaneamente per il luccicare e trovandone le deficienze e la superficialità, finiscono con l’essere diffidenti per sistema).
Riferisce il Macaulay una sentenza di Eugenio di Savoia, il quale diceva che più grandi generali erano riusciti quegli che erano stati messi d’un tratto alla testa dell’esercito e nella necessità del pensare alle manovre grandi e complessive (chi è troppo minuzioso per professione, si burocratizza: vede l’albero e non più la foresta, il regolamento e non più la strategia). A proposito della prima osservazione si può aggiungere: che il giornale si avvicina molto alla conversazione, gli articoli di giornale sono in generale affrettati, improvvisati, simili in grandissima parte, per la rapidità dell’ideazione, ai discorsi da riunione. Sono pochi i giornali che hanno redattori specializzati e anche l’attività di questi è in gran parte improvvisata: la specializzazione serve di solito per improvvisare meglio e più rapidamente. Mancano nei giornali italiani le rassegne periodiche più ponderate e studiate (teatro, per esempio, politica economica ecc.; i collaboratori suppliscono solo in parte e poi non sempre sono di uno stesso indirizzo). Perciò la solidità di cultura può essere misurata in tre gradi: 1°, lettori di soli giornali; 2°, lettori di riviste; 3°, lettori di libri; senza tener conto di una grande moltitudine che non legge neanche i giornali e si forma le convinzioni attraverso la pura conversazione sporadica con individui del suo stesso livello generale che però leggono i giornali, e di quella che si forma le convinzioni assistendo a riunioni periodiche e nei periodi elettorali tenute da oratori di livelli diversissimi. Questa svogliatezza mi ha colpito specialmente a Milano, dove in carcere era permesso il «Sole»; tuttavia un certo numero, anche di politici, leggeva piuttosto la «Gazzetta dello Sport»; tra 2500 inquisiti, si vendevano al massimo 80 copie del «Sole»; più letti la «Gazzetta dello Sport», la «Domenica del Corriere», il «Corriere dei Piccoli».
Q1 §123 Cercare l’origine storica esatta di alcuni principi della pedagogia moderna: la scuola attiva ossia la collaborazione amichevole tra maestro e alunno; la scuola all’aperto; la necessità di lasciar libero, sotto il vigile ma non appariscente controllo del maestro, lo sviluppo delle facoltà spontanee dello scolaro.
La Svizzera ha dato un grande contributo alla pedagogia moderna (Pestalozzi ecc.), per la tradizione ginevrina di Rousseau; in realtà questa pedagogia è una forma confusa di filosofia connessa a una serie di regole empiriche. Non si è tenuto conto che le idee di Rousseau sono una reazione violenta alla scuola e ai metodi pedagogici dei gesuiti e in quanto tale rappresentano un progresso: ma si è poi formata una specie di chiesa che ha paralizzato gli studi pedagogici e ha dato luogo a delle curiose involuzioni (nelle dottrine di Gentile e del Lombardo‑Radice). La «spontaneità» è una di queste involuzioni: si immagina quasi che nel bambino il cervello sia come un gomitolo che il maestro aiuta a sgomitolare. In realtà ogni generazione educa la nuova generazione, cioè la forma, e l’educazione è una lotta contro gli istinti legati alle funzioni biologiche elementari, una lotta contro la natura, per dominarla e creare l’uomo «attuale» alla sua epoca. Non si tiene conto che il bambino da quando incomincia a «vedere e a toccare», forse da pochi giorni dopo la nascita, accumula sensazioni e immagini, che si moltiplicano e diventano complesse con l’apprendimento del linguaggio. La «spontaneità» se analizzata diventa sempre più problematica. Inoltre la «scuola», cioè l’attività educativa diretta, è solo una frazione della vita dell’alunno, che entra in contatto sia con la società umana sia con la societas rerum e si forma criteri da queste fonti «extrascolastiche» molto più importanti di quanto comunemente si creda. La scuola unica, intellettuale e manuale, ha anche questo vantaggio, che pone contemporaneamente il bambino a contatto con la storia umana e con la storia delle «cose» sotto il controllo del maestro.
Q1 §124 I futuristi. Un gruppo di scolaretti che sono scappati da un collegio di gesuiti, hanno fatto un po’ di baccano nel bosco vicino e sono stati ricondotti sotto la ferula dalla guardia campestre.
Q1 §125 1919. Articoli della «Stampa» contro i tecnici d’officina e clamorose pubblicazioni degli stipendi più alti. Bisognerebbe vedere se a Genova, la stampa degli armatori, fece la stessa campagna contro gli stati maggiori quando essi entrarono in agitazione e furono aiutati dagli equipaggi.
Q1 §126 1922. Articoli del senatore Raffaele Garofalo, alto magistrato di Cassazione, sull’«Epoca» di Roma a proposito della dipendenza della magistratura dal potere esecutivo e della giustizia amministrata con le circolari. Ma è specialmente interessante l’ordine di ragioni con cui il Garofalo sosteneva la necessità immediata di rendere indipendente la magistratura.
Q1 §127 La quistione dei giovani. Esistono molte «quistioni» dei giovani. Due mi sembrano specialmente importanti: 1°) La generazione «anziana» compie sempre l’educazione dei «giovani»; ci sarà conflitto, discordia ecc. ma si tratta di fenomeni superficiali, inerenti a ogni opera educativa e di raffrenamento, almeno che non si tratti di interferenze di classe, cioè i «giovani» (o una parte cospicua di essi) della classe dirigente (intesa nel senso più largo, non solo economico, ma politico‑morale) si ribellano e passano alla classe progressiva che è diventata storicamente capace di prendere il potere: ma in questo caso si tratta di «giovani» che dalla direzione degli «anziani» di una classe passano alla direzione degli «anziani» di un’altra classe: in ogni caso rimane la subordinazione reale dei «giovani» agli «anziani» come generazione, pur con le differenze di temperamento e di vivacità su ricordate; 2°) Quando il fenomeno assume un carattere cosidetto «nazionale», cioè non appare apertamente l’interferenza di classe, allora la quistione si complica e diventa caotica. I «giovani» sono in istato di ribellione permanente, perché persistono le cause profonde di essa, senza che ne sia permessa l’analisi, la critica e il superamento (non concettuale e astratto, ma storico e reale); gli «anziani» dominano di fatto, ma... «après moi le déluge», non riescono a educare i giovani, a prepararli alla successione. Perché? Ciò significa che esistono tutte le condizioni perché gli «anziani» di un’altra classe debbano dirigere questi giovani, senza che possano farlo per ragioni estrinseche di compressione politico‑militare. La lotta, di cui si sono soffocate le espressioni esterne normali, si attacca come una cancrena dissolvente alla struttura della vecchia classe, debilitandola e imputridendola: assume forme morbose, di misticismo, di sensualismo, di indifferenza morale, di degenerazioni patologiche psichiche e fisiche ecc. La vecchia struttura non contiene e non riesce a dare soddisfazione alle esigenze nuove: la disoccupazione permanente o semipermanente dei così detti intellettuali è uno dei fenomeni tipici di questa insufficienza, che assume carattere aspro per i più giovani, in quanto non lascia «orizzonti aperti». D’altronde questa situazione porta ai «quadri chiusi» di carattere feudale‑militare, cioè inacerbisce essa stessa i problemi che non sa risolvere.
Q1 §128 Religione come principio e clero come classe-ordine feudale. Quando si esalta la funzione che la chiesa ha avuto nel medio evo a favore delle classi inferiori, si dimentica semplicemente una cosa: che tale funzione non era legata alla chiesa come esponente di un principio religioso-morale, ma alla chiesa come organizzazione di interessi economici molto concreti, che doveva lottare contro altri ordini che avrebbero voluto diminuire la sua importanza. Questa funzione fu dunque subordinata e incidentale: ma il contadino non era meno taglieggiato dalla chiesa che dai signori feudali. Si può forse dire questo: che la «chiesa» come comunità dei fedeli conservò e sviluppò determinati principi politico‑morali in opposizione alla chiesa come organizzazione clericale, fino alla Rivoluzione francese i cui principii sono propri della comunità dei fedeli contro il clero ordine feudale alleato al re e ai nobili: perciò molti cattolici considerano la Rivoluzione francese come uno scisma e un’eresia, cioè una rottura tra pastore e gregge, dello stesso tipo della Riforma, ma storicamente più matura, perché avvenuta sul terreno del laicismo: non preti contro preti, ma fedeli‑infedeli contro preti. Il vero punto di rottura tra democrazia e Chiesa è da porre però nella Controriforma, quando la Chiesa ebbe bisogno del braccio secolare (in grande stile) contro i luterani e abdicò alla sua funzione democraticaAggiunto in epoca posteriore..
Q1 §129 Il più diffuso luogo comune a proposito del Risorgimento è quello di ripetere in vari modi che tale rivolgimento storico si poté operare per merito delle sole classi colte. Dove sia il merito è difficile capire. Merito di una classe colta perché sua funzione storica è quella di dirigere le masse popolari: se la classe colta non è riuscita a compiere la sua funzione, non deve certo parlarsi di merito ma di demerito, cioè di immaturità e debolezza intima.
Q1 §130 Italia reale e Italia legale. La formula escogitata dai clericali dopo il 70 per indicare il disagio politico nazionale: contraddizione tra Italia legale e Italia reale. A Torino uscì fino a qualche anno avanti la guerra un quotidiano (poi settimanale) «L’Italia reale», diretto dall’avv. Scala e organo del più nero clericalismo. Come sorse la formula, da chi fu escogitata e quale giustificazione teorico‑politico‑morale ne fu data? Occorre farne la ricerca («Civiltà Cattolica», primi numeri della stessa «Italia reale» di Torino ecc.). Essa in generale è felice, perché esisteva un distacco netto tra lo Stato (legalità) e la società civile (realtà), ma questa società civile era tutta e solamente nel «clericalismo»? Intanto questa stessa società civile era qualcosa di informe e caotico e tale rimase per molti decenni; quindi fu possibile allo Stato dominarla, superando volta a volta le contraddizioni che si presentavano in forma sporadica, localistica, senza nesso nazionale. Il clericalismo non era dunque neanche esso l’espressione di questa società civile, perché non riuscì ad organizzarla nazionalmente, quantunque esso fosse una forte e compatta (formalmente) organizzazione nazionale. Intanto questa organizzazione non era politicamente omogenea ed aveva paura delle stesse masse che dominava in un certo senso. La formula del «non expedit» fu la espressione di questa paura ed incertezza; il boicottaggio parlamentare, che si presentava come un atteggiamento aspramente intransigente, era in realtà espressione del più piatto opportunismo. L’esperienza politica, specialmente francese, aveva dimostrato che il suffragio universale e il plebiscito a base larghissima poteva essere un apparato favorevolissimo alle tendenze reazionarie clericali (vedi a questo proposito le ingenue osservazioni di Jacques Bainville nella sua Storia della Francia che implicitamente rimprovera al legittimismo di non avere avuto fiducia nel suffragio universale, come invece aveva fatto Napoleone III); ma il clericalismo sentiva di non essere l’espressione reale della «società civile» italiana e che un successo sarebbe stato effimero e avrebbe determinato l’attacco frontale delle forze nuove evitato nel 1870. Esperienza del suffragio allargato nel 1882 e reazione crispina. Tuttavia l’atteggiamento clericale di mantenere statico il dissidio tra Stato e società civile era obbiettivamente «sovversivo» e una nuova organizzazione espressa dalle forze maturanti in questa società poteva giovarsene come campo di manovra per attaccare lo Stato; perciò la reazione statale nel 98 abbatté insieme e socialismo e clericalismo, giudicandoli giustamente ugualmente «sovversivi» e obbiettivamente alleati. Di ciò si accorse anche il Vaticano, e quindi da questo momento comincia la sua nuova politica, l’abbandono reale del «non expedit» anche nel campo parlamentare (il comune era tradizionalmente considerato società civile e non Stato). Ciò permette l’introduzione del suffragio universale, il patto Gentiloni e quindi la fondazione del Partito Popolare nel 1919. La quistione permane (di Italia reale e legale) ma su un piano più elevato politico e storico, e perciò episodi del 24‑26 fino a soppressione di tutti i partiti, con l’affermazione di una raggiunta identità tra reale e legale, perché la «società civile» in tutte le sue forme dominata da una sola organizzazione statale — di partito.
Q1 §131 Bainville e il suffragio universale in Francia. L’affermazione di Bainville sul suffragio universale che poteva (e potrebbe servire) anche al legittimismo come servì a Napoleone III, è ingenua, perché basata su un ingenuo e astrattamente scemo sociologismo. Il suffragio universale è considerato come uno schema sociologico, astratto dal tempo e dallo spazio. Nella realtà della storia francese ci sono stati diversi «suffragi universali» secondo che mutarono storicamente i rapporti economico‑politici. Le crisi del «suffragio universale» in Francia sono determinate dai rapporti tra Parigi e la provincia. Parigi vuole il suffragio universale nel 48, ma esso esprime un Parlamento reazionario‑clericale che permette a Napoleone III di fare la sua carriera. Nel 71 Parigi ha fatto un gran passo in avanti perché si ribella all’Assemblea nazionale formata dal suffragio universale, cioè implicitamente Parigi «capisce» che tra progresso e suffragio universale «può» esserci conflitto, ma questa esperienza storica, di valore inestimabile, è perduta immediatamente, perché i portatori di essa vengono fisicamente soppressi: non c’è sviluppo normale quindi. Il suffragio universale e la democrazia coincidono sempre più con l’affermarsi del partito radicale francese e la lotta anticlericale: Parigi perde la sua unità rivoluzionaria (il sindacalismo è l’espressione di questo stato di cose: l’astensionismo elettorale e l’economismo puro sono l’apparenza «intransigente» di questa abdicazione di Parigi al suo ruolo di testa rivoluzionaria della Francia, sono cioè anch’essi piatto opportunismo, il postumo del salasso del 1871) e la sua «democrazia» rivoluzionaria si scinde in classi: piccolo borghesi radicali e operai di fabbrica formalmente intransigenti, in realtà legati al radicalismo‑socialismo che unifica su un piano intermedio città e campagna. Dopo la guerra riprende lo sviluppo, ma esso è ancora incerto.
Q1 §132 L’idealismo attuale e il nesso ideologia‑filosofia. L’idealismo attuale fa coincidere ideologia e filosofia (ciò significa in ultima analisi l’unità da esso postulata fra reale e ideale, tra pratica e teoria ecc.), cioè è una degradazione della filosofia tradizionale rispetto all’altezza cui l’aveva portata il Croce con le sue «distinzioni». Questa degradazione è visibilissima negli sviluppi che l’idealismo attuale mostra nei discepoli del Gentile: i «Nuovi Studi» diretti da Ugo Spirito e A. Volpicelli sono il documento più vistoso che io conosca di questo fenomeno. L’unità di ideologia e filosofia, quando avviene in questo modo riporta a una nuova forma di sociologismo, né storia né filosofia cioè, ma un insieme di schemi astratti sorretti da una fraseologia tediosa e pappagallesca. La resistenza del Croce a questa tendenza è veramente «eroica»: il Croce, secondo me, ha viva la coscienza che tutti i movimenti di pensiero moderni portano a una rivalutazione trionfale del materialismo storico, cioè al capovolgimento della posizione tradizionale del problema filosofico e alla morte della filosofia intesa nel modo tradizionale. Egli resiste con tutte le sue forze a questa pressione della realtà storica, con una intelligenza eccezionale dei pericoli e dei mezzi dialettici di ovviarli. Perciò lo studio dei suoi scritti dal 19 ad oggi è del maggior valore: la preoccupazione del Croce nasce con la guerra mondiale e con la sua affermazione che essa è la «guerra del materialismo storico». La sua posizione «au dessus», in un certo senso, è già indice di tale preoccupazione ed è un allarme (nella guerra «ideologia e filosofia» entrarono in frenetico connubio). Anche certi suoi atteggiamenti recentissimi (verso il libro del De Man, libro Zibordi ecc.) non possono spiegarsi altrimenti perché molto in contraddizione con sue posizioni «ideologiche» (pratiche) di prima della guerra.
Q1 §133 Arte militare e arte politica. Ancora degli arditi. I rapporti che esistettero nel 17‑18 tra le formazioni di arditi e l’esercito nel suo complesso possono portare ed hanno portato già i dirigenti politici ad erronee impostazioni di piani di lotta. Si dimentica: 1°) che gli arditi sono semplici formazioni tattiche e presuppongono sì un esercito poco efficiente, ma non completamente inerte: perché se la disciplina e lo spirito militare si sono allentati fino a consigliare una nuova disposizione tattica, essi esistono ancora in una certa misura, cui appunto corrisponde la nuova formazione tattica; altrimenti ci sarebbe stata, senz’altro, la disfatta e la fuga; 2°) che non bisogna considerare l’arditismo come un segno della combattività generale della massa militare, ma viceversa, come un segno della sua passività e della sua relativa demoralizzazione.
Ciò sia detto mantenendo implicito il criterio generale che i paragoni tra l’arte militare e la politica sono sempre da stabilire cum grano salis, cioè solo come stimoli al pensiero e come termini semplificativi ad absurdum: infatti nella milizia politica manca la sanzione penale implacabile per chi sbaglia o non obbedisce esattamente, manca il giudizio marziale, oltre al fatto che lo schieramento politico non è neanche lontanamente paragonabile allo schieramento militare. Nella lotta politica oltre alla guerra di movimento e alla guerra d’assedio o di posizione, esistono altre forme. Il vero arditismo, cioè l’arditismo moderno, è proprio della guerra di posizione, così come si è rivelata nel 14‑18. Anche la guerra di movimento e la guerra d’assedio dei periodi precedenti avevano i loro arditi, in un certo senso: la cavalleria leggera e pesante, i bersaglieri ecc., le armi celeri in generale avevano in parte una funzione di arditi; così nell’arte di organizzare le pattuglie era contenuto il germe dell’arditismo moderno. Nella guerra d’assedio più che nella guerra di movimento era contenuto questo germe: servizio di pattuglie più estese e specialmente arte di organizzare sortite improvvise e improvvisi assalti con elementi scelti.
Un altro elemento da tener presente è questo: che nella lotta politica non bisogna scimiottare i metodi di lotta delle classi dominanti, senza cadere in facili imboscate. Nelle lotte attuali questo fenomeno si verifica spesso: una organizzazione statale indebolita è come un esercito infiacchito: entrano in campo gli arditi, cioè le organizzazioni armate private, che hanno due compiti: usare l’illegalità, mentre lo Stato sembra rimanere nella legalità, come mezzo di riorganizzare lo Stato stesso. Credere che alla attività privata illegale si possa contrapporre un’altra attività simile, cioè combattere l’arditismo con l’arditismo è una cosa sciocca; vuol dire credere che lo Stato rimanga eternamente inerte, ciò che non avviene mai, a parte le altre condizioni diverse. Il carattere di classe porta a una differenza fondamentale: una classe che deve lavorare ogni giorno a orario fisso non può avere organizzazioni d’assalto permanenti e specializzate, come una classe che ha ampie disponibilità finanziarie e non è legata, in tutti i suoi membri, a un lavoro fisso. In qualsiasi ora del giorno e della notte, queste organizzazioni, divenute professionali, possono vibrare colpi decisivi e cogliere alla sprovvista. La tattica degli arditi non può avere dunque per certe classi la stessa importanza che per altre; a certe classi è necessaria, perché propria, la guerra di movimento e di manovra, che nel caso della lotta politica, può combinare un utile e forse indispensabile uso della tattica da arditi. Ma fissarsi nel modello militare è da sciocchi: la politica deve, anche qui, essere superiore alla parte militare e solo la politica crea la possibilità della manovra e del movimento.
Da tutto ciò che si è detto risulta che nel fenomeno dell’arditismo militare, occorre distinguere tra funzione tecnica di arma speciale legata alla moderna guerra di posizione e funzione politico‑militare: come funzione di arma speciale l’arditismo si è avuto in tutti gli eserciti della guerra mondiale; come funzione politico‑militare si è avuta nei paesi politicamente non omogenei e indeboliti, quindi aventi come espressione un esercito nazionale poco combattivo e uno stato maggiore burocratizzato e fossilizzato nella carriera.
Q1 §134 Lotta politica e guerra militare. Nella guerra militare, raggiunto il fine strategico, distruzione dell’esercito nemico e occupazione del suo territorio, si ha la pace. È inoltre da osservare che perché la guerra finisca, basta che il fine strategico sia raggiunto solo potenzialmente: basta cioè che non ci sia dubbio che un esercito non può più combattere e che l’esercito vittorioso «può» occupare il territorio nemico. La lotta politica è enormemente più complessa: in un certo senso può essere paragonata alle guerre coloniali o alle vecchie guerre di conquista, quando cioè l’esercito vittorioso occupa o si propone di occupare stabilmente tutto o una parte del territorio conquistato. Allora l’esercito vinto viene disarmato e disperso, ma la lotta continua nel terreno politico e di «preparazione» » militare. Così la lotta politica dell’India contro gli Inglesi (e in una certa misura della Germania contro la Francia o dell’Ungheria contro la Piccola Intesa) conosce tre forme di guerre: di movimento, di posizione e sotterranea. La resistenza passiva di Gandhi è una guerra di posizione, che diventa guerra di movimento in certi momenti e in altri guerra sotterranea: il boicottaggio è guerra di posizione, gli scioperi sono guerra di movimento, la preparazione clandestina di armi e di elementi combattivi d’assalto è guerra sotterranea. C’è una forma di arditismo, ma essa è impiegata con molta ponderazione. Se gli Inglesi avessero la convinzione che si prepara un grande movimento insurrezionale destinato ad annientare l’attuale loro superiorità strategica (che consiste in un certo senso nella loro possibilità di manovrare per linee interne e di concentrare le loro forze nel punto «sporadicamente» più pericoloso) col soffocamento di massa, cioè costringendoli a diluire le forze in un teatro bellico divenuto simultaneamente generale, ad essi converrebbe provocare l’uscita prematura delle forze combattenti indiane per identificarle e decapitare il movimento generale. Così alla Francia converrebbe che la destra nazionalista tedesca fosse coinvolta in un colpo di stato avventuroso, che costringerebbe l’organizzazione militare illegale sospettata a manifestarsi prematuramente, permettendo un intervento, tempestivo dal punto di vista francese. Ecco che in queste forme di lotta miste, a carattere militare fondamentale e a carattere politico preponderante (ma ogni lotta politica ha sempre un sostrato militare), l’impiego degli arditi domanda uno sviluppo tattico originale, alla concezione del quale l’esperienza di guerra può dare solo uno stimolo, non un modello.
Una trattazione a parte deve avere la quistione dei «comitagi» balcanici, che sono legati a particolari condizioni dell’ambiente fisico‑geografico regionale, alla formazione delle classi rurali e anche all’efficienza reale dei governi. Così è delle bande irlandesi, la cui forma di guerra e di organizzazione era legata alla struttura sociale irlandese. I cornitagi, gli irlandesi, e le altre forme di guerra da partigiani devono essere staccate dalla quistione dell’arditismo, sebbene paiano avere con esso punti di contatto. Queste forme di lotta sono proprie di minoranze deboli ma esasperate contro maggioranze bene organizzate: mentre l’arditismo moderno presuppone una grande riserva, immobilizzata per varie ragioni, ma potenzialmente efficiente, che lo sostiene e lo alimenta con apporti individuali.
Q1 §135 Americanismo. L’articolo di Carlo Pagni A proposito di un tentativo di teoria pura del corporativismo («Riforma Sociale», settembre‑ottobre 1929) esamina il volume di N. Massimo Fovel Economia e corporativismo (Ferrara, S.A.T.E., 1929) e accenna a un altro scritto dello stesso Rendita e salario nello Stato Sindacale (Roma, 1928), ma non si accorge che il Fovel in questi scritti fa del «corporativismo» la premessa all’introduzione in Italia dei sistemi industriali americani. Sarebbe interessante sapere se il Fovel scrive «estraendo dal suo cervello» o ha dietro di sé (praticamente, non solo teoricamente) delle forze economiche che lo sorreggono e lo spingono. La figura del Fovel è interessante per più rispetti; in un certo senso rientra nella galleria del tipo Ciccotti‑Naldi‑Bazzi‑Preziosi ecc., ma è più complessa.
Il Fovel, che io sappia, ha cominciato come «radicale», prima della guerra: egli voleva ringiovanire il movimento radicale tradizionale, civettando un po’ coi repubblicani specialmente federalisti o regionalisti («Critica Politica» di Oliviero Zuccarini). Durante la guerra doveva essere giolittiano. Nel 1919 entra nel P.S. a Bologna, ma non scrive mai nell’«Avanti! ». Nel 19 (o nel 18 ancora?) lo conobbi a Torino molto di sfuggita. Gli industriali torinesi avevano acquistato la vecchia e malfamata «Gazzetta di Torino» per farne un loro organo. Ebbi l’impressione che il Fovel aspirasse a diventare il direttore della nuova combinazione; certo egli era in contatto con gli ambienti industriali. Invece direttore fu chiamato Tomaso Borelli, giovane liberale, al quale successe Italo Minunni dell’«Idea Nazionale» (la «Gazzetta di Torino» diventò il «Paese», ma non attecchì e fu soppressa). Nel 19 il Fovel mi scrisse una lettera curiosa, in cui diceva che «sentiva il dovere» di collaborare all’«Ordine Nuovo» settimanale; gli risposi fissando i limiti della sua possibile collaborazione, molto freddamente e seccamente e non ne ebbi più notizia.
Il Fovel passò alla banda Passigli‑Gardenghi‑Martelli, che aveva fatto dei «Lavoratore» di Trieste un centro d’affari assai lucroso e che doveva avere dei contatti con l’ambiente industriale torinese. È notevole a questo proposito il tentativo di Passigli di trasportarmi a Trieste, come redattore del «Lavoratore», la cui amministrazione avrebbe gestito anche l’O.N. conservandone io la direzione (Passigli venne a Torino per parlarmi e sottoscrisse 100 lire per l’O.N.): io rifiutai e non volli neanche essere collaboratore del «Lavoratore». Nel 21 negli uffici del «Lavoratore» furono trovate delle carte appartenenti a Fovel e a Gardenghi, da cui appariva che essi giocavano in borsa sui valori tessili e, durante lo sciopero dei tessili veneti guidato dai sindacalisti di Nicola Vecchi, dirigevano il giornale secondo gli interessi del loro gioco. Dopo Livorno non so cosa abbia fatto il Fovel. Nel 25 salta fuori ancora nell’«Avanti! » di Nenni e Gardenghi e imposta la campagna per i prestiti americani, subito sfruttata dalla «Gazzetta del Popolo» legata all’ing. Ponti della S.I.P. Nel 25‑26 il Fovel collaborò spesso alla «Voce Repubblicana». Oggi sostiene il «corporativismo» come premessa all’americanizzazione e scrive nel «Corriere Padano» di Ferrara.
Ciò che mi pare interessante nella tesi del Fovel è la sua concezione della corporazione come di un blocco industriale‑produttivo autonomo, destinato a risolvere in senso moderno il problema dell’apparato economico in senso accentuatamente capitalistico, contro gli elementi parassitari della società che prelevano una troppo grossa taglia sul plusvalore, contro i così detti «produttori di risparmio». La produzione del risparmio dovrebbe dunque essere funzione dello stesso blocco produttivo, attraverso un accrescimento della produzione a costo decrescente, attraverso la creazione di una più grande massa di plusvalore, che permetta più alti salari e quindi un più capace mercato interno e un risparmio operaio e più alti profitti e quindi una maggiore capitalizzazione diretta nel seno stesso delle aziende e non atraverso l’intermediario dei «produttori di risparmio» che in realtà sono divoratori di plusvalore. Il Pagni ha ragione quando dice che non si tratta di una nuova economia politica ma di una nuova politica economica; le sue obbiezioni pertanto, concretamente, non sono altro che la constatazione dell’ambiente arretrato italiano per un simile rivolgimento economico.
L’errore del Fovel consiste nel non tener conto della funzione economica dello Stato in Italia e del fatto che il regime corporativo ha avuto origini di polizia economica, non di rivoluzione economica. Gli operai italiani non si sono mai opposti neppure passivamente alle innovazioni industriali tendenti a una diminuzione dei costi, alla razionalizzazione del lavoro, all’introduzione di meccanismi più perfetti e di più perfette organizzazioni del complesso aziendale; tutt’altro. Ciò è avvenuto in America e ha portato alla liquidazione dei sindacati liberi e alla loro sostituzione con un sistema di isolate (fra loro) organizzazioni di azienda. Un’analisi accurata della storia italiana prima del 22, che non si lasciasse allucinare dal carnevale esterno, ma sapesse cogliere i motivi profondi del movimento, dovrebbe giungere alla conclusione che proprio gli operai furono i portatori delle nuove esigenze industriali e a modo loro le affermarono strenuamente: si può dire anche che alcuni industriali si accorsero di ciò e cercarono di servirsene (tentativi di Agnelli di assorbire nel complesso Fiat l’O.N. e la sua scuola).
Ma a parte queste considerazioni, si presenta la quistione: ormai le corporazioni esistono, esse creano le condizioni in cui le innovazioni industriali possono essere introdotte su larga scala, perché gli operai né possono opporsi a ciò, né possono lottare per essere essi stessi i portatori di questo rivolgimento. La quistione è essenziale, è l’hic Rhodus della situazione italiana: dunque le corporazioni diventeranno la forma di questo rivolgimento per una di quelle «astuzie della provvidenza» che fa sì che gli uomini senza volerlo ubbidiscano agli imperativi della storia. Il punto essenziale è qui: può ciò avvenire? Si è portati necessariamente a negarlo. La condizione suddetta è una delle condizioni, non la sola condizione e neanche la più importante; è solo la più importante delle condizioni immediate.
L’americanizzazione richiede un ambiente dato, una data conformazione sociale e un certo tipo di Stato. Lo Stato è lo Stato liberale, non nel senso del liberalismo doganale, ma nel senso più essenziale della libera iniziativa e dell’individualismo economico, giunto con mezzi spontanei, per lo stesso sviluppo storico, al regime dei monopoli. La sparizione dei redditieri in Italia è una condizione del rivolgimento industriale, non una conseguenza: la politica econornico‑finanziaria dello Stato è la molla di questa sparizione: ammortamento del debito pubblico, nominatività dei titoli, tassazione diretta e non indiretta. Non pare che questa sia la direzione attuale della politica o stia per diventarlo. Anzi. Lo Stato va aumentando i redditicri e creando dei quadri chiusi sociali. In realtà finora il regime corporativo ha funzionato per sostenere posizioni pericolanti di classi medie, non per eliminare queste e sta diventando, per gli interessi costituiti che crea, una macchina di conservazione dell’esistente così com’è e non una molla di propulsione. Perché? Perché il regime corporativo è in dipendenza della disoccupazione e non dell’occupazione: difende agli occupati un certo minimo di vita, che se fosse libera la concorrenza crollerebbe anch’esso, provocando gravi rivolgimenti sociali. Benissimo: ma il regime corporativo, nato in dipendenza di questa situazione delicatissima, di cui bisogna mantener l’equilibrio essenziale a tutti i costi, per evitare un’immane catastrofe potrebbe procedere a tappe piccolissime, insensibili, che modifichino la struttura sociale senza scosse repentine: anche il bambino meglio e più solidamente fasciato si sviluppa normalmente. Ed ecco perché occorrerebbe sapere se il Fovel è la voce di un individuo singolo o l’esponente di forze economiche che cercano la loro via. In ogni caso il processo sarebbe lunghissimo e nuove difficoltà, nuovi interessi che nel frattempo si costituiranno, faranno opposizione tenace al suo sviluppo regolare.
Q1 §136 Novecentismo di Bontempelli. Il manifesto del «900» di Bontempelli è l’articolo di Prezzolini Viva l’artificio! pubblicato nel 1915 e ristampato a p. 51 della raccolta di articoli del Prezzolini Mi pare... (Fiume, Edizioni Delta, 1925). Una quantità di spunti contenuti in quest’articolo sono stati svolti e illanguiditi dal Bontempelli, perché divenuti meccanici. La sua commedia Nostra Dea del 1925 è una meccanica estensione delle parole di Prezzolini riportate a pagina 56. È notevole che l’articolo di Prezzolini è molto goffo e pedantesco; risente dello sforzo fatto dall’autore dopo l’esperienza di «Lacerba» per diventare più leggero e brioso; ciò che potrebbe essere espresso in un epigramma viene masticato e rimasticato con molte smorfie tediose. Bontempelli imita la goffaggine moltiplicandola. Un epigramma in Prezzolini diventa un articolo, in Bontempelli un volume.
Q1 §137 Novecentisti e strapaesani. Barocco e Arcadia adattati ai tempi moderni.
Q1 §138 Risorgimento. Se è vero che la vita concreta degli Stati è fondamentalmente vita internazionale, è anche vero che la vita degli Stati italiani fino al 1870 e cioè la «storia italiana» è più «storia internazionale» che storia «nazionale».
Q1 §139 Azione Cattolica. Può farsi un qualsiasi paragone tra l’Azione Cattolica e le istituzioni come i terziari francescani? Credo di no, quantunque sia bene accennarvi introduttivamente, per meglio definire i caratteri dell’A.C. stessa. Certo la creazione dei terziari è molto interessante ed ha un carattere democratico; essa illumina meglio il carattere del francescanesimo, come ritorno alla chiesa primitiva, comunità di fedeli e non solo del clero come era venuta sempre più diventando. Perciò sarebbe bene studiare la fortuna di questa iniziativa, che non è stata grande, perché il francescanesimo non divenne tutta la religione, come era nell’intenzione di Francesco, ma si ridusse a uno dei tanti ordini esistenti. L’A.C. segna l’inizio di un’epoca nuova nella storia della religione cattolica: quando essa da concezione totalitaria del mondo, diventa solo una parte e deve avere un partito. I diversi ordini religiosi rappresentano la reazione della chiesa (comunità dei fedeli o comunità del clero), dal basso o dall’alto, contro la disgregazione della concezione (eresie, scismi ecc.): l’A.C. rappresenta la reazione contro l’apostasia di masse intiere, cioè contro il superamento di massa della concezione religiosa del mondo. Non è più la Chiesa che fissa il terreno e i mezzi della lotta; deve accettare il terreno impostole dal di fuori e servirsi di armi tolte dall’arsenale dei suoi avversari (l’organizzazione di massa). La Chiesa è sulla difensiva, cioè, ha perduto l’autonomia dei movimenti e delle iniziative, non è più una potenza ideologica mondiale, ma solo una forza subalterna.
Q1 §140 La costituzione spagnola del 12 nel Risorgimento. Perché fu così popolare? Bisognerebbe confrontarla con le altre costituzioni promulgate nel 48. Certo era molto liberale, specialmente nel fissare le prerogative del parlamento e dei parlamentari.
Q1 §141 Americanismo. Dal Trastullo di Strapaese di Mino Maccari (Firenze, Vallecchi, 1928).
Per un ciondolo luccicante / Il tuo paese non regalare: / Il forestiero è trafficante / Dargli retta non è affare / Se tu fossi esperto e scaltro / Ogni mistura terresti discosta: / Chi ci guadagna è sempre quell’altro / Che la tua roba un mondo costa / Val più un rutto del tuo pievano / Che l’America e la sua boria: Dietro l’ultimo italiano / C’è cento secoli di storia / ... Tabarino e ciarlestone / Ti fanno dare in ciampanelle / O Italiano ridatti al trescone / Torna a mangiare il centopelle / Italiano torna alle zolle / Non ti fidar delle mode di Francia / Bada a mangiar pane e cipolle / E terrai a dovere la pancia.
Il Maccari, però, è andato a fare il redattore capo della «Stampa» di Torino, a mangiar cipolle nel centro più stracittadino e industriale d’Italia.
Q1 § 142. Giuseppe Prezzolini e gli intellettuali. Il Codice della vita italiana (Editrice la S. A. «La Voce» di Firenze, 1921) conchiude il periodo prezzoliniano originario, di scrittore moralista sempre in campagna per rinnovare e ammodernare la cultura italiana. Dopo egli entra in crisi, con alti e bassi curiosissimi, fino a imbrancarsi nella corrente tradizionale e a lodare ciò che aveva vituperato.
Una fase di questa crisi è rappresentata dalla lettera del 1923 a P. Gobetti Per una società degli Apoti, ripubblicata nel volumetto Mi pare... (Fiume, Edizioni Delta, 1925). Sente che la sua posizione di «spettatore» è «un po’, un pochino, vigliacca». «Non sarebbe nostro dovere di prender parte? Non c’è qualche cosa di uggioso, di antipatico, di mesto, nello spettacolo di questi giovani ... che stanno (quasi tutti) fuori della lotta, guardando i combattenti e domandandosi soltanto come si danno i colpi e perché e per come?». Trova la soluzione, comoda: «Il nostro compito, la nostra utilità, per il momento presente ed anche ... per le contese stesse che ora dividono e operano, per il travaglio stesso nel quale si prepara il mondo di domani, non può essere che quello al quale ci siamo messi e cioè di chiarire delle idee, di far risaltare dei valori, di salvare, sopra le lotte, un patrimonio ideale, perché possa tornare a dare frutti nei tempi futuri». Il suo modo di vedere la situazione è strabiliante: «Il momento che si traversa è talmente credulo, fanatico, partigiano, che un fermento di critica, un elemento di pensiero, un nucleo di gente che guardi sopra agli interessi, non può che fare del bene. Non vediamo tanti dei migliori accecati? Oggi tutto è accettato dalle folle: il documento falso, la leggenda grossolana, la superstizione primitiva vengono ricevute senza esame, a occhi chiusi, e proposte come rimedio materiale e spirituale. E quanti dei capi hanno per aperto programma la schiavitù dello spirito come rimedio agli stanchi, come rifugio ai disperati, come sanatutto ai politici, come calmante agli esasperati. Noi potremmo chiamarci la congregazione degli Apoti, di “coloro che non le bevono”, tanto non solo l’abitudine ma la generale volontà di berle è evidente e manifesta ovunque».
Un’affermazione digesuitismo sofistico singolare: «Ci vuole che una minoranza, adatta a ciò, si sacrifichi se occorre e rinunzi a molti successi esterni, sacrifichi anche il desiderio di sacrifizio e di eroismo, non dirò per andare proprio contro corrente, ma stabilendo un punto solido, dal quale il movimento in avanti riprenderà», ecc. ecc.
Differenze tra Prezzolini e Gobetti: vedere se questa lettera ha avuto risposta e come.
Q1 §143 Qualità e quantità. Nel mondo della produzione significa nient’altro che buon mercato e alto prezzo, cioè soddisfazione o no dei bisogni elementari delle classi popolari ed elevazione o depressione del loro tenore di vita. Tutto il resto è romanzo ideologico d’appendice. In un’azienda‑nazione dove esiste molta mano d’opera e poche materie prime, il grido: «Qualità» significa solo voler impiegare molto lavoro su poca materia, cioè voler specializzarsi per un mercato di lusso. Ma è possibile ciò? 1°) Dove esiste molta materia prima sono possibili i due sistemi, qualitativo e quantitativo, mentre non c’è reciproca per i paesi poveri; 2°) La produzione quantitativa può essere anche qualitativa, cioè fare la concorrenza all’industria puramente qualitativa tra quella parte della classe consumatrice di oggetti «distinti» che non è tradizionalista perché di nuova formazione; 3°) Quale industria procurerà gli oggetti di consumo delle classi povere? Si formerà una situazione di divisione internazionale del lavoro?
Si tratta insomma di una formula da letterati perdigiorno, e di politici demagogici che nascondono la testa per non vedere la realtà. La qualità dovrebbe attribuirsi agli uomini e non alle cose. E la qualità umana si eleva nella misura in cui l’uomo soddisfa un maggior numero di bisogni e se ne rende quindi indipendente. Il caro prezzo del pane, dovuto al fatto di voler mantenere legata a determinate attività una maggior quantità di uomini, porta alla denutrizione. La politica della qualità determina sempre il suo opposto: quantità squalificata.
Q1 §144 Auguste Boullier, L’île de Sardaigne. Description, Histoire, Statistique, Mœurs, État social, Paris, E. Dentu, 1865. Il Boullier fu in Sardegna quando si parlava di una sua cessione alla Francia. Scrisse anche un altro volume, Le Dialecte et les Chants Populaires de la Sardaigne. Il libro è ormai senza valore. È interessante per alcuni aspetti. Il Boullier cerca di spiegare le cause delle difficoltà che si presentarono in Sardegna contro la sparizione dei relitti feudali (beni collettivi ecc.), ciò che ringalluzziva i sostenitori dell’antico regime. Naturalmente il Boullier, che si pone da un puro punto di vista ideologico, non capisce niente della quistione. Vi sono ricordati inoltre alcuni elementi interessanti i rapporti internazionali della Sardegna e la sua importanza nel Mediterraneo: per es. la insistenza di Nelson perché il governo inglese comprasse la Sardegna dal re (di Piemonte) dietro un canone di 500 000 sterline annue. Secondo Nelson la Sardegna strategicamente è superiore a Malta; inoltre potrebbe diventare economicamente redditizia sotto una gestione inglese, mentre Malta economicamente sarà sempre passiva.
Q1 §145 Il talento. Hofmannsthal rivolse a Strauss queste parole, a proposito dei detrattori del musicista: «Abbiamo buona volontà, serietà, coerenza, il che val di più del malaugurato talento, di cui è fornito ogni briccone». (Ricordato da L. Beltrami in un articolo sullo scultore Quadrelli nel «Marzocco» del 2 marzo 1930).
Q1 §146 Nella recensione fatta da A. De Pietri Tonelli nella «Rivista di politica economica» (febbraio 1930) del libro di Anthony M. Ludovici, Woman. A vindication (2a ed., 1929, Londra) si dice: «Quando le cose vanno male nella struttura sociale di una nazione, a cagione della decadenza nelle capacità fondamentali dei suoi uomini, afferma l’autore, due distinte tendenze sembrano sempre rendersi rilevabili: la prima è quella di interpretare cambiamenti, che sono puramente e semplicemente segni della decadenza e della rovina di vecchie e sane istituzioni, come sintomi di progresso; la seconda, dovuta alla giustificata perdita di confidenza nella classe governante, è di dare a ciascuno, abbia o ho le qualità volute, la sicurezza di essere indicato per fare uno sforzo al fine di aggiustare le cose». L’autore fa del femminismo un’espressione di questa seconda tendenza (ciò che è errato, perché l’affermazione di essere una cosa non è la prova che lo si sia: il femminismo ha cause più vaste e profonde). L’autore domanda una rinascita del «maschilismo».
Q1 §147 «In mille circostanze della mia vita ho dato a conoscere essere veramente il priore della confraternita di San Simpliciano». V. Monti.
Q1 §148 Lorianismo. A proposito delle teorie altimetriche del Loria si potrebbe ricordare, per ridere, che Aristotele trovava che «le acropoli sono opportune per i governi oligarchici e tirannici, le pianure ai governi democratici».
Q1 §149 Nord e Sud. La egemonia del Nord sarebbe stata «normale» e storicamente benefica, se l’industrialismo avesse avuto la capacità di ampliare con un certo ritmo i suoi quadri per incorporare sempre nuove zone economiche assimilate. Sarebbe allora stata questa egemonia l’espressione di una lotta tra il vecchio e il nuovo, tra il progressivo e l’arretrato, tra il più produttivo e il meno produttivo; si sarebbe avuta una rivoluzione economica di carattere nazionale (e di ampiezza nazionale), anche se il suo motore fosse stato temporaneamente e funzionalmente regionale. Tutte le forze economiche sarebbero state stimolate e al contrasto sarebbe successa una superiore unità. Ma invece non fu così. L’egemonia si presentò come permanente; il contrasto si presentò come una condizione storica necessaria per un tempo indeterminato e quindi apparentemente «perpetua» per l’esistenza di una industria settentrionale.
Emigrazione. Si fa il confronto tra Italia e Germania. È vero che lo sviluppo industriale provocò, in un primo tempo, una forte emigrazione in Germania, ma in un secondo tempo non solo la fece cessare, ma ne riassorbì una parte e determinò una notevole immigrazione. Ciò sia detto per un puro confronto meccanico dei due fenomeni emigratori italiano e tedesco: che se il confronto viene approfondito, allora appaiono altre differenze essenziali. In Germania l’industrialismo produsse in un primo tempo esuberanza di «quadri industriali» stessi, e furono questi che emigrarono, in condizioni economiche ben determinate: emigrò un certo capitale umano già qualificato e dotato, insieme con una certa scorta di capitale finanziario. L’emigrazione tedesca era il riflesso di una certa esuberanza di energia attiva capitalistica che fecondava economie di altri paesi più arretrati, o dello stesso livello, ma scarso di uomini e di quadri direttivi. In Italia il fenomeno fu più elementare e passivo e ciò che è fondamentale non ebbe un punto di risoluzione, ma continua anche oggi. Anche se praticamente l’emigrazione è diminuita e ha cambiato di qualità, ciò che importa notare è che tale fatto non è funzione di un assorbimento delle forze rimaste in ampliati quadri industriali, con un tenore di vita conguagliatosi con quello dei paesi «normali». È un portato della crisi mondiale, cioè dell’esistenza in tutti i paesi industriali di armate di riserva nazionali superiori al normale economico. La funzione italiana di produttrice di riserva operaia per tutto il mondo è finita non perché l’Italia abbia normalizzato il suo equilibrio demografico, ma perché tutto il mondo ha sconcertato il proprio.
Intellettuali e operai. Altra differenza fondamentale è questa: l’emigrazione tedesca fu organica, cioè insieme alla massa lavoratrice emigrarono elementi organizzativi industriali. In Italia emigrò solo massa lavoratrice prevalentemente ancora informe sia industrialmente, sia intellettualmente. Gli elementi corrispondenti intellettuali rimasero e anch’essi informi, cioè non modificati per nulla dall’industrialismo e dalla sua civiltà; si produsse una formidabile disoccupazione di intellettuali, che provocò tutta una serie di fenomeni di corruzione e di decomposizione politica e morale, con riflessi economici non trascurabili. Lo stesso apparato statale, in tutte le sue manifestazioni, ne fu intaccato assumendo un particolare carattere. Così i contrasti si invelenivano anziché sparire e ognuna di queste manifestazioni contribuiva ad approfondire i contrasti.
Q1 §150 La concezione dello Stato secondo la produttività funzione delle classi sociali. Il libro di R. Ciasca sulle Origini del programma nazionale può dare ampi materiali per svolgere questo argomento. Per le classi produttive (borghesia capitalistica e proletariato moderno) lo Stato non è concepibile che come forma concreta di un determinato mondo economico, di un determinato sistema di produzione. Conquista del potere e affermazione di un nuovo mondo produttivo sono inscindibili: la propaganda per l’una è anche propaganda per l’altra: in realtà solo in questa coincidenza risiede la origine unitaria della classe dominante che è economica e politica insieme. Invece quando la spinta al progresso non è strettamente legata a uno sviluppo economico locale, ma è riflesso dello sviluppo internazionale che manda alla periferia le sue correnti ideologiche nate sulla base dello sviluppo produttivo dei paesi più progrediti, allora la classe portatrice delle nuove idee è la classe degli intellettuali e la concezione dello Stato muta d’aspetto. Lo Stato è concepito come una cosa a sé, come un assoluto razionale. Si può dire questo: essendo lo Stato la cornice concreta di un mondo produttivo, ed essendo gli intellettuali l’elemento sociale che si identifica meglio col personale governativo, è proprio della funzione degli intellettuali porre lo Stato come un assoluto: così è concepita come assoluta la loro funzione storica, è razionalizzata la loro esistenza. Questo motivo è basilare dell’idealismo filosofico ed è legato alla formazione degli Stati moderni in Europa come «reazione - superamento nazionale» della Rivoluzione francese e del napoleonismo rivoluzione passivaAggiunto a margine in epoca posteriore.. Si può osservare: che alcuni criteri di valutazione storica e culturale devono essere capovolti. 1°) Le correnti italiane che vengono «bollate» di razionalismo francese e di «illuminismo» sono invece proprio le più aderenti alla realtà empirica italiana, in quanto concepiscono lo Stato come forma concreta di uno sviluppo economico italiano. A ugual contenuto conviene uguale forma politica. 2°) Invece sono proprio «giacobine» le correnti che appaiono più autoctone, in quanto pare sviluppino una corrente tradizionale italiana. Questa corrente è «italiana», perché essendo stata per molti secoli la «cultura» l’unica manifestazione italiana nazionale, ciò che è sviluppo di questa manifestazione tradizionale più antica pare più autoctono. Ma è una illusione storica. Ma dove era la base materiale di questa cultura italiana? Essa non era in Italia. Questa «cultura italiana» è la continuazione del «cosmopolitismo» medioevale legato alla Chiesa e all’Impero, concepiti universali. L’Italia ha una concentrazione intellettuale «internazionale», accoglie ed elabora teoricamente i riflessi della più soda e autoctona vita del mondo non italiano. Gli intellettuali italiani sono «cosmopoliti», non nazionali; anche Machiavelli nel Principe riflette la Francia, la Spagna ecc. col loro travaglio per la unificazione nazionale, più che l’Italia. Ecco perché io chiamerei veri «giacobini» i rappresentanti di questa corrente: essi veramente vogliono applicare all’Italia uno schema intellettuale razionale, elaborato sull’esperienza altrui e non sull’esperienza nazionale. La quistione è molto complessa ed irta di apparenti contraddizioni, e perciò occorre esaminarla ancora profondamente su una base storica. In ogni modo gli intellettuali meridionali nel Risorgimento appaiono con chiarezza essere questi studiosi del «puro» Stato, dello Stato in sé. E ogni volta che gli intellettuali appaiono «dirigere», la concezione dello Stato in sé riappare con tutto il corteo «reazionario» che di solito la accompagna.
Q1 §151 Rapporto storico tra lo Stato moderno francese nato dalla Rivoluzione e gli altri Stati moderni europei. La quistione è di sommo interesse, purché non sia risolta secondo schemi astratti sociologici. Essa storicamente risulta da questi elementi: 1°) Esplosione rivoluzionaria in Francia; 2°) Opposizione europea alla rivoluzione francese e alla sua espansione per i «meati» di classe; 3°) Guerre rivoluzionarie della Francia con la Repubblica e con Napoleone e costituzione di una egemonia francese con tendenza a uno Stato universale; 4°) Riscosse nazionali contro Pegernonia francese e nascita di Stati moderni europei per ondate successive, ma non per esplosioni rivoluzionarie come quella originaria francese. Le «ondate successive» sono date da una combinazione di lotte sociali di classi e di guerre nazionali, con prevalenza di queste ultime. La «Restaurazione» è il periodo più interessante da questo punto di vista: essa è la forma politica in cui la lotta delle Classi trova quadri elastici che permettono alla borghesia di giungere al potere senza rotture clamorose, senza l’apparato terroristico francese. Le vecchie classi sono degradate da «dirigenti» a «governative», ma non eliminate né tanto meno fisicamente soppresse; da classi diventano «caste» con caratteri psicologici determinati, non più con funzioni economiche prevalenti. Questo «modello» della formazione degli Stati moderni può ripetersi? È da escludere, per lo meno in quanto alla ampiezza e per quanto riguarda i grandi Stati. Ma la quistione è di somma importanza, perché il modello francese‑europeo ha creato una mentalità.
Altra quistione importante legata alla suddetta è quella dell’ufficio che hanno creduto di avere gli intellettuali in questa fermentazione politica covata dalla Restaurazione. La filosofia classica tedesca è la filosofia di questa epoca ed è quella che vivifica i movimenti liberali nazionali del 48 fino al 70. A questo proposito vedere la riduzione che fa Marx della formula francese «liberté, fraternité, égalité» con i concetti filosofici tedeschi (Sacra famiglia). Questa riduzione mi pare teoricamente importantissima: è da porre accanto a ciò che ho scritto sulla Concezione dello Stato secondo la produttività (funzione) delle classi sociali (p. 95 bis). Ciò che è «politica» per la classe produttiva diventa «razionalità» per la classe intellettuale.
Ciò che è strano è che dei marxisti ritengano superiore la «razionalità» alla «politica», la astrazione ideologica alla concretezza economica. Su questa base di rapporti storici è da spiegare l’idealismo filosofico moderno.
Q1 §152 Marx ed Hegel. Nello studio dello hegelismo di Marx occorre ricordare (dato specialmente il carattere eminentemente pratico‑critico del Marx) che Marx partecipò alla vita universitaria tedesca poco dopo la morte di Hegel, quando doveva essere vivissimo il ricordo dell’insegnamento «orale» di Hegel e delle discussioni appassionate, con riferimento alla storia concreta, che tale insegnamento certamente suscitòA cominciare da: «partecipò alla vita universitaria tedesca», fino a: «tale insegnamento certamente suscitò», il testo sostituisce alcune righe cancellate a penna e rese illegibili dallo stesso G., nelle quali, cioè, la concretezza storica del pensiero di Hegel doveva risultare molto più evidente di quanto risulti dagli scritti sistematici. Alcune affermazioni di Marx mi pare siano da ritenere specialmente legate a questa vivacità «conservativa»: per esempio l’affermazione che Hegel «fa camminare gli uomini con la testa in giù». Hegel si serve veramente di questa immagine parlando della Rivoluzione francese; egli scrive che in un certo momento della Rivoluzione francese (quando fu organizzata la nuova struttura statale), «pareva» che il mondo camminasse sulla testa o qualcosa di simile (cfr). Mi pare che il Croce si domandi cercare il punto di dove Marx abbia preso questa immagine: essa è certamente in un libro di Hegel (forse la Filosofia del Diritto: non ricordo), ma mi pare che per l’insistenza con cui Marx ci ritorna (mi pare che Marx ripeta l’immagine: vedere) mi pare che essa sia stata in un certo momento oggetto di conversazione: essa veramente sembra scaturita da una conversazione tanto è fresca, spontanea, poco «libresca».
Q1 §153 Conversazione e cultura (vedi a p. 80 la nota: Spunti e stimoli). L’osservazione del Macaulay è contenuta nel suo saggio sugli Oratori attici (vedere, per riferire con esattezza, se del caso). L’osservazione può essere ancora svolta. È certo che la cultura per un grande periodo si è svolta specialmente nella forma oratoria o retorica, cioè con nullo o scarso sussidio di scritti e altri mezzi didattici o di studio in generale. Una nuova tradizione comincia nel Medio Evo, coi conventi e con le scuole regolari. La scolastica rappresenta il punto più importante di questa tradizione. Se si osserva bene, lo studio fatto dalla scolastica della logica formale è appunto anche una reazione contro il «facilonismo» dimostrativo dei vecchi metodi di cultura. Gli errori logici sono specialmente comuni nell’argomentazione parlata. L’arte della stampa ha poi rivoluzionato tutto il mondo culturale. In questa ricerca è implicita dunque l’altra delle modificazioni qualitative oltre che quantitative (estensione di massa) apportate al modo di pensare dallo sviluppo tecnico dell’organizzazione culturale. Anche oggi ideologicamente il teatro e il cinematografo hanno una rapidità e area d’azione enormemente più vasta del libro (il teatro e il cinematografo si possono paragonare al giornale e alle riviste) ma in superficie, non in profondità. Le accademie e le Università come mezzi e organizzazioni di cultura. Nelle Università la lezione orale e il seminario. Il professore e l’assistente; l’assistente professionale e gli «anziani di Santa Zita» della scuola del Puoti di cui parla il De Sanctis, cioè la formazione nella stessa classe di un’«avanguardia» », di una selezione spontanea di allievi che aiuti l’insegnante e prosegua le sue lezioni, insegnando praticamente a studiare.
Queste osservazioni mi sono state suggerite dal Materialismo storico di Bukharin1 che risente di tutte le deficienze della conversazione. Sarebbe curioso fare una esemplificazione di tutti i passi che corrispondono agli errori logici indicati dagli scolastici, ricordando la giustissima osservazione di Engels che anche i «modi» del pensare sono elementi acquisiti e non innati, il cui possesso corrisponde a una qualifica professionale. Non possederli, non accorgersi di non possederli, non porsi il problema di acquistarli attraverso un apprendissaggio equivale a voler costruire un’automobile sapendo impiegare e avendo a propria disposizione l’officina e gli strumenti di fabbro ferraio da villaggio.
Lo studio della «vecchia logica formale» è ormai caduto in discredito e in parte a ragione. Ma il problema di far fare l’apprendissaggio della logica si ripresenta se si pone il problema di creare una nuova cultura su una base sociale nuova, che non ha tradizioni, come la vecchia classe degli intellettuali. Un «blocco intellettuale» tradizionale, con la complessità delle sue articolazioni, riesce ad assimilare nello svolgimento organico di una scienza l’elemento «apprendista» anche senza bisogno di sottoporlo al tirocinio formale. Ma neanche ciò avviene senza difficoltà e senza perdite. Lo sviluppo delle scuole tecniche professionali in tutti i gradi post‑elementari, ha ripresentato il problema. Ricordare l’affermazione del prof. Peano che anche nel Politecnico e nelle matematiche risultavano meglio preparati gli allievi provenienti dal ginnasio‑liceo in confronto con quelli provenienti dalle scuole‑istituti tecnici. Questa migliore preparazione era data dal complesso insegnamento «umanistico» (storia, letteratura, filosofia). Perché la matematica non può dare gli stessi risultati?
È stata avvicinata la matematica alla logica. Pure c’è una enorme differenza. La matematica si basa essenzialmente sulla serie numerica, cioè su un’infinita serie di eguaglianze (1 = 1) che possono essere combinate in modi teoricamente infiniti. La logica formale «tende» a far lo stesso, ma fino a un certo punto. La sua astrattezza si mantiene solo nell’inizio dell’apprendimento, nella sua formulazione immediata nuda e cruda, ma si attua concretamente nel discorso stesso in cui questa stessa formulazione astratta si compie. Gli esercizi di lingua che si fanno nel ginnasio liceo fanno vedere questo: nelle traduzioni latino‑italiano, greco‑italiano, non c’è mai identità fra le due lingue, o almeno questa identità che pare esista agli inizi dello studio (rosa = rosa) va sempre più complicandosi col progredire dell’apprendimento, va cioè allontanandosi dallo schema matematico per giungere a quello storico e psicologico in cui le sfumature, l’espressività «unica e individuale» ha la prevalenza. E non solo ciò avviene nel confronto tra due lingue, ma avviene nello studio della storia della stessa «lingua», cioè nelle variazioni «semantiche» dello stesso suono‑parola attraverso il tempo e delle sue cambiate funzioni nel periodo. (Cambiamenti di suoni, di morfologia, di sintassi, di semantica). (Questa serie di osservazioni deve essere continuata e messa in rapporto con precedenti ).
Q1 §154 Clero e intellettuali. Esiste uno studio organico sulla storia del clero come «classe‑casta»? Mi pare che sarebbe indispensabile, come avviamento e condizione di tutto il rimanente studio sulla funzione della religione nello sviluppo storico ed intellettuale dell’umanità. La precisa situazione giuridica e di fatto della chiesa e del clero nei vari periodi e paesi, le sue condizioni e funzioni economiche, i dirigenti e con lo Stato ecc. ecc.
Q1 §155 Marx ed Hegel (cfr p. 97). Antonio Labriola nello scritto Da un secolo all’altro: «Gli è proprio quel codino di Hegel che disse come quegli uomini (della Convenzione) avessero per primi, dopo Anassagora, tentato di capovolgere la nozione del mondo, poggiando questo su la ragione» (cfr A. Labriola, Da un secolo all’altro, ediz. Dal Pane, p. 45).
Q1 §156 Passato e presente. Come il presente sia una critica del passato, oltre che e perché un suo «superamento». Ma il passato è perciò da gettar via? È da gettar via ciò che il presente ha criticato «intrinsecamente» e quella parte di noi stessi che a ciò corrisponde. Cosa significa ciò? Che noi dobbiamo aver coscienza esatta di questa critica reale e darle un’espressione non solo teorica, ma politica. Cioè dobbiamo essere più aderenti al presente, che noi stessi abbiamo contribuito a creare, avendo coscienza del passato e del suo continuarsi (e rivivere).
Q1 §157 Croce e gli intellettuali. Che importanza ha avuto il suo libro sulla Storia d’Italia dal 71 al 1915? È interessante osservare lo spostamento del Croce dalla posizione «critica» a quella «attiva» libro di Bonomi su Bissolati. il libro di Zibordi su Prampolini. La traduzione di Schiavi del libro del De Man. Il libro del De Man serve di ponticello.
È interessante però la lettera di Orazio Raimondo riportata dal Castellano nel suo libro Introduzione allo studio delle opere di Benedetto Croce. Dimostra che anche prima, l’influenza del Croce si era fatta sentire per meati che rimanevano incontrollati: proprio Raimondo, massone e vero massone, cioè imbevuto dell’ideologia massonica fino alle ossa, e democratico; nella sua difesa della (Tiepolo?) c’è tutto il teismo massonico in forma chiara ed evidente.
Q1 §158 «Animalità» e industrialismo. L’industrialismo è una continua vittoria sull’animalità dell’uomo, un processo ininterrotto e doloroso di soggiogamento degli istinti a nuove e rigide abitudini di ordine, di esattezza, di precisione. C’è una meccanizzazione o l’aspetto di una meccanizzazione. Ma ogni nuovo modo di vivere, nel periodo in cui si impone e lotta contro il vecchio, non appare una meccanizzazione? Ciò avviene perché finora i mutamenti sono avvenuti per coercizione brutale, cioè per imposizione di una classe su un’altra. La selezione degli uomini adatti al nuovo tipo di civiltà, cioè al nuovo tipo di lavoro è avvenuta con inaudita brutalità, gettando nell’inferno delle sottoclassi i deboli, i refrattari. Ci sono state delle crisi. Ma chi era coinvolto in questa crisi? Non le masse lavoratrici, ma le classi medie che avevano sentito anch’esse la pressione ma indirettamente, per il loro stesso sistema di vita e di lavoro. Le crisi di libertinismo sono state numerose: ogni epoca storica ne ha una. Per ottenere un nuovo adattamento al nuovo lavoro, si esercita una pressione su tutta l’area sociale, si sviluppa una ideologia puritana che dà l’esterna forma di persuasione e di consenso all’intrinseca coercizione brutale. Ottenuto in una certa misura il risultato, la pressione si spezza (storicamente questa rottura si verifica in modi diversissimi, come è naturale, perché la pressione ha assunto forme originali, spesso personali, si è identificata con movimenti di religiosità, ha creato un proprio apparato che si è impersonato in determinati strati o caste, ha preso il nome da un re ecc.) e avviene la crisi di libertinismo (crisi francese dopo la morte di Luigi XIV per esempio), che però non tocca che superficialmente le masse lavoratrici o le tocca sentimentalmente perché deprava le loro donne; queste masse hanno infatti già acquisito i nuovi sistemi di vita e rimangono sottoposte alla pressione per le necessità elementari di vita.
Il dopoguerra ha avuto una crisi simile, forse la più vasta che si sia mai vista nella storia; ma la pressione era stata esercitata non per imporre una nuova forma di lavoro, ma per le necessità di guerra. La vita di trincea è stata l’oggetto principale della pressione. Si sono scatenati specialmente gli istinti sessuali, repressi per tanti anni in grandi masse di giovani dei due sessi e resi formidabili dalla sparizione di tanti maschi e da uno squilibrio dei sessi. Le istituzioni legate alla riproduzione sono state scosse: matrimonio, famiglia ecc. ed è nata una nuova forma di «illuminismo» in queste quistioni. La crisi è resa più forte dal contrasto tra questo contraccolpo della guerra e le necessità del nuovo metodo di lavoro che si va imponendo (taylorismo, razionalizzazione). Il lavoro domanda una rigida disciplina degli istinti sessuali, cioè un rafforzamento della «famiglia» in senso largo (non di questa o quella forma storica), della regolamentazione e stabilità dei rapporti sessuali.
In questa questione il fattore ideologico più depravante è l’illuminismo, la concezione «libertaria» legata alle classi non manualmente produttive. Fattore che diventa grave se in uno Stato le classi lavoratrici non subiscono più la pressione violenta di un’altra classe, se la nuova abitudine di lavoro deve essere acquisita solo per via di persuasione e di convinzione. Si forma una situazione a doppio fondo, tra l’ideologia «verbale» che riconosce le nuove necessità e la pratica «animalesca» che impedisce ai corpi fisici di realmente acquistare le nuove abitudini. Si forma cioè una situazione di grande ipocrisia sociale totalitaria. Perché totalitaria? In altre situazioni, la massa lavoratrice è costretta a osservare la virtù: chi la predica, non la osserva, pur rendendole omaggio verbale: l’ipocrisia è di classe, non totale; è una forma transitoria, perché scoppierà in una crisi di libertinismo, ma quando già le masse avranno assimilato la «virtù» in abitudini acquisite. In questo secondo caso, invece, non esistendo il dualismo di classe, la «virtù» viene affermata, ma non osservata né per convinzione né per coercizione: non vi sarà pertanto acquisizione di nuove abitudini, necessarie per il nuovo sistema di lavoro. È una crisi in «permanenza» che solo la coercizione può troncare, una coercizione di nuovo tipo, perché, essendoci una sola classe, sarà autodisciplina (Alfieri che si fa legare alla sedia!) In ogni caso, il nemico da combattere è l’illuminismo. E se non si crea l’autodisciplina, nascerà una qualche forma di bonapartismo, o ci sarà un’invasione straniera, cioè si creerà la condizione di una coazione esterna che faccia cessare d’autorità la crisi.